7.5.13

La follia nazista contro i gay Il film "Il rosa nudo"


E' una pagina atroce rispolverata e sottratta all'oblio. Settanta minuti di riprese per svelare la follia nazista contro gli omosessuali, partendo da una storia vera: quella di uno dei sopravvissuti all'inferno dei lager. La proiezione a Cagliari.
Si intitola 'Il rosa nudo', il terzo film d

i cinematografia sperimentale indipendente del regista sardo Giovanni Coda.

Già presentato al Torino Glbt Film Festival sarà proiettato per la prima volta a Cagliari giovedì 9 maggio, alle 21, e fino a domenica 12 al Cineworld. A metà tra documentario in bianco e nero e fiction video sperimentale,
Un libro mai tradotto in italiano. Coda ha scovato una copia del testo scritto in collaborazione con Jean Le Bitoux in una libreria parigina. Tutto impolverato faceva da zeppa ad una sedia. Il regista lo ha ripulito, tradotto e trasposto in immagini che hanno immortalato questo prezioso documento ai più sconosciuto. Quello di Coda è un racconto poetico e teatrale. Le scene degli interni sono girate principalmente dentro all'ex cartiera di Quartu Sant'Elena, la location per gli esterni, invece, è il poligono di tiro in abbandono di Siliqua. "L'accento nel lavoro è sui diritti civili negati, è un film - sottolinea il regista - che contribuisce a restituire una memoria, per non dimenticare che i gay hanno pagato un consistente tributo di sangue". Dopo la liberazione Seel cerca di integrarsi, mette su famiglia, diventa padre di tre figli. Solo nel 1982 ha il coraggio di denunciare l'orrore subito. "Il prezzo del coming out è altissimo - ricorda Coda - l'isolamento, l'abbandono da parte della sua famiglia. Solo nel 2002, tre anni prima della sua morte, gli viene riconosciuta la condizione di vittima dell'olocausto. Per questo suonano così vere le sue parole: 'la liberazione, quella vera, era per altrì".
la pellicola rompe un silenzio, quello sulle atrocità e torture che gli omosessuali usati come cavie hanno subito nei campi di concentramento nazisti. Prima ancora lo fa il francese Pierre Seel, autore nel 1982 dell'autobiografia coming out 'Moi, Pierre Seel, deportè homosexuel', scritto in collaborazione con Jean Le Bitoux da cui il film è tratto. "Imprigionato a 17 anni, torturato nel campo di Schirmeck e marchiato con il triangolo rosa - spiega Coda - assiste alla morte del proprio compagno, lasciato sbranare vivo dai cani".

6.5.13

Eutanasia e la libertà di scelta [ ma perchè ... elucubro e mi faccio le domande quando ho già la risposta ? ]

Musica  di sottofondo  




  come da  titolo   ho un bruto vizio   quello delle  seghe  mentali  elucubrazioni  . Infatti  non   cerco sempre  conferma  \  facendomi  domande  quando  ho  già  le  risposte  .
In questo  caso la risposta  al  dubbio   che ho  sul'eutanasia  (  vedere  post precedente  )  già presente in me   nel mio bagaglio di viaggio è in questo articolo  di 

  tratto  da  La Repubblica 5 maggio 2013  e preso  dal  suo  sito  ufficiale  www.vitomancuso.it 

Fine vita, perché dico sì alla libertà di scegliere

Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile. Rispettare la libera autodeterminazione della coscienza sempre, con senso di solidarietà e di vicinanza umana. È questo il duplice punto di vista a partire dal quale a mio avviso occorre disporre la mente di fronte al grave e urgente problema dell’eutanasia o suicidio assistito. Alleviare la sofferenza è la forma più misericordiosa di rispetto per la vita. Io non ho dubbi (e penso che in nessuna persona responsabile ve ne siano) sul fatto che la vita vada rispettata sempre e che la vita sia qualcosa di sacro. È la stessa conoscenza scientifica ad attestarci mediante i suoi dati che la vita è un fenomeno stupefacente, emerso lungo i miliardi di anni percorsi da questo Universo a partire dai gas primordiali scaturiti dalla Grande Esplosione iniziale, e tutto ciò non può non generare in chi ne prende coscienza un sentimento di sacralità…. Basta applicare la mente al lunghissimo viaggio della vita apparsa sul nostro pianeta per sentire che ogni forma di vita merita di essere considerata sacra, anche la vita delle piante e degli animali, anche la vita dei mari e delle montagne, tutto ciò che vive è sacro e va trattato con rispetto dal concepimento fino alla fine. La vita umana non fa eccezione: anch’essa è sacra e va trattata con rispetto dal concepimento fino alla fine. Ancora più stupefacente però è il fatto che il fenomeno vita emerso dalla materia (se per caso o per spinta intrinseca della materia nessuno lo sa, anche gli scienziati si dividono al riguardo) si evolva secondo diverse forme vitali, già individuate dal pensiero filosofico greco mediante i seguenti termini: vita-bios, cioè vita biologica; vita-zoé, cioè vita zoologica o animale; vita-psyché, cioè vita psichica; vita-logos, cioè logica, calcolo, ragione; vita-nous, cioè vita spirituale o della libertà. Quando diciamo “vita” esprimiamo con una parola sola tutto questo complesso processo evolutivo, filogenetico e ontogenetico al contempo, in cui ciascuno di noi consiste. E quando diciamo “rispetto per la vita” dobbiamo estendere tale rispetto in modo da abbracciare tutte le forme vitali, dalla vita biologica alla vita della mente. Normalmente si dà armonia tra le diverse forme vitali. Normalmente rispettare la vita di un essere umano significa rispettarne la vita biologica che si esprime nel corpo e rispettarne la vita spirituale che si esprime nella libertà. Si danno però situazioni nelle quali l’armonia tra le diverse forme vitali viene interrotta e il processo virtuoso in cui fino a poco prima consisteva la vita si trasforma in un lacerante conflitto, fisico, psichico e spirituale. Sto parlando ovviamente della malattia e della disarmonia che essa introduce tra le varie fasi del processo vitale, tra la vita fisica (bios + zoé), la vita psichica (psyché) e la vita spirituale (logos + nous). La malattia cronica e inguaribile segna il conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali nel cui intreccio ciascuno di noi consiste: a partire da essa la vita fisica, la vita psichica e la vita spirituale non sono più in armonia. Che cosa significa in questo caso rispettare la vita? Io penso che il rispetto della vita di un essere umano debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale, della sua coscienza o libertà. Di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante, vi sono esseri umani che intendono mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito e quindi scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo, accettandone la sofferenza. Per loro, tale sofferenza è una forma di partecipazione responsabile alle sofferenze del mondo e di tutto ciò che vive, emblematicamente compendiato per i cristiani nella passione di Cristo. Questi esseri umani intendono mantenere fino in fondo l’armonia tra corpo, psiche e spirito, sentono di avere le risorse interiori per farlo, e io ritengo che vadano rispettati nel loro prezioso proposito. Personalmente mi piacerebbe, quando toccherà a me, esserne parte, anche se non so se ne avrò la forza e il coraggio, penso che molto dipenderà dalla malattia con la quale avrò a che fare. Ci sono però altri esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale. Per loro la vita-bios diviene un tale carico di ansia, paure e sofferenze da risultare devastante per la salute psichica e spirituale. Che cosa significa in questo caso rispettare la loro vita? In che senso qui si deve applicare l’etica del rispetto della sacralità della vita? E che cosa è più sacro: la vita biologica oppure la vita spirituale? A mio avviso rispettare la vita di un essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si esprime nella libera autodeterminazione. E se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il “suo” bene, chi veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve rispettare. Questo sentimento di rispetto, se è veramente tale, deve tradursi in concreta azione politica, nell'impegno a far sì che lo Stato dia a ciascuno la possibilità di “vivere” la propria morte nel modo più conforme a come ha vissuto la propria vita, in modo tale che si possa scrivere l’ultima pagina del libro della propria vita con responsabilità e dignità. Il diritto alla vita è inalienabile, ma non si può tramutare in un dovere. Nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere. Un’ultima parola a livello teologico. Ha dichiarato Jorge Mario Bergoglio dialogando con il rabbino di Buenos Aires: “Occorre assicurare la qualità della vita”. Io penso che non vi sia al riguardo assicurazione migliore della consapevolezza che le nostre volontà siano rispettate da tutti, Stato e Chiesa compresi.


5.5.13

iL femminicidio dipende da un esibizione del corpo delle donne nella pubblicità e nelle trasmissioni tv ?

ecco  la storia  di un uomo , cosa  rara , che  si è fermato in tempo , evitando l'omicidio  .
Un  uomo che ha  ammesso    che  ha de problemi



Infatti la  Boldrini  pur  fra demagogia   e  atteggiamenti censori  ( vedere  la richiesta  di leggi eccezionali   sul  web  )   stavolta   ha  ragione   quando    chiede

  da  http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/11/25/news/femminicidio-47174085/


Boldrini: "Limiti alla pubblicità
su abuso del corpo delle donne"


La presidente della Camera torna a sollecitare misure contro la violenza. Intanto il ministro per le Pari opportunità annuncia: "Dal governo una task-force femminicidio"(video)


Immagino   che molti  diranno   che bisogno  c'è  di una legge  ci sono  enti predisposti a  ciò ( lo  Iap istituto autodisciplina pubblicitaria  )  e loro  leggi \ regolamenti   Ma  quando   si continua  ugualmente  ecco la necessità  di una ulteriore  regolamentazione  . Speriamo  che  non rimanga sulla  carta   e che la creazione di un team , porti  ad insegnare  nelle  scuole   a fare  delle lezioni  meglio  delle  ore  o  un ora  ala settimana  d'educazione all'immagine  e  ai  nuovi mezzi di comunicazione  .  Si   eviterebbero  o quanto meno  si avrà  fortissima riduzione   sia del  fenomeno  di  cui  parla la zanardo  (  vedere   intervista  nelle righe  successive  )   e  del fenomeno del  cyber  bullismo  .  A  chi m'accusa  di essere censore  e  moralista  , dico   che  qui non è censura o essere bacchettoni o come discorsi da moralisti o da noiose e vetuste cassandre,ma  di mancanza  di rispetto  dell'individuo   mercificazione  del proprio corpo   e della propria immagine  . Infatti 
 da  www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/01/  qui  il testo  integrale 
      
[....]  In questi 4 anni, da quando è uscito il nostro documentario “Il corpo delle donne“, il fenomeno più rilevante che ci ha riguardato è stata l’ondata enorme di richieste da parte delle scuole e dunque degli insegnanti, ma ancor più delle e degli studenti, che ci chiedevano strumenti di educazione all’immagine. Un fenomeno dirompente, che non ci aspettavamo, che ha sconvolto le nostre vite perché quella richiesta così impellente esigeva una risposta. Va raccontata qui la chiusura di molte associazioni che si definiscono femministe di fronte a questo BISOGNO delle persone.
Il motivo? La loro incapacità di comprendere e di mettersi in relazione.
La tv deve essere libera… non si possono rivestire le donne in  tv sarebbe censura… le ragazze in tv sono libere di fare ciò che vogliono… alcune di noi hanno lottato nel ’68 per la libertà dei corpi”.
Abbiamo ascoltato con preoccupazione per 4 anni. Non era in discussione la libertà dei corpi, che diamine!  Ma lo strapotere del sistema mediatico! Non era in discussione la libertà di mettersi in minigonna o come si vuole, ma l’imposizione di corpi umiliati e di telecamere fruganti il nostro corpo!
L’ignoranza di alcuni di questi movimenti è spaventosa. Le loro richieste si sono perfettamente sposate con i diktat della tv mercantile.
Ma l’ignoranza si può perdonare. L’ignoranza arrogante e sorda, no.
Se ci si accorge di avere trascurato una parte di conoscenza, se nulla si sa del sistema mediatico, si ha il dovere di mettersi in ascolto.
E’ stato terribile in questi anni vedere come migliaia di ragazzine e i ragazzini che chiedevano aiuto a noi donne adulte perché si sentivano schiacciate da modelli di riferimento incombenti e impositivi, e assistere con spavento a come alcune donne adulte voltassero il capo per sostenere una libertà che era invece COSTRIZIONE terribile per le giovani generazioni.

Andiamo in giro per l’Italia da 4 anni. Incontriamo adulte/i la sera nei dibattiti. Gente normale, varia, cittadini/e italiani/e. Vogliono capire, sapere discutere.
Al mattino incontro studenti/esse nelle scuole. Sono tantissimi/e. Ci chiamano a centinaia durante l’autogestione. Scelgono loro di invitarci perché hanno fame di capire, di conoscere il sistema mediatico che le e li ingabbia. Altro che libertà!


Perchè , e lo dice  un uomo etero ( tendo  a precisarlo visto   che  per  queste  prese di posizione  alcuni mi definiscono, ma  io me  ne  frego  ,   femminiello o  gay o risatine )  ,  e che  sta lottando  contro  la  pornodipendenza    non  se ne può più di  vedere  il corpo di una donna usato  fuori  misura  non solo nella pubblicità  ma  anche  in certe trasmissioni tv  . Per  spiegarmi meglio guardate   quest'altro video   

(   da  cui poi  sono derivati  un   sito , una  pagina di facebook      ed un  libro  curati  dalla stessa  autrice   del documentario  che trovate  sotto   e  di cui  si è parlato  sopra     )  




Con questo  è tutto  
Mi farebbe  piacere  , sentire o via email o qui nel commenti  il  vostro parere  soprattutto  da parte  di voi donne  

pensieri

I like Snoopy: <== CLICCA LA FOTO PER VEDERE LA VIGNETTA

vivere o morire ? etaunasia legale o no ? il caso di piera franchini di 76 anni

io non saprei  cosa  scegliere   .  da  credente   che vede nella vita  un dono  mi chiedo  la  stessa   cosa    del  video  testamento Il video è stato curato da Giacomo Aldosson e Ruben Angiolosson e prodotto da Giulia Bruzzone con Studio12 e la regia di Anton Lucarelli e Federico Ventura) di   Piera Franchini,e dell'articolo   di   repubblica  3\5\2013
nel quale racconta la sua decisione di porre fine alla malattia scegliendo l’eutanasia, è molto toccante. Non c’è recitazione. Soltanto lei e la sua testimonianza, razionale eppure emozionante. Le parole trasmettono un desiderio intenso di vivere consapevolmente e coraggiosamente le ore che le restano. Chi dice che non c’è coraggio nel suicidio, prima dovrebbe avere la forza di confrontarsi con il racconto di Piera.
Soprattutto quando parla di «sofferenza fine a se stessa, che non giova a nessuno. A chi giova la sofferenza mia e di tanti altri? A che serve? Per quale motivo io devo soffrire fino a morire? Perché si soffre fino a che si muore! Chi può arrogarsi il diritto di dire e di fare questo? Se non io, io, io…».La domanda più intensa, forte, di Piera è «a chi giova la sofferenza?». Con questa dovremmo misurarci, per poter poi ragionare su accanimento terapeutico, testamento biologico, eutanasia legale…Una domanda che in teoria coinvolge ogni anno decine e decine di migliaia di persone, tutte quelle colpite da tumore senza speranza, senza possibilità di guarigione, eppure condannate a patire perché la legge, quando viene applicata, ti dà soltanto cure palliative, antidolorifici. E poi, quanto devono soffrire i parenti, gli amici della persona malata? E’ egoismo scegliere consapevolmente di porre fine alla malattia, oppure inchiodare i familiari ad un percorso di dolore estremo, profondo, psicologicamente distruttivo?Se ci fosse davvero il libero arbitrio, dovremmo essere messi tutti nella possibilità di scegliere come vivere. E come morire.

4.5.13

ottimismo mattutino

anche  se oggi dovrei essere triste perchè l'anniversario della morte di mia zia   voglio essere    allegro per  per  non farmi divorare  dalla tristezza . Inizio con due  messaggi presi dalla  rete in particolare  da  facebook

il primo è  un video   preso da  Virgo Moné  più precisamente  da  qui 



il secondo  è  una  foto  presa dalla pagina    aforismi e citazioni 


3.5.13

Sciacalli della moda a caccia di anoressiche e cacciatori di ladri d'opere d'arte

 all'origine  del post  d'oggi   c'è  una  interessante  discussione avuta  tempo  fa  , scaturita  dalla lettura   di questo suo  articolo  , poi ripreso  sul blog  ,   con il mio vecchio  compagnodistrada    di splinder    recuperato  poi su facebook   Fiore leveque

  • Fiore Leveque

    perché trovi interessante l'aver postato il dialogo?
  • Giuseppe Scano

    perchè nonostante abbia studiato glottolofgia e filologia romanza dimenticavo l'origine di tale parola e l'uso proprio ( il tuo articolo ) e improprio che si fa nei media . vedi il libro manomissione dele parole di g.Carofiglio
  • Fiore Leveque

    ah capisco
    son molti anni che mi dedico alla rivalutazione e alla rivalorizazione delle parole
    a poche persone interessa
    perché stiamo tutti inglobati in una banalizzazione della parola
  • Giuseppe Scano

     e fai bene perchèp come dice moretti le parole sono impotanti http://www.youtube.com/watch?v=qtP3FWRo6Ow
    esatto
  • Fiore Leveque

    ogni parola ha dietro un discorso e una etica
  • Fiore Leveque

    cui oggi non si da importanza
    e per qusto le parole son come gioie falsifificate
Giuseppe Scano

purtroppo

  (....)  





è da questa discussione che riporto due articoli interessanti sul molteplice uso della parola caccia

IL Primo  è tratto da  repubblica  online del 30\4\2013  

Sciacalli della moda a caccia di anoressiche





QUANDO una modella muore di anoressia ne parlano tutti. Si scandalizzano, si indignano, protestano. Si decide che non è più possibile continuare con questa storia della magrezza a tutti i costi, e che il mondo della moda deve essere il primo a reagire in modo drastico. E talvolta si prendono anche decisioni importanti, come in Spagna o in Israele dove, dopo la morte nel 2006 della top model brasiliana Ana Carolina, si è deciso di non far più sfilare le ragazze troppo magre. 
Ma dopo l’emozione del momento, tutti (o quasi) ricominciano a vivere tranquillamente dimenticandosi dell’accaduto. Anzi, ci sono anche coloro che continuano a sguazzare nel mare di dolore di molte ragazze che soffrono di disturbi del comportamento alimentare e che ne approfittano. Al punto da non esitare a “reclutare” modelle tra le pazienti di una clinica svedese specializzata proprio nella cura dell’anoressia. 
È quello che si apprende in questi giorni, dopo la denuncia fatta dai medici del Centrum för Ätstörningar di Stoccolma, che hanno deciso di non permettere più alle proprie pazienti di uscire ed entrare liberamente dalla clinica. «Alcuni agenti che lavorano nel mondo della moda abbordavano queste ragazzine di 14-15 anni proponendo loro di lavorare come modelle», denuncia una dottoressa del Centrum. «Come si fa a far prendere loro coscienza della propria malattia, quando c’è chi le corteggia proponendo loro di diventare famose?» 
Uno dei problemi più grandi, per chi soffre di anoressia, è quello di capire e accettare che il proprio rapporto con il cibo è problematico e pericoloso. Molte ragazze sono convinte che il fatto di non mangiare le renda più forti e più sicure. Dietro il sintomo dell’anoressia, c’è sempre il bisogno di controllare il cibo per controllarsi, di negare la fame per sentirsi più forti e indipendenti. Anche se poi si dipende talmente tanto dal giudizio degli altri, che si preferisce morire piuttosto che smetterla di cercare di fare di tutto per corrispondere alle aspettative altrui. 
Come fa allora una ragazzina che ha una frattura narcisistica di questo tipo a capire che sta per distruggere la propria vita quando qualcuno le si avvicina e le dice che è “talmente bella che può diventare una modella”? 
I medici del centro di Stoccolma denunciano questi sciacalli della moda e chiudono le porte della propria clinica. Ma non è giunto il momento di smetterla una volta per tutte con queste pratiche immorali e con questo mito falso e bugiardo del “corpo-moda”? Quante altre vittime innocenti devono ancora esserci prima che la società si renda conto che la vita di una ragazza vale molto di più di qualche foto patinata in prima pagina di una rivista femminile? 


Il secondo  sempre  da repubblica  del 28\4\2013


La crociata dei Rosenberg a caccia di opere d' arte saccheggiate dai nazisti


NEW YORK - Era una delle (tante) ossessioni dei gerarchi nazisti: rubare opere d' arte. Secondo un calcolo approssimato per difetto, ne saccheggiarono oltre centomila nei paesi occupati per un valore attorno ai 10 miliardi di dollari. Avevano creato una divisione apposta che aveva il compito di setacciare musei, case d' aste e collezioni private. Come quella della famiglia Rosenberg, che da allora, da oltre settant' anni, da tre generazioni, insegue il suo tesoro perduto con pazienza, tenacia e incredibile capacità, tanto da aver recuperato quasi il 90 per cento dei quattrocento pezzi originali. La loro avventura sembra un film, e in effetti - benché solo come spunto - lo è già: "Il treno". Una pellicola di guerra con Burt Lancaster dove si racconta il tentativo di un colonnello delle SS di mettere in salvo, in Germania, il suo bottino di tele pregiate (e rubate). Ed è anche un libro, 21 rue La Boetie, della giornalista francese, nonché ex moglie di Dominique Strauss-Kahn, Anne Sinclair che è la nipote del capostipite, Paul Rosenberg.(  foto  a  sinistra presa  da http://intranews.sns.it/intranews/20130429/SIL1048.PDF  )
La storia, raccontata dal New York Times, inizia a Parigi negli anni Trenta, dove il giovane Paul fonda una galleria d' arte che diventa presto una delle più importanti. Amicissimo e confidente di Picasso, il quale cerca una casa a due passi da lui: "Ciao Rosi", "Ciao Pic", è il saluto dei due ogni mattina, il mercante crea una rete di rapporti con i migliori pittori e, di conseguenza, una collezione prestigiosa: Matisse, Braque, Cézanne e poi ancora Renoir, Van Gogh. La notte scende quando arriva la guerra e con i nazisti alle porte Paul Rosenberg decide, per sfuggire ai campi di concentramento, di andare negli Stati Uniti, destinazione New York, dove apre subito un' altra galleria nell' Upper East Side. Prova a spostare anche le sue opere d' arte ma è impossibile, non c' è più tempo. Prima di scappare, le nasconde inutilmente in una banca e in una casa di Bordeaux, ma soprattutto, cosa che si rileverà molto più efficace, mette per iscritto con amore maniacale un inventario completo. Nei giorni confusi della Liberazione, nell' agosto del 1944, Alexandre, il figlio maggiore, entra nella capitale al comando dell' esercito francese e dopo un breve scontro a fuoco fa irruzione nel treno numero 40044 (quello del film) diretto verso la Germania e nei vagoni trova decine di sculture, oggetti preziosi e quadri, molti di quelli che lui aveva imparato a conoscere sulle pareti della casa paterna. La caccia parte da qui.


 La piccola lista è ora un archivio monumentale con oltre 250mila documenti che occupa un intero piano della casa di famiglia a Manhattan. E a portare avanti "la crociata dei Rosenberg", c' è Marianne la figlia di Alexandre che fa l' avvocato: «Non lasceremo mai perdere, non dimenticheremo: è la nostra missione». Per anni, leiei suoi parenti hanno spulciato i cataloghi dei musei, le pubblicazioni delle case d' aste, gli archivi dell' Interpol e quelli delle associazioni - come quella del Getty di Los Angeles o dell' Holocaust Memorial Museum- che hanno messo online l' elenco delle opere rubate dai nazisti. Un dipinto di Braque viene trovato nel negozio di Josée de Chambrun, guarda caso la figlia di Pierre Laval uno dei leader del governo di Vichy. Un Matisse viene individuato durante un' esposizione temporanea al Centre Pompidou, un altro viene scovato, proprio in questi giorni, in Norvegia. E via così, quadro dopo quadro, scoperta dopo scoperta. Ogni volta è una battaglia legale, ogni volta è una sfida contro le leggi dei paesi, che nonostante ripetuti accordi internazionali spesso intralciano il recupero. Difficoltà che non fermano i Rosenberg: «Paul sarebbe andato sino alla fine del mondo per ritrovare e portare a casa i suoi adorati quadri», dice un amico. E gli eredi hanno lo stesso sangue: «Adesso toccherà alla quarta generazione finire la caccia», giura Marianne. Tanto, manca ancora poco prima dei titoli di coda con il lieto fine e la scritta missione compiuta

mafia o ignoranza ? mancanza di rispetto . La lapide dedicata a Peppino Impastato posta sul lungofiume a Tivoli, è stata oltraggiata ed imbrattata.

Lascio che  a parlare  sia  l'immagine del  vile atto compiuto proprio a pochi  giorni  (  il  9 magio )   del  35° anniversario della morte di Peppino Impastato. Era infatti la notte del 9 maggio 1978 .Non perché  non voglia  e non sappia  esprime il mio sdegno  ma  voglio  evitare   il rischio di cadere  in ovvietà  ed eventuali banalità  rischiando di far  passare in secondo  piano   tale evento  .

                                                             per  approfondire




1.5.13

L'anatema di Don Loi sul ministro nero "E' pericoloso mischiare le razze"







Non sei degno di portare tale abito .Sicuramente gli studi da seminarista gli hai conclusi al seminario di bossi a Cassano Magnago.


"C'era proprio bisogno di un ministro di colore?" Commenta così il parroco ogliastrino su Facebook Cécile Kyenge, ministro dell'integrazione.







Una vera e propria crociata. Nata da un post e poi diventata virale. Una polemica esplosa in Rete ma non solo. Don Alessandro Loi, parroco di Lotzorai, scrive e commenta sul suo profilo Facebook il neo ministro dell'integrazione Cécile Kyenge. "C'era proprio bisogno di un ministro di colore? Con tutto il rispetto per la signora". Il post non ci mette molto a essere il più letto e anche quello più discusso. I commenti si moltiplicano nel giro di poche ore. Don Loi come Borghezio insomma. Quasi troppo facile il paragone con l'esponente della Lega. Certo è che quella frase poi spiegata con altri interventi continua anche oggi a far discutere: il popolo della Rete ma anche il mondo reale.

il caso tortora 30 anni dopo una ferita ancora aperta


Ricordavo   anche se  troppo  piccolo ,avevo 7 anni ,  il programma e il su pappagallo --- foto al lato presa  dal 2  video   , vedere sotto l'url ---   che fu un ingiustizia   . ma  non di queste  proporzioni .
non so  che  altro dire  se non lasciarvi all'articolo  di repubblica  online  se  non  erro  


QUALSIASI cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà.
Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale.
Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima.
Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti.
Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino.
Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi".
Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente".
E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). 
Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum).
Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi.
La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti.
Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra)
non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione".
Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame".
L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora".
Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni.
"Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. 
Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis".
Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del
Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto".
Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. 
Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra.
I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. 

Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie.
Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro".
Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...".
Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo".
Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".