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Lucio Dalla, la vita che finisce

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Come mi son sentita povera, non appena mi è giunta la notizia della morte di Lucio Dalla. Quasi vicina a quel fatidico 4 marzo. È solo il primo. Morte? Impossibile. Uno scherzo del web, abbiamo subito ipotizzato, ormai assuefatti alla banalizzazione d’un evento divenuto anch’esso liquido, evanescente, irreale. “È la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto”, cantava Lucio in quello che è considerato il suo capolavoro assoluto, Caruso . La tragedia contemporanea consiste appunto in questo: nel non pensarci poi tanto. Ma la morte giunge, radicalmente grave, incredibilmente volatile: prende e rapisce, lasciandoci dentro un pesante vuoto. Il vuoto del rammarico, del rimpianto. Dell’inafferrabile. Ma Lucio era così cattolico. E da cattolico, per lui, non era la morte a giungere, ma la vita a finire; e, come il suo Caruso, non ci pensava poi tanto perché aveva molto amato. Perché la vita naturalmente e ovviamente finiva, e finisce così, per tutti noi, per ognuno di noi.

Definitivo

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Lui travalicava i muri. Lo poteva fare con l'eccesso cromatico delle parole, con quegli assoluti propri della gioventù. Con qualche vezzo, anche. Romantico, decadente. Una nuvola rock. Suonare in una band, giocare a calcio, come milioni di altri ragazzi cui mancava una domanda. La sua vasta casa era la città, il giardino pubblico. E oltre. Un viaggio spericolato e morbido, le vette innevate, le isole calde dell'India. Solo lì, inconsapevole, poteva fissare il sogno scarlatto dell'eternità, quell'appagamento mai sazio di sé. Lei era tutto, la tenera esploratrice dei desideri più reconditi, e l'amava sconsideratamente. Era la mèta raggiunta, che non si stancava di contemplare. Ma già la superava, con l'agilità sfuggente dei cerbiatti, un che di selvaggio e d'imprendibile, mai del tutto convinto, sempre sicuro e veloce. Ignaro e gracile dei suoi pochi anni, figlio dorato della fortuna.

Di nuovo...

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L'accoglienza è possesso senza egoismo. (Bologna, 1 gennaio 2012)

Senza nome

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Quel giorno proprio non ne poteva più. Fradicio fino al midollo per le cateratte che mai e poi mai volevano richiudersi. Scuro tra gli alberi scuri, fra le foglie che sembravano anch'esse liquefarsi come gelido piombo. Pioveva, e pioveva, e pioveva. Era la sua vita, si avvicinava il momento in cui non avrebbe più trovato, tra i solchi abbandonati o tra i rami fioriti, una briciola, un seme, un insetto di cui cibarsi. Lui, uno dei tanti passeri clandestini e al tempo stesso familiari in quel nugolo di comignoli, vegetazione, tombini e budelli che gli umani chiamano città. Dalla scorsa estate lui, lo zingaro volante, aveva un appuntamento fisso sul balcone di alcuni umani. Sebbene sapesse che di loro non ci si poteva fidare, vi si avventurava egualmente. Il gusto del brivido, la fame, la consapevolezza della propria velocità gli avevano infuso un coraggio guascone. Anche perché lì aveva conosciuto due nuovi amici. Alati come lui, ma con un nome. Cipria e Fiammetta, una coppia di

Questo nostro amore

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Questo nostro amore è fatto di deserti di case insanguinate di filtri di persiane di chicchi di caffè. Questo nostro amore fiorisce sorpassato nel cuore di città spossate, informi, in spenti meriggi d’un rosa futurista. Questo nostro amore si pasce di silenzi, d’albe ricreate, di carezze di lino. Delicato, suadente nella lieve fralezza, un fremito commosso nel buio del mondo.

La morte di Lucien Freud

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Lo sguardo di Lucien Freud non c'è più. E' venuto a mancare il suo occhio implacabile, chirurgico ma partecipe, non sofferto come quello di Bacon, cui difettava una strana delectatio per le carni disfatte. Anglosassone, Freud, lo era in quell'ambigua maestria di maltrattare il pennello, per ritrarre una vita piena, rotonda, completa, nuda di sapori. Per questo, più che una Commedia , Freud ci ha lasciato un Decameron in pittura, privo di retrogusto amorale, cristallino e lucente malgrado le colorità fangose. L'arte di Freud è stata un immenso fiat , non tanto di creazione, quanto di contemplazione. In ogni suo dipinto sembra dirci: "Tu sei questo, e nient'altro". Radiografandoci. Così, alla nudità spigolosa d'un nudo woolfiano corrispondeva il corpo volutamente scompaginato, antiretorico di Jerry Hall, non più ieratica diva ma star dei postriboli dall'occhio adunco. Assai più rilassata la Donna con c ane bianco , dal seno cadente, estenuat

Mi svelo

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Come al solito sperduta in un altrove, sempre troppo vicino, perché in me. Io Renato lo ritrovo, anche quando non vorrei e dove lui, forse, adesso non desidererebbe. Eccomi al Carroponte di Sesto S. Giovanni, uno di quegli spericolati e improbabili esperimenti d'un tempo dove la fabbrica diventava teatro, e protesta. Lo spettacolo verteva sulle diversità di genere. Nulla di ammiccante e modaiolo: umanità azzoppata e sbilenca, urticante e sulfurea. Insomma Zerofobia . Il contrappunto musicale era duro e ossessivo; un tappeto ritmico, non melodico. Ma l'azione non si svolgeva solo sulle assi del palcoscenico. S'allargava come un'onda, nel pubblico, nei fissi e metallici colori di vernice, nei volti scavati rosei svettanti e in sentori di pinosilvestre. Riesumati da chissà quale vecchio stralcio di cronaca... O non se n'erano mai andati? Anche lì, nell'attesa, diffondevano musica. La solita musica delle processioni drag: Raffaella Carrà, Abba... Un mix dal quale d&

Principe timido

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Ecco cosa succede quando si vuol recensire De Gregori : non si sa da che parte iniziare. Dannazione, le sue canzoni sono tutte belle. Simile modo d'imprecare ricorre nel lessico dell'artista. E sembra d'udirvi uno stridore, un frizzo d'ira compressa, un tentativo di slegarsi, di togliersi di dosso una patina d'aurorale levità. Le sue origini aristocratiche, forse. Ho scelto un De Gregori ai primordi. Privo di barba. Con un'aria nebulosa da cherubino slungagnato, in un paesaggio più simile alla Bassa che alle campagne laziali. Ha un sentore di pioggia. E' un cowboy di periferia. De Gregori è il Novecento e il suo contrario. Basterebbe un brano a confermarlo: I muscoli del capitano (tratto da uno dei suoi capolavori, il più che evocativo Titanic ). Voce atona, s'è detto di lui. Esile come filo di lana, monotona, persino un po' svogliata, nasale, monocorde. Ne siamo sicuri? Ne I muscoli del capitano , la voce di Francesco è semplicemente per

Giovine Italia

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"Esce di mano a lui che la vagheggia/prima che sia, a guisa di fanciulla/che piangendo e ridendo pargoleggia,/l'anima semplicetta che sa nulla,/salvo che, mossa da lieto fattore,/volentier torna a ciò che la trastulla" ( Purg. , XVI). Buon compleanno, Italia. Giovine Italia . Sei ancora come quella fanciulletta descritta da Marco Lombardo. Sei "un'anima sempl icetta che sa nulla" , e che "di picciol bene in pria sente sapore" , smarrendosi poi, come nel giardino dell'Eden dopo il peccato di conoscenza. Così, d'improvviso, prima ancora di diventare adulta, ti sei ritrovata vecchia, stanca, spogliata e sterile. "Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?" . Hai la Costituzione più bella del mondo, e per quella fame inesperta di vitalità diffusa e infantile permetti pure che la dileggino. E ne ridi, o te ne disinteressi esausta. I tuoi sono i peccati dell'inesperienza e dell'accidia, eppure la tua storia è antica. Culla d'