Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
29.9.22
VINCENZO CONTICELLO La beffa dello statoi all’eroe antipizzo
Denunciare la mafia costa, in questo Paese l’abbiamo imparato sulla carne viva di Libero Grassi e dei tanti imprenditori che si sono ribellati al racket. Talvolta però il conto lo presenta lo Stato. Vincenzo Conticello, imprenditore palermitano, è suo malgrado diventato uno dei simboli della lotta al racket nel capoluogo siciliano. Proprietario con il fratello della storica “Antica focacceria San Francesco”, riconobbe i suoi estorsori il 18 settembre del 2007, in un’aula di tribunale, indicando davanti al pubblico ministero Francesco Del Bene, l’uomo che gli chiedeva il pizzo. «È quel signore lì, quello seduto e che ha accanto le stampelle», disse dritto Conticello, puntando uno degli affiliati del clan della Kalsa. Da quel giorno Vincenzo Conticello è diventato testimone di giustizia, protetto dallo Stato e simbolo Non mi sono pentito di aver denunciato, ma sono rammaricato perché tutte le promesse delle istituzioni si vanificano della lotta alla mafia. Ma le cose non sono andate come avrebbero dovuto. «Non mi sono pentito di avere denunciato, questo no – racconta Conticello – ma sono rammaricato perché la mia denuncia ha esposto me (e non solo) in una situazione complicata e perché tutte le promesse che mi sono state fatte dalle istituzioni si vanificano mentre cambiano gli assetti politici, cambiano i magistrati e gli interlocutori».
28.9.22
Lo street artist che disegnò il bacio (profetico) traSalvini e DiMaio spiegaperchéchi sfregia i suoi murales (anche quelli su Carrà e Borsellino) gli fa un favore
TV BOY
Lo street artist che disegnò il bacio (profetico) traSalvini e DiMaio spiegaperchéchi sfregia i suoi murales (anche quelli su Carrà e Borsellino) gli fa un favore
- Oggi
- di Marianna Aprile
Chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta ribadendo l’importanza
« Se c’è unmomento di incertezza i vecchi mostri riaffiorano. Come il nazismo, il fascismo e lepolitichedi odio versotutto ciò che è considerato diverso. Dipingerò di nuovo». Così lo street artist TvBoy, ovvero Salvatore Benintende, ha dato su Twitter la notizia che sullaRaffaella Carrà che aveva realizzato su un muro di Barcellona (dove l’artista vive dal 2004) era comparsa una svastica. «Tornerò a dipingerlo, non ci fermeranno», aveva scritto solopochi giorni prima, mostrando lo sfregio sul suo Paolo Borsellino nel quartierepalermitanodellaKalsa. «Lo sfregioè una sfida», ci dice. Lo incontriamo a Milano, poco distante dal luogo in cui lo guarderemo realizzare l’opera Rifiuti non riciclabili, contro l’odio (su oggi. it trovate il video).
Ma perché fare una svastica sulla Carrà?
«Lei in Spagna è amatissima per aver portato una ventata di libertà, anche sessuale, quando c’era ancoraladittatura franchista. Èunsimbolo, perquesto la attaccano. Era già successo, con un’altra Raffaella che avevo fatto lì, su cui qualcuno ha scritto “gay no”, “Aids no”. L’estrema destra colpisce i simboli della libertà. Primadi rifare– piùbelleepiùgrandi – le opere chemi sfregiano facciopassare unpo’di tempo. Infondo furti e danneggiamenti fannoparte dell’opera, se la consideri in divenire: chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta inconsapevolmenteribadendo l’importanzaestadimostrando che quei temi e quei simboli sono un bersaglio».
Rifarà anche Paolo Borsellino più grande?
«No, loaggiusterò. Hannosfregiato lo sguardo, che era il centro di quell’opera. Non è uno sfregio banale, ha un valore simbolico, come a volernegare il tipo di visione che aveva il giudice».
InItaliaèdiventatofamosoperAmorpopuli,ilbacio tra Salvini e Di Maio, fatto quando ancora non avevanostrettol’accordonel2018. È unveggente?
«Lo feci a mezzanotte del 22marzo 2018 e alle 7 del mattino dopo era nascosto da scatoloni, presidiato daCarabinieri, con laScientifica a fare i rilievi, prendere impronte… un teatrino. Ma così lo notarono tutti. Tutti presero a farmi domande di politicama ero solo un artista con un po’ di audacia e fortuna: Lega e Cinquestelle erano tra i partiti che avevano preso più voti, immaginai potessero allearsi in nome del populismo. L’ho buttata lì. Baci ne avevo già fatti: Trump e KimJong Un, Messi e Ronaldo…».
Oltreai baci, dipingesanti, eroi... Comeli sceglie?
«Attingo all’arte del passato, a lungo prevalentemente religiosa. Ma ora i nuovi idoli sono influencer, musicisti, calciatori, che “santifico” con una punta di ironia. Quando la Ferragni lanciò un’acqua costosissima col suomarchio, feci SantaChiara con quest’acqua “benedetta” e in braccio il bimbo
appena nato: una specie di Madonna con bambino contemporanea. Lei non ha colto l’ironia, quell’opera cel’haincasa. Mavabenecosì, leoperesonosempre unpo’ omaggio e unpo’ sfottò. Gli eroi sono invece quelli che hanno lasciato cose buone nella società: Battiato, Falcone, Gino Strada...».
Muri spagnoli e italiani parlano la stessa lingua?
«All’inizio sceglievo i soggetti inbase al luogo. Ma i temi importantisonouniversali. SeammazzanoGeorge Floyd negli Stati Uniti posso disegnarlo come un angelo nero e la scritta Stop racism a Barcellona. Ci sono temi che prescindono dai luoghi. E poi Italia e Spagna sonomolto simili. Anche inSpagna crescono i partiti di destra e la sinistra è divisa».
Nel “dialogo” tra le sueopere e le città incui sono ha colto un’escalation di intolleranza?
«C’è un innalzamento del “nervosismo”, me ne accorsi proprio con Amor Populi. In quel periodo feci ancheunSalvini a PiazzaVenezia col braccioalzato, che chiamai La dittatura del selfie. Andarono a rimuoverloepreserolegeneralitàaunapersona solo perché aveva chiesto ilmotivo. Dicono che sonoun artista schierato, ma lemieopere sonopasquinate, attacchialpotere, tutto, anchequellodi sinistra. DisegnavoRenzicomeunozombiequandoeraancora Renzi... Certo, ho delle simpatie, e l’arte esprime la sensibilità di chi la fa, ma non vogliomica convincere la gente a cambiare le proprie idee con le mie opere. Cheparlanodicose- diritti, poveri, antimafia - di cui la sinistra parla sempremeno. Majakovskij diceva: “Non rinchiuderti, partito, nelle tue stanze. Restaamicodei ragazzidi strada”. Lasinistraquesta cosa non la sta facendo, è percepita come distante, per questo il consenso di Meloni cresce».
L’arte non può cambiare il mondo ma può farlo dibattere. Chi mi odia non perde uno dei miei lavori
La street art fa quindi una sorta di supplenza?
«Quando ho iniziato ad avere seguito ho pensato che sarebbe stato giusto usare questa visibilità per accendere riflettori sutemi di cuinonsi parlasenon inmodo propagandistico. L’arte non può cambiare il mondo, ma può farlo dibattere. Come fa Banksy. Anche chimi odia non si perde unmio lavoro».
Rispetto a Banksy, lei è molto più prolifico.
«Sento un impulso. Siamo alla vigilia di un cambiamento: con le destre vincenti, è il momento per accendere riflettori su certi temi. Oggi Salvini, quando lo disegno, finge di stare al gioco, mamanda la Polizia a rimuoverlo. Meloni si disse intenerita a vedersi col profugo in braccio. Ma è così perché non stanno al governo. Quando torneranno al potere cambierannoatteggiamento. Le mie opere e il potere sono come il gatto col topo. Ci si rincorre».
Chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta ribadendo l’importanza
Rifarà anche Paolo Borsellino più grande?
«No, loaggiusterò. Hannosfregiato lo sguardo, che era il centro di quell’opera. Non è uno sfregio banale, ha un valore simbolico, come a volernegare il tipo di visione che aveva il giudice».
InItaliaèdiventatofamosoperAmorpopuli,ilbacio tra Salvini eDiMaio, fatto quando ancora non avevanostrettol’accordonel2018. È unveggente?
«Lo feci a mezzanotte del 22marzo 2018 e alle 7 del mattino dopo era nascosto da scatoloni, presidiato daCarabinieri, con laScientifica a fare i rilievi, prendere impronte… un teatrino. Ma così lo notarono tutti. Tutti presero a farmi domande di politicama ero solo un artista con un po’ di audacia e fortuna: Lega e Cinquestelle erano tra i partiti che avevano preso più voti, immaginai potessero allearsi in nome del populismo. L’ho buttata lì. Baci ne avevo già fatti: Trump e KimJong Un, Messi e Ronaldo…».
Oltreai baci, dipingesanti, eroi... Comeli sceglie?
«Attingo all’arte del passato, a lungo prevalentemente religiosa. Ma ora i nuovi idoli sono influencer, musicisti, calciatori, che “santifico” con una punta di ironia. Quando la Ferragni lanciò un’acqua costosissima col suomarchio, feci Santa Chiara con quest’acqua “benedetta” e in braccio il bimbo
appena nato: una specie di Madonna con bambino contemporanea. Lei non ha colto l’ironia, quell’opera cel’haincasa. Mavabenecosì, leoperesonosempre unpo’ omaggio e unpo’ sfottò. Gli eroi sono invece quelli che hanno lasciato cose buone nella società: Battiato, Falcone, Gino Strada...».
Muri spagnoli e italiani parlano la stessa lingua?
«All’inizio sceglievo i soggetti inbase al luogo. Ma i temi importantisonouniversali. Sea mmazzano George Floyd negli Stati Uniti posso disegnarlo come un angelo nero e la scritta Stop racism a Barcellona. Ci sono temi che prescindono dai luoghi. E poi Italia e Spagna sonomolto simili. Anche inSpagna crescono i partiti di destra e la sinistra è divisa».
Nel “dialogo” tra le sueopere e le città incui sono ha colto un’escalation di intolleranza?
Rispetto a Banksy, lei è molto più prolifico.
«Sento un impulso. Siamo alla vigilia di un cambiamento: con le destre vincenti, è il momento per accendere riflettori su certi temi. Oggi Salvini, quando lo disegno, finge di stare al gioco, mamanda la Polizia a rimuoverlo. Meloni si disse intenerita a vedersi col profugo in braccio. Ma è così perché non stanno al governo. Quando torneranno al potere cambierannoatteggiamento. Le mie opere e il potere sono come il gatto col topo. Ci si rincorre».
Seconda riflessione post blocco facebook: I morti famosi. di Leonardo Spartaco Luxemburg Boscani
Seconda riflessione post blocco facebook: I morti famosi.
Semplicemente che sono nato e cresciuto in una famiglia di comunisti. Il più a destra era mio zio Piero , un ragazzo down che era democristiano e suo padre, Antoni Nigola , mio nonno , naturalmente, che era socialista. La mia famiglia mi ha
insegnato una cosa, il rispetto anche per il nemico, per l' avversario soprattutto dinnanzi alla loro morte. Mi hanno insegnato loro e poi più avanti i miei compagni di lotta che la differenza tra noi e i fascisti e gli imperialisti o i militari golpisti, stava anche che questi brindavano alla morte del nemico come vittoria finale e noi comunisti e socialisti e anarchici al limite si brindava alla vittoria sul nemico e che inveire o insultare il cadavere del tuo nemico era barbarie, era populismo era rabbia "nazifascista" . Oggi leggere di compagni che brindano non al nemico da sconfiggere ma alla loro morte mi fa capire ancora di più che la sinistra che sta nascendo tra i likes dei social è peggio della peggior destra.
la storia di Marco Menin che scopre suo padre Ennio fascista e torturare e deportatore di partigiani e chiede scusa a Ennio Trivellin fatto deportare da suo padre nei lager l'unico a tornarvi
LA STORIA
Mio padre, spia dei fascisti: un segreto tenuto per tutta la vita
Verona, a 64 anni il professore Marco Menin scopre per caso il ruolo del genitore che s’infiltrò tra i partigiani e rivelò i loro nomi alle camicie nere. Furono uccisi o deportati
di Andrea Priante
Marco Menin
«Nel 2020 ero a casa, davanti al computer. Quasi per gioco, mi è venuta l’idea di provare a digitare il nome di mio padre sul motore di ricerca. È così che il suo segreto è venuto a galla. Su internet c’era tutto: i verbali, le testimonianze, le sentenze di condanna. A 64 anni ho scoperto che l’uomo che per tutta la vita avevo sempre considerato solo come un genitore, un marito e un nonno amorevole, in realtà era il responsabile delle torture, della deportazione e della morte di decine di persone».
Come un film
Sembra un film, di quelli che provano a raccontare le ferite della guerra e dei vagoni che da Bolzano portavano i prigionieri a Mauthausen. Invece a parlare è l’ex professore di Fisica di un istituto tecnico di Verona oggi in pensione, Marco Menin. Suo padre Sergio, classe 1921, è scomparso 25 anni fa. «E io gli sono stato vicino durante la malattia. Per giorni abbiamo parlato di tutto, mi ha raccontato cose che non sapevo. Eppure, perfino in punto di morte, mi ha nascosto la sua vera storia. È questa la cosa che più di tutte non riesco a perdonargli». In realtà le storie - quelle che per la prima volta accetta di raccontare a un giornale – sono due: c’è quella di un giovane fascista che durante la Seconda guerra mondiale si infiltrò tra i partigiani per poi condannarli a finire nei campi di concentramento, e quella di un figlio che quasi ottant’anni dopo scopre tutto e si ritrova a mettere in discussione le certezze che l’hanno sempre accompagnato.
I racconti di guerra
«Era capitato che papà mi parlasse della guerra. Di rado, a dire il vero, e anche quel poco era angosciante. Mi disse che a 18 anni fu arruolato nella Divisione Centauro, come autista, e poi trasferito sul fronte balcanico, come capocarro su un M13. Mi narrava pure del suo ritorno a casa, dopo l’8 settembre del ‘43, come fosse una scampagnata: alla guida del suo carro armato attraversò Jugoslavia e Triveneto fino a parcheggiare il mezzo militare sulle Rigaste di San Zeno, a Verona». E dopo? «Nient’altro. I suoi aneddoti si interrompevano lì». Gli anni del dopoguerra furono quelli della ricostruzione. Sergio Menin – senza mai nascondere le sue inclinazioni per la Destra - aprì una concessionaria d’auto in pieno centro, poi un’azienda che si occupava dell’installazione e della manutenzione di ascensori. «Era un uomo “normale”, come tutti gli altri. Ricordo che lo vedevamo poco: partiva al mattino, quando io ancora dormivo, e tornava la sera tardi. Però era generoso, simpatico. Una volta donò il sangue salvando la vita a una mamma e alla sua bambina. Un brav’uomo, almeno questa è l’immagine che tutti avevano di lui».
La verità
Dai documenti rintracciati sul web, Marco Menin ha scoperto che dopo l’Armistizio suo padre – col nome di battaglia «Uccello» - entrò a far parte della divisione Pasubio. «Si tratta di una delle più nutrite brigate partigiane che, guidata dal comandante Giuseppe Marozin, combattè tra Vicenza e Verona» spiega il ricercatore Salvatore Passaro, autore di un approfondito studio («Don Carlo Simionato, il cappellano dei forti Veronesi», Cierre edizioni) sulla Resistenza veneta. «Nel settembre del ’44 un massiccio rastrellamento nazifascista, denominato “Operazione Timpano”, portò al suo annientamento e all’uccisione di decine di partigiani. Non è chiaro chi fece i loro nomi ai repubblichini, ma il sospetto è che Sergio Menin possa avere avuto un ruolo». È ciò che pensa anche Marco Menin: «Credo che già all’epoca mio padre fosse un infiltrato al soldo dell’Ufficio politico investigativo della Rsi».
Le testimonianze
La certezza, invece, riguarda i fatti successivi. Scampato agli scontri, il partigiano «Uccello» entrò a far parte del battaglione Montanari. E qui le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze e dei processi che seguirono (e che portarono a tre condanne a morte nei confronti di Sergio Menin) non lasciano dubbi: «Papà fu arrestato dai fascisti assieme ad altri compagni di lotta. Pochi giorni dopo si ripresentò tra le fila partigiane, raccontando di essere riuscito a fuggire. In realtà aveva fornito ai repubblichini una cinquantina di nomi dei componenti del battaglione». I nazifascisti li catturarono, alcuni furono passati per le armi, altri deportati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero una manciata, e tra loro il veronese Ennio Trivellin, staffetta partigiana morto la scorsa settimana a 94 anni: ne aveva appena 16 quando su un carro bestiame fu trasferito a Mauthausen.
Trivellin, testimone dei lager, morto a 94 anni e la lettera a L'Arena di Marco Menin |
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Un sedicenne nei lager La storia di Ennio Trivellin
Addio a Ennio Trivellin, presidente dell'Aned sopravvissuto a Mauthausen
«Con lui scompare l’ultimo veronese testimone diretto della deportazione, e oramai è necessario capire come noi, qui e oggi, possiamo dare continuità ad una memoria fondante per la nostra democrazia. Nella consapevolezza che era possibile fare la scelta giusta e quella sbagliata: dobbiamo rispettare le memorie di tutte le persone che hanno vissuto quella tragedia, ma senza dimenticare i crimini di chi ha scelto di riempire i vagoni che portavano ai lager».
Il bisogno di chiedere scusa
Su uno di quei vagoni ci era stato spinto anche Ennio Trivellin nell’ottobre del 1944, reo di aver messo i suoi sedici anni a servizio della Brigata Montanari. Ci era stato spinto su delazione, e del nome dell’uomo che si presentava come Uccello, Trivellin non aveva mai fatto segreto. A distanza di 78 anni, prima martedì al Cimitero monumentale di Verona e ieri con una semplice lettera pubblicata nello spazio dei lettori de L’Arena, Marco Menin, che di Uccello è il figlio, ha voluto pubblicamente rendere omaggio a quel ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, porgendogli pubblicamente «quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire».Personalmente lo aveva fatto due anni fa, scegliendo di presentarsi ad un uomo che non sapeva come affrontare ma dal quale era stato accolto «con un sorriso dolcissimo che porterò con me come uno dei ricordi più cari». Avrebbe potuto tacere, Marco Menin, avrebbe potuto ignorare la scoperta che lo aveva sconvolto: «Quel delatore aveva un nome che ho scoperto solo due anni fa: quello di mio padre Sergio, che quella guerra civile aveva scelto di combatterla dalla parte sbagliata della storia». C’erano state le fughe, c’erano stati i processi e poi le amnistie: tutto cancellato, tranne la memoria di Ennio, che da una quindicina di anni aveva accettato la sua condanna a ricordare e a tenere viva la memoria di ciò che era stato e di chi non era tornato, e, più tardi, quella di Marco Menin.
La commemorazione
Così, dopo la celebrazione composta in cui Ennio Trivellin, da presidente dell’Associazione nazionale degli ex deportati di Verona, è stato salutato tra le arcate della chiesa di Santo Stefano, la commemorazione spostatasi al camposanto è stata l’occasione per riannodare i fili: le parole di un figlio che si scusa nel nome del padre e quelle della nipote di un deportato che ha scelto l’impegno in prima persona (Tiziana Valpiana, nipote di Gracco Spaziani e vice presidente dell’Aned scaligera), tratteggiano le tante eredità di Ennio, l’ex studente, il partigiano Gervasio, il partigiano Nemo.
Tanti studenti con l'urgenza di opporsi al fascismo
Quanti nomi attorno ad un uomo che, raccontando, ha restituito a Verona la memoria di don Carlo Signorato e ha alimentato la fiamma della ricerca storica che ha permesso a studiosi nati trent’anni dopo la liberazione di restituirla a Francesco Chesta ed Eliseo Cobel del Galileo Ferraris, la sua stessa scuola, di Valentino Rosà e Lino Cirillo dello Scipione Maffei, Natale Mihel del Pindemonte Lorgna (ultimo superstite da anni trasferito a Stoccolma), Battista Ceriana del Messedaglia e ai tanti studenti che, come lui, scelsero l’impegno. «Celebriamo quel sedicenne consapevole dell’urgenza di opporsi al fascismo e contrastare l’invasione nazista, ma inconsapevole di quali orrori avrebbe visto», le parole di Valpiana, «una vita diventata testimonianza ed una grande eredità, immensa e terribile: raccogliere il testimone e continuare l’impegno contro l’oppressione, la dittatura, il razzismo e lo sfruttamento».
intervista a Benedetta Pallavidino autrice di le Tourbillon de la vie - il cinema di Valeria Bruni tedeschi ' edito da Bietti Edizioni nella collana digitale Fotogrammi .
Benedetta Pallavidino ha scritto le Tourbillon de la vie - il cinema di Valeria Bruni tedeschi edito da Bietti Edizioni nella collana digitale Fotogrammi . Unn piccolo ma grande libro interessantissimo sulla carriera di Valeria Bruni Tedeschi come regista, inoltre, all’interno c’è una bellissima intervista alla stessa Valeria… Ora Conoscendo Benedetta, profondissima conoscitrice del cinema, è inutile aggiungere altro se non: correte a comprarlo a questo link: https://amzn.eu/d/cneJUou
Infatti, proprio per questo che ho deciso di farle un'intervista/chiaccherata che andasse al di là del suo ultimo lavoro
La verità è che se non lo facessi, sentirei di star mettendo da parte ciò che amo di più. La cultura e il suo grande valore, oltre che potere, è ciò in cui credo fermamente, sia come docente che come critico. Provare a fare e diffondere cultura è per me un piacere irrinunciabile, perciò provo a fare dei calendari - mentali soprattutto - che tengano tutto insieme. Vorrei, comunque, avere più tempo per scrivere
Non c'è una vera ragione. Quando affronti un singolo personaggio ti concentri su di lui e lo analizzi a 360 gradi, ma parlando di lui e del suo lavoro arrivi comunque a fare osservazioni più ampie sul cinema. Mi è successo con [ altre suoi saggi . N.t ] Lanthimos e anche con Cronenberg. Ho, in ogni caso, dei nuovi progetti che mi frullano in testa e che mi permetterebbero di focalizzarmi anche su altro.
come si ci sente a d essere un eccellenza ?
Da bambina, quale personaggio della fantasia e della letteratura hai amato in modo particolare ?
Sarò banale: Jo March di 'Piccole donne', indipendente, libera e scrittrice. Però volevo anche somigliare a Romy Schneider, che non è di fantasia. Quando ho scoperto quanto fosse stata sfortunata, ho deciso che sarebbe solo stata il mio 'primo grande amore'.
C'è un personaggio di finzione in cui mi ritrovo molto: Frances Ha, protagonista dell'omonimo film di Noah Baumbach. Una quasi trentenne americana che in sé incarna il sentire di tutta la mia generazione, tra sogni e fallimenti, cadute, corse e qualche piccolo successo.
Non credo di averlo mai detto. Io non demonizzo le piattaforme, preferisco ovviamente la sala e la visione collettiva, ma le piattaforme hanno i loro pregi. Ad esempio veicolano la diffusione di prodotti indipendenti che altrimenti non avrebbero lunga vita. Credo, però, e questa potrebbe essere una critica, che la tendenza generale sia quella di produrre e distribuire opere di qualità discutibile che impigriscono lo sguardo dello spettatore invece di educarlo ad una percezione variegata.
Restano i grandi autori ancora viventi (Bellocchio, Avati, Taviani ecc.) a cui si accostano altri nomi interessati (Garrone, Sorrentino, D'Innocenzo ecc) ma il cinema che per lo più viene prodotto non vuole scommettere e osare e i primi colpevoli sono i produttori. Le idee, il talento, l'innovazione ci sarebbero, il problema è che raramente si punta coraggiosamente su di essi.
Dipende che obiettivo ha l'operazione: cito tre casi in cui ci sono stati esiti più che eccellenti: 'Psycho', 'Funny Games' e 'Suspiria' . Sono casi a sé, in cui c'è un lavoro sul linguaggio, sulla filosofia dell'immagine e sulla narrazione. Se il remake o reboot deve essere solo un'operazione di marketing, allora è un fallimento quasi certo. Lo stesso discorso per sequela, prequel e spin off, si cavalca l'onda, certo, ma deve esserci anche la qualità e, perché no, la sperimentazione.
27.9.22
L’ODISSEA DEL GRECO GIANNIS Vita e miracoli del cestista di origini nigeriane Dalla miseria al titolo Nba
da il fatto quotidiano del 27\9\2022
La National Basket Association lo ha capito decenni fa. Se vuoi vendere un prodotto a tutto il mondo non basta mettere in campo gli atleti più forti in quello sport e far giocare loro sfiancanti partite ogni tre giorni tra stagione regolare e playoff. Va costruito un lavoro di storytelling. Tutto reale, beninteso, ma che sia condivisibile, di esempio in ogni angolo del mondo, vendibile dalla Cina all’europa. Da Bill Russell, nero a Boston fischiato dai suoi stessi spalti pur essendo quell’incredibile giocatore che era, alla complessa vicenda di Lewis Alcindor, nero pure lui, pacifista, che prese il nome islamico di Kareem Abdul Jabbar e portò il primo titolo della storia ai Bucks di Milwaukee. E ancora, la sfida tra Magic Johnson (Los Angeles Lakers) e Larry Bird (Boston Celtics) degli anni 80, i cattivissimi Pistons di Detroit che seguirono a quelle dinastie, il brand del “più forte di tutti i tempi” Michael Jordan, che negli anni Novanta diventa scarpe, maglie, addirittura figura stilizzata di un’icona con lui che schiaccia a una mano. Tutto si vende.
LA STORIA di Giannis Antetokounmpo, nato ad Atene 28 anni fa da genitori nigeriani, per intenderci, è già un film Disney, Rise, in cui si racconta la storia dei quattro fratelli alti due metri che con sudore, lacrime, famiglia, un pallone da basket e un paio di scarpe in due (scena abbastanza drammatica quella che vede il maggiore, Thanasis, levarsi le scarpe per far entrare in campo il minore, Giannis), riescono a cavarsi dalla povertà e a giocare tutti in Nba. Storia disneyana, appunto.
In Giannis Antetokounmpo, Odissea, edito da 66thand2nd, Andrea Cassini ci mette attorno la cronaca di quella storia. E la cronaca è più brutta, meno disneyana.
Inizia a Sepolia, distretto operaio di Atene a forte immigrazione: albanesi, russi, europei, africani. Un’immigrazione di braccia, da lavoro nero (l’85% degli africani immigrati in Grecia è per le statistiche disoccupato), da comunità chiusa. Nel 1991 Charles e Veronica arrivano qui dalla Nigeria, dove hanno lasciato il primogenito Francis. Nascono in quegli anni Thanasis (1992), Giannis (1994), Kostas (1997), e Alex (2001), quattro nomi greci, ma senza un documento a poterlo testimoniare: non si sa nemmeno come si scrive, in greco, quel cognome “Adetokunbo”, che tiene assieme le radici adé, corona o maestà, e ti òkun bò, venuto dal mare.
Come le altre braccia nere arrivate in Europa, quei nigeriani non hanno cittadinanza, sono apolidi, e i loro figli con nomi greci non sono greci e non c’è nessuna legge per cui possano mai esserlo.
I due si arrabattano, il padre diventa il tuttofare del quartiere, la madre è un po’ domestica un po’ donna delle pulizie, i fratelli andranno a vendere merce contraffatta nei pressi dell’acropoli affollata di turisti. E poi c’è il basket, una cosa che in Grecia è trattata con rispetto, non solo dalle parti dell’olympiakos e del Panathinaikos, storicamente tra le due più forti squadre del Vecchio continente.
NEGLI ANNI 90 quei due lungagnoni di Thanasis e Giannis li trovi al campetto del Tritonas, a Sepolia, fino a tardi. Poi vanno a chiedere un bicchiere d’acqua al Kivotos Café. “Ogni volta, Yannis allunga ai ragazzi anche qualcosa da mangiare”. Sono altissimi e magrissimi. Quando Giannis farà le visite mediche a Milwaukee gli scoprono “un fegato provato dalla denutrizione, più vecchio dei suoi 18 anni”.
I due fratelli trovano una squadra in cui giocare. È il Filathlitikos, prima del loro arrivo mai salita oltre la terza serie greca. Filothei è un quartiere ricco, a nord della città. I due fratelli arrivano agli allenamenti a piedi da Sepolia e se fanno tardi dormono sui materassoni in palestra (non conviene se sei grosso e nero avviarti di notte al buio per quartieri in cui l’estrema destra di Alba Dorata inizia a far proseliti). A 16 anni questo 2 metri e spicci (diverranno 2,11 alla fine dello sviluppo), con leve lunghe e una falcata che taglia il campo in pochi passi, prende botte sotto canestro nella seconda serie greca. È un giocatore “nuovo”, uno di quelli nati col mito dell’nba, di un irregolare come Allen Iverson, una guardia che si butta dentro il pitturato col suo metro e 83 e ne esce con un canestro, un assist, un fallo, un’invenzione. Solo che Giannis è grosso, e i grossi nel basket degli anni 90 sono centri, vanno sotto canestro a usare gomiti e ginocchia. E nella seconda serie greca ci sono grossi gomiti e grossi volumi da fronteggiare. Insomma, a vederlo anche così “secco” nei video dell’epoca, si capisce che è fatto per l’nba. Nessun “lungo” di quell’epoca prenderebbe mai un rimbalzo in difesa per correre veloce palleggiando fino a schiacciare nel canestro avversario.
Come immaginerete la storia finisce, disneyanamente, bene. Giannis vince il titolo Nba con i Bucks nel 2020-2021 (è Mvp – il miglior giocatore – della serie finale) e nei due anni precedenti è Mvp della stagione regolare. Ma per arrivare là, sull’olimpo, anche solo per poter lasciare la Grecia per gli Stati Uniti ha bisogno di un documento. Ha bisogno che la Grecia, dove è nato, gli riconosca la cittadinanza. La federazione di pallacanestro preme, ma il primo ministro Antonis Samaras resiste. In una nazione in cui l’immigrazione è diventata scontro politico, perché dare la cittadinanza a questo “nigeriano” nato in Grecia? Il risultato è un accrocco: il 9 maggio 2013, Giannis e suo fratello Thanasis ricevono una “esenzione speciale” governativa. Solo loro due. Nasce ufficialmente il cognome Antetokounmpo.
la strana fa,miglia di Gaber e La strana famiglia (40 anni dopo) di dado come cambia la tv e la massa italiana
26.9.22
«Dal mare e dalla natura selvaggia arrivano le mie creature magiche» La storia di Enrico Mereu, scultore e unico abitante dell’Asinara
25.9.22
Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere., Il formaggio che costa 300 euro al chilo: dalla Valtellina un "pezzo della storia della montagna"., Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"., L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella
Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere
di Viola Giannoli
«Bevevo da 12 anni e bevevo male. Sulle Pagine gialle, quand’erano ancora cartacee e ti arrivavano a casa, ho trovato un trafiletto che parlava degli Alcolisti anonimi. C’era un indirizzo, l’ho ritagliato e messo via in un cassetto del comodino. L’ho guardato per anni, poi un giorno sono andata. C’erano una quarantina di persone assiepate in una stanzina piena di fumo, ho attraversato la nebbia, mi sono seduta e ho detto: “Ciao, sono Chiara, e ho un problema"». Erano gli anni Ottanta, Alcolisti anonimi era sbarcata da poco in Italia.
430 gruppi in Italia
Adesso, che la rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto compie cinquant’anni e si è ritrovata per un bilancio di questo primo mezzo secolo a Rimini, oggi è l’ultimo giorno di incontri, sono 430 i gruppi sparsi in tutta Italia e più di seimila le presenze fisse.
Ci s’incontra nei locali messi a disposizione dalle parrocchie o dai Comuni, si paga l’affitto con i contributi volontari dei partecipanti. Tutti alcolisti, non «ex alcolisti», né «persone con l’alcolismo», perché la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno. «L’unico requisito per entrare in un gruppo di Alcolisti anonimi è il desiderio di smettere di bere, ma il difficile non è quello, è continuare a non bere», sottolinea Eugenio, l’ultimo bicchiere venticinque anni fa.
Gli artisti salvati dal gruppo
Ai partecipanti non si chiedono nomi, cognomi, documenti. Chi racconta di far parte di un gruppo lo fa per libera scelta, come Tiziano Ferro che tra i «per fortuna» della sua vita ha messo l’incontro con gli Alcolisti anonimi. O Asia Argento che a giugno ha festeggiato un anno di sobrietà. Degli altri si sa la biografia che durante gli incontri decidono di narrare. E non c’è nemmeno un registro per sapere poi come a ognuno sia andata.
I coordinatori gestiscono gli interventi, ma non si è obbligati a raccontarsi, qui si viene e si resta perché si vuol restare. Non ci sono professionisti, non è un approccio sanitario bensì spirituale che passa anche attraverso la meditazione e la preghiera a un dio qualunque.
I 12 passi
E si basa su 12 passi, una sorta di progressione attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Si parte dall’accettazione di essere alcolisti, impotenti davanti alla bottiglia. Un giorno alla volta, un passo per volta, tenendosi lontano dal primo bicchiere per 24 ore. E poi per altre 24. E ancora e ancora. Fino a rompere l’isolamento, a ricostruire le relazioni sociali, a tornare attivi perché, spiegano, «sarebbe assurdo togliere l’alcol e non mettere altro dentro alla propria vita».
In questo cerchio di sconosciuti ci si riconosce, si parla la stessa lingua, fatta di solitudini e di fragilità. «Prima di arrivare qui chiunque di noi ha parlato con un’amica, un familiare, un prete: bevi un po’ meno, ti dicono. Ma uno non vuole smettere per tenere a bada le transaminasi, ma perché ha toccato il fondo», dice ancora Chiara. Ci si apre «perché scatta un’identificazione che altrove non c’è, perché nessuno giudica, perché qualcuno sta meglio e se ce l’ha fatta lui, che è come me, allora magari ce la faccio anche io».
L'alcolismo femminile
In origine di donne ce n’erano pochissime, «arrivavano quando erano alla frutta, portate di peso dai loro compagni. Poi anche loro sono uscite di casa, hanno capito che potevano chiedere aiuto e abbiamo scoperto la reale dimensione dell’alcolismo femminile», spiega Chiara. C’erano pure pochi giovani. «Io mi definisco un’alcolista col pedigree – continua lei – È l’alcol il mio grande amore. I ragazzi invece sono pluridipendenti. Entrano nei gruppi, fanno una pulizia veloce, escono. Ma poi ritornano».
In pandemia i gruppi virtuali
La pandemia non ha aiutato. «Ci siamo ritrovati su Zoom, sono nati gruppi solo virtuali, i più anziani ancora continuano a vedersi dallo schermo, altri hanno smesso e si riuniscono in presenza», dice Eugenio mostrando il logo, un triangolo con tre parole: unità, servizio, recupero. «È come uno sgabello a tre gambe, non sta in piedi con due: con il recupero e l’unità raggiungiamo insieme la sobrietà, con il servizio cerchiamo di aiutare gli altri, di trasmettere il nostro messaggio a chi soffre ancora».
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Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"
Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti" "Abbiamo subito due furti e il primo motivo per cui abbiamo deciso di diventare cashless è stata la sicurezza, dell'attività ma soprattutto di chi ci lavora". Vittorio Borgia è il titolare della catena Baunilla, che a Milano ha fatto molto parlare di sé per la scelta di non accettare più i contanti come metodo di pagamento. La sua idea ha diviso il pubblico dei social con commenti talvolta positivi e talvolta offensivi."C'è un diffuso senso di complottismo - racconta -, sono haters e terrappiattisti. Siamo passati dai no-vax ai no-pos". Si schierano invece con Borgia i clienti abituali della pasticceria, situata a pochi passi da piazza Gae Aulenti, in una delle parti più moderne della città. "Maggiore velocità nei pagamenti, approviamo", dicono due ragazzi che lavorano in un ufficio nei paraggi. Matteo Salvini, in un post, ha criticato la scelta. "Nell'era digitale - replica Borgia - non mi aspetto dichiarazioni simili". "Vado avanti con determinazione", conclude
di Andrea Lattanzi
Il formaggio che costa 300 euro al chilo: dalla Valtellina un "pezzo della storia della montagna"
L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella
In principio, l’hanno preso per matto. E chi era quell’uomo che saliva su una scala traballante e verniciava gli ulivi di bianco? Un artista, si è saputo dopo un po’. Poi uno ha fermato l’Ape al bordo del campo e si è fatto avanti. La volta dopo ci si è messo anche lui, a pittare gli alberi, e poi un altro si è offerto di portare l’acqua, mille litri per volta, e gratis. Uno di Copertino ha cominciato a potare, che è un mestiere difficile, arrampicandosi a piedi nudi sui tronchi, come si è sempre fatto da queste parti.
Il Campo dei Giganti
Land Art, ma a partecipazione popolare, e se anche i contadini del Salento non sanno esattamente che cos’è, di sicuro hanno un altissimo concetto del bello, essendo nati e cresciuti in cotanta bellezza, purtroppo morta o moritura a causa della Xylella. Un vero dolore, passare attraverso gli scheletri di migliaia e migliaia di alberi uccisi dal batterio, persino il turista più svagato non può non accorgersi di come il panorama del Salento sia cambiato per sempre, tragicamente. Poi Ulderico Tramacere, fotografo e artista di 47 anni, ha comprato il primo sacco di calce ed è andato da solo nel campo che oggi si chiama il Campo dei Giganti, il fondo di un amico, Simone Tarantino, agricoltore e tassidermista per musei, anche lui desolato di fronte all’uliveto semimorto, 50 piante ultracentenarie, seccate ma ancora in piedi, pochi i polloni ancora vivi. Altri defunti, eppure monumentali, censiti dalla Regione Puglia nel 2007, quando “ce li vendevamo alle ville del Nord e della Sardegna”, spiega Tramacere, perciò i tecnici li fotografarono e numerarono, guai a cercare di esportarli, “ma è arrivata la malattia, ed eccoci qui”.
Nel vento della sera, nella luce che cade veloce, ecco la parata emozionante dei giganti imbiancati, alcuni così grandi che non si riesce ad abbracciarli neanche in due, o in tre. “Questa è la campagna che ci ha dato vita e ombra, e amori”, tutti i vecchi del posto lo sanno. Prima del grande boom del turismo – “Salentu, sule mare e ientu”, c’era solo l’olio su cui campare, “e ognuno di questi alberi dava un camion di olive”. Oggi sono un peso, anche psicologico, e un problema. Cosa farne? Abbatterli, e non pensarci più. Qualcuno non va più nel podere, perché è troppo triste vedere che quella bellezza è finita, e li lascia lì in agonia. C’è chi gli dà fuoco, come in un grandioso rito primitivo, finale. O chi li pota, testardo, sperando in una cura che non arriva mai. E chi se li vende (a poco o niente) ai boscaioli, che giusto in questi giorni lavorano a segare e trasportare grandi carichi, la legna di ulivo si compra a 10-12 euro al quintale, tanta ce n’è.
Un grande cimitero monumentale
“E’ un grande cimitero monumentale”, dice Tramacere tra i Giganti, persi in una campagna dalle parti di Boncore, nella zona che si chiama Terra d’Arneo, terra rossa, e ribelle. “Il luogo esatto non lo abbiamo ancora reso noto perché vogliamo aprire il posto alle visite solo sarà finito il primo lotto di 50 alberi” (e già qualcuno interessato di arte e ambiente, con il passaparola, vaga tra le masserie, cercando il biancore lucente). Per ora, piccoli eventi e passeggiate su invito, chi c’è stato è rimasto meravigliato da questa nuova bellezza, “però non è solo una memoria funebre”, perché il progetto artistico prevede una cura - la calce che disinfetta, e prima, la potatura del secco – “ed è come stare con un anziano, che morirà, ma tu te ne prendi cura perché quella sua vita ha un grande valore”. E’ anche un’operazione di imbalsamatura, “li preserviamo per la memoria, pur sapendo che moriranno. Qualcuno getta nuovi polloni, ma noi sappiamo che questo non li salverà”.
Ci crede Tramacere, e la sua compagna Chiara Agagiù, e gli altri soci dell’impresa, che sono il potatore acrobatico e artistico Donato Nestola (uno che riconosce gli innesti), Loredana e Lillino, e Biagio, “l’uomo della calce, che sa usare il compressore ma sa che il pennello va meglio, dura di più”. E Cosimino Rolli, scultore del legno e agricoltore alle Fattizze, e “il signor Carlo, che 50 anni fa si è innamorato della sua futura moglie proprio in questo uliveto. Un grande oratore, ci aiuta nello sconforto con fichi, fichi d’India e birrette”. Ci crede anche la galleria Artscapy di Londra, che segue Tramacere nei suoi lavori, e altri che hanno comprato le mappe a tiratura limitata dell’opera, si “adotta” un albero e si contribuisce alla sua trasformazione artistica, come si capisce dalle pagine Facebook e Instagram “Il Campo dei Giganti”. Poi, si cercano altri finanziatori/benefattori, facendo bene attenzione a scansare operazioni di greenwashing. A ogni gigante sarà affiancata una pianta nuova, scelta tra le essenze locali. Più avanti, ogni albero sarà fotografato (bianco/nero), e nel frattempo Tramacere progetta di allargare l’opera ad altri cento alberi di un podere vicino, alla fine saranno 150 piante, “ricostruirò il Campo in maniera digitale, e chiunque potrà essere il tutore di un ulivo, garantendo che non vada perduto questo suo passato così ricco”. O prendere un pennello in mano, e giù calce, in questo gran vento.
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