Senza titolo 1200

in in questi giorni ho ricevuto   alcune email in cui mi dicono che   mi  dicono che la mia non  è vera identità  . Non riescendo a trovare  migliore risposta ed avendo  poco tempo  per  spiegarmi  in maniera non retorica   e   ripetitiva  . Faccio riferimento  ad uno dei più grandi scrittori sardi  .salvatore mannuzu  ( foto  a  destra  )  e  un suo  bellissimo  articolo  tratto   dalla  nuova sardegna del  23\3\2006 e   destinato al volume che raccoglierà gli atti d’un seminario tenuto nell’università di Cagliari il 3 dicembre 2005 sul tema dell’identità sarda


CHIACCHIERE E IDENTITÀ



Tradurre l’appartenenza in fare concreto mettendo da parte inutili ideologismi Bisogna farsene una ragione: «l’anima sarda» d’un tempo non c’è più e (magari ci dispiace) è un bene che non ci sia

Si chiamava cabude (da caput, evidentemente) il pupazzo di pane che ci regalavano per capodanno. E mio padre a pranzo lo rompeva sulla mia testa di primogenito: secondo il rito, per buon augurio. In realtà credo lo rompesse, o lo spezzasse, più che altro con le sue mani, coinvolgendomi appena: ero un bambino. Ero un bambino, allora: ma quello scherzo (non era solo uno scherzo) non me lo sono dimenticato. Come non mi sono dimenticato d’una miriade di cose con lo stesso senso, che poi m’hanno accompagnato tutta la vita. Si potesse segare il tronco di cui sono fatto, si troverebbero dentro i primi cerchi annuali i canti in Re o in Mi-e-la. Canti che ripetevano le domestiche di casa mentre facevano (setacciavano) la farina; canti d’una terribile, infinita malinconia: uscivano di notte da bettole mal illuminate dove io non entravo mai; o li intonavano pastori lontani e invisibili nella solitudine di campagne che forse nemmeno esistono più. - Tempo fa m’hanno dedicato dei festeggiamenti, come capita ai vecchi: e anche un lungo convegno un po’ funebre sui miei libri. E prima m’hanno domandato se desideravo aggiungere qualche nome e qualche titolo al novero dei relatori e delle relazioni; io ho chiesto che tra le relazioni ci fosse un Mi-e-la, cantato (mettiamo) da Elena Ledda. Non m’hanno capito e s’intende non ho osato insistere.
 Ma adesso voglio dire che la mia provvista di materiali identitari, se così ci garba chiamarli, non è esigua e vale quanto quella di chiunque. Solo che non mi è mai piaciuto viverci sopra di rendita: ritengo che non sia bello, che non sia utile, che non si deva. Sono sepolti, i miei materiali identitari, nel palmo di terra che m’appartiene, insieme a mille altri diversi; sono sepolti in quel palmo di terra, profondamente: e qualsiasi frutto esso dia, buono o cattivo, ne ha avuto nutrimento. Di più io non posso chiedere loro; né loro possono chiedere a me.
 Per il resto mi sono stancato di ripetere che - secondo me - tutto il nostro parlare d’identità è sintomo certo d’una nostra crisi d’identità; e che noi questa crisi l’affrontiamo nel peggiore dei modi, ignorandola e tentando di riempire il vuoto che lascia con le mistificazioni d’una insopportabile retorica. Mistificazioni che danno per esistente ciò che non esiste più; che fingono un mondo rozzamente semplice e integro in luogo del mondo complesso e frantumato dove tutti invece viviamo. E retorica aggravata da una assoluta mancanza di memoria (non potrebbe essere altrimenti): da una assoluta, bieca e colpevole mancanza di memoria.
 Sicché la prima cosa da fare (indicazione anche politica) per ristabilire qualche contatto con la realtà - cominciando a uscire da un nostro sogno mediocre - è recuperare un po’ di memoria: rinominare le cose per non perderle del tutto. Uno con i miei anni (parecchi) ha visto disfarsi un mondo, sarà pure inevitabile. Non del tutto inevitabile penso, se la disfatta (che ora è il nostro vero connottu) è questa: ma è andata così, la crisi d’identità di cui stiamo discorrendo ha come espressione più evidente il logorarsi e lo scomparire anche materiale delle cose.
 È giusto, allora, è indispensabile che queste cose almeno le repertiamo. È troppo tardi? Ci ricordiamo di chiudere la stalla quando i buoi sono fuggiti? È tardi, certo; e non pochi dei nostri buoi sono fuggiti e non li riprenderemo più. Ma è un ulteriore motivo per tenerci caro ciò che resta: che resta anche solo nella memoria. Ho detto dei canti a chitarra (meno fortunati dei canti a tenore). Musica che non si può scrivere, o che non basta scrivere: ma di quel che è stata esistono antiche registrazioni. Perché una istituzione culturale sarda (specializzata, s’intende) non le cerca e non le raccoglie, catalogandole, trasferendole in supporti non fragili, facendole studiare? E se una simile benemerita istituzione culturale non esiste, va rapidamente inventata e messa a girare.
 È solo un esempio: proposto per associazione di idee e perché la lingua batte dove il dente duole. Ma tutte le cose che abbiamo avuto, di tutti i generi, andrebbero repertate.
 Alcune poi si può cercare di riprodurle. E persino di farci dei soldi: di venderle. Mi è già capitato di scrivere di nostre merci (non erano solo merci) sparite dai mercati, le mele appiu e miali, il maiale sardo com’era, per esempio... Qualcuno ricorda il profumo di quelle mele, come si diffondeva riempiendo le stanze, le case? qualcuno ricorda l’arrosto di quegli spini di maiale? Vorrei che un esperto mi spiegasse se mele appiu e miali, o maiale sardo (il vero), non si possono recuperare, rimettere in produzione. Ma questa parte del discorso è la più facile e praticata (non solo a parole, in qualche caso): si tratta della famigerata «filiera agro-alimentare». Può disturbare l’enfasi delle parole, sempre le stesse: però l’idea è giusta. E con i vini si comincia a fare addirittura di più (e meglio) d’un recupero...
 Per le cose immateriali la situazione diventa più complicata: assai più complicata. «L’anima sarda» d’un tempo non c’è più; e (magari ci dispiace) è un bene che non ci sia. Sicché non si può far rivivere, uguale a quella che era: non si può rimettere in produzione come la mela appiu o la mela miali. E non ci si può aspettare che qualcuno intoni un Mi-e-la; se lo fa, sarà un’operazione archeologica o interpretativa (non si canta ancora il gregoriano?); oppure (come per certi vini) un’operazione tutta creativa: Mi-e-la nuovi, di barrique, non quelli che abbiamo amato e ormai sono sepolti nella nostra memoria.
 Però operazioni creative simili, che investano l’input (o ingrediente) etnico in risultati d’oggi, difficilmente riescono nel campo delle cose immateriali. La statistica sarda segnala troppi fallimenti, per giunta banali e noiosi: della categoria dei portacenere a forma di nuraghe (anche quando si tratta di versi). Troppi fallimenti; e troppo scarse riuscite. Ma almeno due esempi di riuscita bisogna registrarli, per capire come sono fatti, da che dipendono: l’Isola (oggetti artigianali) di Eugenio Tavolara e alcune composizioni musicali di Franco Oppo. Soprattutto l’Isola di Tavolara: oggetti artigianali, s’è detto, ma erano vere opere d’arte, esito d’una grande impresa culturale; e il fatto che ce ne siamo completamente dimenticati, subito, dimostra che il nostro tasso di insipienza autolesionistica è elevatissimo.
 Che cosa fa I’Isola di Tavolara quella che è (che era), rendendola memorabile, e le musiche di Oppo quelle che sono? La cultura moderna (visiva o musicale, ma non solo) di cui sono permeate: con cui guardano al patrimonio antico proiettandolo (manovra addirittura tradizionale) dentro le linee dell’evoluzione storica delle arti, visive e musicali. L’anima sarda d’un tempo non c’è più; c’è quest’altra anima: dove c’è, quando c’è.
 Dove c’è, quando c’è: che si esprima, allora, con tutto ciò di cui è fatta, che non è solo materia identitaria (né può esserlo, togliamocelo dalla testa). E se ha un po’ di coraggio, di balentia d’antan, l’animula misuri se mai quel po’ di sua materia identitaria (quanta gliene è davvero rimasta) al flusso delle cose e delle idee del mondo, oggi: alla storia.
 Per il resto, basta con l’amore solitario: fatto con il fantasma di qualcosa che non c’è mai stato. Basta col parlare una lingua che non esiste e non è mai esistita, di cui i nostri padri e le nostre madri si metterebbero francamente a ridere.
 Chi deve repertare e conservare, reperti e conservi: guai se non lo fa. Chi deve studiare, studi: evviva gli studiosi. Chi deve produrre mele e maiali sardi li produca, senza perdere tempo. Ma tutti gli altri - e in particolare quelli col mestiere delle chiacchiere, come me - restiamo fermi un giro, a proposito di identità. Sì, noialtri meglio che diciamo «passo» per un paio di mani, facciamo un minuto (qualche anno) di silenzio (il famoso «silenzio» dei sardi), ci prendiamo un secolo sabbatico. L’aggettivo «identitario/a» non c’è nei dizionari: carta canta. I correttori dei nostri computer protestano se lo scriviamo: diamogli retta (finalmente).

Salvatore Mannuzzu
 

Bibliografia  dell'autore

romanzi



  • Procedura 1988

  • un morso di formica 1989

  • le ceneri di montiferro 1994

  • il terzo suono 1995

  • il catalogo  2000

  • alice   2001 di cui trovate  qui un ottima recensione con estrati del   romanzo in questione 



raccolte 
di racconti 







  • la  figlia perduta  1992


di poesie 


  •  corpus  1997


 


















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