24.1.11

amore nella malattia



sull'unione sarda d'oggi 24\1\2011 leggo queste due storie unita dall'amore.
La  prima  è  una di quelle  tante storie  si cattiva burocrazia  di cui  ce ne sono tante   forse  anche peggiori di questa  . Ma a volte in alcune d'esse  e  questo è il caso  , sono accompagnate  da   dignità  ed umiltà  delle persone protagoniste  . Unico commento che  mi sento di fare  , ovviamente  senza  generalizzare  perchè   Berlusconi pur  essendo  il pettine di tutti  i pettini  non è il  solo  anche  se il maggiore  protagonista  dell'affondo in cui siamo ridotti  , lo  lascio  a questa  vignetta  di Staino sull'unità d'oggi  





gennaio non è arrivato il contributo al ragazzino di 15 anni che aveva la madre in cella malato grave, gli tolgono il sussidio«Senza aiuti non posso più curarlo, non abbiamo soldi»

La madre è ricoverata con lui al Microcitemico e, dice, dorme «con un occhio solo». «Lui potrebbe chiamarmi e non posso permettermi di non sentirlo». Il ragazzino sta male. Il problema principale si chiama come sempre Gvh, una reazione legata al trapianto di midollo osseo che ha subito il 26 luglio del 2006 a causa di una leucemia. Una reazione immunologica che si manifesta con febbre, desquamazione cutanea, disturbi gastrointestinali, epatite e perdita di peso. Questa volta si è presentata con una diarrea incontrollabile. Che per un corpo destabilizzato come il suo che pesa 24 chili - 24 chili a 16 anni - è terribile.

DIFFICOLTÀ Ma alle difficoltà lui e la madre sono abituati. Quando i carabinieri hanno portato via la donna che l'ha messo al mondo per accompagnarla in carcere dove doveva scontare una vecchia condanna a quattro anni e dieci mesi passata in giudicato, lui ha deciso di rendere pubblico il suo dramma ed ha lottato sino a che alla donna il tribunale non ha concesso il differimento della pena agli arresti domiciliari. Perché lui senza la madre, che lo assiste ogni minuto del giorno, non può vivere e non è una poetica dichiarazione d'amore ma la pura verità.
CONTRIBUTO BLOCCATO Certo, quando ti tolgono il contributo per l'affitto con il quale ti garantisci un tetto e nessuno ti spiega perché, la lotta diventa impari. «Quando ho verificato che non sono arrivati i soldi, 400 euro con cui paghiamo parte del canone di 500 euro, ho telefonato alla tesoreria del Comune», racconta la madre. «Mi hanno risposto che non c'è nessun mandato per noi. Poi ho parlato con l'assistente sociale che ci segue al Microcitemico e le ho chiesto di informarsi alla nostra circoscrizione. Nessuna risposta. Io ho pazienza», aggiunge la donna, «ma la mia padrona di casa no. Per lei l'affitto è importante, paga a sua volta la retta per l'assistenza al padre malato e non può aspettare».
SOLO ASSISTENZA Madre e figlio vivono esclusivamente di assistenza. Con l'assegno di accompagnamento del ragazzino, disabile al cento per cento, ci mangiano e ci pagano le bollette. Con il contributo del Comune si garantiscono un tetto. Lei, anche volendo, non potrebbe lavorare perché, come il padre (da cui la donna è separata), è costretta in casa e spera nella grazia del presidente della Repubblica. Nessuno in famiglia è in grado di aiutarli. L'alternativa ai contributi è la strada. 
IL MEDICO «È un ragazzo educatissimo, di intelligenza superiore alla media ma molto sfortunato, che combatte con una dignità eccezionale una durissima battaglia contro le malattie», aveva raccontato Giulio Murgia, l'oncoematologo pediatrico del Microcitemico che lo segue da quando si è ammalato. «Di leucemia si guarisce nel 90% dei casi», spiega. «Gli altri pazienti o non guariscono o guariscono dopo una recidiva. Lui fa parte della seconda categoria». Sta guarendo ma sta pagando un prezzo altissimo con altre patologie.
«E il ragazzo più intelligente che ho conosciuto», racconta la sua ex insegnante di lettere che da oltre tre anni lo segue come un figlio e che si attiva ogni volta che c'è un problema. «A scuola è bravissimo ma non lucra sulle sue disgrazie, anzi. L'ho visto venire a scuola camminando a fatica perché ha l'osteoporosi nel 90 per cento delle ossa, l'ho visto diventare cianotico e svenire per le convulsioni, causate dalle cure con la cefalosporina che gli ha lesionato la parte destra del cervello. Ma non l'ho mai sentito lamentarsi. E la madre è straordinaria».
SCUOLA E MALATTIA Quest'anno si è iscritto al liceo artistico per mettere a frutto il suo talento per il disegno. Ma a scuola, racconta la madre, ci è andato poco. «Sta sempre male». Perché il Comune deve dargli altre preoccupazioni?

FABIO MANCA


la seconda




S. G. SUERGIU. 
Grande festa, pur costretto al letto, per il traguardo delle nozze d'oro
Cinquant'anni d'amore in uno sguardo
La Sla non ha sconfitto la grande forza di Bruna e Antonino

In un batter di ciglia, un amore lungo cinquant'anni. Così, senza esitazione, con le palpebre, l'unica “voce” che la sclerosi laterale amiotrofica gli ha lasciato, Antonino Casta, 76 anni, pensionato di San Giovanni Suergiu, ha ripetuto quel fatidico “si” che, dal 21 gennaio 1961, l'unisce alla moglie Bruna Andreotti. Insieme, l'uno accanto all'altro, anche oggi che la vita scorre intorno a un lettino. Sorrisi e sguardi raccontano più di ogni parola, hanno voluto scambiarsi le fedi per suggellare un'unione, un amore per la vita e la famiglia che neppure la Sla è riuscita ad intaccare. 
LA STORIA Via Cavour, periferia di San Giovanni Suergiu. Alla fine della via, e al centro di quello che un tempo era Is Massaius, sorge la casa di Antonino. Lì è nato e cresciuto. Da lì ha preso il via la sua storia con Bruna, originaria di Guspini, ma come tanti arrivata nel Sulcis con i genitori durante il periodo fascista. Lei, oggi settantenne, ricorda il primo incontro come fosse ieri. «Ci siamo conosciuti che lavoravo al Molino di Brai. Lui lavorava lì accanto, presso un'officina. Bastò uno sguardo», racconta. E da lì, dopo un anno di fidanzamento, il matrimonio. «Siamo sempre stati insieme. Non ci siamo mai separati. Neppure quando per lavoro siamo stati costretti ad andare più volte via dal paese». Un'unione che ha regalato tre figli maschi: Fabrizio, Claudio e Ivo. «Anche loro sempre con noi, ovunque andassimo», aggiunge. Una vita tranquilla come tante, fatta di lavoro e sacrifici per tirare su la famiglia e offrire un futuro ai figli.
LA MALATTIA Sino a quando, una decina d'anni fa, per l'ex ruspista Antonino, si sono manifestati i primi segnali della malattia. Dopo un primo periodo trascorso sulla sedia a rotelle, da sei Antonino è costretto su un lettino costantemente alimentato e monitorato dalle macchine. «In un primo momento, preso dallo sconforto, aveva pensato di farla finita. Era arrivato al punto di chiedere a un medico di staccare tutto, di bloccare le macchine che lo tenevano in vita», ricorda con un filo commozione la moglie Bruna. Ma si era trattato di un momento, appunto. Il calore e l'affetto della moglie, dei figlie, delle nuore e dei familiari lo hanno fatto recedere subito dal proposito. «Ha prevalso la voglia di lottare, di vivere. E di questo - tiene a sottolineare Bruna - dobbiamo ringraziare anche tutti i medici e gli infermieri del reparto di Rianimazione dell'ospedale di Carbonia. Le loro cure amorevoli ma, soprattutto, il loro affetto, i loro sorrisi gli riempiono le giornate». Come sabato che, davanti a don Tonino Bellu, parroco di San Giovanni Suergiu, e circondati dalle persone più care, ad Antonino e Bruna è bastato uno sguardo per scambiarsi gli anelli e rinnovare così quella promessa di matrimonio pronunciata cinquant'anni fa. E per dimenticare, anche solo per un giorno, le sofferenze che solo un killer silenzioso e implacabile come la Sla sa infliggere. Soprattutto se a combatterlo non si è da soli.
MAURIZIO LOCCI

stavo   sfogliando internet  per cercare una cosa  su Venezia  e     quando ho letto  questa  storia  che rientra in questa "categoria "  fonte il corriere della sera 


IL CASO

Mestre, dona il rene al fratello
e perde il lavoro: troppe assenze

Convalescenza troppo lunga e l'agenzia interinale le toglie l'assistenza ad un'anziana del Lido


 VENEZIA - Neppure una lettera da scartare e conservare tra i brutti ricordi, solo una telefonata per annunciarle: lei è licenziata, troppe assenze. Così Francesca Scarpa, una cinquantenne di Mestre, ha saputo che non le sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro. Tutta colpa di quel rene donato al fratello e di quell’intervento costato un mese e mezzo di malattia, come da prescrizione medica. Il regalo di una speranza di vita al fratello, più giovane di un anno, ha tolto a Francesca l’occupazione di assistente per un’anziana del Lido procuratole da un’agenzia interinale, «Obiettivo lavoro». Un contratto a termine, il quarto con cadenza di tre mesi, in scadenza il 31 dicembre. Ma il 26 novembre Francesca scopre che solo il suo rene può salvare il fratello, malato da tempo. Non ci pensa un attimo e corre all’ospedale di Padova per effettuare l’intervento. Dopo una settimana rientra a casa con la prescrizione del chirurgo di rimanere «a riposo per circa due mesi, astenendosi dagli sforzi fisici».
Il medico di famiglia firma i certificati di malattia di 15 giorni in 15 giorni. Il 3 gennaio Francesca chiama l’agenzia interinale per sollecitare il rinnovo del contratto per altri tre mesi, raccontando però che ha bisogno, su precisa indicazione dei sanitari, di poter rimanere a riposo per qualche giorno. Dopo poco la notizia che gela ogni speranza della donna: il contratto non può essere rinnovato. «Non ci servi più» le dicono al telefono, senza troppe spiegazioni. Un «no» che resta inflessibilmente tale anche quando, disperata, arriva a promettere di tornare comunque al lavoro, anche con la ferita non guarita. Chiede solo di poter evitare gli sforzi particolarmente pesanti. Ma ormai la decisione è presa. «Non mi hanno rinnovato il contratto - racconta - :con una telefonata mi hanno semplicemente detto che non c’era più bisogno di me, dopo che ormai da più di un anno lavoravo per loro». Nonostante la rabbia, il pensiero della cinquantenne va anche all’anziana signora del Lido di Venezia che accudiva ogni giorno prima dell’intervento e che non potrà più rivedere. E alla sorte delle sue colleghe, anche più giovani: «se rimanessero incinte - dice con amarezza - a loro toccherebbe la mia stessa sorte». (Ansa)


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