dalla nuova sardegna del 30\6\2008
La storia di Salvatore Meloni ( Foto in basso a sinistra ) , di Terralba condannato a metà degli anni Ottanta a 9 anni per cospirazione contro lo Stato Vita da autotrasportatore con la passione per i pony
La storia di Salvatore Meloni ( Foto in basso a sinistra ) , di Terralba condannato a metà degli anni Ottanta a 9 anni per cospirazione contro lo Stato Vita da autotrasportatore con la passione per i pony
TERRALBA.
Quando parla del suo mestiere di autotrasportatore Salvatore Meloni cambia aspetto. Il suo volto si distende come una foglia dopo la pioggia: «Quello del trasportatore è il mestiere che ha portato la civiltà nel mondo», è l’incipit di una sorta di inno. «Senza trasporti e trasportatori non può esistere nessuna civiltà. Mi dicono: tu devi portare questo pacco in Alaska, in quell’igloo a latitudine X e longitudine y. Io vado e lo porto. Attraverso mari, deserti, fiumi, fino a quando arrivo a destinazione. Facendo questo mestiere sono a contatto con un mondo che la maggior parte della gente non conosce. Sulle mie spalle c’è la responsabilità della merce che mi è stata affidata e la fiducia del committente».
«Spesso nel guardare alla storia dell’umanità dimentichiamo che Maometto era un carovaniere e Marco Polo altrettanto. Oggi gli eroi veri dell’Irak sono gli autotrasportatori che sfidano pericoli di ogni genere per portare a termine il compito loro assegnato. Io stesso mi definisco uno degli ultimi bucanieri, una sorta di esploratore che spesso va verso un mondo sconosciuto. Pochi sanno che uno dei punti di forza dell’antica Roma era il servizio di posta».
Ma questo mestiere sarebbe ancora più bello per lui se i due punti di partenza e di ritorno appartenessero a una terra indipendente. Vediamo come e perché, dalle parole di Salvatore Meloni: «Noi sardi non siamo stati mai italiani, nel senso che l’Italia non ce l’ha mai chiesto. Ci siamo ritrovati piemontesi senza volerlo, nel 1720. I Savoia ci hanno ereditato perché un giorno a Londra i grandi dell’Europa dissero: da domattina la Sardegna sarà piemontese, dopo che gli Spagnoli per oltre quattro secoli ci avevano tenuto sotto il loro dominio. Più di recente è arrivata la Repubblica italiana, che è più giovane di me».
Ma questo mestiere sarebbe ancora più bello per lui se i due punti di partenza e di ritorno appartenessero a una terra indipendente. Vediamo come e perché, dalle parole di Salvatore Meloni: «Noi sardi non siamo stati mai italiani, nel senso che l’Italia non ce l’ha mai chiesto. Ci siamo ritrovati piemontesi senza volerlo, nel 1720. I Savoia ci hanno ereditato perché un giorno a Londra i grandi dell’Europa dissero: da domattina la Sardegna sarà piemontese, dopo che gli Spagnoli per oltre quattro secoli ci avevano tenuto sotto il loro dominio. Più di recente è arrivata la Repubblica italiana, che è più giovane di me».
Qui il discorso di Meloni si fa ancora più aspro: «Quale logica mi dovrebbe portare a essere italiano, in questo sfascio generale prodotto da gente che non sa governare? Perché un paese sardo deve essere retto da disposizioni italiane? La nostra è un’altra storia, un’altra gente, tutta un’altra particolarità, tutta un’altra lingua. Da indipendenti tratteremmo direttamente con l’Europa: sarebbe un bel vantaggio».
Nel terzo millennio, secondo Meloni, questa rivendicazione «non è più un discorso eversivo: oggi l’indipendenza si sancisce con i referendum. Scherzando potrei dire che è un problema di carta intestata».
Nel terzo millennio, secondo Meloni, questa rivendicazione «non è più un discorso eversivo: oggi l’indipendenza si sancisce con i referendum. Scherzando potrei dire che è un problema di carta intestata».
Ma si rende conto che la questione non è facile e lo rimarca con una battuta: «Come faccio a piacere a tutti, preti, suore, frati? L’importante per me è poter dormire ogni notte perché sono tranquillo. Non come un’altra notte di un Natale lontano in cui la magistratura italiana per farmi gli auguri rituali mi trasferì nel carcere di Badu ‘e carros».
Per fortuna adesso c’è una coppia di pony: presi per far divertire i nipotini, qualche volta distraggono anche il nonno.
«Le prime albe della civiltà umana coincidono con i primi trasporti dei carovanieri. Non c’è sardità senza indipendenza, le donne capiscono meglio di tutti questo messaggio. L’identità inizia dai prodotti alimentari». Tre frasi apparentemente autonome, ma concatenate fra loro molto più di quanto non paia a prima vista. Sono di Salvatore Meloni, l’indipendentista di Terralba - autotrasportatore di professione - condannato a nove anni di carcere per cospirazione contro lo Stato a metà degli anni Ottanta. Su queste tre direttrici si articola il colloquio con lui, nella sede della sua azienda alla periferia della cittadina dell’Oristanese. Meloni parla per due ore di fila, passando da un argomento all’altro tra l’emozione profonda e l’ironia, ma sempre fermamente convinto di essere nel giusto. Convinzione fortificata dalle oltre tremila notti trascorse in cella e oggi divenuta incrollabile. «In carcere mi dicevano: non sei nessuno, non esisti, non conti nulla. A me veniva da ridere», inizia a ricordare. «A un certo punto ho chiesto a un magistrato importante: lei sa contare? Certo, mi ha risposto, iniziando la conta: uno, due, tre, fino a otto, quanti eravamo in quella stanza. Ha sbagliato, dico. Aveva contato anche me, dunque esistevo».
«Le prime albe della civiltà umana coincidono con i primi trasporti dei carovanieri. Non c’è sardità senza indipendenza, le donne capiscono meglio di tutti questo messaggio. L’identità inizia dai prodotti alimentari». Tre frasi apparentemente autonome, ma concatenate fra loro molto più di quanto non paia a prima vista. Sono di Salvatore Meloni, l’indipendentista di Terralba - autotrasportatore di professione - condannato a nove anni di carcere per cospirazione contro lo Stato a metà degli anni Ottanta. Su queste tre direttrici si articola il colloquio con lui, nella sede della sua azienda alla periferia della cittadina dell’Oristanese. Meloni parla per due ore di fila, passando da un argomento all’altro tra l’emozione profonda e l’ironia, ma sempre fermamente convinto di essere nel giusto. Convinzione fortificata dalle oltre tremila notti trascorse in cella e oggi divenuta incrollabile. «In carcere mi dicevano: non sei nessuno, non esisti, non conti nulla. A me veniva da ridere», inizia a ricordare. «A un certo punto ho chiesto a un magistrato importante: lei sa contare? Certo, mi ha risposto, iniziando la conta: uno, due, tre, fino a otto, quanti eravamo in quella stanza. Ha sbagliato, dico. Aveva contato anche me, dunque esistevo».
L’osso duro dell’accusa era considerato il procuratore generale Giuseppe Villasanta, che lo “visitava” spesso, a Buoncammino.
Racconta Meloni: «Con lui ho discusso ben 75 volte. Un giorno avevo disegnato a penna i quattro mori su un tovagliolo, esponendolo sulla bocca di lupo della cella. Villasanta me lo sequestra: danneggiamento di beni dello Stato, mi dice, ti farò incriminare. Gli rispondo: mi assolveranno, al processo, e lei non farà una bella figura. Incuriosito, mi domanda: come? Rispondo: chiedendo acqua e sapone per lavare la tovaglia in aula e restituirla pulita al presidente».
-L’accusa principale?
«Cospirazione politica e associazione sovversiva. Un articolo del codice Rocco sul distacco dalla madrepatria di lembi di terra soggetti anche temporaneamente alla sovranità dell’Italia prevedeva la pena di morte per chi si fosse macchiato di quel reato».
-La pena capitale è stata abolita, in Italia.
«Ma il reato è rimasto. E l’unico condannato della Repubblica sono io. Gli altri li hanno assolti tutti: Rosa dei Venti, Nar, Brigate Rosse. È lo stesso articolo che Papalia ha tentato di rispolverare a Mantova contro Bossi e tutto è finito in un nulla di fatto. Mi pare sia l’art. 302 del codice Rocco».
-Altri capi di imputazione?
«Un centinaio, forse qualcosa di più. Il povero procuratore Basilone quando vide che le cose non andavano bene tirò fuori la tentata strage per le bombe alla Tirrenia. Si parlava anche del mancato sequestro di tecnici americani a Monte Arci, del danneggiamento di aerei militari a Decimo, di armi e di esplosivi. Io non ho mai avuto un’arma in vita mia e non conosco gli esplosivi».
-Prove?
«Di tutta questa roba non hanno mai trovato nulla di serio, era un processo indiziario. Nella nostra casa di Marceddì, dove la mia famiglia passava l’estate, qualcuno aveva messo dell’esplosivo».
-Chi?
«Io di sicuro no, era la casa dove i miei bambini passavano le vacanze, sarei stato un matto a mettere dell’esplosivo lì. Quel materiale non è mai stato presentato in aula».
-È vero che i pm ti contestavano l’uso della lingua sarda?
«Ho avuto quattro mandati di cattura, ogni volta che stavano per scadere i termini di carcerazione preventiva mi aggiungevano qualche altro reato. Lo scontro più duro era sul fatto che parlavo sempre e soltanto in limba. Mi dicevano: sei un illuso se pensi che il sardo possa essere scritto in documenti dello Stato italiano».
-Chi te lo diceva?
«Ho conosciuto nove pm. L’uso del sardo me lo contestavano tutti, tranne uno».
-Dov’era l’eccezione?
«In Mario Marchetti. L’unico pm che non ha mai fatto cenno alla questione è lui».
-Ti sei mai chiesto il perché?
«Veramente no. Non ci ho mai pensato seriamente».
-Potrebbe essere questo: Mario Marchetti è figlio di Nanni, noto poeta in lingua sarda. Suo padre ha anche un primato: è stato il vincitore della prima edizione del premio di poesia in limba ‘Città di Ozieri’, nel 1956.
«Se è così mi fa piacere per il dottor Marchetti: evidentemente non è un figlio degenere. Hai fatto bene a dirmelo».
-Tornando al clima di quegli anni, come lo analizzi oggi?
«Gli inquirenti si sono trovati davanti una cosa molto più grande di loro. All’inizio del processo contro di me i buoi erano già scappati dalla stalla».
-Perché?
«L’idea sardista aveva preso il volo e non c’era pm che potesse fermarla».
-Quale strada percorreva l’accusa, secondo te?
«Cercava di esorcizzare il problema politico vero facendolo passare come una guerra privata fra me e la Tirrenia. In un’epoca diversa il processo sarebbe stato inquadrato in un altro modo».
-La tua linea, invece?
«Io e gli altri eravamo carcerati che rivendicavano il diritto all’indipendenza della loro terra. Sono diventato indipendentista dopo un lungo lavoro all’interno del partito sardo d’azione, che aveva l’indipendenza come scopo sancito nel suo statuto. Da carcerazione a rivendicazione, in poche parole. E l’accusa passò al contrattacco».
-Di che tipo?
«Una tattica vecchia, la terra bruciata. Mia moglie fu messa in carcere. Il giorno dopo fui chiamato alle cinque del mattino nell’ufficio matricola della prigione. Mi fecero vedere la foto di mia moglie in prima pagina sulla Nuova. Cercavano di sfiancarmi. Volevano fermare l’idea sul nascere».
-E tu?
«Dissi subito: anziché farmi desistere, l’arresto di mia moglie mi rende ancora più deciso nella lotta»
-Poi però hai cambiato tattica. O no?
«Anche loro. Era il periodo della morte in carcere di un indipendista irlandese, Bobby Sander. Io ero passato dal carcere all’ospedale e continuavo lo sciopero della fame: cinque mesi e 14 giorni in tutto. La mia vita era a rischio».
-Dunque?
«Il ministero monitorava le mie condizioni di salute. Venne in Sardegna il deputato altoatesino Schulz, Sudtiroler Volkspartei, della commissione giustizia della Camera: accettai di rispondere in italiano agli inquirenti in cambio degli arresti domiciliari».
-Torni a fare politica da uomo libero nel tuo partito indipendentista. E lavori nel campo dei prodotti di qualità. Come sei organizzato?
«Ho fondato una cooperativa di nove soci, tutti indipendentisti. Si chiama ‘Patria Sarda’. Trattiamo vari settori merceologici, dai prodotti agricoli ai salumi, dai dolci ai liquori fino agli abiti ispirati al costume sardo. Il nostro logo, lo stesso del partito e del sindacato dei trasportatori è un marchio che garantisce tutti questi prodotti».
-Tu dici che le donne sono più sensibili all’idea dell’indipendenza. Perché?
«Hanno un istinto atavico, quello del dono della vita. Hanno un senso e un settimo senso e sono più indipendenti di noi dal punto di vista interiore. Soffrono più di noi il dramma dell’emigrazione, come madri e mogli, da secoli sono abituate a caricarsi sulle spalle i più grandi tormenti delle famiglie sarde. Ho fiducia in loro, sono la mia speranza più grande»
La nostra storia, vuol dire Meloni, è matrilineare. «Non a caso i personaggi sardi più famosi sono due donne: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda», dice oggi.
La stessa frase, anni fa, fu pronunciata in un convegno letterario da Giovanni Maria Cherchi, ex-consigliere regionale del Pci, poeta e saggista.
«Cospirazione politica e associazione sovversiva. Un articolo del codice Rocco sul distacco dalla madrepatria di lembi di terra soggetti anche temporaneamente alla sovranità dell’Italia prevedeva la pena di morte per chi si fosse macchiato di quel reato».
-La pena capitale è stata abolita, in Italia.
«Ma il reato è rimasto. E l’unico condannato della Repubblica sono io. Gli altri li hanno assolti tutti: Rosa dei Venti, Nar, Brigate Rosse. È lo stesso articolo che Papalia ha tentato di rispolverare a Mantova contro Bossi e tutto è finito in un nulla di fatto. Mi pare sia l’art. 302 del codice Rocco».
-Altri capi di imputazione?
«Un centinaio, forse qualcosa di più. Il povero procuratore Basilone quando vide che le cose non andavano bene tirò fuori la tentata strage per le bombe alla Tirrenia. Si parlava anche del mancato sequestro di tecnici americani a Monte Arci, del danneggiamento di aerei militari a Decimo, di armi e di esplosivi. Io non ho mai avuto un’arma in vita mia e non conosco gli esplosivi».
-Prove?
«Di tutta questa roba non hanno mai trovato nulla di serio, era un processo indiziario. Nella nostra casa di Marceddì, dove la mia famiglia passava l’estate, qualcuno aveva messo dell’esplosivo».
-Chi?
«Io di sicuro no, era la casa dove i miei bambini passavano le vacanze, sarei stato un matto a mettere dell’esplosivo lì. Quel materiale non è mai stato presentato in aula».
-È vero che i pm ti contestavano l’uso della lingua sarda?
«Ho avuto quattro mandati di cattura, ogni volta che stavano per scadere i termini di carcerazione preventiva mi aggiungevano qualche altro reato. Lo scontro più duro era sul fatto che parlavo sempre e soltanto in limba. Mi dicevano: sei un illuso se pensi che il sardo possa essere scritto in documenti dello Stato italiano».
-Chi te lo diceva?
«Ho conosciuto nove pm. L’uso del sardo me lo contestavano tutti, tranne uno».
-Dov’era l’eccezione?
«In Mario Marchetti. L’unico pm che non ha mai fatto cenno alla questione è lui».
-Ti sei mai chiesto il perché?
«Veramente no. Non ci ho mai pensato seriamente».
-Potrebbe essere questo: Mario Marchetti è figlio di Nanni, noto poeta in lingua sarda. Suo padre ha anche un primato: è stato il vincitore della prima edizione del premio di poesia in limba ‘Città di Ozieri’, nel 1956.
«Se è così mi fa piacere per il dottor Marchetti: evidentemente non è un figlio degenere. Hai fatto bene a dirmelo».
-Tornando al clima di quegli anni, come lo analizzi oggi?
«Gli inquirenti si sono trovati davanti una cosa molto più grande di loro. All’inizio del processo contro di me i buoi erano già scappati dalla stalla».
-Perché?
«L’idea sardista aveva preso il volo e non c’era pm che potesse fermarla».
-Quale strada percorreva l’accusa, secondo te?
«Cercava di esorcizzare il problema politico vero facendolo passare come una guerra privata fra me e la Tirrenia. In un’epoca diversa il processo sarebbe stato inquadrato in un altro modo».
-La tua linea, invece?
«Io e gli altri eravamo carcerati che rivendicavano il diritto all’indipendenza della loro terra. Sono diventato indipendentista dopo un lungo lavoro all’interno del partito sardo d’azione, che aveva l’indipendenza come scopo sancito nel suo statuto. Da carcerazione a rivendicazione, in poche parole. E l’accusa passò al contrattacco».
-Di che tipo?
«Una tattica vecchia, la terra bruciata. Mia moglie fu messa in carcere. Il giorno dopo fui chiamato alle cinque del mattino nell’ufficio matricola della prigione. Mi fecero vedere la foto di mia moglie in prima pagina sulla Nuova. Cercavano di sfiancarmi. Volevano fermare l’idea sul nascere».
-E tu?
«Dissi subito: anziché farmi desistere, l’arresto di mia moglie mi rende ancora più deciso nella lotta»
-Poi però hai cambiato tattica. O no?
«Anche loro. Era il periodo della morte in carcere di un indipendista irlandese, Bobby Sander. Io ero passato dal carcere all’ospedale e continuavo lo sciopero della fame: cinque mesi e 14 giorni in tutto. La mia vita era a rischio».
-Dunque?
«Il ministero monitorava le mie condizioni di salute. Venne in Sardegna il deputato altoatesino Schulz, Sudtiroler Volkspartei, della commissione giustizia della Camera: accettai di rispondere in italiano agli inquirenti in cambio degli arresti domiciliari».
-Torni a fare politica da uomo libero nel tuo partito indipendentista. E lavori nel campo dei prodotti di qualità. Come sei organizzato?
«Ho fondato una cooperativa di nove soci, tutti indipendentisti. Si chiama ‘Patria Sarda’. Trattiamo vari settori merceologici, dai prodotti agricoli ai salumi, dai dolci ai liquori fino agli abiti ispirati al costume sardo. Il nostro logo, lo stesso del partito e del sindacato dei trasportatori è un marchio che garantisce tutti questi prodotti».
-Tu dici che le donne sono più sensibili all’idea dell’indipendenza. Perché?
«Hanno un istinto atavico, quello del dono della vita. Hanno un senso e un settimo senso e sono più indipendenti di noi dal punto di vista interiore. Soffrono più di noi il dramma dell’emigrazione, come madri e mogli, da secoli sono abituate a caricarsi sulle spalle i più grandi tormenti delle famiglie sarde. Ho fiducia in loro, sono la mia speranza più grande»
La nostra storia, vuol dire Meloni, è matrilineare. «Non a caso i personaggi sardi più famosi sono due donne: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda», dice oggi.
La stessa frase, anni fa, fu pronunciata in un convegno letterario da Giovanni Maria Cherchi, ex-consigliere regionale del Pci, poeta e saggista.
1 commento:
Onore a Doddoreddu!!!!!!!
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