Macchine da scrivere, vecchie radio analogiche, dischi e giradischi, telefoni a disco e telefonini anni Novanta-primi Duemila, macchine fotografiche a rullino e calcolatrici elettroniche: ad Assemini c’è una porta oltrepassata la quale si fa un salto indietro nel tempo. È l’uscio della pasticceria-caffetteria di via Sardegna. Il cliente non abituale entra ignaro, con il desiderio di assaporare un buon croissant e sorseggiare un cappuccino caldo. Non si aspetta certo di trovarsi di fronte una sorta di macchina del tempo, come nel film “Ritorno al futuro”. Ad aver creato questo artificio è stato il titolare del bar, il 49enne Emanuele Cani, nostalgico collezionista retrò di centinaia di oggetti, tutti rigorosamente funzionanti, legati alla comunicazione.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
25.3.25
Assemini. «Il mio bar è un viaggio nel tempo» In mostra oggetti che raccontano com’è cambiata la comunicazionee la tecnologia .,
ai complottisti che ancora insistono sul pontefice dalla dottoressa Chirurga vascolare e divulgatrice scientifica Alice Rotelli
A tal proposito, vorrei ricordare solo alcuni dei possibili effetti collaterali della rerapia corticosteroidea: ritenzione di sodio, ritenzione di liquidi che comporta edema (gonfiore) al viso ed alle estremità, aumento del peso corporeo, debolezza muscolare.Ecco spiegato il perché dell'aspetto più "paffuto" del pontefice. Nessuna sostituzione, nessun avatar, nessuna maschera in silicone, nessun sosia. Il papa è vivo, è stato curato ed è stato dimesso.Datevi una calmata, una buona volta. ... 'mbecilli.
Laura Cremaschi: «Le labbra? Non sono un capriccio. Da giovane mi hanno iniettato del silicone, oggi ne pago le conseguenze»
di solito critico gli influezer \ vip più noti quando fanno qualcosa che danneggi la collettività come il caso delle truffe per ora presunte c'è un processo in corso della Ferragni ma generalmente gli ingnoro tanto da non sapere , come in questo caso Laura Cremaschi , chi è o casa faccia . Ma qui ha ragione
«Le parole hanno un peso enorme, soprattutto quando colpiscono chi sta già affrontando le proprie battaglie personali», inizia così lo sfogo di Laura Cremaschi su Instagram. La modella, vittima dibodyshaming, ha deciso di dire basta. «Pensiamo prima di parlare o commentare: potremmo fare più male di quanto immaginiamo», continua.
Cosa ha detto
«'Che labbra che ha questa', 'Si è rovinata', 'Gli anni passano'. Senza alcuna sensibilità mi è stato detto tutto questo. Quando ero molto giovane ho fatto delle punturine alle labbra. Purtroppo non mi sono affidata alla persona giusta e mi è stato iniettato un materiale non riassorbile, probabilmente silicone», racconta. «Con il tempo si è spostato, si è modificato e oggi mi porto addosso le conseguenze. Non è un effetto voluto, non è un capriccio estetico recente, è qualcosa che fa parte di me da oltre 15 anni», continua.
«A me oggi non fa più male, ma se certi commenti arrivassero a qualcuno di più fragile? So bene cosa vuol dire avere addosso lo sguardo e il giudizio degli altri», dice. «Il punto non è l'aspetto, ma la leggerezza e la cattiveria con cui si parla degli altri senza sapere nulla della loro storia. Fa ancora più male quando quei commenti arrivano da donne, magari madri, che hanno figli e non si rendono conto dell'esempio che stanno dando».
«Se ci siamo sentiti sbagliati, non siamo noi il problema, non siamo noi a doverci vergognare. Noi siamo molto di più del nostro aspetto, siamo le nostre storie, i nostri percorsi, le nostre cicatrici e le nostre rinascite. Oggi io non nascondo i miei difetti perché sono parte di me e vado bene così», ha concluso.
che praticamente si ricollega alle dichiarazioni di Laura cremaschi .
cara Anpi e sìmili
24.3.25
Paolo, l'ex tossico con un figlio morto per droga dona un rene alla compagna sotto dialisi per la Granulomatosi di Wegenerm e le salva la vita: «La gente a cui voglio bene non deve più morire»
il Dio di papà Francesco di Daniela Tuscano
23.3.25
bestemmia si o bestemmia no ? Porto Torres- FC Alghero: giocatore espulso per una bestemmia L’arbitro l’ha sentita negli spogliatoi e ha mostrato il cartellino rosso ., e delle Multe a chi bestemmia. In Veneto l’idea di un barista sardo: «Funziona e i clienti apprezzano» L’iniziativa “educativa” di Daniele Muledda, originario di Oniferi, titolare di un locale a Castello di Godego
Torres contro l’Alghero, una sfida terminata con un pareggio nel campo comunale sintetico di viale delle Vigne. Una bestemmia contro «il mio Dio» che l’arbitro, Giovanni Elio Baldin di Olbia, avrebbe sentito pronunciare da uno dei giocatori dell’Alghero, mentre si trovava negli spogliatoi, locale comunicante con gli ambienti delle docce della squadra ospite. lo spogliatoio >> Ora bastava un richiamo se non è recidivo perchè sì è ver che ogni bestemmia è un'imprecazione, ma non tutte le imprecazioni sono bestemmie. Infatti Ci sono contesti dove la bestemmia è soggetta a conseguenze sociali o legali, come nel caso in questione . Infatti semre secondo il quotidiano : << La frase blasfema al termine della partita di calcio giocata in casa del Porto Torres contro l’Alghero, una sfida terminata con un pareggio nel campo comunale sintetico di viale delle Vigne. Una bestemmia contro «il mio Dio» che l’arbitro, Giovanni Elio Baldin di Olbia, avrebbe sentito pronunciare da uno dei giocatori dell’Alghero, mentre si trovava negli spogliatoi, locale comunicante con gli ambienti delle docce della squadra ospite.>>
L’imprecazione contro Dio sembrerebbe abbia violato le norme sportive che vietano ogni “espressione blasfema durante la gara”, così il direttore di gara ha chiesto immeditamente il nominativo del giocatore ritenuto responsabile dell’intemperanza verbale e, una volta identificato, non ha esitato a sventolare il rosso notificando l’espulsione a fine gara, come previsto dal regolamento. La decisone adesso passa al giudice sportivo che dovrà valutare se esistono le condizioni per un provvedimento disciplinare di squalifica , secondo me tropo severa ( bastava un richiamo ) in quanto la gara è già finita e a mio avvio si tratta di una semplice imprecazione più che di una bestemmia .
Luigi Barnaba Frigoli
Multe a chi bestemmia. In Veneto l’idea di un barista sardo: «Funziona e i clienti apprezzano»L’iniziativa “educativa” di Daniele Muledda, originario di Oniferi, titolare di un locale a Castello di Godego dove si gioca a carte e qualche volta si trascende
I clienti del bar si lasciano scappare qualche bestemmia di troppo. Allora, ecco lo stratagemma per richiamarli all’ordine: far pagare una multa simbolica a chi proprio non riesce a frenare la lingua.
L’idea è di Daniele Muledda, 53enne sardo (originario di Oniferi e per anni residente a Sant’Antioco), che dal 1997 gestisce con la moglie Michela il “Bar Sport” di Castello di Godego, in provincia diTreviso.
È proprio lui a spiegare a L’UnioneSarda.it come è nata l’iniziativa: «Di recente ha chiuso un bar nelle vicinanze, un locale dove si giocava a carte e dove gli avventori erano soliti esagerare con imprecazioni e bestemmie, come del resto succede un po’ dovunque. Clienti e giocatori hanno quindi iniziato a frequentare il nostro bar e, visto che troppo spesso si trascendeva con le parole, mia figlia Camilla ha pensato: “Perché non mettiamo una multa?”».
Detto, fatto. E così da qualche tempo sul bancone del bar di Daniele («Dove trasmettiamo anche le partite del Cagliari e quest’anno speriamo in bene») è comparso un vaso di vetro, dove chi “sgarra” dopo una giocata sbagliata del compagno o per sfogarsi contro la malasorte viene invitato a versare la sanzione: un euro per le piccole imprecazioni, due per quelle più pesanti, 5 euro per quelle particolarmente grevi e blasfeme.
Proteste? «In realtà no. Anzi: il sistema è stato accolto in maniera positiva, col sorriso, perché è un modo goliardico per invitare tutti a tenere un comportamento più rispettoso».
Non solo le cose sono migliorate, sottolinea Daniele, «ma anche chi non è solito imprecare ha iniziato a infilare monetine nel “vaso delle multe”, solo per solidarietà con la nostra iniziativa».
Quanto al denaro raccolto con questa originale operazione-decoro, i soldi raccolti potrebbero essere incamerati come mance oppure sarà possibile valutare di darli in beneficenza. «Anche se mia figlia – prosegue Muledda – scherzando dice: “Se va avanti così l’anno prossimo ci faremo le vacanze gratis. Ovviamente nella “nostra” Sardegna».
alla faccia dei complottisti influenzer e degli haters che lo volevano morto il papa e vivo e ritorna
Laico reggae (Tunnel 22/5/1994)
DIario di bordo 110 anno Ⅲ «Alla trap preferisco su mutetu» Luca Panna, giovane cantadori professionista: «Amo le tradizioni» ., Andrea e Chiara: «Noi, fratelli senza saperlo» Nati dalla stessa madre, si sono incontrati un anno fa: «Ora siamo inseparabili»
da l'unione sarda di oggi
La passione è scoppiata con un “trallallera”. Luca Panna 36 anni, cantava sul carro della festa di San Giovanni e da lì ha capito che la musica sarebbe stata la sua strada. Ma non il rap o la trap, bensì “su mutetu” e “sa cantada”, «perché io amo la Sardegna e il mio obiettivo è conservare e tramandare le tradizioni». Da allora Panna ne ha fatta di strada diventando il più giovane cantadoris professionista in città e vincendo, proprio con un mutetu scritto da lui, la prima edizione del Premio Città di Quartu, organizzato dall’Accademia della lingua sarda campidanese.
La passione
«Sono appassionato di cavalli e qualche anno fa, partecipando alla festa di San Giovanni, ho cantato i “trallallera” e mi sono sentito felice. Poco tempo dopo ho accompagnato un mio amico nella sala prove del cantautore Tonio Pani, dove c’erano altri cantadoris, tutti per lo più anziani, e quando ho sentito la metrica de su versu ho iniziato a cantare. Poi hanno cantato un mutetu longu e l’ho visto come una sfida, volevo fare quel tipo di componimento». Così Luca comincia a studiare, a lavorare sulla memoria e a diventare sempre più bravo. «All’inizio mi sentivo un po’ a disagio tra persone più esperte di me, ma piano piano mi sono inserito».
Le prime sfide
L’esordio è nel 2019 alla festa di Santa Maria a Quartu. «Con il versus semplice improvvisato». Il mutetu longu arriva dopo, «a Cagliari in piazza San Michele quando avevo 32 anni. Ero molto emozionato e ancora mi vengono i brividi se ci penso. Ero con Tonio Pani, Eliseo Vargiu e poi Simone Monni e Luigi Zuncheddu che sono giovani anche loro ma di Burcei. Avevo paura di salire sul palco, di andare in black out, mi tremavano le gambe». Dopo però diventa tutto più facile e arrivano le esibizioni in varie parti della Sardegna. «Su mutetu è improvvisazione costante. I miei versi sono quasi sempre dedicati alla Sardegna». Ma non mancano altri temi come quelli del rispetto per le donne, «ho parlato di una tela pittorica e delle rose perché le donne sono belle come quadri e vanno protette come le rose. Un rispetto che purtroppo sta venendo a mancare».
Le radici
Oggi Luca Panna, di professione tornitore e saldatore, canta ogni volta che può: «Ogni tanto mi chiedo chi me lo faccia fare, sono super timido e questo è un mestiere che richiede tanti sacrifici». Ma le radici non si possono recidere. «In casa dei nonni hanno sempre parlato in sardo e devo ammettere che leggendo vecchie cantade mi sto rendendo conto che il mio è già un sardo moderno che sto cercando di correggere. Sto recuperando termini che non si usano più e cerco di eliminare gli italianismi». E in casa ha già gli eredi. «Miei figli hanno 4 e 5 anni e già mi hanno fatto da contra, da coro. A loro cerco di tramandare l’importanza delle tradizioni».
Andrea e Chiara: «Noi, fratelli senza saperlo» Nati dalla stessa madre, si sono incontrati un anno fa: «Ora siamo inseparabili»
Casualità
Andrea ha 25 anni, è di Monserrato e studia Infermieristica. Tra turni di volontariato nel 118 e la passione per le moto, non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe scoperto di non essere figlio unico. Aveva 17 anni, fu sua madre a rivelarglielo, quasi per caso. «Tutto è nato da uno stupido discorso, le chiesi se mio padre avesse ancora i capelli, confermò e mi chiese se lo volessi vedere, le dissi di no. Poi mi disse di Chiara» racconta Andrea. Ci vollero sette anni prima che trovasse il coraggio di contattarla. «Avevo bisogno di risposte». Così, il primo maggio 2024, decise di scrivere a quella sconosciuta su Instagram: «Dovremmo essere figli dello stesso padre, se ti va ne possiamo parlare». L’attesa fu breve, dopo 40 minuti, la risposta arrivò: «Perché dovrei crederti?». Scetticismo, dubbi, paura di una verità troppo grande. Poi i pezzi iniziarono a combaciare: la famiglia di lei a Cagliari, la somiglianza fisica, ed infine il nome del padre.
La videochiamata
Il giorno dopo si guardarono negli occhi per la prima volta, attraverso lo schermo di un telefono. La videochiamata durò più di due ore. Tra sorrisi incerti, Andrea e Chiara smisero di essere due estranei. «Non è da me, ma ho nutrito dal primo istante una profonda fiducia. Sembrava ci conoscessimo da sempre», ricorda, ancora emozionato. Due vite parallele: «Siamo cresciuti con due madri lavoratrici, che si sono fatte il mazzo per darci una vita migliore» e due caratteri complementari, lui più riservato, lei più estroversa.
Il primo incontro
A ottobre, il primo incontro a Cagliari. «Chiara conosce bene la città, ogni estate va a trovare la nonna». Stavolta, però, c’era un motivo in più per tornare. «Abbiamo passato più tempo possibile insieme, adesso ci sentiamo quasi ogni giorno». Nella vita della ragazza incombe un’ombra pesante: una relazione tossica che si è trasformata in un incubo. Aveva 14 anni quando ha incontrato quello che credeva essere il primo amore. L’affetto si è presto tramutato in controllo, la gelosia in ossessione. Poi, il primo schiaffo. E da lì, il baratro. Per anni ha sopportato, intrappolata nella paura e nell’illusione che qualcosa potesse cambiare. Ma la violenza non si ferma da sola. A 22 anni, dopo un’aggressione brutale che l’ha mandata in ospedale, ha trovato la forza di denunciare. «Quando l’ho saputo erano passati due anni, mi sono sentito impotente» confessa Andrea. «Avrei voluto proteggerla, impedire che accadesse. Se ci fossimo conosciuti prima, avrei fatto di tutto. Forse è successo solo ora perché non eravamo ancora pronti».
Il futuro
Andrea e Chiara non sanno cosa riserverà loro il futuro, ma un sogno c’è: vivere più vicini. «Siamo molto impegnati, io con lo studio e il 118, lei con il lavoro. Ma troviamo sempre il tempo l’uno per l’altra. Sono il suo primo fan, anche a distanza».Un legame sospeso per anni, un passato da ricostruire e un futuro da scrivere insieme.
22.3.25
Sperare per vivere. Un grande convegno a Milano di Daniela Tuscano
Trascriviamo i passaggi fondamentali dello storico incontro «Il dialogo della speranza, Chiesa e Islam» organizzato dalla Fondazione Oasis il 22 marzo a Milano, nella chiesa del SS. Redentore. Ospite d'eccezione Mons. Paolo Martinelli, milanese, francescano, vicario apostolico per l'Arabia meridionale (Eau).
Bibliografia e sitografia
- P. Martinelli, «Venite e vedrete. La vita come vocazione», Bologna, EDB, 2024.
21.3.25
Le parole della moglie di Alessandro Fiori, medico di base morto di Covid«Il mio Sandro, dottore di tutti. Portate avanti il suo esempio»
Sassari
Ileana Daniela Truica («ma tutti mi chiamano Dana») va ogni giorno al cimitero di Usini e si ferma di fronte a una lapide. Quella di Alessandro Fiori. Medico di base e cardiologo morto nella notte tra 18 e 19 novembre, nel 2020. Aveva 63 anni, è una vittima del covid. Anche se non c’è più, l’idea di andare a trovare il suo «Sandro» la rincuora. Dana si affretta a elencare tutte le attenzioni che suo marito le dava.
idiozia e razzismo nei media italiani o pubblicità per per far parlare di se ? Il caso di Michelle comi nella trasmissione la zanzara
( dall'account Facebook di Soumaila Diawara )
Meglio aprire un libro o ... Oltre all’evidente idiozia, qui c’è una dose massiccia di razzismo, del tipo più becero e ignorante. Generalizzare su un intero continente attraverso stereotipi disgustosi non solo rivela una totale mancanza di cultura, ma denota anche un’intenzionale volontà di denigrare.L’Italia sta davvero toccando il fondo se questo è il livello del dibattito pubblico. Il paradosso è che chi si presenta come paladina del femminismo finisce per perpetuare gli stessi meccanismi di discriminazione e oppressione che afferma di combattere.Un libro aperto vale più di mille microfoni accesi nelle bocche degli stolti.
nel loro gioco provocatorio usato da Vip e pseudo vip per avere pubblicità gratuita e far parlare di se .
Fu il prof napoletano Vincenzo Mario Palmieri a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato
Per chi ha tempo e vuole saperne di più oltre all'introduzione , ai siti riportati a fine post , e all'articolo riportato integralmente dal IL FOGLIO in cui racconta in maniera più dettagliata la vicenda e sul fango gettatogli addosso per evitare che parlasse di ciò . Ringrazio il libro : C'era una volta in Italia gli anni sessanta di Enrico Deaglio per aver fatto conoscere tale storia
Per le storie d'oggi vi propongo la storia di prof. Vincenzo Mario Palmieri (nato a Brescia il 16.07.1899 e deceduto a Napoli il 23.12.1993) che fu docente di medicina legale presso l’ateneo napoletano dal 1940 al 1969 e sindaco di Napoli tra il 1962 ed il 1963. Il prof. Palmieri fu componente di quella che potremmo definire la prima commissione internazionale nominata per l’accertamento di crimini di
guerra durante la seconda guerra mondiale. “Vincenzo Mario Palmieri, il medico napoletano che smascherò la bugia di Katyn, viene ricordato in Polonia come un eroe”, attesta Alfonso Maffettone che è stato corrispondente dell’Ansa a Varsavia per sei anni, dal 1993 al 1999, e mantiene tuttora contatti in quel Paese… “Non solo contribuì con la sua perizia alla rivelazione di uno dei più grandi crimini di Stalin”, aggiunge il giornalista (che per l’agenzia di stampa internazionale ha lavorato anche da New York, Tokyo, Singapore), “ ma ebbe la forza, sottolineano i polacchi, di resistere alle persecuzioni e alle minacce degli agenti del servizio segreto russo (Nkvd e Kgb) che, sotto falsa identità, venivano a Napoli per farsi consegnare dal medico una dichiarazione con la smentita ufficiale dei suoi studi da cui emergeva la responsabilità dei sovietici del massacro di Katyn”. Palmieri era pedinato, minacciato, anche affinchè non fosse divulgata la sua testimonianza “scomoda”. Si parla della strage di 22mila ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyn, nei pressi della città di Smolensk (Russia) durante la seconda guerra mondiale. I cadaveri furono scoperti nel 1943 e, dopo uno scambio di accuse tra Russia e Germania sulle responsabilità dell’eccidio, si riuscì ad accertare la verità soltanto in seguito alle perizie di una commissione internazionale di scienziati indipendenti nella quale ebbe un ruolo determinante proprio il medico legale, docente della Federico II, Vincenzo Mario Palmieri appunto .
da il foglio
Upon all the living and the dead (J. Joyce)
Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.
Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte
Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.
Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni
C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.
Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini
Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.
https://www.simlaweb.it/crimini-guerra-katyn/
https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Mario_Palmieri
siti consultati
https://www.quotidianonapoli.it/notizie-in-primo-piano-della-citta-di-napoli-e-della-sua-provincia/e-considerato-un-eroe-in-polonia-quel-medico-napoletano-che-smaschero-la-bugia-di-katyn-due-testimonianze/
Fu un napoletano a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato | Il Foglio
e per finire il foglio di cui riporto integralmente l'articolo
Upon all the living and the dead (J. Joyce)
Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.
Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte
Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.
Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni
C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.
Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini
Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.
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