12.1.11

ipocroisia politica la sinistra dice vede la pagliuzza nelll'occhio del vicino ma non la trave nel proprio parentopoli a venezia ed ipocrisia dei giornali prima tti emarginano e poi da morto ti osannano . Il caso di lietta Tornabuoni


Sergio Rizzo per il "Corriere della Sera"
GIORGIO ORSONI
Le giustificazioni, quelle fanno davvero cadere le braccia. «In una grande azienda con tremila dipendenti può capitare che ci siano parenti», ha risposto ad Alda Vanzan del Gazzettino il presidente della municipalizzata dei trasporti di Venezia Actv, Marcello Panettoni.
Sarà pure. Ma se i parenti, come ha denunciato il sindacato autonomo Usb, sono una trentina, e congiunti di sindacalisti e dipendenti, allora può sorgere il sospetto che non sia «capitato» per caso. E ad allontanarlo non vale nemmeno l'argomentazione che tutti, ma proprio tutti, sarebbero entrati dopo una selezione e un test psicoattitudinale fatto da una società specializzata.
7 MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI
Scusa simile a quella con cui si è difeso l'ex amministratore delegato dell'Atac: un'azienda che nei due anni della giunta capitolina guidata da Gianni Alemanno si è «irrobustita» con un certo numero, pare 854, di assunzioni pilotate. «Non sono chiamate dirette - ha detto Adalberto Bertucci - ma attraverso concorsi eseguiti attraverso una società, la Praxi».
Già. È stato così che un alto dirigente dell'azienda di trasporto romana si è ritrovata come assistente personale una ex cubista, Giulia Pellegrino, ritratta sorridente in una foto con il coordinatore del Pdl romano Gianni Sammarco?
Ed è stato così che l'Atac ha ingaggiato il figlio del caposcorta di Alemanno, Giancarlo Marinelli, mentre l'Ama, la municipalizzata dei rifiuti assumeva invece la figlia? E ancora così è entrato Francesco Bianco, ex militante dei Nar, organizzazione paramilitare fascista, assunto anch'egli per chiamata diretta e poi sospeso dall'azienda per le frasi antisemite apparse sulla sua pagina di Facebook? Difficile da spiegare a quei giovani che prima si spaccano la schiena sui libri, senza uno straccio di prospettiva, e poi disseminano inutilmente i loro curricula in giro per l'Italia. Per riuscire a conquistare, se va bene, un precariato da 800 euro al mese.

GIANNI ALEMANNO
Andateglielo a dire, che le municipalizzate, anche quelle come l'Atac che l'anno scorso ha perso 92 milioni di euro, o come l'Ama, che ha archiviato il 2008 con una voragine di 257 milioni, assumono «solo per selezione». Ma che però la lotteria Italia del posto fisso, a tempo indeterminato, la vinceranno quelli che sono parenti dei sindacalisti, amanti o amici di qualche politico, oppure chi ha una tessera di partito in tasca, o magari può contare sulla benemerenza di qualche sprangata assestata in gioventù. E loro, invece, quella selezione non la passeranno mai.
Per carità, l'Italia è il Paese nel quale esistevano (e in qualche caso esistono ancora) regole che offrono una corsia preferenziale ai figli dei dipendenti di alcune aziende pubbliche. Funzionava così, per esempio, al Banco di Napoli, dove i padri potevano liberare il posto per i figli. Ma questa storia è diversa. E fa ribollire il sangue pensare a quanto il fenomeno può essere esteso.
Certo, il caso di Venezia non può essere paragonato a quello di Roma. Dove non desterebbe sorpresa scoprire che le assunzioni clientelari hanno funzionato a tappeto nel sistema delle municipalizzate. La verità è che ormai in Italia la politica è l'unico ufficio di collocamento che funziona.
RICCARDO BOSSI
Al centro come in periferia. A settembre scorso Elsa Muschella ha raccontato sul Corriere che alla Regione Piemonte l'opposizione di centrosinistra aveva denunciato una piccola «parentopoli» locale, denunciando le assunzioni a tempo determinato di «mogli, figlie, fratelli e sorelle di assessori e consiglieri», grazie a «risorse messe a disposizione di ogni gruppo e nella più completa discrezionalità» .
Una denuncia nella quale il Pd ha coinvolto anche il governatore Roberto Cota, che ha reagito così: «Ovvio che ho portato con me persone di cui da anni mi fido, e tra queste una segretaria che già lavorava per il Movimento e che è militante della Lega. La sua unica colpa è quella di essere figlia di un altro militante della Lega che dopo diversi anni di mandato in Consiglio Comunale, è stato eletto in Consiglio Regionale» .
FRANCESCO BOSSI
Giustissimo: un politico ha diritto a farsi affiancare da persone di fiducia. Ma qual è il limite fra la fiducia e il favoritismo? Sarebbe lecito domandarsi se è per una pura questione di fiducia che Franco e Riccardo Bossi, rispettivamente fratello e figlio del leader della Lega vennero ingaggiati a Bruxelles da due eurodeputati leghisti come assistenti accreditati (12.750 euro al mese). E se per lo stesso motivo la parlamentare del Pdl Maria Elisabetta Alberti Casellati, quando era sottosegretario alla Salute, nominò capo della sua segreteria la figlia Ludovica.
Si potrebbero fare decine di altri casi: basterebbe dare uno sguardo nei gabinetti, negli staff e negli uffici stampa dei ministeri per scoprire quanto siano diffuse le omonimie. E se vale il detto che il pesce puzza sempre dalla testa... Fa bene perciò il Partito democratico a pretendere spiegazioni dalla giunta di centrodestra della Capitale, come fa bene il Pdl a chiedere chiarezza sulle assunzioni delle municipalizzate di Venezia, città amministrata dal centrosinistra. Anche se farebbero meglio prima di tutto a dare un'occhiata in casa propria.


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IN MORTE DI LIETTA - "LA STAMPA" POTEVA AVERE IL BUON GUSTO DI EVITARE DI SCODELLARE I SOLITI NECROLOGI LACRIMOGENI IN GLORIA DELLA "GRANDE GIORNALISTA" - LA TORNABUONI FU COSÌ "GRANDE" CHE PER LE SUE IDEE POLITICHE DI SINISTRA, SGRADEVOLI AL POTERE PARA-DEMOCRISTIANO DEL LINGOTTO, LE FU NEGATA, ANNO DOPO ANNO, ARTICOLO DOPO ARTICOLO, L’"AGIBILITÀ" DI EDITORIALI PER FINIRE EMARGINATA IN UNA SALETTA BUIA A RECENSIRE FILM....


Natalia Aspesi per "la Repubblica"
LIETTA TORNABUONI
È morta ieri al Policlinico Umberto I di Roma, dove era ricoverata da diversi giorni, la giornalista Lietta Tornabuoni. Aveva 79 anni. Domani la camera ardente alla Casa del Cinema di Roma.

Lietta Tornabuoni ed io eravamo una strana coppia; amiche, colleghe, sorelle: abitando in città diverse, ci trovavamo solo in occasioni professionali, per esempio ai Festival, da quello canoro di Sanremo nei suoi anni gloriosi, ai cinefestival di Cannes e di Venezia. Inseparabili, scansate, forse temute, certamente prese in giro dagli altri colleghi, ci divertivamo moltissimo: a vedere film, incontrare divi, parlarne tra noi. Come due adolescenti, ridevamo di tutto, il lavoro, insieme, era puro divertimento, anche se scrivevamo per giornali diversi, o forse proprio per quello.
LIETTA TORNABUONI
Quando ci siamo conosciute, io ero una tipica giornalista donna, disordinata e poco affidabile, della terribile categoria definita di costume; Lietta era già una grande giornalista, anzi, come si diceva allora per esaltarne la bravura, un grande giornalista; generosa come raramente sono i colleghi, apriva i suoi quadernini di appunti, che erano sempre quelli cinesi neri con gli angoli rossi, e mi passava preziose informazioni, numeri di telefono segreti,
Fu lei che rimproverandomi l´eccesso di leggerezza, mi insegnò che il giornalismo è una cosa seria, anche se mi occupavo di Claudio Villa o degli amori della Callas, dovevo essere precisa, rigorosa: controllando ogni nome, ogni notizia, circondandomi di dizionari, intervistando più persone possibile, leggendo libri: soprattutto restando lontana dai fatti e dalle persone, imparziale, e pensando solo ai lettori.
LIETTA TORNABUONI
Aveva cominciato giovanissima a Noi donne, il settimanale dell´Udi, era passata a Novella, poi all´Europeo e a L´Espresso di cui era tuttora il cinecritico (il suo ultimo articolo sul film Kill me please esce nel numero di dopodomani). Collaborava a La Stampa, negli ultimi anni come critico ma non solo, e, assunta nel 1970, con un breve periodo al Corriere della Sera, era stata uno dei più autorevoli e brillanti inviati del quotidiano torinese.
Scriveva di tutto, articoli sempre esemplari che si leggevano avidamente, memorabili pezzi sul cavallo Ribot o su Pasolini, interviste a Cossiga o a Fellini, inchieste sulle pantere nere negli Usa o in Cina sulla terribile vedova Mao, sull´attentato terroristico alle Olimpiadi di Monaco del ´72 e sul rapimento e omicidio di Aldo Moro nel ´78.
Insieme eravamo un po´ mascalzone: e per esempio a Cannes nel ´75 non avvertimmo i colleghi che il film La recita di Angelopulos, scansato da tutti perché greco e lunghissimo, doveva essere visto perché era un capolavoro, e nel ´89 scrivemmo meraviglie di Sweetie di Jane Campion che aveva orripilato i maestri della critica, in seguito pentiti.
LIETTA TORNABUONI
Quando muore un grande professionista, lo si ricorda come una persona che al lavoro ha dedicato tutta la sua vita. Lietta aveva molto amato il giornalismo, e lo amava ancora, malgrado le tante delusioni che negli anni capita sempre di subire. Ma aveva dedicato molto di sé stessa agli affetti, con una silenziosa generosità che faceva parte del suo stile di vita rigoroso e appartato.
Di sé non parlava mai: era stata una bella ragazza dal sorriso incantevole, ma degli uomini, sempre intellettuali, che avevano attraversato la sua vita, non erano rimaste tracce. Vagamente gli amici sapevano della sua nobile e colta famiglia, di una sorella suicida, di un matrimonio, giovanissima, con un compagno di partito, matrimonio pochi anni dopo annullato (il divorzio non c´era ancora) in quanto contratto tra due comunisti, cioè diabolici peccatori.
LIETTA TORNABUONI
Era stata molto vicina a sua madre, donna di grande cultura e aveva assistito il fratello Lorenzo, pittore di talento, per anni confinato a letto. Lo ricordo perché questo lato della sua vita, in nome di un senso segreto dell´eleganza e della discrezione, era solo suo, come lo fu la sua dedizione assoluta al compagno, il geniale scrittore Oreste Del Buono, nei lunghi anni di una sua drammatica malattia.
NATALIA ASPESI E LIETTA TORNABUONI AL FESTIVAL DI VENEZIA DEL 73
Lietta ha cominciato a staccarsi dal mondo quando, morte le persone che più amava, si è ritrovata senza più nessuno da accudire, cui dedicare i pensieri, le cure, le attenzioni, l´amore. Lei che era una grande cronista, un´opinionista severa, un´implacabile intervistatrice, una giornalista ironica, puntigliosa, acuta e generosa, una persona anticonformista, di profonda moralità laica, senza padroni, ha preferito appartarsi nei limiti inoffensivi della critica cinematografica perché la politica, che era stata una sua passione e che aveva settimanalmente raccontato nella sua rubrica "Persone", svelandone i peccati e i peccatori, si era ormai troppo insquallidita, criminalizzata, attorcigliata attorno a personaggi troppo privi di glamour, che era ciò che lei cercava in tutto.
ORESTE DEL BUONO
La sala buia era diventata un rifugio a stanchezza e delusioni, i film non disturbavano il suo bisogno di solitudine, scriverne nella sua casa silenziosa, invasa da migliaia di libri che alimentavano la sua instancabile cultura, era un modo per proteggere il suo orgoglio, la sua dignità, per non mostrarsi più e diventare finalmente invisibile.

 


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