Lo stazzo tra passato e futuro da casa-azienda a villa di lusso
La trasformazione del territorio sarà il tema di un seminario itinerante in Gallura Focus sulle antiche abitazioni che oggi spesso diventano residenze con piscina
DI @MARCOBITTAU
La città-natura non è una chimera inarrivabile, piuttosto una pulsante realtà in divenire, punto di arrivo di un processo di trasformazione territoriale che guarda oltre la città e oltre la campagna per dettare le regole del “Riabitare il territorio”. Riflettendo sull’esperienza della civiltà degli stazzi nell’Alta Gallura – cosa erano e cosa sono diventati – l’argomento è l’oggetto di un importante convegno itinerante tra boschi, aziende, musei d’arte ed etnografici galluresi in programma dal 2 al 5 giugno a cura dell’Università di Sassari - Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica di Alghero. Il titolo è “Oltre la città e la campagna verso un’inedita città-natura: riabitare il territorio”, a cura di Lidia Decandia, da Calangianus, docente universitaria e fondatrice nel 2008 di Matrica, laboratorio di fermentazione urbana. La guida per decifrare il percorso dei territori in divenire è un prezioso saggio della stessa Lidia Decandia, appena pubblicato da Donzelli editore. Il titolo è appunto “Territori in trasformazione. Il caso dell’Alta Gallura” e si può anche dire che il seminario universitario itinerante è la naturale esternazione di quell’idea che porta alla città-natura. Perché proprio l’Alta Gallura è presto detto. Qui è nata e cresciuta la civiltà degli stazzi, microcosmo economico e sociale che nel corso del tempo ha subìto una progressiva trasformazione. La tradizionale abitazione-azienda di campagna, centro di un piccolo mondo antico, oggi è altra cosa: spesso è diventata un agriturismo o un ristorante, in qualche caso una nuova azienda agricola o artigiana che certo non dimentica la propria storia e cultura ma che sa guardare avanti, al futuro. In molti altri casi i vecchi stazzi sono diventati residenze di lusso, seconde case sospese tra mare e montagna, tra passato e presente, tra ambiguità e potenzialità. In questo caso il “riabitare il territorio” rischia di produrre il risultato – inconsapevole, probabilmente – di una nuova Costa Smeralda diffusa in un vasto territorio. Un luogo di esclusione e non certo di comunità. Una deriva commerciale e turistica. Un pericolo, forse, su cui è bene riflettere a cominciare dal seminario promosso dal Dipartimento di Architettura. Pericoli a parte, l’Alta Gallura con la sua civiltà degli stazzi resta un luogo ideale per studiare le trasformazioni del territorio, il suo divenire nel tempo e nell’anima. È una piccola area interna, inserita in un contesto ultra periferico (almeno, secondo le categorie della Strategia nazionale per le zone interne), “una delle aree meno illuminate del contesto nazionale, che si distende alle spalle del mondo delle luci della città costiera”. Con il seminario (e prima ancora con il saggio), di fronte a tanto materiale, Lidia Decandia raccoglie storie, progetti, osserva luoghi e forme di produzione. Indica dieci esempi di nuovi abitanti degli stazzi. Rileva i movimenti ora impercettibili ora tellurici provenienti dal sottosuolo della storia. Tesse e cuce, direbbe Maria Lai, dando forma a questa figura territoriale inedita: “una ossimorica città-natura in cui il già stato si unisce con l’adesso e in cui si intrecciano indissolubilmente città e campagna, natura e cultura”
Oltre i giochi "fisici " recenti e antichi vedere post sopra un altro gioco " manuale " sta ritornando in auge ed quello della Morra un giocotradizionale molto popolare in Italia, in particolare nelle regioni che si affacciano sul Mediterraneo.
la nuuova sardegna 30 MAGGIO 2022 DI MANOLO CATTARI
"Duos, tres, batoro": Sa Murra ritorna
La gara sta vivendo una nuova primavera non solo in Sardegna ma anche in Francia e Catalogna. Oggi è possibile sfidare un robot o giocarci con un'app
«Mio figlio giocando a Sa Murra è diventato molto più sicuro di sé ed estroverso» così Fabrizio Vella, fondatore dell’associazione “Sociu po su jocu de sa Murra” racconta con le parole della mamma di un giovane giocatore l’impatto del gioco su un bambino timido e introverso. Sa Murra. Duos, tres, batoro. Un gioco semplice ed essenziale, complesso e di strategia. Bandito e considerato proibito dal 1931, sta vivendo oggi più che mai una nuova primavera. Su Sòciu po su jocu de sa murra ha organizzato la prima manifestazione ufficiale nel ’98 trovando una soluzione d’intesa con la questura di Nuoro (evitando di inserire montepremi in danaro, istituendo un regolamento e affiancando alla figura tradizionale de su contadore, quella nuova dell’arbitro). L’intento principale era quello di sdoganare la morra e dargli la dignità che merita. Su “Campionau sardu de Sa Murra” questo il nome ufficiale della manifestazione. Tres, batoro, chimbe. Ma si sa, le cose semplici aprono le porte alla cura e alla bellezza dei dettagli. Così si inizia a scoprire che il gioco in realtà non è sopravvissuto solo in Sardegna, ma in tante comunità. Accomunate da una forte connessione rurale e a volte da minoranze culturali con un forte senso identitario. Così si gioca in Corsica, Contea di Nizza, nella Savoia francese, in Friuli, Aragona, Trentino, Catalogna e tanti altri luoghi. E in ogni realtà si portano avanti delle varianti locali. C’è chi la gioca più lentamente, chi da seduti, chi con più pause e chi senza. «La nostra spicca sicuramente per musicalità, possiede un ritmo particolare e una propria musicalità. Inoltre non si interrompe mai. A differenza delle altre nazioni» continua Vella. Insomma ci vuole ritmo, presenza di scena e forza nel prendersi il punto (Murrare in gergo tecnico), si intuisce il perché aiuti nel potenziare l’autostima dei praticanti. «Sa murra è uno sport con fisicità. Oltre alla teatralità, bisogna lavorare di braccia, gambe e anche la voce va allenata. Non c’è solo il fare di conto, per prendersi il punto bisogna avere una certa postura e poi recitare alcune formule verbali». Sese, sette, otto. Le varie esperienze oltre quella sarda, si iniziano a incontrare in alcune manifestazioni internazionali, in cui campioni delle diverse comunità si incontrano per “darsi battaglia” pronunciando l’ipotizzata somma delle dita ognuno nella propria lingua. Giocando rigorosamente 2 contro 2 con arbitro neutrale a custodire il processo di gioco. Questi meeting internazionali iniziano nel 2003 e siamo alle soglie del prossimo evento che si terrà a Bessans nella Savoia Francese dal 24 al 26 giugno. La delegazione sarda si sta organizzando per dare il suo massimo apporto all’evento e, magari, vincere il titolo di campione del Mediterraneo. Questo ed eventi futuri si potranno seguire sul sito murramondo.com. Sette, otto, noe. Un gioco fuori dal tempo, sembra che abbia origini nell’antico Egitto e si sia praticata nell’antica Roma col nome di micatio, e che duella con l’epoca attuale trovando nuovi modi di presentarsi e di farsi amare. È infatti possibile sfidare al gioco un robot “Gavina 2121” del prof. Antonello Zizi che ha sviluppato prima un algoritmo e poi un vero e proprio robot capace di giocare con avversari umani. Oppure è possibile giocarci con lo smartphone con l’app SaMurra sviluppata da Davide Onida. Sfidando altre persone connesse all’applicazione o Billybot, l’intelligenza artificiale del software. Un gioco senza tempo e senza bandiera che racconta della nostra cultura e delle nostre culture che a breve sarà raccontato in un museo ad hoc a Urzulei (dove tra l’altro si potrà sfidare anche Gavina 2121), progetto museale su cui proprio l’associazione “Sociu po su jocu de sa Murra” è in prima linea. Prossimi sviluppi, sfruttare il potenziale didattico del gioco nella scuola con progetti specifici. Rispetto a questo sono in corso studi delle Università di Sassari, di Cagliari e della Lawrence Technological University negli USA, a breve non bisognerà stupirsi se al rientro da scuola i nostri figli ci insegneranno un gioco che hanno imparato a scuola che già conosciamo. Murra.
Le troppe straordinarie “coincidenze” nella storia del professore laureato al posto del suo omonimo 28 MAGGIO 2022 - 14:14 di OPEN
Le coincidenze fanno parte della vita di tutti: pensi a una persona che non vedi da tanto tempo e un minuto dopo la incroci per strada, oppure vinci un viaggio a Tirana e scopri che la tua squadra del cuore giocherà proprio là la partita della stagione. Ma la vagonata di coincidenze grazie a cui il professor Sergio Barile, ordinario di economia e gestione delle imprese all’università La Sapienza di Roma, si è preso una seconda laurea in fisica supera qualsiasi immaginazione, e sarebbe troppo grossa per qualsiasi Guinness dei primati, oltre che improponibile per qualsiasi trattato di statistica. I fatti: Barile si è laureato in fisica un anno fa senza aver fatto un solo esame. Nessuno. Secondo la sua versione, lo ha potuto fare grazie a un qui pro quo della segreteria di quella facoltà, che lo aveva scambiato per un suo omonimo. Ciò è sembrato poco credibile perfino per i vertici della sua stessa università, tant’è che il professore è stato rinviato a giudizio per falso ideologico. La storia è finita sui giornali un paio di giorni fa, e il docente ha provato a spiegarsi incalzato da Daniele Autieri di Repubblica, così: “Lo scambio di persona è avvenuto non solo perché abbiamo lo stesso nome e perché siamo nati nello stesso giorno, ma il mio omonimo si è iscritto fuori corso nello stesso giorno in cui io mi sono iscritto al corso di laurea in Fisica. Non solo: proprio in quei mesi il cervellone della Sapienza è migrato da un sistema informatico a un altro. È una situazione kafkiana, capisce?”. Certo, kafkiana, se fosse vero. Ma è difficile da credere: nello stesso giorno del 2003 si sarebbero iscritti alla stessa facoltà di fisica della stessa università due omomimi, Sergio Barile, nati nello stesso giorno, aspetto non banale, perché a differenza delle altre matricole i due Barile non erano dei freschi maturati: i gemelli omonimi avevano 47 anni, essendo entrambi nati il 23 maggio del 1956. Il Barile che conosciamo aveva peraltro una certa dimestichezza con i meccanismi accademici, visto che proprio in quel fatidico 2003 sedeva, stando al suo curriculum, nella commissione Dottorati di Ricerca del Miur, Ministero dell’università. Nessuno quel giorno negli uffici di segreteria della facoltà si accorse di quell’incredibile serie di coincidenze, nonostante uno dei due gemelli diversi fosse già di casa nell’ateneo. Né poté accorgersene in seguito, visto che solo l’altro Barile, il fantasma, sostenne la mole di esami che poi avrebbe permesso al più autorevole omonimo di laurearsi al suo posto. Ecco, ora tutti si chiedono se davvero il professor Barile non si è reso conto, come lui sostiene, che ci fosse qualcosa di strano nel poter accedere all’esame di laurea senza aver passato un solo esame di fisica prima, e solo grazie al riscatto degli esami coincidenti con la sua lontana laurea in economia. Dice il prof.Barile che si tempi del lockdown c’era una tale confusione che tutto sembrava possibile. E sia. Ma noi ci chiediamo un’altra cosa: che fine ha fatto l’altro Sergio Barile? Perché alle soglie dei 50 anni si è fatto tutti quegli esami di fisica – non una passeggiata- per poi mollare tutto a beneficio del suo omonimo? E quegli esami sono stati fatti? E soprattutto: Sergio Barile 2, perché non si manifesta? E, insomma, esiste davvero?
proprio mentre finsco d'incollare l'articolo delle righe precedenti mi ritorna alla mente i primoi versi di l'italia dei cacchie di quest'altra news di qualche giorno fa
Roma, opera senza la laurea e lascia il paziente invalido. Si è finto medico lavorando per 15 anni in ospedale
Ha operato senza laurea in medicina e ha lasciato un paziente invalido. Non solo. Il falso falso medico ha lavorato all'ospedale San Giacomo di Roma per 15 anni. La notizia l'ha riportata il Messaggero in un articolo firmato da Michela Allegri.
Il finto medico, che si è autodenunciato ai carabinieri dopo un intervento finito male, è stato condannato a pagare parte del risarcimento al paziente e 128mila euro alla Asl Roma 1 per averla raggirata. L'episodio che ha smascherato l'impostore - riporta sempre il Messaggero - si riferisce ad un uomo che si era affidato alle sue cure: sottoposto ad una delicata operazione chirurgica per una frattura, ne è uscito con la mano paralizzata. A seguito della vicenda la compagnia assicuratrice ha svolto degli accertamenti e dopo l'autodenuncia, il falso dottore è finito in causa.L'impostore ai carabinieri ha raccontato di aver lavorato come ortopedico senza la laurea. I fatti risalgono al 2015. Il tribunale ha emesso sentenza di "colpa grave" all'imputato. Il falso medico infatti, come scrivono i giudici, agiva per guadagnare lo stipendio di medico ospedaliero, era consapevole che il suo operato abusivo avrebbe recato danni ai pazienti e se ne assumeva il rischio ogni volta che entrava in sala operatoria. Non hanno invece nessuna responsabilità i due componenti dell'equipe che erano con lui in sala operatoria durante l'intervento finito male.
ancheil fanatismo calcistico puo'essere l'antcamera del femminicidio o della violenza di genere ? questa storia sembra confermarlo
repubblica 22\5\2022
I due piccoli hanno protestato, disperati dal fatto che i compagni di scuola, tutti romanisti e laziali, li avrebbero presi in giro in maniera impietosa. La procura di Roma ha chiuso le indagini e l'uomo, 45enne, potrebbe essere rinviato a giudizio
Maltratta e vessa moglie e figli al punto di obbligare i suoi bambini di otto e sei anni a seguirlo dal barbiere e a farsi disegnare sulla nuca rasata lo stemma della Juve. I due piccoli hanno protestato, disperati dal fatto che i compagni di scuola, tutti romanisti e laziali, li avrebbero presi in giro in maniera impietosa. È solo l'ultimo di una lunga serie di episodi dei quali si è reso protagonista il padre, un 45enne romano che è stato denunciato dalla moglie per maltrattamenti in famiglia. Il blitz dal barbiere risale al 2021. Secondo la versione della moglie, che ha denunciato il marito, l'uomo non avrebbe accettato la fine della relazione e avrebbe iniziato a insultarla, a minacciarla, facendole degli appostamenti sotto casa fino a maltrattare anche i figli per farle pagare la decisone di aver interrotto il matrimonio. Il 45enne, ora indagato, sarebbe andato fuori di testa quando ha scoperto che la ex moglie, dopo la rottura, aveva iniziato un'altra relazione. Il "tatuaggio" della Juve sulla testa dei figli per la madre è stato troppo: un fatto grave, che ha causato ai piccoli non pochi problemi di relazione con i compagni di scuola, e che ha indotto la donna a denunciare il marito. Ora la procura di Roma ha chiuso le indagini e il 45enne potrebbe essere rinviato a giudizio.
La curiosità dei bambini non ha limiti, soprattutto quando si tratta d'indagare realtà molto distanti da loro. Per trasmettere la passione per i libri e per la lettura, sarebbe bellissimo se i bimbi, oltre a frequentare librerie e biblioteche con spazi a loro destinati e con libri di qualità, potessero incontrare, di tanto in tanto, chi quei libri li scrive e li illustra, chi li dà alla luce.Infatti La prima risposta che ho dato alla figlia ( ha 15 anni ) di mio cugino che incuriosita dall'ultimo numero di Dylan Dog ( copertina a sinistra ) che innesta sulla vicenda principale una riflessione metanarrativa sul concetto di idea e una sorta di seduta di analisi leggera e brillante sul lavoro dello scrittore e sui meccanismi della scrittura è : << Forse dalla primavera , dai bei sogni , dai fiori di pesco e di ciliegio , dalle passioni che ci avvolgono dall'amore che ci unisce dal sangue e dalla carne >>( AntoAngelo Liori ) . Ma in verità per parafrare , sucusatemi se mi ripeto , ma purtroppo per me è cosi ( sfido qualcuno\a a dimostrarmi il contrario ) , questa bellissima canzone
le storie siamo noi . Infatti è proprio dall’esplorazione del proprio Immaginario e del proprio Mondo Interiore, che ovviamente va sviluppato con il << potenziare le proprie risorse creative. I PERCORSI DI DNLS prevedono una pratica guidata dei processi creativi, che grazie alla mediazione di molteplici codici artistici favoriscono la scoperta e lo sviluppo del principio creativo proprio di ciascun essere umano e lo sviluppo di nuovi linguaggi e codici con cui esprimersi, per un miglioramento globale della consapevolezza di se stessi e delle abilità comunicative e relazionali.>> come fa il progetto di Pratiche Artistiche per il Benessere, che propone laboratori espressivi di DRAMMATERAPIA, TEATRO CREATIVO, STORYMAKING e ARTE. qui su Dove nascono le storie
Bisogna aspettare che l’ispirazione giunga a illuminarci la mente, come facevano i poeti romantici dell’800, oppure è meglio lanciarsi in esperimenti di scrittura automatica come i surrealisti? Dipende tutto dal subconscio? Calma, gente: forse per trovare una buona storia non è necessario fare troppe peripezie.
Per scatenare la fantasia può essere sufficiente esplorare il quartiere come se fossimo turisti appena atterrati da Saturno, fare quattro chiacchiere con il vicino di casa che ci sembra un po’ matto, masticare una Big Babol, o mettere sul giradischi un LP che non ascoltavamo da anni. In poche parole, dribblare l’abitudine e cambiare, anche di poco, l’angolazione da cui guardiamo il mondo. Ogni piccola cosa diventerà la miccia capace di far partire una storia, ogni giorno sarà un’avventura.
Dove nascono le storie? Nascono dal ventaglio del caso o del destino, sgorgano come acqua dalle sorgenti delle famiglie, sorgono come alberi svettanti dalle insidie della vita come afferma ques articolo : Dove nascono le storie (tantestorie.it) .
Oppure dai racconti inventati o mescolasti di realtà come faceva mio nonno paterno con me e mio fratello quando eravamo piccoli , come dimostra anche il libro di H.Kuresishi riportsto a sinistra ( vedi Da dove vengono le storie? di Hanif Kureishi - Cronache Letterarie ) Ogni essere umano ha un suo patrimonio di esperienza di vita e di immaginazione, una ricchezza di storie che non chiede altro che essere sprigionata e portata alla luce.
Scrivere significa ampliare queste potenzialità, allenare il vostro sguardo ad osservare il movimento della vita. “Le cose che accadono”, come diceva Virginia Woolf.
Le grandi storie ci emozionano e ci appassionano perché parlano di noi, dei nostri drammi, dei nostri conflitti. Siamo noi Raskolnikov e Madame Bovary, Shylock e il giovane Holden.
Come scrittori il vostro compito principale è restare attaccati alla vita, alla realtà quotidiana, che non è mai misera, ai nostri desideri, alle nostre paure.
Le storie nascono da questo costante esercizio di osservazione che non deve venire mai meno: lo scrittore è un uomo che si preoccupa degli altri uomini, del suo tempo e del suo destino, delle ingiustizie
che patisce e delle gioie che prova.
Ogni storia che ci è stata raccontata, in un fiato da nostra madre dai nostri nonni \e che ci ha parlato dei suoi ricordi della guerra, o di un amico prima di partire per un viaggio, è uno spunto per una
narrazione.L’unico modo che esiste per scrivere e raccontare una storia è alzarsi e cominciare a farlo.Ma anche la nostra stessa diversità ha una storia ed è contenitore di storie Alcune diventate patrimonio universale come L'illiade e l'Oddisea . Concordo con quest articolo di (ferrucciogianola.com) : << Come nascono le storie Ci sono cose che sono in grado di condizionarci la vita in maniera profonda. Magari per tutta la vita e non lo sappiamo neppure. A volte sono cose che riteniamo senza importanza e rimangono sepolte nell'inconscio, poi in determinate condizioni si risvegliano e ci si trova di colpo ad avere delle risposte a quesiti che prima di quel momento sembravano insormontabili. Magari anche riguardo a come nascono certe storie che scrivo. Difficilmente mi chiedo da dove vengono certe idee che metto nei miei racconti. Di solito parto da un'immagine e da esperienze del mio passato ben presenti nella mente o da un fatto che mi colpisce o che mi ha colpito. A volte magari da studi. Insomma le casistiche sono tante. Ci sono però alcuni racconti talmente fuori da questi schemi e dai contesti miei abituali che più di una volta mi sono domandato del perché li ho scritti e cosa, sopratutto, li ha ispirati. A volte tuttavia riesco a darmi una risposta... Un paio di settimane fa, per esempio, mi sono passati davanti agli occhi dei video musicali e tra questi c'era un video con una canzone delle Orme. Ricordo di come questa canzone mi
piacesse molto quando ero bambino, tanto che fu una delle prime che imparai gli accordi per la chitarra. Ma fondamentale è il testo di quella canzone, Felona. Dico fondamentale perché mi ha fatto capire, riascoltandola, che le sfere contenute nel mio racconto Buio all'alba che cadono dal cielo dopo un buio improvviso, sono molto simili alle sfere di luce del brano firmato da Aldo Tagliapietra, Antonio Pagliuca e Gian Piero Reverberi. Luci che hanno dato vita a un racconto fantastico e metafisico, magari un po' diverso dalla mia produzione ma che non mi sento di ripudiare proprio perché il punto di partenza di questa storia era situato nel profondo del mio inconscio, finalmente decifrato.Be' forse, qualche colpa ce l'ha pure il quadro di Nino di Mei che ho inserito.
che altro aggiungere se non che la storia siamo noi . sta a noi prendere i nostri pensieri , i nostri sogni e le nostre fantasia e fermarle o in uno scritto o in qualunque altra forma
Era un grande amore ma anche una relazione intellettuale. Il gatto Rossini, che Sergio Valentino, uno dei più valenti componenti del coro del San Carlo, portava ovunque con sè, in bicicletta, conosceva Napoli meglio degli umani e sapeva accompagnare il suo proprietario senza alcuna difficoltà. Rossini venne così chiamato nel momento del suo ritrovamento, piccolissimo, 8 anni fa: uno di quegli indiavolati micetti che hanno fatto nascere una categoria speciale di soccorritori degli animali, i
"motoristi" capaci come nessuno di far uscire i gatti dagli chassis dove si nascondono per paura quando si perdono o vengono abbandonati da qualche dissennato. Rossini si era infilato nel "motore" (che poi motore non è mai, ma ci siamo capiti) di un'auto, in onore del creatore del "Barbiere", anche perché di Figaro ce n'è uno famoso, quello del Pinocchio Disney. E da allora Valentino e quel piccolo tigratino dal pelo un po' più lungo del normale non si erano mai più separati. Il musicista ha con sè e assiste altri gatti, ma con quello aveva un rapporto particolare, di grande amicizia e condivisione, grazie alla sua intelligenza decisamente superiore. Valentino lo ringrazia per questo: "Per le passeggiate, i viaggi, la vita in due - scrive sul suo profilo Facebook al gattino che una trombosi ha portato via in un'età non avanzata - i giochi, la pazienza e anche le monellerie. Grazie per il sodalizio e le emozioni condivise con me e per aver saputo esprimere sempre i tuoi sentimenti e non aver mai finto". I suoi amici, quando hanno letto il dolore del corista, hanno scritto messaggi empatici e belli per confortarlo, ma un Rossini che va via non è cosa semplice per coloro che lascia. Mancherà anche alle strade e alle piazze di Napoli e a tutti quelli che avvicinavano Sergio per raccomandarsi, col solito eccesso di zelo dei "tutori" di gatti e cani: "Non lo porti così, è pericoloso!", e lui con pazienza e con il suo garbo rispondeva sempre che Rossini era un gatto con la valigia, che aveva imparato in poche mosse a fare il viaggiatore, sapeva aggrapparsi e stava comodo nel cestino della bicicletta, che non aveva mai voglia di scappare, non temeva nulla e anzi, muoversi per la città e oltre gli piaceva decisamente: perché privarlo di quella bella attività che gratificava entrambi?
Ex angelo del fango dona 10 milioni di dollari alla Syracuse di Firenze
di Ernesto Ferrara
Daniel D'Aniello, ex alunno della università, era stato tra i volontari durante l'alluvione del 1966
Nel 1966 fu un angelo del fango. Studiava alla Syracuse University ed era già innamorato di Firenze. Ha fatto una folgorante carriera imprenditoriale e oggi è uno dei 700 uomini più ricchi del pianeta. E ora ha deciso di restituire alla città in cui si è formato una parte del suo successo. Donando la bellezza di 10 milioni di euro alla "sua" Syracuse. Che storia, quella di Daniel D'Aniello. Famiglia italo americana, self made man, nel 1987 è stato tra i fondatori del Carlyle Group, un fondo d'investimento che oggi vanta un patrimonio complessivo di circa 203 miliardi di dollari. È stato un veterano del Vietnam, la sua "Wolf Trap Foundation", che si occupa di arte, è presieduta dalla first lady Jill Biden. Legatissimo a Firenze, dov'è già tornato tante volte, ora D'Aniello e sua moglie Gayle hanno deciso di donare una somma cospicua alla Syracuse. Obiettivo: sostenere il programma fiorentino dell'istituto dove studi negli anni '60, finanziando gli aggiornamenti necessari alle sue strutture di piazza Savonarola, rafforzando il curriculum e il gruppo docente e aumentando l'accesso alle esperienze internazionali per più studenti.
La sede in piazza Savonarola a Firenze della Syracuse University (cge)
Lo hanno annunciato ieri il sindaco Dario Nardella e l'assessora all'Università e ricerca Titta Meucci accanto alla console generale degli Stati Uniti a Firenze Ragini Gupta e al presidente dell'associazione degli atenei Usa Aacupi, Fabrizio Ricciardelli. "Una storia molto bella di amore per Firenze ma anche una conferma del valore delle migliaia di studenti che sono presenti nelle oltre 40 università americane in città: una presenza preziosa in grado di costruire legami che poi rimangono nel tempo. Dobbiamo essere capaci di valorizzare questo legame, facendo vivere questa comunità di studenti come parte della città e ampliando il panorama delle università da portare in città. Si parla tanto di fuga dei cervelli dall'Italia, Firenze vuole essere invece la prima città ad attrarre cervelli invece di farli scappare. Per ringraziare Daniel D'Aniello, abbiamo deciso che gli consegneremo le Chiavi della città non appena verrà a Firenze nel 2023" spiega il sindaco. La donazione - spiegano dalla Syracuse University Florence - amplierà notevolmente il finanziamento delle borse di studio agli studenti per i quali i programmi di studio all'estero sono stati fuori portata, inclusi studenti a basso reddito, studenti post-tradizionali e studenti veterani.
A Trieste oggetti e immagini raccolti per testimoniare l'orrore dei conflitti. Un progetto che va avanti dal 1941: lo avviò un soldato. Morto in modo misterioso qui la sua biografia e il perchè della sua strana morte . Il museo DIEGO DE HENRIQUEZ non è un museo "di guerra" comunemente inteso, ma il museo della società del Novecento in guerra con i suoi demoni e i suoi orrori, nel lungo e contrastato cammino verso una pace che si spera duratura.
Ed io che credevo che il cubo di rubix fose solo roba da nerd . Invece la storia di Carolina Guidetti di 22 anni che detiene il record italiano col celebre rompicapo: impiega meno di 10 secondi.
Tra gare e social, per lei è un'attività a tempo pieno
Il Parkour è un movimento rivoluzionario. Nel senso che rivoluziona il modo di pensare, di agire, di vivere gli spazi. Sia quelli esterni che quelli interni alla persona.Come ogni rivoluzione deve affrontare le sue battaglie:
- contro il riduzionismo scientifico
- contro la superficialità di chi fa solo finta di comprendere
- contro l'anacronistico approccio agonistico alle attività motorie e sportive
- contro il mito della prestazione come priorità assoluta, a discapito della Salute
- contro un sistema strutturato, scavato, barricato nelle nostre menti, che ci impedisce di osservare al valore educativo e sociale del Parkour. E che invece si ferma superficialmente a guardare alle tecniche.
Ricordate che quando osservate un praticante allenarsi per strada, esso sta compiendo una grande battaglia.
Ed è questo che Antonio "Shino" Calefato di Trani ( foito a sinistra presa dal suo facebok ) da oltre 10 anni insegna anche ai bambini lo sport che sfrutta gli spazi tra salti, arrampicate e sospensioni. Gestendo i propri limiti
Per più di 75 anni è stato rigorosamente a sinistra. Era così importante cucirlo sul cuore che in due occasioni – quando le divise non avevano né sponsor, né marchi, né nomi stampati – per non sloggiare lo stemma del club (anch’esso da inserire preferibilmente là dove si mette la mano sul cuore) si
trovarono soluzioni innovative: nel 1969 la Fiorentina, fresca del suo secondo titolo, cucì accanto al tricolore un giglio viola a mo’ di fiocco; il Torino, nel 1976, campione per la settima volta, il toro rampante granata ce lo volle impresso sopra come un tatuaggio. Fu la Lazio, dopo il secondo titolo vinto nel 2000, a spostarlo a destra, imitata l’anno dopo dai cugini della Roma (ma nelle stracittadine, si sa, è meglio non abusare dei titoli di parentela) l’anno seguente dopo il terzo trionfo. Sarà la Juventus (36 titoli), a metà anni 2000, a spostarlo a centro casacca. Ed è lì che lo si è visto più spesso negli ultimi 15-20 anni sulle maglie bianconere e su quelle nerazzurre dell’inter (19). Vedremo dove sceglierà di cucirlo l’anno prossimo il Milan, fresco campione d’italia per la diciannovesima volta nella sua storia. Ma dovunque sarà, il simbolo del cuore è sempre quello: lo scudetto
La storia del distintivo tricolore – un unicum europeo, fatta eccezione per il Portogallo – che la squadra
vincitrice del campionato di Serie A ha il diritto di cucirsi sulle maglie per il campionato successivo, ce la racconta oggi lo storico Marco Impiglia nel volume ampiamente illustrato e autoprodotto Il mio nome è scudetto (256 pagine in quadricromia, 150 copie numerate, lo si può richiedere scrivendo a marco.impiglia@gmail.com). L’origine dello scudetto è eminentemente politica. Fu infatti Gabriele D’annunzio a inventarlo nel 1920, durante l’occupazione di Fiume. Sulle maglie della squadra cittadina che in un’amichevole sfidò i militari, il “vate” fece cucire (e il volume presenta una preziosa documentazione fotografica) un distintivo tricolore verde-bianco-rosso, mondato dagli stemmi di casa Savoia, poiché quella di Fiume era un’autoproclamata Repubblica.Il passaggio al campionato italiano di calcio è breve. Nel 1924 la Figc concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi lo “scudetto” sulle maglie. L’onore toccò per primo al club allora più titolato d’italia, il Genoa.
Il Grifone, quell’anno campione per la nona volta, il 3 settembre 1924 (dopo un primo esordio in un match amichevole contro l’alessandria) scese in campo a Marassi contro la Cremonese col tricolore cucito sulle casacche rossoblù. Finì 3-0 per i padroni di casa, primo gol del mitico Renzo De Vecchi detto “il figlio di dio”. L’inizio di una storia che dura ancora oggi.
TUTTE LE SQUADRE scudettate sono belle, soprattutto quelle a cui capita o è capitato di rado: il Bologna di Bulgarelli, la Fiorentina di De Sisti e Chiarugi, la Lazio di Chinaglia, il Cagliari di Gigi Riva, il Torino di Pulici e Graziani, il Verona di Bagnoli, la Roma di Falcao e Di Bartolomei, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini e ancora la Lazio e la Roma di inizio anni 2000. Ma lo stesso, ovviamente, vale per i tre club più blasonati (Juventus, Inter e Milan) che in oltre 120 anni di storia si sono divisi 74 titoli in tre. Un solo club, pur avendo vinto sette campionati, non ha mai cucito lo scudetto sulle maglie: la gloriosa Pro Vercelli. Ai tempi di Fiume e di D’annunzio le bianche casacche dei pionieri piemontesi avevano infatti già vinto tutto. Un’altra, invece, ha diritto di esibire, sempre, una piccola coccarda che non è uno scudetto ma è tricolore: lo Spezia, vincitore del campionato di guerra Alta Italia del 1944, torneo mai riconosciuto dalla Figc, vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia, che – nonostante la leggenda – non era una squadra di dilettanti ma semplicemente di atleti (molti erano ex del Livorno che nel 1943 sfiorò lo scudetto) inquadrati nei Vigili del Fuoco per esentarli dal servizio militare nella Rsi, così come il Torino era “Torino-fiat” e la Juventus “Juventus-cisitalia”.
Ma c’è una squadra il cui binomio con il tricolore è indissolubile: il Grande Torino.
Nel 1924 la Figc Concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi il “triangolo” sulle maglie: sempre a sinistra, Lazio e Roma lo spostano a destra
Gli “Invincibili” di Valentino Mazzola vinsero cinque scudetti consecutivi, dal 1943 al 1949, e morirono tutti insieme sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. Dalle macerie del bimotore schiantatosi sul terrapieno della Basilica tanto cara ai torinesi, spuntarono subito le maglie granata scudettate, quelle che i ragazzi di Ferruccio Novo indossavano in ogni fotografia.E non è un caso che lo scudetto che ancora oggi si sfoggia sulle maglie dei campioni sia lo “scudetto Grande Torino”, che la Figc volle sulle maglie dei granata campioni nel 1942-43, dopo la forzata sosta bellica, già nel campionato 1945-46, ancora prima della proclamazione della Repubblica, così come lo conosciamo oggi, mondato (proprio come aveva voluto D’annunzio un quarto di secolo prima) da ogni simbolo sabaudo e, ovviamente, fascista, che negli anni 30 e primi anni 40 avevano sostituito lo scudetto tricolore sulle maglie dei campioni d’italia.
Il volume Io sono scudetto, non a caso, verrà presentato venerdì al museo del Grande Torino di Grugliasco. E non è un caso – per tornare al simbolo del cuore – se il Torino nel 1976 optò per uno scudetto “tatuato” con il toro rampante: forse fu per non confonderlo con quello degli “Invincibili”. Un dilemma – per sfortuna dei tifosi granata – che non si è più riproposto.
Oggi
Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO PAVESI
Nella cava, quando si spengono le macchine, sembra di essere dentro una cattedrale
Nel posto in cui lavora Annalena, la luce del sole non arriva mai. Per terra c’è un mare di fango pallido, d’inverno la temperatura scende sottozero e l’unico suono che rimbomba tra le pareti infinite è il fracasso dei macchinari. Ogni mattina alle 6.30 lei e i suoi 16 colleghi (tutti uomini) salgono a bordo del minivan che si arrampica fino a 1.526 metri d’altitudine, nel Parco nazionale dello Stelvio. Annalena comincia il turno che è ancora buio e ne esce 10 ore dopo, con la faccia bianca come una statua, senza sapere se fuori troverà bel tempo o due metri di neve. Annalena Tappeiner, 25 anni e un corpo da bambina infilato nella felpa doppia, fa la cavatrice nella cava di marmo di Lasa-Weißwasserbruch, in Alto Adige. Per quanto ne sa, è l’unica donna in Italia a fare questo mestiere. Ed è felice. «Qui dentro per me il tempo vola», dice, mentre regola il taglio di un blocco grande quanto un monolocale. «In mezzo a tutto questo bianco è un po’ come stare sulla Luna».
Che il suo futuro non sarebbe stato in ufficio o all’università, Annalena l’ha capito presto, alle medie. «Le ore inchiodata al banco per me erano una tortura. Per imparare io devo fare, non ascoltare». Per qualche anno ha lavorato come commessa in un panificio. Poi ha deciso che ne aveva abbastanza, di segale e di Alto Adige.
La sveglia all’alba. Il freddo. I blocchi di pietra da tagliare, grandi come case. I colleghi maschi dicevano che avrebbe retto tremesi. Ma lei è felice. «È come lavorare sulla Luna»
Del suo stipendio mette via tutto quello che può per comprarsi un container. «Vorrei sistemarlo inmezzo a un prato e vivere lì. Nel silenzio, tra le stelle»
Voleva andare lontano, «in un posto con almeno un oceano nel mezzo». Dall’Australia, dove ha fatto la ragazza alla pari, è tornata indietro con qualche tatuaggio e due certezze: primo, è inutile avere paura dei ragni, anche di quelli più grossi, «basta spostarli con un pezzo di carta». Secondo, per stare bene ha bisogno delle montagne. Le sue montagne. Rientrata a Lasa, ha frequentato per un paio d’anni la scuola professionale per scalpellini. «È una scuola famosa, per frequentarla arrivano anche dall’Englandia», spiega, nel suo italiano ruvido e sorridente. Nel frattempo, continuava a cercare un lavoro che non la chiudesse in una stanza. Un giorno si è offerta in una vetreria, ma l’hannomandata via in malo modo: mica è un lavoro da femmine, questo. Finché sua mamma non le ha mostrato un annuncio del Vinschger, il quotidiano locale. La Lasa marmo, che produce uno dei marmi più puri del mondo, il preferito dell’architetto Calatrava, cercava personale. «Al telefono mi hanno chiesto: lei è interessata al posto in amministrazione, giusto? Quando ho risposto che volevo andare in cava quasi non ci credevano». Al suo primo giorno di lavoro, gli altri operai hanno scommesso che non avrebbe retto tremesi. Un anno e mezzo dopo Annalena è ancora in galleria, col cappuccio della felpa infilato sotto il casco e gli occhi incollati alla pietra, ché qui se ti distrai rischi la pelle. I suoi colleghi ogni tanto la chiamano mädel, “ragazzina”, «ma mi aiutano e mi hanno insegnato tutto quello che so. È come avere 16 papà». Quando alle 5 del pomeriggio scende giù dalla montagna, per lei comincia un’altra giornata. Va ad arrampicare sul Martello, oppure si siede al pianoforte e suona «le canzoni tristi», quelle che la rilassano. E quando non c’è nessuno che l’ascolta, canta. «Anche nella cava, quando si spengono le macchine. Sembra di essere in una cattedrale». Di tutte le belle cose che fanno i suoi coetanei in città non le importa nulla: Annalena non beve alcol, usa i social controvoglia e la discoteca le fa venire il mal di testa. «Amo stare da sola e lavorare all’uncinetto, così posso pensare. Oppure chiacchierare davanti al camino con Romina, la mia coinquilina, mentre beviamo una tisana».
Dalla Val Venosta, spiega, i giovani scappano appena possono. La Svizzera è vicina e si guadagna il doppio, e a Vienna c’è una specie di colonia altoatesina. «Questa è una terra dura, c’è chi ti guarda storto se parli italiano, se sei gay. A me non pesa, perché penso che a essere chiusa è solo la testa di certa gente, mica la mia. Ad altri sì». Dello stipendio da cavatrice, che sfiora i 2 mila euro, mette da parte tutto quello che riesce. Il suo sogno è quello di comprarsi una casa. Anzi, un container. «Vorrei metterlo in mezzo a un prato e vivere lì». Il container può essere anche grigio, assicura, tanto lo riempirà di fiori. L’importante è che intorno ci sia silenzio, così può suonare quanto le pare. E che alzando lo sguardo, la sera, si vedano solo le stelle. «Per me, questa è la libertà».
Ottavo mese di gravidanza da un paio di giorni. Scelgo di prendere la 92 (è un autobus, per chi non fosse di Milano) per andare a fare una visita medica invece della macchina.
Nonostante tutto (ovvero:
* affollamento nelle ore di punta
* poche volte trovo posto seduta e aspetta e spera che la gente si alzi
* gli anziani che se sono seduta - ho una pancia relativamente piccola, lasciamogli il beneficio del dubbio - mi guardano male
* la gente viaggia senza mascherina anche se obbligatoria (ieri un tizio mi ha starnutito e tossito in faccia)
* gli autobus vetusti quanto l’asfalto della circonvalla che qui lo dico qui lo nego se non partorisci tra una frenata e una buca dissestata puoi ritenerti fortunata
* il biglietto del bus costa 2 euro anche per poche fermate, anche per una; il parcheggio - col benessere di arrivarci con l’aria condizionata - costa 2 euro. La spesa è uguale, ma l’ambiente ringrazia. E io all’ambiente ci tengo
Nonostante tutto, dicevo, in città scelgo di muovermi con i mezzi pubblici e questo farò finché potrò.
Arrivo a piedi alla fermata (zero pensiline, picchia il sole delle 14, fa caldo) e mi accorgo di essere senza contanti, ho solo il bancomat. E per fare un biglietto dal tabaccaio servono i contanti. È il 2022, w la tecnologia ma ok. Tra l’altro è l’unico rivenditore nell’arco di un chilometro circa. Impossibile raggiungerlo tra afa e panza, sono sveglia dalle 7.30 e ho appena controllato la pressione: è bassa.
Decido di fare il biglietto online, inviando un messaggio con scritto ATM al 48444. Due minuti dopo il bus passa, io salgo. Sale anche il controllore.
- biglietto prego
- ecco qua, le faccio vedere l’sms
- signorina vedo solo il suo invio al 48444 ma qui non c’è alcun biglietto di risposta. Doveva prima aspettare a terra che le arrivasse la conferma di aver ricevuto il biglietto, e solo dopo salire sul bus
- guardi, non so se nota: sono all’ottavo mese, ho un appuntamento medico, non c’era nemmeno una pensilina per ripararsi dal sole. Ho inviato l’sms come scritto sul sito di ATM e sono salita
- mi spiace ma finché non le arriva il biglietto in risposta al suo sms deve stare a terra e se non le arriva comprare il cartaceo, ecco una stazione dei treni, scenda e troverà le macchinette
E così è andata. Sono dovuta scendere, io e otto mesi di panza. Il caldo e l’afa. Il biglietto online non è mai arrivato (e già qui..). Sono entrata in stazione (due rampe di scale a piedi perché l’ascensore era rotto) e fare il biglietto cartaceo. Ovviamente non essendo una saetta ho perso la corsa successiva, e ho dovuto attendere al sole quella dopo.
Tutto bene, ho rispettato le regole e non chiedo sconti. Però mi domando per quale motivo in mezza Europa puoi fare agilmente i biglietti online (a Milano se non ho possibilità di scaricare app mi attacco) o a bordo del pullman (contactless, bancomat, contanti come già nelle metro), comprese altre città italiane, e nella modernissima civilissima avantisisma Milano no.
Ah, mentre vi scrivo davanti a me sul bus una donna mangia un gelato
È la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea In carcere da 30 anni, Giuseppe si laurea nelle aule della Facoltà: la tesi dal titolo “Gli abissi della pena”
Giuseppe Perrone da trent’anni in carcere, proprio nel giorno della strage di Capaci ottiene il permesso per discutere la sua tesi di laurea magistrale nel nostro Ateneo in Scienze della informazione, della comunicazione della editoria. È il momento della riconciliazione attraverso lo studio e la cultura. Questa è la parola chiave del lavoro di tesi.”. Così Fabio Pierangeli, associato di Letteratura italiana e Letteratura di viaggio contemporanea della Facoltà di Lettere a “Tor Vergata” ha raccontato la straordinaria storia di riscatto di un detenuto di Rebibbia che finalmente corona un sogno: la laurea. Giuseppe si laurea il 24 maggio alle ore 15 con una tesi di laurea magistrale in Editoria dal titolo “Gli abissi della pena. A partire da Primo Levi”. Ha studiato sodo mentre era in cella grazie al progetto di “Tor Vergata” “Università in carcere”. L’attività formativa predisposta dall’Ateneo di Roma “Tor Vergata” all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, da oltre un decennio, va oltre la sola presenza all’interno del carcere: rende accessibile alle persone recluse un’offerta formativa universitaria e necessariamente apre un dibattito su questioni di ordine sociale, che vanno oltre la didattica. Interrogativi sul diritto allo studio, e di conseguenza sul diritto al lavoro.
La sua seduta di laurea avverrà nella sede dell’ateneo romano. Giuseppe infatti ha eccezionalmente ottenuto il permesso di discutere la tesi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. È un evento importante per l’ateneo, da momento che è la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea presso l’università.
da repubblica
Roma, "Gli abissi di una pena": così il detenuto Giuseppe si è laureato a Tor Vergata
Si è laureato con 110 e lode presentando la tesi intitolata "Gli abissi di una pena a partire da Primo Levi". Giuseppe Perrone però non era uno studente come gli altri del corso di laurea magistrale in Editoria, Informazione e Comunicazione dell'Università Tor Vergata di Roma. Giuseppe infatti è attualmente detenuto al carcere di Rebibbia ma ha ottenuto un permesso speciale per discutere la tesi in facoltà in presenza. "E' una grande emozione perché è la prima volta che viene concesso un permesso del genere", ha commentato il relatore della tesi del laureando, il professore di Letteratura Italiana Fabio Pierangeli.
Presenti alla discussione di laurea anche la moglie e il figlio di Perrone. "E' la prima volta che lo rivedo di persona da due anni e mezzo, a causa del covid. Sono emozionatissima. Per lui è la coronazione di un sogno", ha spiegato la moglie Sonia Reale. "La cultura come forma di riscatto? Certamente - ha aggiunto -. Ma fin da subito, dall'arresto, ho visto un'altra persona. La sofferenza ti porta a capire la lontananza degli affetti e mancando tutto sei portato a scegliere il lato migliore delle cose".
A Repubblica denuncia: "Nel 2017 non è stato invitato, ma poi sono arrivate le scuse". E attacca: "La Fondazione Falcone gli ha mancato di rispetto"
24 MAGGIO 2022 ALLE 11:52
"Che il primo 23 maggio senza Alfonso Giordano non venga neanche ricordato, io non lo posso perdonare a nessuno”. C’è amarezza, se non rabbia nelle parole di Stefano Giordano, il figlio del giudice Alfonso, negli anni Ottanta l’unico magistrato ad accettare di presiedere la Corte d’assise del Maxiprocesso. Di fatto, l’uomo che ha messo la firma sulla condanna della Cupola di Cosa Nostra. Se n’è andato nel luglio scorso, a 91 anni “e io non riesco a capire come sia possibile che nessuno lo abbia ricordato né a me, né alla mia famiglia interessa a partecipare a fiere e passerelle, ma il lavoro di mio padre doveva essere ricordato” dice il figlio a Repubblica. Anche lui veste la toga, ma da avvocato che fra i suoi clienti annovera anche l’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada.
“Caro Papà, oggi nella fiera delle passerelle nessuno ti ha ricordato, né ha fatto il tuo nome. Nessuno della tua famiglia è stato invitato, come se il maxiprocesso si fosse fatto da solo" aveva scritto l’avvocato Giordano su facebook, condividendo la sua delusione sui social. Ma a Repubblica specifica “non è la prima volta che ci si dimentica di mio padre. Mi dispiace dirlo, ma per l’ennesima volta la Fondazione Falcone gli ha mancato di rispetto. Nel 2017 non era stato invitato alla manifestazione, ma al termine della giornata arrivò un comunicato di scuse che derubricava tutto a mero errore. Adesso sono obbligato a pensare che non sia così”. Del resto, spiega, “quell’anno, anche l’allora presidente del Senato, Pietro Grasso, quell’anno è a lungo intervenuto sul Maxi, senza mai citare mio padre nonostante davanti a lui scorressero le immagini dell’epoca”. E poi, aggiunge che anche i silenzi pesano. “Qualche mese fa, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Palermo aveva proposto al presidente della Corte d’Appello, Matteo Frasca, di intitolare l’aula bunker a mio padre. Ma nessuno ci ha mai risposto. Eppure il ruolo avuto da mio padre viene riconosciuto da tutti”
Ma come di solito tu sei molto puntuale , mi direte , ed in certi casi anticipi ma stavolta arrivi tardi . Vero , ma poiché , Gli anniversari soprattutto quelli come questi sono materia friabile e
delicata. Essenziali nella costruzione e disciplina della memoria, eppure, e insieme, permeabili al rischio di trasformare la ritualità del ricordo in un simulacro. A maggior ragione quello del cratere di Capaci e sulla devastazione di via D'Amelio, acme della stagione stragista di Cosa nostra e punto di svolta della nostra storia repubblicana. Infatti
da il fatto quotidiano del 22\5\2022
A essere sinceri fino alla brutalità, dobbiamo ammettere che le commemorazioni per le stragi del 1992-’93 sono un rito stanco, ripetitivo, vuoto, noioso, inconcludente. Perché allora dedicare quattro pagine speciali del Fatto al 30° anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? Perché forse, in questa Povera Patria, esiste ancora qualcuno che non lo trova inutile. Ma dev’essere un ben strano soggetto. Guardiamoci intorno. La Sicilia e Palermo stanno per tornare nelle grinfie di Dell’utri e Cuffaro. FI, fondata e guidata da un signore tuttora indagato come mandante delle stragi, è al governo senza che nessuno ricordi quell’agghiacciante indagine, neppure quando l’indagato è candidato dal centrodestra al Quirinale. I pochi pm rimasti a scavare nei rapporti fra mafia e politica, come Gratteri, vengono sistematicamente sabotati e scavalcati, mentre fanno carriera i normalizzatori. La Consulta smantella, con la complicità di governo e Parlamento, il 41-bis e l’ergastolo ostativo: le due armi che, insieme ai pentiti, ci hanno consentito di sapere quel poco che sappiamo sulle stragi. Da otto mesi si attende la motivazione della sentenza d’appello che assolve i colletti bianchi per la trattativa Stato-mafia. Tra un mese si voterà su un referendum per riportare i condannati nelle istituzioni; e si terranno Amministrative al buio, senza che l’antimafia indichi per tempo i candidati impresentabili. Eppure restiamo fra i pochi temerari a pensare che la memoria sia utile. Non per i piani alti del Potere, dediti alla più lurida restaurazione. Ma per quelli bassi: i cittadini che, non avendo nulla da chiedere, da guadagnare e da perdere dai poteri criminali, possono permettersi il lusso di conoscere e cercare la verità. La verità sulle stragi in parte la sappiamo e in parte la intuiamo da quello che non sappiamo. È una verità tridimensionale che si estende in profondità a uomini e apparati politico-istituzionali, anche se troppe sentenze e ricostruzioni la appiattiscono a storia di bassa macelleria criminale.
Io non avrei saputo dirlo meglio sia perchè ero , anche se ricordo benissimo il fatto di Capaci / come quello di Via d'Amelio ) e cosa stavo facendo quando appresi la notizia e vidi quelli immagini agghiaccianti , avevo 16 anni , della figura fi Giovanni Falcone ho solo ricordi non miei ma mediati da : giornali , tv , familiari . E poi come dimostra il link sopra è un caso ancora aperto