20.3.06

Senza titolo 1196

Accolgo l'invito di ripostare quella che è una voce di molti anni fa. E' ovvio che sono sempre io, ma i miei sono gli occhi e la voce del ricordo filtrato attraverso le illusioni e le disillusioni e gli errori più o meno consapevoli. Questo post non è che una delle tante pagine che seguono me stesso, ma anche dal mondo in cui sono nato e in cui vivo passando attraverso l'Italia del tempo. Per questo potrà anche sembrare venire da un altro mondo. Vedetelo come uno di quei tronchi che galleggiano dopo il mare in burrasca, dalla strana forma ed altrettanto strana provenienza. Ci sarà tempo per parlare di Trieste e del mondo dove mio nonno anarchico arrivò a fine '800, mio padre, fascista sconfitto arrivò nel 1946 e io nel 1950 dopo anni di collegio e di seminario. Grazie. Da www.kremablog.splinder.com


Fu un anno particolare, intanto il mio solito piede ritornava a fare i capricci. Madre natura mi aveva fatto un regalo al tempo della nascita e tornava a regalarmelo. Ci si abitua a tutto, anche a stringere i denti tutte le volte che appoggi un piede a terra finchè la fistola si apre spurga un po' e puoi camminare tranquillo e disinvolto. Certo ogni tanto pensi che attorno a te qualcuno avverta quello strano sentore vagamente ospedaliero, ma forse è solo una tua impressione e poi mica devi far vedere a tutti come stai.


Ormai era diventata una abitudine due volte al mese dal medico dell'INAM, complimenti fra mia madre, appena quarantenne, e un fusto di infermiere da ortopedia e io rinviato al prossimo round in attesa di miracoli.


La fine dell'anno scolastico, la solita, senza infamia e senza lode, un po' di sufficienze regalate (francese e latino), le altre in genere quasi guadagnate, filosofia e storia che facevano media così il brillante sette abbondante compensava la quasi sufficienza in storia della filosofia. Un unico tradizionale sette in architettura. Infatti, cambiato l'insegnante, in terza anche il programma era solo praticamente teorico con l'aggiunta di disegni a mano libera di particolari architettonici, apparentemente per valutare la buona conoscenza della teoria delle ombre.


Poi arrivò l'estate e, come sempre, la casa dei nonni, quella destinata ai due figli più grandi, a Maduno, isolata in mezzo all'ansa del Santerno che circondava tutto il podere.


Fu perciò un estate serena bruciata dal sole e da una attività fisica corale e nello stesso tempo autonoma, perchè mentre tutti dovevano decidere se si poteva raccogliere la pesca, se cioè il grado di maturazione era quello giusto, io caricavo le casse di frutta sul carretto, convincevo il somaro a muoversi, portavo le casse alla base, le accatastavo dentro all'ombra e via di nuovo nel campo.A fine giornata erano 800/1200 casse da 20/22 chili per un totale di circa 20000 chili ben pagate a 80 lire il chilo. Fate voi il conto e il finale lo moltiplicate per almeno 35 e avrete, in lire, il valore rapportato a oggi. Non male con tre raccolte alla settimana per due mesi e con manodopera pressochè tutta interna.


A settembre ritorno a casa, dopo due giorni un telegramma il nonno, il buon silenzioso FITA, l'uomo che mi aveva portato e ripreso in collegio e poi in seminario, che un paio di volte avevo impegnato in una rincorsa (lui di me) attorno la massiccia casa di via Lughese 35, era morto.


E tutto pacificamente, durante il breve riposo pomeridiano, mia nonna era andata per scuoterlo e svegliarlo girandosi sul fianco, ma quel gesto non aveva avuto risposta, almeno non la solita risposta degli oltre cinquant'anni di vita vissuta assieme.Non era molto che c'era stata la festa per le nozze d'oro, con tanto di benedizione in Chiesa, pranzo sull'aia con tutta la tribù intorno, compresa una delle nipotine in arrivo.


Mia madre, ovviamente partì e io, come tutti gli adolescenti, non compresi bene cosa era successo. O, almeno, lo capii solo l'estate successiva perchè non c'era più la sua presenza fisica. Non si vedeva più lì a capotavola allargata a qualcuno di noi con alle spalle l'enorme caminetto, non girava più attorno a casa a raccogliere le tracce del passaggio della "sua" cavalla con cui ancora, meno spesso, andava a Imola al mercato. Ormai al mercato ci andava regolarmente il figlio più grande, Arcangelo (mentre Primo era il secondogenito, ironia dei nomi), con il ciclomotore che aveva sostituito la bicicletta.


Non vedevo più quella figura abituale in cui la cintura, "e curzè", non teneva i pantaloni nel punto di vita, ma girava tutta attorno alla pancia, monumento alla dieta emiliano-romagnola, girando sul davanti poco sopra l'inguine. Non ho mai capito se era per non buttare vecchi pantaloni o perchè gli piacesse così. In fondo sotto la "capparèla", il mantello, nessuno vedeva cosa ci fosse. Ma, allora eravamo già nel 1954. Molte cose erano accadute.


Il pomeriggio tardi del 4 novembre, radio Trieste aveva dato notizia di un incidente alla stazione, la polizia civile aveva sciolto con violenza il corteo formatosi al ritorno da Redipuglia, e addirittura qualcuno aveva distrutto e calpestato una bandiera tricolore innalzata in testa al corteo.


Non era sconosciuta la politica filo-slava del governatore inglese della zona A, quella che comprendeva Trieste e poco altro, rientrava in un discorso molto ampio che, coltivando una politica favorevole a Tito allontanava il confine diretto con la Russia sovietica.


Fra Russia e Yugoslavia i rapporti erano freddissimi, Tito guidava una rete di stati "neutrali" comprendente anche alcuni stati ancorati al Commonwealth e quindi sotto la guida dell'Inghilterra come l'India, ma soprattutto Tito garantiva una qualche influenza inglese in Adriatico e una sudditanza anche economica dell'Italia. 


Non era una novità agli occhi degli storici, l'Italia andava bene nel Tirreno, così riduceva l'influenza francese e spagnola, ma non in Adriatico e da sempre la Gran Bretagna aveva manovrato nei Balcani in funzione anti Austria, Germania e Turchia. Il mondo è sempre quello, ma la Turchia, in un passato non così lontano era molto influente in Medio Oriente fino all'Egitto. E la Turchia, dopo la riforma laica di Ataturk, era sì ridotta quasi nei confini geografici, ma era bene stesse lontana dai Balcani e dai bacini petroliferi.


Ma queste sono considerazioni di grandi, a noi ragazzi, sia pure alla fine dell'adolescenza, quella notizia di radio Trieste fece svegliare l'attenzione. Il punto di incontro era, di solito, la parrocchia, attorno a Don Armando, ruvido ed efficiente cappellano. Il Parroco era un gentile signore perso nelle sue omelie quasi poetiche, Don Armando era un giovane uomo neanche trentenne che sapeva come gestirci. Io ero contento del mio ruolo di catechista e, a mia volta, di gestore dei ragazzini.


Non era l'aspetto religioso. rispettoso dei sacri principi, quello che mi piaceva, era fare il capobranco, con i ragazzini che mi ascoltavano e che mi portavo in giro, ad esempio a Muggia, dove la Diocesi aveva un punto di riferimento in riva al mare. Lì io salivo su una barchetta e a qualche decina di metri da riva manovravo parallelo alla linea di costa avanti e indietro così da garantirmi che nessuno corresse dei rischi al limite della profondità non a rischio. Sì. Mi piaceva. Ripensandoci sono stato un quasi decente prof., un quasi decente padre, finchè non li ho lasciati soli,  se contemporaneamente non dovessi essere anche un marito affettuoso. 


Ma non divaghiamo. In qualche foto dell'epoca ormai presente solo nei ricordi, magrissimo, quasi alto 1.80, nerissimo come un abissino pagaiavo felice, mentre le testoline dei miei aspiranti emergono dall'acqua. Partivamo al mattino e c'era, a mezzogiorno, il solito pranzo a base di pasta e fagioli. E i fagioli, come pochi sanno, sono più ricchi di proteine di una qualsiasi bistecca.


Torniamo a radio Trieste. La notizia c'era e ci trovammo in parrocchia. Alcuni dei miei coetanei frequentavano la Lega Nazionale e anche il MSI. Restammo a parlare fino a tardi, quasi mezzanotte, per organizzarci la mattina dopo ognuno nella propria scuola. Ci trovammo con il passa parola di chi aveva il telefono. A casa mia non c'era. Alle sette e mezzo ero già all'Oberdan, con nelle orecchie le parole, le sgridate di mia madre e le raccomandazioni.


Dall'Oberdan al Carli, la scuola dei ragionieri, per tenerli fuori di classe e poi il corteo in città. L'intervento di nuovo della polizia civile e, in particolare, del nucleo mobile, un particolare addestrato gruppo di origine e lingua slovena. Giovani e nerboruti, i componenti di quel nucleo,  nati  e cresciuti nei paesini attorno con tutto il rancore verso sti cazzoni di giovani della città. Normale rivalità fra contado e città, usata a proposito e sproposito dagli ufficiali inglesi. Come già detto non so se in questo blog o altrove, per la prima volta nella mia vita mi sentii colonizzato, uno dei tanti negri della storia e geografia inglese.


Quell'ufficiale magro ed elegante, quarant'anni ben portati nella sua divida e quel cappello con visiera, gli occhiali e quel bastoncino nero in mano, là, là, e ancora là- E là c'eravamo noi bianchi di colore da picchiare con i manganelli e i calci del fucile in piazza della Borsa, inseguiti perchè l'arrivo della Polizia aveva messo in fuga tutti i ragazzotti primini e noi, più grandi, sui 16/18 anni improvvisamente isolati di fronte all'arrivo deciso e prepotente, non avevamo altro scampo che verso gli stradelli di Cavana. Cavana, per chi non è triestino è un nome come tanti, ma è Rena vecia, la Trieste della piccola mala, dei casini e delle puttane dentro, tenute e mantenute dalla marchetta da 200 lire, due o tre euro di oggi per la corsa singola, 5 euro un servizio doppio per il marinaio di turno, mentre magari lei fumava una sigaretta o leggeva Grand Hotel.


Ma saranno informazione per dopo, a 18 anni compiuti.  Ora era una zona dove ulteriormente dispenderci e dove, all'uscita dei vicoli, verso il teatro romano o verso la salita a S.Giusto ci aspettava la Polizia. Alcuni fuggirono verso Ponterosso, verso la Chiesa in testa al Canale, S. Antonio, e lì proprio dentro alla Cattedrale la Polizia si ostinò a entrare e manganellare a sangue, con una decisione che poteva essere solo di origine politica precisa.


                                                              TRIESTE 1953Ma mi fermo qui. Il ricordo è doloroso fino alle lacrime. Scusate, sembra stia succedendo adesso. Ancora nelle orecchie l'eco delle urla, dei comandi secchi. Il richiamo delle nostre voci. i nostri inutili  ed eroici, VIVA TRIESTE, VIVA L'ITALIA.  Non ridete, oggi, era più di 50anni fa, era la nostra identità, come era la identìtà dei miei studenti di 15 anni dopo, nel '68, come del resto ho scritto nel post precedemte. Rinvio alle foto. Non credevo di reagire così. Scusatemi.   


La foto è davanti alla cattedrale, S.Antonio. Il mare o, meglio, il Canale, è alle spalle. Noi ormai eravamo nell'ultima linea di difesa prima di entrare nella sicurezza illusoria della Chiesa. Illusoria perchè la carica proseguì sistematica all'interno Si vede che in quel momento gli ufficiali inglesi non pensavano alle comuni origini cristiane, così di moda oggi.


 Eravamo puramente e semplicemente come tanti rompicoglioni delle colonie che complicavano la vita ai signori ufficiali e in una città dove non si erano aperti salotti per loro e sufficientemente civile perchè le uniche donne disponibili fossero quelle a pagamento del Casino di lusso in fondo al Viale, quello delle pasticcerie, dei tavolini, del passeggio e niente di più. E li vedevamo in fila ordinatissima uno dietro l'altro (in questo sì noi eravamo veramente italiani cioè disordinati) fuori dei due cinema esistenti in zona. Cinema solo per loro, inglesi e americani.   


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