29.9.22

VINCENZO CONTICELLO La beffa dello statoi all’eroe antipizzo

  • Storie  come  quella     di Vincenzo   ti  fanno cadere le braccia  e sono   all'origine dell'astensionismo  diventato endemico   come dimostrano  le  ultime  elezioni   nazionali   . Essa mi   porta   come  tutte le storie    simili a questa  elucubrazione  sega  mentale  : <<    a  che  combattere   se poi    ....  >>  .  Ma   : 1)  riascotando  la  canzone citata   .,  2)  rilegendo  la storia di vincenzo  e  dopo  questa lettura


  • la mia   domanda   e spazzatra  via  dal vento   e la strada    che  faccio  è quella giusta  


  •     da Oggi 
  • di Giulio Cavalli



  • Questa  è  la    storia    del  proprietario  dell'antica  focacceria   citata     da Mr    nella    canzone     che funge   da  colonna  sonora  del post   



    Io sono pronto a pagare il giusto. Basterebbe solo che al Ministero qualcuno lo voglia. Mi trattano come un evasore mentre l’Agenzia delle entrate ha trovato accordi con famosi milionari
    La sua famiglia aveva una Focacceria storica a Palermo. Nel 2007 denunciò i suoi estorsori. Lui finì sottoscorta e lo Stato, per aiutarlo, gli sospese il pagamento delle tasse. Dopo sei anni, però, le ha richieste tutte insieme e con gli interessi. (P.S. Adesso ha perso sia la protezione sia l’attività)


    Denunciare la mafia costa, in questo Paese l’abbiamo imparato sulla carne viva di Libero Grassi e dei tanti imprenditori che si sono ribellati al racket. Talvolta però il conto lo presenta lo Stato. Vincenzo Conticello, imprenditore palermitano, è suo malgrado diventato uno dei simboli della lotta al racket nel capoluogo siciliano. Proprietario con il fratello della storica “Antica focacceria San Francesco”, riconobbe i suoi estorsori il 18 settembre del 2007, in un’aula di tribunale, indicando davanti al pubblico ministero Francesco Del Bene, l’uomo che gli chiedeva il pizzo. «È quel signore lì, quello seduto e che ha accanto le stampelle», disse dritto Conticello, puntando uno degli affiliati del clan della Kalsa. Da quel giorno Vincenzo Conticello è diventato testimone di giustizia, protetto dallo Stato e simbolo  Non mi sono pentito di aver denunciato, ma sono rammaricato perché tutte le promesse delle istituzioni si vanificano della lotta alla mafia. Ma le cose non sono andate come avrebbero dovuto. «Non mi sono pentito di avere denunciato, questo no – racconta Conticello – ma sono rammaricato perché la mia denuncia ha esposto me (e non solo) in una situazione complicata e perché tutte le promesse che mi sono state fatte dalle istituzioni si vanificano mentre cambiano gli assetti politici, cambiano i magistrati e gli interlocutori».




    Dopo la denuncia Conticello e i suoi cari finiscono sotto scorta e, come stabilisce la legge, la sua attività gode della sospensione del pagamento delle imposte. Dopo 6 anni però, racconta Conticello, «mi hanno chiesto di pagare tutto insieme. Con in più interessi, more e accessori». La cifra è di fatto raddoppiata. «Io ho iniziato a fare le mie contestazioni – spiega Conticello – e nel frattempo l’Agenzia delle entrate ha pensato bene di fare un pignoramento cautelativo su tutti i proventi della mia società, compresi l’affitto di rami d’azienda e gli immobili». È un nuovo calvario, solo che questa volta non ci sono guappi armati a minacciare la serenità di Vincenzo, sono documenti dello Stato. «Sono passati 9 anni. In quei 9 anni io ho avanzato una serie di proposte. Ovviamente ero prontissimo a pagare il capitale non pagato ma da parte dello Stato nessuna mia proposta è mai stata presa in considerazione».

    Alla fine il debito accumulato è enorme, oltre 3 milioni di euro da pagare, mentre ormai le entrate erano azzerate. Intanto Feltrinelli, socia dell’Antica focacceria, decide di ricapitalizzare e così lo storico proprietario “eroe” viene spazzato via: «Non sono più il proprietario della Focacceria», spiega , «la nostra partecipazione è stata azzerata».

    E ora? Ora Vincenzo Conticello è impiegato dello Stato «a 1.500 euro al mese e pieno di debiti, dopo avere avuto oltre 200 dipendenti e un’attività florida». Nel dicembre 2018 gli viene tolta anche la scorta. «Era il periodo in cui Salvini tuonava contro le scorte “inutili” e evidentemente Conticello rientrava tra coloro che non meritavano protezione, a differenza dei molti politici che l’hanno mantenuta. Mi chiama un colonnello emi dice: “La volevo avvisare che il 18 la lasciamo in aeroporto e lì finisce il servizio”. Evidentemente non esiste più la mafia», nota Conticello con un’amarezza che non riesce a trattenere.

    L’ex imprenditore però ci tiene a precisare che non si tratta di una battaglia solo “sua” ma anche di tutti coloro che hanno ricevuto il beneficio della sospensione dei termini («per terremoto o per Covid»): «Io sono pronto a pagare il giusto. Basterebbe solo che qualcuno al ministero lo voglia. Ma devo pagare il “giusto”. Il dolore è che mi trattano come un evasore mentre l’Agenzia delle entrate ha trovato accordi con famosi evasori milionari». Ritiene di essere stato «un pupazzo da esporre, un eroe da sventolare». «Non è corretto che lo Stato spinga persone comuni a esporsi così. Dopo una denuncia dovrebbero essere loro a fare tutto ciò che serve», riflette.

    Vincenzo sta bene. «A prescindere dalle situazioni economiche», sospira. Stanno bene anche le persone che ha denunciato: sono già uscite dal carcere. « Ma io non ho paura. Se lo Stato mi ha tolto la scorta io mi fido dello Stato».

    Una cosa è certa: l’attività è persa e la mafia ne sarà felice. E intanto i governi che si susseguono invitano a “denunciare”.

    28.9.22

    Lo street artist che disegnò il bacio (profetico) traSalvini e DiMaio spiegaperchéchi sfregia i suoi murales (anche quelli su Carrà e Borsellino) gli fa un favore

    — foto di STEFANO G. PAVESI


    TV BOY

    Lo street artist che disegnò il bacio (profetico) traSalvini e DiMaio spiegaperchéchi sfregia i suoi murales (anche quelli su Carrà e Borsellino) gli fa un favore

    — foto di STEFANO G. PAVESI


    Chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta ribadendo l’importanza

    « Se c’è unmomento di incertezza i vecchi mostri riaffiorano. Come il nazismo, il fascismo e lepolitichedi odio versotutto ciò che è considerato diverso. Dipingerò di nuovo». Così lo street artist TvBoy, ovvero Salvatore Benintende, ha dato su Twitter la notizia che sullaRaffaella Carrà che aveva realizzato su un muro di Barcellona (dove l’artista vive dal 2004) era comparsa una svastica. «Tornerò a dipingerlo, non ci fermeranno», aveva scritto solopochi giorni prima, mostrando lo sfregio sul suo Paolo Borsellino nel quartierepalermitanodellaKalsa. «Lo sfregioè una sfida», ci dice. Lo incontriamo a Milano, poco distante dal luogo in cui lo guarderemo realizzare l’opera Rifiuti non riciclabili, contro l’odio (su oggi. it trovate il video).

    Ma perché fare una svastica sulla Carrà?

    «Lei in Spagna è amatissima per aver portato una ventata di libertà, anche sessuale, quando c’era ancoraladittatura franchista. Èunsimbolo, perquesto la attaccano. Era già successo, con un’altra Raffaella che avevo fatto lì, su cui qualcuno ha scritto “gay no”, “Aids no”. L’estrema destra colpisce i simboli della libertà. Primadi rifare– piùbelleepiùgrandi – le opere chemi sfregiano facciopassare unpo’di tempo. Infondo furti e danneggiamenti fannoparte dell’opera, se la consideri in divenire: chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta inconsapevolmenteribadendo l’importanzaestadimostrando che quei temi e quei simboli sono un bersaglio».

    Rifarà anche Paolo Borsellino più grande?

    «No, loaggiusterò. Hannosfregiato lo sguardo, che era il centro di quell’opera. Non è uno sfregio banale, ha un valore simbolico, come a volernegare il tipo di visione che aveva il giudice».

    InItaliaèdiventatofamosoperAmorpopuli,ilbacio tra Salvini e Di Maio, fatto quando ancora non avevanostrettol’accordonel2018. È unveggente?




    «Lo feci a mezzanotte del 22marzo 2018 e alle 7 del mattino dopo era nascosto da scatoloni, presidiato daCarabinieri, con laScientifica a fare i rilievi, prendere impronte… un teatrino. Ma così lo notarono tutti. Tutti presero a farmi domande di politicama ero solo un artista con un po’ di audacia e fortuna: Lega e Cinquestelle erano tra i partiti che avevano preso più voti, immaginai potessero allearsi in nome del populismo. L’ho buttata lì. Baci ne avevo già fatti: Trump e KimJong Un, Messi e Ronaldo…».

    Oltreai baci, dipingesanti, eroi... Comeli sceglie?

    «Attingo all’arte del passato, a lungo prevalentemente religiosa. Ma ora i nuovi idoli sono influencer, musicisti, calciatori, che “santifico” con una punta di ironia. Quando la Ferragni lanciò un’acqua costosissima col suomarchio, feci SantaChiara con quest’acqua “benedetta” e in braccio il bimbo

    appena nato: una specie di Madonna con bambino contemporanea. Lei non ha colto l’ironia, quell’opera cel’haincasa. Mavabenecosì, leoperesonosempre unpo’ omaggio e unpo’ sfottò. Gli eroi sono invece quelli che hanno lasciato cose buone nella società: Battiato, Falcone, Gino Strada...».

    Muri spagnoli e italiani parlano la stessa lingua?

    «All’inizio sceglievo i soggetti inbase al luogo. Ma i temi importantisonouniversali. SeammazzanoGeorge Floyd negli Stati Uniti posso disegnarlo come un angelo nero e la scritta Stop racism a Barcellona. Ci sono temi che prescindono dai luoghi. E poi Italia e Spagna sonomolto simili. Anche inSpagna crescono i partiti di destra e la sinistra è divisa».

    Nel “dialogo” tra le sueopere e le città incui sono ha colto un’escalation di intolleranza?

    «C’è un innalzamento del “nervosismo”, me ne accorsi proprio con Amor Populi. In quel periodo feci ancheunSalvini a PiazzaVenezia col braccioalzato, che chiamai La dittatura del selfie. Andarono a rimuoverloepreserolegeneralitàaunapersona solo perché aveva chiesto ilmotivo. Dicono che sonoun artista schierato, ma lemieopere sonopasquinate, attacchialpotere, tutto, anchequellodi sinistra. DisegnavoRenzicomeunozombiequandoeraancora Renzi... Certo, ho delle simpatie, e l’arte esprime la sensibilità di chi la fa, ma non vogliomica convincere la gente a cambiare le proprie idee con le mie opere. Cheparlanodicose- diritti, poveri, antimafia - di cui la sinistra parla sempremeno. Majakovskij diceva: “Non rinchiuderti, partito, nelle tue stanze. Restaamicodei ragazzidi strada”. Lasinistraquesta cosa non la sta facendo, è percepita come distante, per questo il consenso di Meloni cresce».

    L’arte non può cambiare il mondo ma può farlo dibattere. Chi mi odia non perde uno dei miei lavori

    La street art fa quindi una sorta di supplenza?

    «Quando ho iniziato ad avere seguito ho pensato che sarebbe stato giusto usare questa visibilità per accendere riflettori sutemi di cuinonsi parlasenon inmodo propagandistico. L’arte non può cambiare il mondo, ma può farlo dibattere. Come fa Banksy. Anche chimi odia non si perde unmio lavoro».

    Rispetto a Banksy, lei è molto più prolifico.

    «Sento un impulso. Siamo alla vigilia di un cambiamento: con le destre vincenti, è il momento per accendere riflettori su certi temi. Oggi Salvini, quando lo disegno, finge di stare al gioco, mamanda la Polizia a rimuoverlo. Meloni si disse intenerita a vedersi col profugo in braccio. Ma è così perché non stanno al governo. Quando torneranno al potere cambierannoatteggiamento. Le mie opere e il potere sono come il gatto col topo. Ci si rincorre».

    Chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta ribadendo l’importanza

    « Se c’è unmomento di incertezza i vecchi mostri riaffiorano. Come il nazismo, il fascismo e lepolitichedi odio versotutto ciò che è considerato diverso. Dipingerò di nuovo». Così lo street artist TvBoy, ovvero Salvatore Benintende, ha dato su Twitter la notizia che sullaRaffaella Carrà che aveva
    realizzato su un muro di Barcellona (dove l’artista vive dal 2004) era comparsa una svastica. «Tornerò a dipingerlo, non ci fermeranno», aveva scritto solopochi giorni prima, mostrando lo sfregio sul suo Paolo Borsellino nel quartierepalermitanodellaKalsa. «Lo sfregioè una sfida», ci dice. Lo incontriamo a Milano, poco distante dal luogo in cui lo guarderemo realizzare l’opera Rifiuti non riciclabili, contro l’odio (su oggi. it trovate il video). Ma perché fare una svastica sulla Carrà ?  «Lei in Spagna è amatissima per aver portato una ventata di libertà, anche sessuale, quando c’era ancoraladittatura franchista. Èunsimbolo, perquesto la attaccano. Era già successo, con un’altra Raffaella che avevo fatto lì, su cui qualcuno ha scritto “gay no”, “Aids no”. L’estrema destra colpisce i simboli della libertà. Primadi rifare– piùbelleepiùgrandi – le opere chemi sfregiano facciopassare unpo’di tempo. Infondo furti e danneggiamenti fannoparte dell’opera, se la consideri in divenire: chi fa una svastica su un simbolo di libertà ne sta inconsapevolmenteribadendo l’importanzaestadimostrando che quei temi e quei simboli sono un bersaglio».

    Rifarà anche Paolo Borsellino più grande?

    «No, loaggiusterò. Hannosfregiato lo sguardo, che era il centro di quell’opera. Non è uno sfregio banale, ha un valore simbolico, come a volernegare il tipo di visione che aveva il giudice».

    InItaliaèdiventatofamosoperAmorpopuli,ilbacio tra Salvini eDiMaio, fatto quando ancora non avevanostrettol’accordonel2018. È unveggente?

    «Lo feci a mezzanotte del 22marzo 2018 e alle 7 del mattino dopo era nascosto da scatoloni, presidiato daCarabinieri, con laScientifica a fare i rilievi, prendere impronte… un teatrino. Ma così lo notarono tutti. Tutti presero a farmi domande di politicama ero solo un artista con un po’ di audacia e fortuna: Lega e Cinquestelle erano tra i partiti che avevano preso più voti, immaginai potessero allearsi in nome del populismo. L’ho buttata lì. Baci ne avevo già fatti: Trump e KimJong Un, Messi e Ronaldo…».

    Oltreai baci, dipingesanti, eroi... Comeli sceglie?

    «Attingo all’arte del passato, a lungo prevalentemente religiosa. Ma ora i nuovi idoli sono influencer, musicisti, calciatori, che “santifico” con una punta di ironia. Quando la Ferragni lanciò un’acqua costosissima col suomarchio, feci Santa Chiara con quest’acqua “benedetta” e in braccio il bimbo

    appena nato: una specie di Madonna con bambino contemporanea. Lei non ha colto l’ironia, quell’opera cel’haincasa. Mavabenecosì, leoperesonosempre unpo’ omaggio e unpo’ sfottò. Gli eroi sono invece quelli che hanno lasciato cose buone nella società: Battiato, Falcone, Gino Strada...».

    Muri spagnoli e italiani parlano la stessa lingua?

    «All’inizio sceglievo i soggetti inbase al luogo. Ma i temi importantisonouniversali. Sea mmazzano George Floyd negli Stati Uniti posso disegnarlo come un angelo nero e la scritta Stop racism a Barcellona. Ci sono temi che prescindono dai luoghi. E poi Italia e Spagna sonomolto simili. Anche inSpagna crescono i partiti di destra e la sinistra è divisa».

    Nel “dialogo” tra le sueopere e le città incui sono ha colto un’escalation di intolleranza?

    «C’è un innalzamento del “nervosismo”, me ne accorsi proprio con Amor Populi. In quel periodo feci
    anche un Salvini a Piazza Venezia col braccio alzato, che chiamai La dittatura del selfie. Andarono a rimuoverloepreserolegeneralitàaunapersona solo perché aveva chiesto ilmotivo. Dicono che sonoun artista schierato, ma lemieopere sonopasquinate, attacchialpotere, tutto, anchequellodi sinistra. DisegnavoRenzicomeunozombiequandoeraancora Renzi... Certo, ho delle simpatie, e l’arte esprime la sensibilità di chi la fa, ma non vogliomica convincere la gente a cambiare le proprie idee con le mie opere. Cheparlanodicose- diritti, poveri, antimafia - di cui la sinistra parla sempremeno. Majakovskij diceva: “Non rinchiuderti, partito, nelle tue stanze. Restaamicodei ragazzidi strada”. Lasinistraquesta cosa non la sta facendo, è percepita come distante, per questo il consenso di Meloni cresce». L’arte non può cambiare il mondo ma può farlo dibattere. Chi mi odia non perde uno dei miei lavori 
    La street art fa quindi una sorta di supplenza?
    «Quando ho iniziato ad avere seguito ho pensato che sarebbe stato giusto usare questa visibilità per accendere riflettori sutemi di cuinonsi parlasenon inmodo propagandistico. L’arte non può cambiare il mondo, ma può farlo dibattere. Come fa Banksy. Anche chimi odia non si perde unmio lavoro».

    Rispetto a Banksy, lei è molto più prolifico.

    «Sento un impulso. Siamo alla vigilia di un cambiamento: con le destre vincenti, è il momento per accendere riflettori su certi temi. Oggi Salvini, quando lo disegno, finge di stare al gioco, mamanda la Polizia a rimuoverlo. Meloni si disse intenerita a vedersi col profugo in braccio. Ma è così perché non stanno al governo. Quando torneranno al potere cambierannoatteggiamento. Le mie opere e il potere sono come il gatto col topo. Ci si rincorre».

    Seconda riflessione post blocco facebook: I morti famosi. di Leonardo Spartaco Luxemburg Boscani

     Seconda riflessione post blocco facebook: I morti famosi.

    Semplicemente che sono nato e cresciuto in una famiglia di comunisti. Il più a destra era mio zio Piero , un ragazzo down che era democristiano e suo padre, Antoni Nigola , mio nonno , naturalmente, che era socialista. La mia famiglia mi ha

    insegnato una cosa, il rispetto anche per il nemico, per l' avversario soprattutto dinnanzi alla loro morte. Mi hanno insegnato loro e poi più avanti i miei compagni di lotta che la differenza tra noi e i fascisti e gli imperialisti o i militari golpisti, stava anche che questi brindavano alla morte del nemico come vittoria finale e noi comunisti e socialisti e anarchici al limite si brindava alla vittoria sul nemico e che inveire o insultare il cadavere del tuo nemico era barbarie, era populismo era rabbia "nazifascista" . Oggi leggere di compagni che brindano non al nemico da sconfiggere ma alla loro morte mi fa capire ancora di più che la sinistra che sta nascendo tra i likes dei social è peggio della peggior destra.

    la storia di Marco Menin che scopre suo padre Ennio fascista e torturare e deportatore di partigiani e chiede scusa a Ennio Trivellin fatto deportare da suo padre nei lager l'unico a tornarvi

     corriere  veneto del  22 settembre 2022 - 07:54

    LA STORIA

    Mio padre, spia dei fascisti: un segreto tenuto per tutta la vita
    Verona, a 64 anni il professore Marco Menin scopre per caso il ruolo del genitore che s’infiltrò tra i partigiani e rivelò i loro nomi alle camicie nere. Furono uccisi o deportati

                                  di Andrea Priante








    Marco Menin

    «Nel 2020 ero a casa, davanti al computer. Quasi per gioco, mi è venuta l’idea di provare a digitare il nome di mio padre sul motore di ricerca. È così che il suo segreto è venuto a galla. Su internet c’era tutto: i verbali, le testimonianze, le sentenze di condanna. A 64 anni ho scoperto che l’uomo che per tutta la vita avevo sempre considerato solo come un genitore, un marito e un nonno amorevole, in realtà era il responsabile delle torture, della deportazione e della morte di decine di persone».
    Come un film
    Sembra un film, di quelli che provano a raccontare le ferite della guerra e dei vagoni che da Bolzano portavano i prigionieri a Mauthausen. Invece a parlare è l’ex professore di Fisica di un istituto tecnico di Verona oggi in pensione, Marco Menin. Suo padre Sergio, classe 1921, è scomparso 25 anni fa. «E io gli sono stato vicino durante la malattia. Per giorni abbiamo parlato di tutto, mi ha raccontato cose che non sapevo. Eppure, perfino in punto di morte, mi ha nascosto la sua vera storia. È questa la cosa che più di tutte non riesco a perdonargli». In realtà le storie - quelle che per la prima volta accetta di raccontare a un giornale – sono due: c’è quella di un giovane fascista che durante la Seconda guerra mondiale si infiltrò tra i partigiani per poi condannarli a finire nei campi di concentramento, e quella di un figlio che quasi ottant’anni dopo scopre tutto e si ritrova a mettere in discussione le certezze che l’hanno sempre accompagnato.
    I racconti di guerra
    «Era capitato che papà mi parlasse della guerra. Di rado, a dire il vero, e anche quel poco era angosciante. Mi disse che a 18 anni fu arruolato nella Divisione Centauro, come autista, e poi trasferito sul fronte balcanico, come capocarro su un M13. Mi narrava pure del suo ritorno a casa, dopo l’8 settembre del ‘43, come fosse una scampagnata: alla guida del suo carro armato attraversò Jugoslavia e Triveneto fino a parcheggiare il mezzo militare sulle Rigaste di San Zeno, a Verona». E dopo? «Nient’altro. I suoi aneddoti si interrompevano lì». Gli anni del dopoguerra furono quelli della ricostruzione. Sergio Menin – senza mai nascondere le sue inclinazioni per la Destra - aprì una concessionaria d’auto in pieno centro, poi un’azienda che si occupava dell’installazione e della manutenzione di ascensori. «Era un uomo “normale”, come tutti gli altri. Ricordo che lo vedevamo poco: partiva al mattino, quando io ancora dormivo, e tornava la sera tardi. Però era generoso, simpatico. Una volta donò il sangue salvando la vita a una mamma e alla sua bambina. Un brav’uomo, almeno questa è l’immagine che tutti avevano di lui».
    La verità
    Dai documenti rintracciati sul web, Marco Menin ha scoperto che dopo l’Armistizio suo padre – col nome di battaglia «Uccello» - entrò a far parte della divisione Pasubio. «Si tratta di una delle più nutrite brigate partigiane che, guidata dal comandante Giuseppe Marozin, combattè tra Vicenza e Verona» spiega il ricercatore Salvatore Passaro, autore di un approfondito studio («Don Carlo Simionato, il cappellano dei forti Veronesi», Cierre edizioni) sulla Resistenza veneta. «Nel settembre del ’44 un massiccio rastrellamento nazifascista, denominato “Operazione Timpano”, portò al suo annientamento e all’uccisione di decine di partigiani. Non è chiaro chi fece i loro nomi ai repubblichini, ma il sospetto è che Sergio Menin possa avere avuto un ruolo». È ciò che pensa anche Marco Menin: «Credo che già all’epoca mio padre fosse un infiltrato al soldo dell’Ufficio politico investigativo della Rsi».
    Le testimonianze
    La certezza, invece, riguarda i fatti successivi. Scampato agli scontri, il partigiano «Uccello» entrò a far parte del battaglione Montanari. E qui le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze e dei processi che seguirono (e che portarono a tre condanne a morte nei confronti di Sergio Menin) non lasciano dubbi: «Papà fu arrestato dai fascisti assieme ad altri compagni di lotta. Pochi giorni dopo si ripresentò tra le fila partigiane, raccontando di essere riuscito a fuggire. In realtà aveva fornito ai repubblichini una cinquantina di nomi dei componenti del battaglione». I nazifascisti li catturarono, alcuni furono passati per le armi, altri deportati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero una manciata, e tra loro il veronese Ennio Trivellin, staffetta partigiana morto la scorsa settimana a 94 anni: ne aveva appena 16 quando su un carro bestiame fu trasferito a Mauthausen.

      ed  proprio a lui  che  Marco Meni  foiglio  di Sergio    chiederà  scusa



    Paola Dalli Cani  L'arena  22  \9\2022 

    Trivellin, testimone dei lager, morto a 94 anni e la lettera a L'Arena di Marco Menin

    LA RIVELAZIONE ALLE ESEQUIE DEL PARTIGIANO
    Trivellin, scuse ai funerali: «Papà ti fece deportare»
    Ennio venne arrestato e internato a Mauthausen: a tradirlo era stato Sergio Menin. Ora il figlio ha chiesto perdono: le sue parole lette al cimitero e pubblicate su L’Arena




    LEGGI ANCHE
    Un sedicenne nei lager La storia di Ennio Trivellin
    Addio a Ennio Trivellin, presidente dell'Aned sopravvissuto a Mauthausen




    «Con lui scompare l’ultimo veronese testimone diretto della deportazione, e oramai è necessario capire come noi, qui e oggi, possiamo dare continuità ad una memoria fondante per la nostra democrazia. Nella consapevolezza che era possibile fare la scelta giusta e quella sbagliata: dobbiamo rispettare le memorie di tutte le persone che hanno vissuto quella tragedia, ma senza dimenticare i crimini di chi ha scelto di riempire i vagoni che portavano ai lager».
    Il bisogno di chiedere scusa
    Su uno di quei vagoni ci era stato spinto anche Ennio Trivellin nell’ottobre del 1944, reo di aver messo i suoi sedici anni a servizio della Brigata Montanari. Ci era stato spinto su delazione, e del nome dell’uomo che si presentava come Uccello, Trivellin non aveva mai fatto segreto. A distanza di 78 anni, prima martedì al Cimitero monumentale di Verona e ieri con una semplice lettera pubblicata nello spazio dei lettori de L’Arena, Marco Menin, che di Uccello è il figlio, ha voluto pubblicamente rendere omaggio a quel ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, porgendogli pubblicamente «quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire».Personalmente lo aveva fatto due anni fa, scegliendo di presentarsi ad un uomo che non sapeva come affrontare ma dal quale era stato accolto «con un sorriso dolcissimo che porterò con me come uno dei ricordi più cari». Avrebbe potuto tacere, Marco Menin, avrebbe potuto ignorare la scoperta che lo aveva sconvolto: «Quel delatore aveva un nome che ho scoperto solo due anni fa: quello di mio padre Sergio, che quella guerra civile aveva scelto di combatterla dalla parte sbagliata della storia». C’erano state le fughe, c’erano stati i processi e poi le amnistie: tutto cancellato, tranne la memoria di Ennio, che da una quindicina di anni aveva accettato la sua condanna a ricordare e a tenere viva la memoria di ciò che era stato e di chi non era tornato, e, più tardi, quella di Marco Menin.
    La commemorazione
    Così, dopo la celebrazione composta in cui Ennio Trivellin, da presidente dell’Associazione nazionale degli ex deportati di Verona, è stato salutato tra le arcate della chiesa di Santo Stefano, la commemorazione spostatasi al camposanto è stata l’occasione per riannodare i fili: le parole di un figlio che si scusa nel nome del padre e quelle della nipote di un deportato che ha scelto l’impegno in prima persona (Tiziana Valpiana, nipote di Gracco Spaziani e vice presidente dell’Aned scaligera), tratteggiano le tante eredità di Ennio, l’ex studente, il partigiano Gervasio, il partigiano Nemo.
    Tanti studenti con l'urgenza di opporsi al fascismo
    Quanti nomi attorno ad un uomo che, raccontando, ha restituito a Verona la memoria di don Carlo Signorato e ha alimentato la fiamma della ricerca storica che ha permesso a studiosi nati trent’anni dopo la liberazione di restituirla a Francesco Chesta ed Eliseo Cobel del Galileo Ferraris, la sua stessa scuola, di Valentino Rosà e Lino Cirillo dello Scipione Maffei, Natale Mihel del Pindemonte Lorgna (ultimo superstite da anni trasferito a Stoccolma), Battista Ceriana del Messedaglia e ai tanti studenti che, come lui, scelsero l’impegno. «Celebriamo quel sedicenne consapevole dell’urgenza di opporsi al fascismo e contrastare l’invasione nazista, ma inconsapevole di quali orrori avrebbe visto», le parole di Valpiana, «una vita diventata testimonianza ed una grande eredità, immensa e terribile: raccogliere il testimone e continuare l’impegno contro l’oppressione, la dittatura, il razzismo e lo sfruttamento». 



    intervista a Benedetta Pallavidino autrice di le Tourbillon de la vie - il cinema di Valeria Bruni tedeschi ' edito da Bietti Edizioni nella collana digitale Fotogrammi .


    Benedetta Pallavidino ha scritto  le  Tourbillon   de la vie  - il cinema    di Valeria Bruni tedeschi   edito da Bietti Edizioni nella collana digitale Fotogrammi . Unn  piccolo ma grande libro interessantissimo sulla carriera di Valeria Bruni Tedeschi come regista, inoltre, all’interno c’è una bellissima intervista alla stessa Valeria… Ora  Conoscendo Benedetta, profondissima conoscitrice del cinema, è inutile aggiungere altro se non: correte a comprarlo a questo link: https://amzn.eu/d/cneJUou
    soprattuto   se  non conoscete questa  regista  Non ve ne pentirete! Un'ottima lettura, soprattutto se come me siete appassionati di cinema e del cinema di Valeria Bruni Tedeschi !  😉😀.
     Infatti, proprio per questo che ho deciso di farle un'intervista/chiaccherata che andasse al di là del suo ultimo lavoro

    come riesci a conciliare l'insegnamento sulle presentazioni e l'attività letteraria ed organizzativa incontri letterari  ?

    La verità è che se non lo facessi, sentirei di star mettendo da parte ciò che amo di più. La cultura e il suo grande valore, oltre che potere, è ciò in cui credo fermamente, sia come docente che come critico. Provare a fare e diffondere cultura è per me un piacere irrinunciabile, perciò provo a fare dei calendari - mentali soprattutto - che tengano tutto insieme. Vorrei, comunque, avere più tempo per scrivere

    come mai pubblichi libri dedicati solo ai registi o attori e non generale sul cinema italiano ?

    Non c'è una vera ragione. Quando affronti un singolo personaggio ti concentri su di lui e lo analizzi a 360 gradi, ma parlando di lui e del suo lavoro arrivi comunque a fare osservazioni più ampie sul cinema. Mi è successo con  [  altre     suoi  saggi  . N.t ] Lanthimos e anche con Cronenberg. Ho, in ogni caso, dei nuovi progetti che mi frullano in testa e che mi permetterebbero di focalizzarmi anche su altro.

    come si ci sente a d essere un eccellenza ?


    Da bambina, quale personaggio della fantasia e della letteratura hai amato in modo particolare ?
    Sarò banale: Jo March di 'Piccole donne', indipendente, libera e scrittrice. Però volevo anche somigliare a Romy Schneider, che non è di fantasia. Quando ho scoperto quanto fosse stata sfortunata, ho deciso che sarebbe solo stata il mio 'primo grande amore'.
    ed oggi ?
    C'è un personaggio di finzione in cui mi ritrovo molto: Frances Ha, protagonista dell'omonimo film di Noah Baumbach. Una quasi trentenne americana che in sé incarna il sentire di tutta la mia generazione, tra sogni e fallimenti, cadute, corse e qualche piccolo successo.

     in post  su facebook non ricordo quale purtroppo avevi scritto che le produzioni netflix e prime video dovrebbero essere escluse dagli oscar come mai questo astio visto che sei un amante ,  oltre a lavorarci ,del cinema e della tv ? 
    Non credo di averlo mai detto. Io non demonizzo le piattaforme, preferisco ovviamente la sala e la visione collettiva, ma le piattaforme hanno i loro pregi. Ad esempio veicolano la diffusione di prodotti indipendenti che altrimenti non avrebbero lunga vita. Credo, però, e questa potrebbe essere una critica, che la tendenza generale sia quella di produrre e distribuire opere di qualità discutibile che impigriscono lo sguardo dello spettatore invece di educarlo ad una percezione variegata.
     
    il cinema italiano negli ultimi 40 anni è sempre più mediocre o senza infamia e senza lode conconcordi ? 


    Restano i grandi autori ancora viventi (Bellocchio, Avati, Taviani ecc.) a cui si accostano altri nomi interessati (Garrone, Sorrentino, D'Innocenzo ecc) ma il cinema che per lo più viene prodotto non vuole scommettere e osare e i primi colpevoli sono i produttori. Le idee, il talento, l'innovazione ci sarebbero, il problema è che raramente si punta coraggiosamente su di essi.

    secondo te i reboot , i prequel , sequel , i remarque rovinano i cinema o sono fonte d'arricchimento ?
    Dipende che obiettivo ha l'operazione: cito tre casi in cui ci sono stati esiti più che eccellenti: 'Psycho', 'Funny Games' e 'Suspiria' . Sono casi a sé, in cui c'è un lavoro sul linguaggio, sulla filosofia dell'immagine e sulla narrazione. Se il remake o reboot deve essere solo un'operazione di marketing, allora è un fallimento quasi certo. Lo stesso discorso per sequela, prequel e spin off, si cavalca l'onda, certo, ma deve esserci anche la qualità e, perché no, la sperimentazione.

    concludo con un ultima domanda cos ne pensi di film che vengo trasformate in serie tv   per prime e netflix è un bene o un male ?

    Niente è un male se ci sono dei chiari intenti, una profondità e un ragionamento di fondo coerente con la trasposizione. Non ci sono film o serie necessari, ci sono adattamenti più o meno riusciti, più o meno aderenti al testo (filmico) di partenza, più o meno autoreferenziali e metalinguistici.

    27.9.22

    L’ODISSEA DEL GRECO GIANNIS Vita e miracoli del cestista di origini nigeriane Dalla miseria al titolo Nba

      da  il fatto  quotidiano del  27\9\2022
     La National Basket Association lo ha capito decenni fa. Se vuoi vendere un prodotto a tutto il mondo non basta mettere in campo gli atleti più forti in quello sport e far giocare loro sfiancanti partite ogni tre giorni tra stagione regolare e playoff. Va costruito un lavoro di storytelling. Tutto reale, beninteso, ma che sia condivisibile, di esempio in ogni angolo del mondo, vendibile dalla Cina all’europa. Da Bill Russell, nero a Boston fischiato dai suoi stessi spalti pur essendo quell’incredibile giocatore che era, alla complessa vicenda di Lewis Alcindor, nero pure lui, pacifista, che prese il nome islamico di Kareem Abdul Jabbar e portò il primo titolo della storia ai Bucks di Milwaukee. E ancora, la sfida tra Magic Johnson (Los Angeles Lakers) e Larry Bird (Boston Celtics) degli anni 80, i cattivissimi Pistons di Detroit che seguirono a quelle dinastie, il brand del “più forte di tutti i tempi” Michael Jordan, che negli anni Novanta diventa scarpe, maglie, addirittura figura stilizzata di un’icona con lui che schiaccia a una mano. Tutto si vende.

    LA STORIA di Giannis Antetokounmpo, nato ad Atene 28 anni fa da genitori nigeriani, per intenderci, è già un film Disney, Rise, in cui si racconta la storia dei quattro fratelli alti due metri che con sudore, lacrime, famiglia, un pallone da basket e un paio di scarpe in due (scena abbastanza drammatica quella che vede il maggiore, Thanasis, levarsi le scarpe per far entrare in campo il minore, Giannis), riescono a cavarsi dalla povertà e a giocare tutti in Nba. Storia disneyana, appunto.

    In Giannis Antetokounmpo, Odissea, edito da 66thand2nd, Andrea Cassini ci mette attorno la cronaca di quella storia. E la cronaca è più brutta, meno disneyana.

    Inizia a Sepolia, distretto operaio di Atene a forte immigrazione: albanesi, russi, europei, africani. Un’immigrazione di braccia, da lavoro nero (l’85% degli africani immigrati in Grecia è per le statistiche disoccupato), da comunità chiusa. Nel 1991 Charles e Veronica arrivano qui dalla Nigeria, dove hanno lasciato il primogenito Francis. Nascono in quegli anni Thanasis (1992), Giannis (1994), Kostas (1997), e Alex (2001), quattro nomi greci, ma senza un documento a poterlo testimoniare: non si sa nemmeno come si scrive, in greco, quel cognome “Adetokunbo”, che tiene assieme le radici adé, corona o maestà, e ti òkun bò, venuto dal mare.

    Come le altre braccia nere arrivate in Europa, quei nigeriani non hanno cittadinanza, sono apolidi, e i loro figli con nomi greci non sono greci e non c’è nessuna legge per cui possano mai esserlo.

    I due si arrabattano, il padre diventa il tuttofare del quartiere, la madre è un po’ domestica un po’ donna delle pulizie, i fratelli andranno a vendere merce contraffatta nei pressi dell’acropoli affollata di turisti. E poi c’è il basket, una cosa che in Grecia è trattata con rispetto, non solo dalle parti dell’olympiakos e del Panathinaikos, storicamente tra le due più forti squadre del Vecchio continente.

    NEGLI ANNI 90 quei due lungagnoni di Thanasis e Giannis li trovi al campetto del Tritonas, a Sepolia, fino a tardi. Poi vanno a chiedere un bicchiere d’acqua al Kivotos Café. “Ogni volta, Yannis allunga ai ragazzi anche qualcosa da mangiare”. Sono altissimi e magrissimi. Quando Giannis farà le visite mediche a Milwaukee gli scoprono “un fegato provato dalla denutrizione, più vecchio dei suoi 18 anni”.

    I due fratelli trovano una squadra in cui giocare. È il Filathlitikos, prima del loro arrivo mai salita oltre la terza serie greca. Filothei è un quartiere ricco, a nord della città. I due fratelli arrivano agli allenamenti a piedi da Sepolia e se fanno tardi dormono sui materassoni in palestra (non conviene se sei grosso e nero avviarti di notte al buio per quartieri in cui l’estrema destra di Alba Dorata inizia a far proseliti). A 16 anni questo 2 metri e spicci (diverranno 2,11 alla fine dello sviluppo), con leve lunghe e una falcata che taglia il campo in pochi passi, prende botte sotto canestro nella seconda serie greca. È un giocatore “nuovo”, uno di quelli nati col mito dell’nba, di un irregolare come Allen Iverson, una guardia che si butta dentro il pitturato col suo metro e 83 e ne esce con un canestro, un assist, un fallo, un’invenzione. Solo che Giannis è grosso, e i grossi nel basket degli anni 90 sono centri, vanno sotto canestro a usare gomiti e ginocchia. E nella seconda serie greca ci sono grossi gomiti e grossi volumi da fronteggiare. Insomma, a vederlo anche così “secco” nei video dell’epoca, si capisce che è fatto per l’nba. Nessun “lungo” di quell’epoca prenderebbe mai un rimbalzo in difesa per correre veloce palleggiando fino a schiacciare nel canestro avversario.

    Come immaginerete la storia finisce, disneyanamente, bene. Giannis vince il titolo Nba con i Bucks nel 2020-2021 (è Mvp – il miglior giocatore – della serie finale) e nei due anni precedenti è Mvp della stagione regolare. Ma per arrivare là, sull’olimpo, anche solo per poter lasciare la Grecia per gli Stati Uniti ha bisogno di un documento. Ha bisogno che la Grecia, dove è nato, gli riconosca la cittadinanza. La federazione di pallacanestro preme, ma il primo ministro Antonis Samaras resiste. In una nazione in cui l’immigrazione è diventata scontro politico, perché dare la cittadinanza a questo “nigeriano” nato in Grecia? Il risultato è un accrocco: il 9 maggio 2013, Giannis e suo fratello Thanasis ricevono una “esenzione speciale” governativa. Solo loro due. Nasce ufficialmente il cognome Antetokounmpo.

    la strana fa,miglia di Gaber e La strana famiglia (40 anni dopo) di dado come cambia la tv e la massa italiana






    26.9.22

    «Dal mare e dalla natura selvaggia arrivano le mie creature magiche» La storia di Enrico Mereu, scultore e unico abitante dell’Asinara

    da la nuova sardegna del 25\9\2022

     In quella che a tutti può sembrare una pietra insignificante, lui ci vede del preziosissimo materiale per scolpire le sue creature, a volte fantastiche, a volte ispirate alla natura. E da quei detriti di legno che il mare quotidianamente gli deposita sulla spiaggia sotto casa, lui riesce a realizzare opere stupefacenti. Così come fa plasmando con mazzetta e scalpello una gigantesca radice di olivastro recuperata per caso in campagna. Per esempio “L’esaltazione del creato”, capolavoro realizzato appositamente per il Giubileo del Duemila, dal quale prendono corpo, oltre a San Francesco, ben trentacinque animali: dal lupo ai cinghiali, dal serpente ai colombi. Sculture capaci di impressionare molti critici d’arte, ma che non hanno mai cambiato la personalità umile e gentile del loro autore, Enrico Mereu, 63 anni, ormai  noto come “Lo scultore dell’Asinara”, visto che da tempo è l’unico abitante dell’isola. Un paradiso che non ha più lasciato dal gennaio del 1980, quando vi si trasferì, a dirla tutta senza troppo entusiasmo, per fare l’agente di polizia penitenziaria. «Fu mio padre, quando ero pronto a partire per la leva militare, a convincermi a fare quel mestiere – racconta Mereu –, in fondo nella nostra numerosa famiglia uno stipendio fisso contava moltissimo. Ma pur avendo svolto il mio lavoro con estremo zelo, non mi sono mai appassionato, anzi. Poi, certo, all’Asinara mi è capitato anche di conoscere persone eccezionali come Falcone e Borselllino, che negli anni Ottanta passarono alcuni mesi sull’isola per istruire il maxiprocesso contro la mafia. 


    Ma il carcere è un ambiente triste sia per i detenuti sia per le guardie». E poi Enrico, sin da bambino – cioè da quando viveva a Nurri, paese al confine tra Barbagia e Ogliastra – aveva mostrato attitudini artistiche non comuni. «Avrò avuto al massimo sei anni – rivela lui stesso – e ricordo che per tre giorni mi presi una brutta influenza con febbre così alta che durante la notte avevo quasi delle allucinazioni: vedevo creature mostruose, animali, cose del genere. Fatto sta che una volta guarito mi venne voglia di riprodurre quelle visioni tanto particolari plasmando la creta o scolpendo le pietre. Diciamo che avevo questa dote: guardavo le pietre o il legno e nella mia mente mi appariva l’opera già finita. Furono i miei fratelli maggiori a procurarmi i materiali per muovere i primi passi da artista». I riconoscimenti e le prime soddisfazioni non tardarono ad arrivare. «Alle scuole medie – continua Enrico – un insegnante rimase incredulo davanti ad alcuni miei lavori e per sincerarsi che era tutta farina del mio sacco mi chiese di realizzarne uno durante la lezione. Ricordo ancora il suo stupore. Ma la vera svolta ci fu quando un professore acquistò una mia scultura in pietra che raffigurava un’aquila reale. Me la pagò la bellezza di 25mila lire, all’epoca una cifra considerevole. Tanto che davanti a tutti quei soldi persino mio padre, che da ufficiale giudiziario guadagnava 23mila al mese e che francamente non aveva mai visto di buon occhio la mia passione per la scultura, cominciò pian piano a cambiare idea e a puntare sul mio talento. Da un giorno all’altro iniziò a portarmi davanti a grandi pietre e a chiedermi: “Enri’, che cosa vedi? Ajò, dimmi che cosa vedi dentro questa pietra? “E io a rispondergli: “Babbo, ma così a comando non ce la faccio, deve essere una cosa spontanea». Negli ultimi anni Enrico Mereu ha allestito molte mostre personali e numerose sono le sue presenze a esposizioni collettive o a simposi, così come molteplici sono i riconoscimenti e i premi ricevuti. Le sue opere sono diventate parte di collezioni di grande prestigio, sia pubbliche che private, tanto che tra i luoghi che le ospitano ci sono il Quirinale, il Palazzo della Provincia di Sassari, il Palazzo Reale all’Asinara e nelle piazze principali di numerosi paesi. Tutto fatto senza mai   lasciare l’Asinara. «Ormai non potrei più andarmene – rivela – e anche d’inverno quando si svuota dei visitatori, riesco ad apprezzarne la bellezza, con gli animali che si avvicinano a casa. La solitudine è dura, ma a me piace»

    25.9.22

    Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere., Il formaggio che costa 300 euro al chilo: dalla Valtellina un "pezzo della storia della montagna"., Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"., L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella



    Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere
                                 di Viola Giannoli

    Si conclude il raduno a Rimini dei 430 gruppi per i 50 anni dell'associazione. Dal 1972 in Italia aiutano a smettere chi dipende dall’alcol. “Era considerato un vizio, ma è una malattia” .

    «Bevevo da 12 anni e bevevo male. Sulle Pagine gialle, quand’erano ancora cartacee e ti arrivavano a casa, ho trovato un trafiletto che parlava degli Alcolisti anonimi. C’era un indirizzo, l’ho ritagliato e messo via in un cassetto del comodino. L’ho guardato per anni, poi un giorno sono andata. C’erano una quarantina di persone assiepate in una stanzina piena di fumo, ho attraversato la nebbia, mi sono seduta e ho detto: “Ciao, sono Chiara, e ho un problema"». Erano gli anni Ottanta, Alcolisti anonimi era sbarcata da poco in Italia.

    430 gruppi in Italia

    Adesso, che la rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto compie cinquant’anni e si è ritrovata per un bilancio di questo primo mezzo secolo a Rimini, oggi è l’ultimo giorno di incontri, sono 430 i gruppi sparsi in tutta Italia e più di seimila le presenze fisse. 
    Ci s’incontra nei locali messi a disposizione dalle parrocchie o dai Comuni, si paga l’affitto con i contributi volontari dei partecipanti. Tutti alcolisti, non «ex alcolisti», né «persone con l’alcolismo», perché la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno. «L’unico requisito per entrare in un gruppo di Alcolisti anonimi è il desiderio di smettere di bere, ma il difficile non è quello, è continuare a non bere», sottolinea Eugenio, l’ultimo bicchiere venticinque anni fa. 

    Gli artisti salvati dal gruppo

    Ai partecipanti non si chiedono nomi, cognomi, documenti. Chi racconta di far parte di un gruppo lo fa per libera scelta, come Tiziano Ferro che tra i «per fortuna» della sua vita ha messo l’incontro con gli Alcolisti anonimi. O Asia Argento che a giugno ha festeggiato un anno di sobrietà. Degli altri si sa la biografia che durante gli incontri decidono di narrare. E non c’è nemmeno un registro per sapere poi come a ognuno sia andata. 
    I coordinatori gestiscono gli interventi, ma non si è obbligati a raccontarsi, qui si viene e si resta perché si vuol restare. Non ci sono professionisti, non è un approccio sanitario bensì spirituale che passa anche attraverso la meditazione e la preghiera a un dio qualunque.

    I 12 passi

    E si basa su 12 passi, una sorta di progressione attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Si parte dall’accettazione di essere alcolisti, impotenti davanti alla bottiglia. Un giorno alla volta, un passo per volta, tenendosi lontano dal primo bicchiere per 24 ore. E poi per altre 24. E ancora e ancora. Fino a rompere l’isolamento, a ricostruire le relazioni sociali, a tornare attivi perché, spiegano, «sarebbe assurdo togliere l’alcol e non mettere altro dentro alla propria vita». 
    In questo cerchio di sconosciuti ci si riconosce, si parla la stessa lingua, fatta di solitudini e di fragilità. «Prima di arrivare qui chiunque di noi ha parlato con un’amica, un familiare, un prete: bevi un po’ meno, ti dicono. Ma uno non vuole smettere per tenere a bada le transaminasi, ma perché ha toccato il fondo», dice ancora Chiara. Ci si apre «perché scatta un’identificazione che altrove non c’è, perché nessuno giudica, perché qualcuno sta meglio e se ce l’ha fatta lui, che è come me, allora magari ce la faccio anche io». 

    L'alcolismo femminile

    In origine di donne ce n’erano pochissime, «arrivavano quando erano alla frutta, portate di peso dai loro compagni. Poi anche loro sono uscite di casa, hanno capito che potevano chiedere aiuto e abbiamo scoperto la reale dimensione dell’alcolismo femminile», spiega Chiara. C’erano pure pochi giovani. «Io mi definisco un’alcolista col pedigree – continua lei – È l’alcol il mio grande amore. I ragazzi invece sono pluridipendenti. Entrano nei gruppi, fanno una pulizia veloce, escono. Ma poi ritornano». 

    In pandemia i gruppi virtuali

    La pandemia non ha aiutato. «Ci siamo ritrovati su Zoom, sono nati gruppi solo virtuali, i più anziani ancora continuano a vedersi dallo schermo, altri hanno smesso e si riuniscono in presenza», dice Eugenio mostrando il logo, un triangolo con tre parole: unità, servizio, recupero. «È come uno sgabello a tre gambe, non sta in piedi con due: con il recupero e l’unità raggiungiamo insieme la sobrietà, con il servizio cerchiamo di aiutare gli altri, di trasmettere il nostro messaggio a chi soffre ancora». 

     -------

    Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"

    Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti" "Abbiamo subito due furti e il primo motivo per cui abbiamo deciso di diventare cashless è stata la sicurezza, dell'attività ma soprattutto di chi ci lavora". Vittorio Borgia è il titolare della catena Baunilla, che a Milano ha fatto molto parlare di sé per la scelta di non accettare più i contanti come metodo di pagamento. La sua idea ha diviso il pubblico dei social con commenti talvolta positivi e talvolta offensivi.

    "C'è un diffuso senso di complottismo - racconta -, sono haters e terrappiattisti. Siamo passati dai no-vax ai no-pos". Si schierano invece con Borgia i clienti abituali della pasticceria, situata a pochi passi da piazza Gae Aulenti, in una delle parti più moderne della città. "Maggiore velocità nei pagamenti, approviamo", dicono due ragazzi che lavorano in un ufficio nei paraggi. Matteo Salvini, in un post, ha criticato la scelta. "Nell'era digitale - replica Borgia - non mi aspetto dichiarazioni simili". "Vado avanti con determinazione", conclude
     
                                  di Andrea Lattanzi

    ---------------

    Il formaggio che costa 300 euro al chilo: dalla Valtellina un "pezzo della storia della montagna"

    L’hanno chiamato Storico Ribelle, questo formaggio d'alpeggio che segue alla lettera gli antichi disciplinari e che si è ribellato al consorzio del Bitto, il celebre formaggio della Valtellina, oggi prodotto con il solo latte vaccino. "Il nostro è invece il bitto come si faceva una volta, con l’80% di latte vaccino e il 20% caprino, prende vita in alta montagna a latte crudo, è una produzione di nicchia che ha costi molto alti", raccontano i ragazzi del Presidio Storico Ribelle della Valtellina. Che al mercato di Terra Madre Salone del Gusto 2022, insieme alla loro storia, hanno portato anche qualcosa di molto prezioso, una forma del 2007, con 15 anni di invecchiamento, tantissimi per un formaggio, e un prezzo da record: 300 euro al chilo.

    "Ma non bisogna fermarsi alle apparenze, bisogna guardare il lavoro e il valore che ci sono dietro - continuano - È costoso, è vero, ma la politica del prezzo è l'unico modo che abbiamo per portare avanti una produzione che si basa su numeri piccolissimi. È come se fosse il Barolo dei formaggi. Selezionatissimo: una sola forma sulle mille che produciamo all'anno ha le caratteristiche per arrivare a stagionature del genere. Chi lo assaggia sa di avare in mano un pezzo di storia della montagna, così come le rocce o i boschi".
     
    Servizio di Giulia Destefanis

    .....

    L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella



    «Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

      corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...