Quanti sono rimasti? Antonio Piras prende a colpo sicuro una delle fotografie che ha sistemato sul tavolo di cucina in attesa dell'intervista, la prima della sua vita, probabilmente l'unica. Cinque figli, ottantotto anni, sette pacemaker, ha gli occhi appena velati e una memoria da quiz televisivo. Le mani, curatissime e legnose, sono segnate da tante piccole cicatrici. Quel che resta è la lucidità e la forza di un vecchio combattente.
«Quanti siamo rimasti?» Prende la foto di gruppo, sbiadito bianco e nero, scattata in un tempo lontano e imprecisato. Tutti giovani, camicie candide della giornata di festa e pantaloni larghi, col risvolto, come quelli che usavano i ricchi. Ridono, abbracciati come una squadra di calcio che ha appena vinto il campionato. Sono più d'una decina, tutti con lo sguardo verso l'obiettivo e il sorriso d'ordinanza. L'indice di Antonio Piras li scorre uno per uno. «Peppuccio non c'è più, Lorenzo nemmeno, Tore forse...». Fa l'appello e alla fine dovrebbero essere solo due a poter rispondere: lui e un collega che abita in un paese vicino. «Chi, come me, è nato a Buggerru, in miniera finiva per forza». I ricordi, man mano che parla, si fanno più nitidi, riaffiorano nomi e storie che non possono essere dimenticate. Come il suicidio di quel compagno di lavoro che aveva scelto un luogo singolare per farla finita: «Si era impiccato a una trave della galleria. Lo abbiamo trovato appeso, rigido». E neanche una lettera, un segnale, qualcosa che aiutasse a capire.
Piras ha cominciato a lavorare che aveva quindici anni. In miniera non lo hanno fatto scendere nei pozzi finché non ne ha compiuto diciotto. L'apprendistato («eravamo trenta manovali e venti maestri di muro») durava da otto a dieci ore al giorno, sei giorni su sette, per un salario da fame: non a caso Buggerru finirà sulle cronache nazionali dei giornali per i suoi morti, i minatori non andavano in paradiso, allora (e neppure adesso).
Anche se appartiene ad un'altra generazione, Antonio resta un sopravvissuto di sempre. Prima elementare, giusto per capire cosa significasse leggere e scrivere, destino segnato come quello dei ragazzi della sua età, ha attraversato la vita con serenità e senza invidia. Si considerava (e si considera) un privilegiato per aver potuto lavorare da subito mentre tutt'attorno vivevano assediati dalla povertà. In fondo, non ha rimpianti. Solo un lampo d'emozione quando gli si chiede di tornare al tempo dei tempi.
A che quota ha lavorato?
«Meno centocinquanta a Carbonia, settanta sotto il mare a Buggerru. Ero armatore».
Cioè?
«Il compito della mia squadra era quello di armare le gallerie, in pratica dovevamo sistemare l'intelaiatura di legno che reggeva le gallerie. Quando si apriva una nuova via bisognava stare proprio dietro quelli che perforavano per mettere tutto in sicurezza».
Rischi?
«Tanti ma non stavi lì a guardarli in faccia. Nei fornelli, che sono i buchi appena fatti, io dovevo occuparmi della pulizia, rimuovere il materiale, insomma preparare la piazza agli armatori. Che ero sempre io».
Infortuni?
«Abbastanza però li posso raccontare. Scavando scavando ti fai male alle mani, io tre volte ma niente di serio. Ti ricucivano in infermeria».
Paura?
«Quando facevano scendere il materiale nelle nuove linee c'era da stare attenti alle frane. La montagna fa scherzi: un conto è romperla di fronte, altro conto è quando scende di lato. Tutto all'improvviso succede e finisci sotto. Mi ricordo quella volta che Tore si è sentito male. Io ero a un fornello e lui gridava Tonio, Tonio aiutami».
Che c'entra la paura?
«Lasciami finire e lo capisci anche tu. Tore era per terra, aveva dolori al petto, allo stomaco. Non riusciva a stare in piedi. M'è venuta la disperazione. L'ho raccolto da terra, al diavolo il fornello, e me lo sono caricato sulle spalle. Pesante a reggerlo, mi'. Risalivo piano piano e siccome non lo sentivo più lamentarsi, avevo paura che era morto. Alla fine ce l'ho fatta a portarlo fuori. Alla luce. Mica come l'altro a Carbonia».
Perché, cos'è successo a Carbonia?
«Lì, dove ho fatto carbone per tre anni prima di venire a Buggerru a scavare zinco, uno si è sentito male. Gridava gridava, poi ha smesso. Quando lo abbiamo riportato su, non si muoveva niente. Gli hanno messo un telo sopra, mischino».
Morti da frana?
«No. Frane ne ho visto molte ma sotto non ci sono finito. Non ho nemmeno visto morire mio fratello: lavorava in miniera come me, a Montevecchio. Stava scaricando legna, gli è mancato di colpo l'ascensore, che l'avevano chiamato, e lui non poteva vederlo che non c'era perché aveva la legna addosso ed è precipitato nel pozzo: quaranta metri. E mio cognato, allora?»
Suo cognato?
«Schiacciato da una gabbia».
Cos'è la gabbia?
«Vuoi che te lo dica in dialetto? La gabbia è una gabbia come tutte le gabbie, con le sbarre: serviva per farci scendere nei pozzi».
Vi faceva compagnia la paura.
«Rischiavamo tutti: noi, i capiservizio, i sorveglianti. L'importante era non pensarci alla paura altrimenti non riuscivi a lavorare. E lavorare dovevi».
Malattie.
«A Carbonia ho preso il tifo ma non sapevano cos'era. Era tifo a tutta forza, febbre altissima e pensavano che bastava una copertina leggera. Ma neanche allora m'hanno voluto in camposanto. Poi ho fatto i calcoli renali: ventisette. Colpa dell'acqua che bevevamo giù, non era potabile potabile».
Silicosi?
«Al settanta per cento. Mio padre, che anche lui lavorava in miniera, non ha fatto in tempo ad ammalarsi: è morto prima di prendersela, la silicosi».
Si considerava fortunato ad avere un lavoro?
«Un po' di fortuna l'ho avuta: tanti incidenti e sono ancora qui a raccontarla. Il fatto è che ho stretto amicizie in miniera. E questo ti salva».
Perché?
«Se i compagni ti vogliono bene, se si tratta di amici veri, sono pronti a rischiare per salvarti, pronti a darti un aiuto se tu - com'è capitato a me - tiri fuori dalla terra una mano squarciata».
Cosa facevate nel tempo libero?
«Svaghi vuoi dire? Non ce n'erano. Quando finivo in miniera, se il mare non era cattivo andavo a pescare coi fratelli Di Giordano e Palmas. A remi. A remi fino davanti a Ingurtosu siamo arrivati, e se c'era un'altra barca tutti a gara a chi arrivava prima. Quanto pesce ho portato a casa: allora ce n'era, ma ce n'era sul serio. Poi, quando il mare non faceva, seguivo il giardino che avevamo. Anche la zappa è dura, lo sai?»
Scherzi.
«In miniera, certo. Ci fregava che eravamo giovani e tante volte non pensavamo alle conseguenze. Per esempio quando abbiamo messo uno stivale pieno d'acqua sulla porticina del piazzale. Adesso lo posso dire: lo sapevamo benissimo che il prossimo a entrare era il capomaestro dei muratori. Unu malu . Entra, quindici litri d'acqua addosso s'è beccato. Ci è costato il mese quello scherzo».
Il mese?
«Multati. Tutto il salario del mese. Ne mettevano una quantità di multe. Ma quella volta ce la siamo meritata. La parete della montagna era piena di buchi a mare. Uno, che è diventato famoso, ora vanno perfino a visitarlo i turisti. Dai buchi, in alto, aspettavamo il cambio-turno: rovesciavamo l'acqua in testa a quelli di sotto e quando alzavano la testa non vedevano nessuno. Vai e scoprilo da quale buco avevano fatto il gavettone».
Scioperi.
«Io scioperavo sempre. Sono stato dieci volte a Roma, piazza san Giovanni. Andavamo a protestare, a chiedere condizioni migliori».
E salari più alti.
«Beh, sotto sotto a quello pensavamo. Non è un diritto avere un po' di soldi e sentirti più libero? Io non ne ho bruciato uno di sciopero».
In chi sperava, il partito o Dio?
«Speravo di incontrare gente seria, gente che si rendesse conto di che vita facevano i minatori in Sardegna. Fiducia? Un po' in Dio e un po' nel partito, dipendeva dalla volta».
Donne di miniera.
«Non erano per niente escluse. Oltre mia mamma, tante altre. Avevano il compito delle pulizie e di scaricare i vagoni che arrivavano su, selezionavano il materiale buono da quello che era pietra e basta».
Crumiri.
«Quattro o cinque. Ma è una razza: c'erano e ci saranno sempre, non muoiono mai. Bisognava stare attenti, allora: se ti allontanavi dalle masse, come diceva il sindacalista Daverio Giovannetti, correvi rischi e favorivi la controparte. Io, che da giovane avevo un buon carattere, non riuscivo a sopportarli, i crumiri. Una mattina che eravamo tutti nel piazzale per scioperare ne ho visto uno entrare al lavoro. Gli ho lanciato una trave».
Colpito?
«No, per fortuna. Ma l'ho sfiorato. Se l'avessi colpito avrei perso il lavoro, mi avrebbero licenziato in tronco. È che quando sei giovane la rabbia ti chiude il cervello, fai cose che a mente fredda non faresti. Io, per esempio, odiavo i crumiri ma non mi interessava aggredirli. Bastava che sul lavoro non gli dicevo neanche ciao al cambio-turno».
Padroni.
«Vederli era difficile. Avevano una palazzina dove nessuno di noi poteva avvicinarsi. Mangiavano per conto loro. Ogni tanto scendevano giù, accompagnati dai capiservizio, qualche volta ci rivolgevano la parola, altre volte zitti. E poi scappavano perché avevano paura di perdere l'aereo. Era gente che aveva sempre fretta, quella».
Caporali.
«I nostri si chiamavano capiservizio oppure sorveglianti. Ce n'erano gentili. Altri sgarbati, ma così sgarbati che mi veniva voglia di prenderli a calci. E lo avrei fatto, era che ci perdevo il posto. Perché allora non è come adesso che prima di licenziarti ce ne vuole, e ce ne vuole molto. No, ai miei tempi bastava poco: un lavoro fatto male, una risposta maleducata, una lite tra compagni. Bisognava fare davvero attenzione».
Il ricordo più vivo?
«Quaranta giorni di occupazione. Ci portavano un po' di pane per non farci morire di fame. Dormivamo a turno un po' dove capitava. Il tempo non passava mai, c'era un giorno di ottimismo e uno di disperazione. Quaranta, sono lunghissimi: sembrava che i padroni non si arrendevano mai».
Com'è finita?
«Come dicono oggi alla televisione: tavolo di trattative. Noi abbiamo ottenuto un po' di quello che chiedevamo e loro un po' di quello che pretendevano. Non è stata una gran vittoria se penso che ci è costata quasi un salario e mezzo. Le ore non passavano, il tempo sembrava fermo. C'era una staffetta che garantiva i viveri, da casa mi mandavano qualcosa tanto per non farsi sentire lontani lontani...».
Ha mai odiato qualcuno?
«Odiato proprio no però - non posso fare il nome perché forse è vivo ancora - non ho dimenticato il caposervizio che mi ha insultato. Era insieme al dirigente Biagi e io mi ero permesso di proporre un rafforzamento della galleria. Mai l'avessi detto: ma cosa ne capisci tu, cosa ne sai, sei solo stupido. Sarò stato anche stupido ma avevo ragione perché il dirigente l'ha guardato e gli ha detto: fate come dice lui».
Incontravate i dirigenti durante la passeggiata serale?
«Mai. Nella miniera c'era anche una casa degli impiegati dove potevano entrare solo gli amministrativi, i capiservizio e i sorveglianti. Noi no, manco per le feste. È così la miniera, figli e figliastri».