vivere in un luogo del'unesco ahi ahi



 

Immagini della "Grande Moschea" di Djenné, che con il mercato e le 1800 case "storiche" di fango è iscritta dal 1988 nel patrimonio dell'umanità Unesco. La moschea di fango visibile oggi è datata 1910, ma il sito è dedicato al culto religioso sin dal Trecento. La costruzione di fango è ovviamente fragile e vulnerabile: l'ultimo crollo di una torre è del 2009. Come si vede, il lavori di "fortificazione" mediante aggiunta di fango sono continui.I luoghi di cui si parla Vedi la cartina e  l'articolo sotto riportato

 reppublica  online del 17\1\2011

Djenné, Mali. La moschea-capolavoro. Costruita con il fango La "maledizione" Unesco

di Neil Mac Farquhar
(Copyright New York Times-La Repubblica. Traduzione di Emilia Benghi) 

Da Djenné, Mali, la voce di un malessere che tocca tante città della lista del Patrimonio mondiale. "Ci costringono a vivere congelati nel tempo, come pezzi da museo"






 
La casa di Abba Maiga, capitano di battelli fluviali in pensione, è un gioiello. Vecchia di 150 anni, in pietra cruda, con merlature coniche e grondaie in legno di palma, ma lui non è contento: vorrebbe un pavimento in piastrelle, la porta con la zanzariera, la doccia. La sua città, Djennè, nel Mali orientale è stata dichiarata dall'Unesco Patrimonio dell'umanità e il restauro degli edifici è vincolato al rispetto della struttura originale. "Quando una città è inserita nella lista dell'Unesco non si dovrebbe cambiare nulla - spiega Maiga - ma noi vogliamo più spazio, nuovi elettrodomestici, cose più moderne. Siamo scontenti".
E' un dissidio culturale avvertito anche in altri siti patrimonio dell'umanità in Africa e nel resto del mondo. I residenti lamentano il fatto di essere congelati nel tempo come pezzi da museo a beneficio dei turisti. "Il problema a Djenné è garantire i moderni comfort usando materiali appropriati senza compromettere i beni culturali" dice Lazare Eloundou Assomo, responsabile per l'Africa del World Heritage Center Unesco. Assomo elenca una serie di siti dove ci sono tensioni analoghe, tra cui l'isola di St. Louis in Senegal, l'isola di Lamu in Kenya, l'intera isola di Mozambico e città asiatiche ed europee come Lione, in Francia.
A guadagnare a Djenné il titolo di Patrimonio dell'umanità è la straordinaria Moschea. Si tratta della più grande costruzione del mondo in pietra cruda, una sorta di castello di sabbia che sembra atterrato qui da un altro pianeta. Lo stile architettonico, denominato Sudanese, è originario del Sahel. La facciata è dominata da tre minareti a base squadrata sormontati da pinnacoli su cui poggiano uova di struzzo. Fasci di rami di palma conficcati come stuzzicadenti all'interno dei muri creano una sorta di ponteggio permanente che consente la manutenzione periodica dell'intonaco dell'edificio: in febbraio questa operazione coinvolge gli abitanti dell'intera città. Djenné è la città gemella di Timbuktu, meno famosa ma meglio conservata. Entrambi i centri conobbero il massimo dello splendore nel 16simo secolo, come snodo delle vie che attraversavano il Sahara per il commercio dell'oro, dell'avorio e degli schiavi. Djenné fu anche importante centro di diffusione della religione islamica nella regione. Quando il re si convertì all'Islam nel 13simo secolo, rase al suolo il suo palazzo e costruì una moschea. I colonizzatori francesi del Mali ne supervisionarono la ricostruzione nel 1907.
La Grande Moschea era nuovamente sul punto di crollare quando è intervenuta la Fondazione Agha Khan avviando un progetto di ristrutturazione del costo di 900mila. Il tradizionale rivestimento annuale dei muri con nuovi strati di intonaco aveva più che raddoppiato lo spessore delle pareti e appesantito il tetto, troppo anche per la foresta di colonne interne a sostegno dell'alto soffitto, una per ciascuno dei 99 nomi di Dio. Nel 2006, i primi rilevamenti per il restauro innescarono disordini che portarono a saccheggi all'interno della moschea, assalti ad edifici cittadini e distruzione di automobili. Apparentemente la radice delle violenze andava individuata nelle tensioni sviluppatesi tra i 12mila abitanti, in particolare tra i giovani, costretti a vivere nella miseria mentre l'Imam e le famiglie in vista accumulavano ricchezze grazie al turismo. La frustrazione sembra ancora viva tra i residenti, che si mostrano assai più ostili ai turisti rispetto alla popolazione di altre città del Mali. Invece di sorridere lanci
ra che il restauro della moschea è quasi completato l'attenzione è puntata su altre problematiche, come l'adeguamento della rete fognaria e il restauro delle circa 2000 abitazioni. "Non si può imprigionare la gente nelle architetture originali", dice Samuel Sidibé, direttore del Museo nazionale del Mali di Bamako, la capitale del paese. "Bisogna trovare il modo di evolvere le strutture tradizionali, per soddisfare le necessità fondamentali della comunità in modo da non compromettere l'architettura in pietra cruda, che costituisce l'identità locale".
Elhajj Diakaté, 54anni, ha ereditato assieme al fratello tre abitazioni. Non sopporta di doversi chinare per entrare in casa e lamenta il fatto che nessuna stanza è grande a sufficienza per ospitare un letto matrimoniale. E poi le sue mogli e quelle di suo fratello vogliono avere degli armadi. Ma lo spazio per gli armadi non è previsto dai progetti di ristrutturazione del team danese incaricato di salvare più di cento antiche abitazioni cittadine. Così Diakaté ha fatto da solo: ha tirato giù uno muro interno su cui si aprivano due piccoli archi. La casa è crollata. L'architetto danese ha pianto quando ha visto il disastro.
Il problema, dice N'Diaye Bah, ministro del turismo del Mali, è modernizzare la città senza intaccarne l'antica bellezza. "Se distruggi 2000 anni di storia la città resta senz'anima", commenta.

             

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