17.9.05

I valori della controcultura e risposta a chi mi chiede dcome concilio passato ( le mie radici ) e futuro

 Rispondendo  ad alcune  email   fra  quelle    poche  che  non  ho cancellato  come  stò iniziando a fare  come  promesso  per i motivi   di cui  ho  già parlato in precedenza  e perchè  non contegono  -- se   non in maniera lieve  e leggera  -- insulti o   che mi chiedono in maniera pacata   e  costruttiva   , anche  se  presenti  nelel faq  e  nei post  del blog  ( ma  si può fare un eccezione  )   :  come faccio a  conciliare   presente  con passato  ( ovvero con le mie radici  )  ; come  mai ami  la  contro cultura  ,, la contro informazione  ., ecc    Soprattutto   dopo i miei recenti post  e e  sulla  recensioneintervista   (  trovate  a destra  nel  blog )   alla  rivista  lovcale  Gemellae  replico   con  questa  Intervista  di   ANDREA MELIS   a  Stefano Tassinari in  cui  parla di letteratura e antagonismo politico   pubblicata  sulla   sulla nuova  del  17 c.m  in visita   del  suo tour     oggi 18- c.m sarà nel mio paese  ) per  presentare  il suo  ultimo libro  L'amore degli insorti  qui per la trama   ( sito da cui ho tratto la sua bibliografia che trovate alal fine del post   )


                                                                                                                                                                                                                                                    L’arrivo nell’isola dello scrittore Stefano Tassinari, uno degli scrittori nazionali di maggior interesse, autore di libri come «L’ora del ritorno» e adesso dell’opera «L’amore degli Insorti» (Marco Tropea Editore, 169 pagine, 12,50 euro), è l’occasione per uno scambio di battute.
 - La memoria è sempre presente nei suoi romanzi. Con «L’amore degli insorti» lei racconta gli anni Settanta. Per quelli che c’erano, o per svelare a chi ne sa poco o niente?
 «Entrambe le cose, perché ritengo che in questo momento la memoria sia fondamentale nel lavoro di uno scrittore. È importante rapportarsi alla memoria soprattutto quando la memoria non è condivisa. Questo è un romanzo che chiude una trilogia sulle generazioni del Novecento. E in tutti e tre i miei libri si raccontano contraddizioni».
 - Però Paolo Emilio, il protagonista, fa i conti proprio con la scelta della lotta armata. La difende e la distingue dal terrorismo. In tempi di propaganda grossolana è importante essere lucidi almeno nella memoria?
 «Sì, certe cose bisogna dirle ai giovani, altrimenti sembra che milioni di ragazzi folli scendessero in piazza al solo scopo di usare violenza. Il personaggio è volutamente lontano dalla mia storia personale, ma permette una riflessione tra chi ha scelto quella strada più dura, senza uscita, che già allora molti consideravamo un errore, e chi invece scelse strade diverse credendo nella rivoluzione culturale. Però il confine fra queste posizioni era allora più sottile di quanto s’immagini oggi. Qualunque scelta, bisogna ricordare, avveniva sotto il peso della repressione durissima di quegli anni, sotto le restrizioni delle leggi speciali, con intorno i golpe e le dittature che avvenivano intorno, dal Sud America fino in Grecia. A questo bisogna aggiungere le attività di Gladio, della P2, le stragi neofasciste e tentativi di golpe stesso qui in Italia. Situazioni estreme che non contribuivano ad alleggerire il clima».
 -Il suo libro è disseminato di riferimenti alla cultura anni Settanta, dalla musica alla letteratura. Appunti per chi volesse risalire la memoria o ricordi?
 «Non credo siano ricordi nostalgici, altrimenti non avrei scritto questo romanzo. Io non nego la nostalgia, sia chiaro. Ho nostalgia di quelli che erano anni straordinari, della mia formazione in primo luogo, ma in generale erano anni in cui circolavano idee e si metteva in discussione tutto. Ed è per questo che non accetto che di quell’enorme movimento durato oltre 10 anni resti solo il ricordo di ciò che chiamano terrorismo, cioè della lotta armata. Le battaglie su diritti civili e controcultura giovanile, movimento delle donne e tante altre hanno portato gli italiani da popolo arretratissimo a paese moderno, culturalmente e moralmente, ma ora questo non ce lo riconosce nessuno».
 - Lei affronta anche il tema importante della trasformazione del linguaggio. I vostri sogni parlavano con parole che 30 anni di tv hanno spazzato via. Un vostro volantino oggi farebbe venire l’orticaria a molti.
 «A volte l’orticaria viene anche a me che quelle cose le scrissi, a suo tempo. In effetti abbiamo utilizzato un linguaggio rigido per la parte della politica, e uno più aperto e fantasioso per quanto riguarda la dimensione della cultura. Questo contrasto forse è stato uno degli elementi che ci ha portato a perdere la battaglia. Se avessimo capito l’importanza di rifondare anche il linguaggio della politica non sarebbe più bastata una semplice repressione militare a spazzare via un movimento che comunque contava su milioni di giovani. Dall’altra era però un linguaggio di appartenenza, identità, e ci permetteva di riconoscerci al volo ovunque».
 - La storia ruota intorno a figure femminili molto belle. Rita, Alba e la misteriosa Sonia. Presente, passato e futuro?
 «Assolutamente. E senza voler fare omaggi a chi non ne ha bisogno, è giusto riconoscere che in quegli anni le donne sono state fondamentali, facendo compiere uno scatto formidabile a movimenti che partivano invece come rigidi e maschilisti. Perché hanno immesso una sensibilità molto forte, e una concezione del cambiamento più profonda. Quando gridavano lo slogan “Non c’è rivoluzione senza liberazione” dicevano una cosa tutt’altro che semplice. Ci hanno insegnato che oltre a rivoluzionare il sistema economico era necessario prima lavorare su noi stessi, sulla nostra cultura e sulle nostre menti. Infine, così come avviene nel mio romanzo, le donne sono importanti perché non vivono un senso di vendetta fine a se stessa, cercano sempre, a modo loro, una forma di dialogo e comprensione».
 - Come dicevamo non tutti hanno fatto al stessa scelta all’epoca. Così oggi alcuni sono ancora in carcere, altri siedono in parlamento. Quanti conti restano aperti nella vostra generazione?
 «Senza dubbio molti. Soprattutto nei confronti di chi ha fatto il salto dall’altra parte. Tra dirigenti nei giornali, nei partiti, nel mondo della televisione... ce ne sono tanti. Questo dà molto fastidio, soprattutto quando dai peggiori ti devi sorbire la paternale. È una riflessione molto amara, per fortuna su una parte neanche grande ma ben esposta mediaticamente. Dall’altra, c’è la ferita sempre aperta dei troppi anni di carcere e delle troppe persone che senza mai aver sparato un colpo hanno pagato uno sproposito. Io da questo punto di vista sono assolutamente convinto che sia necessaria un’amnistia per chiudere per sempre questa pagina».
 - «A guardare a ritroso si soffre, se non si ha più il gusto di guardare avanti»: è una frase detta dal protagonista del libro. Come conciliare la memoria col futuro?
 «Paradossalmente credo sia qualcosa di automatico. Difficilissimo ma allo stesso tempo inevitabile. Non riesco a pensare a un futuro che si costruisca senza la nostra memoria e la nostra storia, anche come popolo, e non solo come minoranze o generazioni. Noi negli anni Settanta fummo legatissimi alla memoria della Resistenza. E abbiamo vissuto e costruito nel segno dell’eredità dei partigiani. Senza di loro non avremo mai contribuito a cambiare il paese. Perché la rivoluzione l’abbiamo persa, questo è sicuro, ma tanti cambiamenti restano fondamentali. Non ho mai creduto che si possa spazzare tutto e ricominciare prescindendo dalla memoria. È una cosa che non può avvenire nell’arte e tanto meno nella politica. Bisogna leggere, e studiare, conoscere, anche questo significa fare memoria. Dall’improvvisazione non viene nulla di buono e, come diceva Galeano, non c’è futuro senza memoria».
 


   BIBLIOGRAFIA  DI TASSINARI


 
 
 L'amore degli insorti  ( 2005 )
 I segni sulla pelle  ( 2003 )
 L'ora del ritorno  ( 2001)
 Assalti al cielo. Romanzo per quadri  ( 2000 )
 Lettere dal fronte interno. Racconti in ... (1997 )


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