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30.12.22

Rivoglio i capo d'anno d'ieri

Io non avrei saputo  dirlo meglio  aggiungo al  post    che  trovate  sotto    solo   questa  citazione     musicale  : <<Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico\e come sono contento\di essere qui in questo momento,\vedi, vedi, vedi, vedi,\vedi caro amico cosa si deve inventare\per poterci ridere sopra,\per continuare a sperare. [...] L'anno che sta arrivando tra un anno passerà io mi sto preparando è questa la novità  >>

da Sergio Pala

 Tenetevi pure il cenone di Gracco. Tenetevi le casse di champagne e le tavolate di ostriche. Tenetevi le " storie" , i selfie e le dirette al concertone. Tenetevi le sciate a Cortina, il trenino di mezzanotte, gli abiti

da cerimonia e le stelline che illumineranno il nuovo anno. Tenetevi i petardi ed il karaoke. Ridateci un garage a malapena intonacato, il calore di un camino ed un divano sgangherato e polveroso per appisolarci all'alba. Ridateci le lasagne cucinate dalle nostre madri, i sottaceti mai mangiati, lo spumante del discount, le cartelle della tombola ed una radio con la cassetta da riavvolgere col tappo della bic. Ridateci noccioline da sgranocchiare e mandarini da tirare. Ridateci un rullino per stampare foto sbiadite da conservare per sorridere di pettinature e felpe assurde. Ridateci l'ebrezza di tornare all'alba e pregare di non trovare i nostri svegli ed incazzati. Che chiedere non costa nulla. O spero, meno che da Gracco.. a dopo.

17.10.22

Io me la ricordo bene, l'estate del 1973 -- di Daniela Tuscano

 Fu, forse, l'ultima estate pienamente estate. Le estati dei bambini, interminabili, sprofondate, azzurre, che duravano mesi e non bastavano mai. Le estati delle nonne, delle letture e delle scoperte. Anch'io ero scoperta, il mio petto minuscolo e fiorito, ma acerbo e senza sesso. Per gli adulti. Talvolta anche per me. Ma non sempre. Nell'estate del '73 ero "fidanzata" con Giorgio, da #Vercelli. Durò due lunghi anni, sapeva di ghiaccioli multicolori, di spiagge libere, di short e di labbra. Sì, le labbra avevano un sapore. D'acqua tiepida e molle, rotonda e innocente. Lo vissi, quel momento di pace totale, di libertà spontanea, per cui anche i vecchi sorridevano, e per quel momento ancora vivo, viviamo tutti. E scrivevo, sempre e ovunque. Poi l'autunno, l'#austerity. Anche quella la ricordo bene. E
gli 
#anni70 dovrei raffigurarli così, strade nere, abiti ridicoli e strizzati con qualche retrogusto di povertà. Ma sono realtà parziali, da adulti. Durante l'austerity io sfrecciavo con la bici su carreggiate neglette come in una novella di #Buzzati. Ma senza inquietudine. In quello che ora è il #parconord e che un tempo tutti chiamavano #campovolo arrivavano le #pecore a pascolare. C'era solo prato anzi erba e nessuno si chiedeva perché, esisteva e basta. Ricordo il razionamento del #sale. Al suo posto in tavola comparivano contenitori a cilindro con esaltatori di sapidità, robaccia chimica. Che però sopportai e persino mi piacque, mi percepivo al centro d'una grande epopea di resistenza. Tanto poi l'estate sarebbe tornata, e con essa le letture, i componimenti. E Giorgio.

6.10.22

disparita di trattamento sulla gestione dei figli in caso di violenza di genere . i fatti di Roncadelle - di Patrizia Cadau

COLONNA SONORA

 A Roncadelle, un bambino di quattro anni costretto dalla legge e dagli assistenti sociali ad incontrare il padre che aveva già aggredito la madre, è stato sequestrato ieri dal padre mostro, che si è barricato con lui in casa, dopo essere scappato alla fine di un incontro protetto.Quindi, viviamo in un paese dove la violenza domestica denunciata da una madre vale come una banconota del Monopoli, e un padre, legittimato da una legge oscena è "comunque" il padre padrone e a nulla vale l'interesse di un minore.È stato il bambino a telefonare alle forze dell'ordine per dire che al momento sta bene.Al momento: perché ancora è sequestrato dal padre e sono in corso le trattative per "liberarlo".Queste le conseguenze estreme dell'indifferenza con cui noi donne veniamo prese in considerazione, ma soprattutto le conseguenze di una legge che nega la violenza e consente agli uomini violenti l'impunità, la sfrontatezza di sentirsi al di sopra di tutto e tutti, la persuasione di poter disporre della gente di casa come si vuole.Se una donna denuncia violenza in famiglia, per quale ragione non viene mai creduta, nonostante l'evidenza (l'uomo in questo caso aveva aggredito anche l'avvocata dell'ex moglie), perché non si mettono in protezione almeno i bambini anzi, li si costringe a passare tempo con questi padri di merda, violenti ? Ma allora ditecelo che dobbiamo morire, ditecelo prima che tanto non abbiamo speranza, che è tutto inutile, perché avete deciso che questo sistema deve funzionare così.Nei secoli.



Edit
Il bambino è stato liberato pochi minuti fa

28.9.22

la storia di Marco Menin che scopre suo padre Ennio fascista e torturare e deportatore di partigiani e chiede scusa a Ennio Trivellin fatto deportare da suo padre nei lager l'unico a tornarvi

 corriere  veneto del  22 settembre 2022 - 07:54

LA STORIA

Mio padre, spia dei fascisti: un segreto tenuto per tutta la vita
Verona, a 64 anni il professore Marco Menin scopre per caso il ruolo del genitore che s’infiltrò tra i partigiani e rivelò i loro nomi alle camicie nere. Furono uccisi o deportati

                              di Andrea Priante








Marco Menin

«Nel 2020 ero a casa, davanti al computer. Quasi per gioco, mi è venuta l’idea di provare a digitare il nome di mio padre sul motore di ricerca. È così che il suo segreto è venuto a galla. Su internet c’era tutto: i verbali, le testimonianze, le sentenze di condanna. A 64 anni ho scoperto che l’uomo che per tutta la vita avevo sempre considerato solo come un genitore, un marito e un nonno amorevole, in realtà era il responsabile delle torture, della deportazione e della morte di decine di persone».
Come un film
Sembra un film, di quelli che provano a raccontare le ferite della guerra e dei vagoni che da Bolzano portavano i prigionieri a Mauthausen. Invece a parlare è l’ex professore di Fisica di un istituto tecnico di Verona oggi in pensione, Marco Menin. Suo padre Sergio, classe 1921, è scomparso 25 anni fa. «E io gli sono stato vicino durante la malattia. Per giorni abbiamo parlato di tutto, mi ha raccontato cose che non sapevo. Eppure, perfino in punto di morte, mi ha nascosto la sua vera storia. È questa la cosa che più di tutte non riesco a perdonargli». In realtà le storie - quelle che per la prima volta accetta di raccontare a un giornale – sono due: c’è quella di un giovane fascista che durante la Seconda guerra mondiale si infiltrò tra i partigiani per poi condannarli a finire nei campi di concentramento, e quella di un figlio che quasi ottant’anni dopo scopre tutto e si ritrova a mettere in discussione le certezze che l’hanno sempre accompagnato.
I racconti di guerra
«Era capitato che papà mi parlasse della guerra. Di rado, a dire il vero, e anche quel poco era angosciante. Mi disse che a 18 anni fu arruolato nella Divisione Centauro, come autista, e poi trasferito sul fronte balcanico, come capocarro su un M13. Mi narrava pure del suo ritorno a casa, dopo l’8 settembre del ‘43, come fosse una scampagnata: alla guida del suo carro armato attraversò Jugoslavia e Triveneto fino a parcheggiare il mezzo militare sulle Rigaste di San Zeno, a Verona». E dopo? «Nient’altro. I suoi aneddoti si interrompevano lì». Gli anni del dopoguerra furono quelli della ricostruzione. Sergio Menin – senza mai nascondere le sue inclinazioni per la Destra - aprì una concessionaria d’auto in pieno centro, poi un’azienda che si occupava dell’installazione e della manutenzione di ascensori. «Era un uomo “normale”, come tutti gli altri. Ricordo che lo vedevamo poco: partiva al mattino, quando io ancora dormivo, e tornava la sera tardi. Però era generoso, simpatico. Una volta donò il sangue salvando la vita a una mamma e alla sua bambina. Un brav’uomo, almeno questa è l’immagine che tutti avevano di lui».
La verità
Dai documenti rintracciati sul web, Marco Menin ha scoperto che dopo l’Armistizio suo padre – col nome di battaglia «Uccello» - entrò a far parte della divisione Pasubio. «Si tratta di una delle più nutrite brigate partigiane che, guidata dal comandante Giuseppe Marozin, combattè tra Vicenza e Verona» spiega il ricercatore Salvatore Passaro, autore di un approfondito studio («Don Carlo Simionato, il cappellano dei forti Veronesi», Cierre edizioni) sulla Resistenza veneta. «Nel settembre del ’44 un massiccio rastrellamento nazifascista, denominato “Operazione Timpano”, portò al suo annientamento e all’uccisione di decine di partigiani. Non è chiaro chi fece i loro nomi ai repubblichini, ma il sospetto è che Sergio Menin possa avere avuto un ruolo». È ciò che pensa anche Marco Menin: «Credo che già all’epoca mio padre fosse un infiltrato al soldo dell’Ufficio politico investigativo della Rsi».
Le testimonianze
La certezza, invece, riguarda i fatti successivi. Scampato agli scontri, il partigiano «Uccello» entrò a far parte del battaglione Montanari. E qui le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze e dei processi che seguirono (e che portarono a tre condanne a morte nei confronti di Sergio Menin) non lasciano dubbi: «Papà fu arrestato dai fascisti assieme ad altri compagni di lotta. Pochi giorni dopo si ripresentò tra le fila partigiane, raccontando di essere riuscito a fuggire. In realtà aveva fornito ai repubblichini una cinquantina di nomi dei componenti del battaglione». I nazifascisti li catturarono, alcuni furono passati per le armi, altri deportati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero una manciata, e tra loro il veronese Ennio Trivellin, staffetta partigiana morto la scorsa settimana a 94 anni: ne aveva appena 16 quando su un carro bestiame fu trasferito a Mauthausen.

  ed  proprio a lui  che  Marco Meni  foiglio  di Sergio    chiederà  scusa



Paola Dalli Cani  L'arena  22  \9\2022 

Trivellin, testimone dei lager, morto a 94 anni e la lettera a L'Arena di Marco Menin

LA RIVELAZIONE ALLE ESEQUIE DEL PARTIGIANO
Trivellin, scuse ai funerali: «Papà ti fece deportare»
Ennio venne arrestato e internato a Mauthausen: a tradirlo era stato Sergio Menin. Ora il figlio ha chiesto perdono: le sue parole lette al cimitero e pubblicate su L’Arena




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«Con lui scompare l’ultimo veronese testimone diretto della deportazione, e oramai è necessario capire come noi, qui e oggi, possiamo dare continuità ad una memoria fondante per la nostra democrazia. Nella consapevolezza che era possibile fare la scelta giusta e quella sbagliata: dobbiamo rispettare le memorie di tutte le persone che hanno vissuto quella tragedia, ma senza dimenticare i crimini di chi ha scelto di riempire i vagoni che portavano ai lager».
Il bisogno di chiedere scusa
Su uno di quei vagoni ci era stato spinto anche Ennio Trivellin nell’ottobre del 1944, reo di aver messo i suoi sedici anni a servizio della Brigata Montanari. Ci era stato spinto su delazione, e del nome dell’uomo che si presentava come Uccello, Trivellin non aveva mai fatto segreto. A distanza di 78 anni, prima martedì al Cimitero monumentale di Verona e ieri con una semplice lettera pubblicata nello spazio dei lettori de L’Arena, Marco Menin, che di Uccello è il figlio, ha voluto pubblicamente rendere omaggio a quel ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, porgendogli pubblicamente «quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire».Personalmente lo aveva fatto due anni fa, scegliendo di presentarsi ad un uomo che non sapeva come affrontare ma dal quale era stato accolto «con un sorriso dolcissimo che porterò con me come uno dei ricordi più cari». Avrebbe potuto tacere, Marco Menin, avrebbe potuto ignorare la scoperta che lo aveva sconvolto: «Quel delatore aveva un nome che ho scoperto solo due anni fa: quello di mio padre Sergio, che quella guerra civile aveva scelto di combatterla dalla parte sbagliata della storia». C’erano state le fughe, c’erano stati i processi e poi le amnistie: tutto cancellato, tranne la memoria di Ennio, che da una quindicina di anni aveva accettato la sua condanna a ricordare e a tenere viva la memoria di ciò che era stato e di chi non era tornato, e, più tardi, quella di Marco Menin.
La commemorazione
Così, dopo la celebrazione composta in cui Ennio Trivellin, da presidente dell’Associazione nazionale degli ex deportati di Verona, è stato salutato tra le arcate della chiesa di Santo Stefano, la commemorazione spostatasi al camposanto è stata l’occasione per riannodare i fili: le parole di un figlio che si scusa nel nome del padre e quelle della nipote di un deportato che ha scelto l’impegno in prima persona (Tiziana Valpiana, nipote di Gracco Spaziani e vice presidente dell’Aned scaligera), tratteggiano le tante eredità di Ennio, l’ex studente, il partigiano Gervasio, il partigiano Nemo.
Tanti studenti con l'urgenza di opporsi al fascismo
Quanti nomi attorno ad un uomo che, raccontando, ha restituito a Verona la memoria di don Carlo Signorato e ha alimentato la fiamma della ricerca storica che ha permesso a studiosi nati trent’anni dopo la liberazione di restituirla a Francesco Chesta ed Eliseo Cobel del Galileo Ferraris, la sua stessa scuola, di Valentino Rosà e Lino Cirillo dello Scipione Maffei, Natale Mihel del Pindemonte Lorgna (ultimo superstite da anni trasferito a Stoccolma), Battista Ceriana del Messedaglia e ai tanti studenti che, come lui, scelsero l’impegno. «Celebriamo quel sedicenne consapevole dell’urgenza di opporsi al fascismo e contrastare l’invasione nazista, ma inconsapevole di quali orrori avrebbe visto», le parole di Valpiana, «una vita diventata testimonianza ed una grande eredità, immensa e terribile: raccogliere il testimone e continuare l’impegno contro l’oppressione, la dittatura, il razzismo e lo sfruttamento». 



2.9.22

La psichiatra sassarese Laura Fumagalli in Iraq per aiutare i sopravvissuti a un genocidio e La favola di «Nadia Petite»: da Nuoro alle sfilate a Miami

 La psichiatra sassarese Laura Fumagalli in Iraq per aiutare i sopravvissuti a un genocidio
In missione con Medici senza frontiere in un villaggio colpito dall’Isis. «Si portano dentro il ricordo dell’orrore»

 l’agosto di otto anni fa: seicento uomini vengono uccisi a colpi di kalashnikov, le donne rapite diventano schiave e merce di scambio. La piccola stoica minoranza religiosa Yazida, nell’Iraq settentrionale,  vittima di un sanguinoso genocidio da parte dei terroristi dell’Isis. Una tragedia raccontata da “L’ultima ragazza”, il libro del premio Nobel Nadia Murad, che da quell’orrore ; riuscita a salvarsi. Otto anni dopo, Laura Fumagalli ha raccolto, ma in maniera diversa, storie di vite – ancora – strappate alla quotidianità .
Laura Fumagalli (al centro) assieme al resto dell'équipe
impegnata nella missione in Iraq



Laura le ha ascoltate dai letti di ospedale di un piccolo villaggio. I pazienti di fronte, che forse nemmeno sanno di essere tali, e lei, psichiatra, a cercare di capirli e farsi capire in inglese. Laura, 42 anni, di Sassari, rientrata da poco da una missione umanitaria per conto di Medici senza frontiere a Sinuni, in Iraq.  partita lo scorso gennaio, era la sua prima volta. Dice di aver bisogno di qualche mese per metabolizzare l’esperienza.
La cosa più; sorprendente, Laura Fumagalli la dichiara subito:La comunità yazidi \ una minoranza etnoreligiosa che ha subito nel 2014 il genocidio da parte dell’Isis, ma nella loro storia ne ha subiti ben 74. E nonostante ciò continua a essere aperta e disponibile col prossimo. Le persecuzioni continuano, ora hanno gli echi delle bombe. Racconta Laura che durante il suo servizio di sei mesi presso una piccola struttura ospedaliera, ci sono stati due episodi di bombardamenti particolarmente pesanti da parte della Turchia. La prima volta ci è tato dato ordine di evacuare, si stava formando un corridoio di sicurezza ma era notte, una situazione pericolosa, e siamo rimasti nell’ospedale – dice la psichiatra –. La seconda volta è stato bombardato un edificio a un minuto da noi. In entrambi i casi vedevamo i miliziani sparare dai tettiLa guest house di soccorso era per\u0026ograve; marchiata Medici senza frontiere: I bombardamenti erano precisi, fatti coi droni, per questo sul tetto avevamo il logo cosi' da evitare di diventare un target direttLaura era l’unica italiana nella equipe di assistenza formata da medici di tutto il mondo, da Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania e Grecia nel gruppo europeo, da Congo, Nigeria, Tanzania e Camerun in quello africano. Laura definisce la sua esperienza  e in quell’aggettivo ci sono situazioni vissute estremamente profonde. Ho visto una comunità molto forte, unita purtroppo nella tragedia. Il momento peggiore arrivava quando bisognava comunicare le patologie croniche, ma ho trovato persone che cercavano sempre di reagire, senza perdere la speranza o farsi sopraffare dallo sconforto. Un atteggiamento diverso rispetto a quello degli occidentaliCi sono quelle che restano impresse più di altre. Il camice da psichiatra costringe a guardare le cose dall’alto. Raccontarle ora significa invece rivestirle di emozioni: Molti non si sono ripresi dal genocidio. Una ragazza – ricorda Laura Fumagalli – era rimasta prigioniera dell’Isis per tre mesi e quando riuscita a tornare a casa era completamente psicotica. Era libera ma segnata nell’animo. Poi mi ha colpito moltissimo il caso di un uomo con disturbo post traumatico da stress: lui \u0026egrave; riuscito a scappare nelle montagne ma ha visto e vissuto cose che lo hanno segnato per sempre. Quando le famiglie fuggivano – racconta Laura – non avevano modo di portare nulla e alcuni lasciavano per strada i neonati. Quest’uomo continua ad avere gli incubi legati proprio a quell’immagine, dei bambini abbandonati nella fuga. E quest’uomo è  riuscito a buttare fuori i propri demoni attraverso le sedute psichiatriche, ma l’aiuto \u0026egrave; su tutti i fronti, sul campo ci sono diverse Ong e ognuna d\u0026agrave; il proprio apporto. Ci sono le sedute, i farmaci, la psicoterapia, l'ospitalita' il cibo. Un lavoro di squadra con l’obiettivo di rimettere insieme i pezzi di vite strappate. La domanda più; secca: ripartirebbe per una missione umanitaria? La risposta lo è ancora di più 




1.9.22

A Milano c'è un circolo del tennis pubblico e gratuito: "Ma quale padel, il nostro è il vero sport" Nel 2006 il comune di Milano riconvertì nei pressi del parco Trenno

 A Milano c'è un circolo del tennis pubblico e gratuito: "Ma quale padel, il nostro è il vero sport" Nel
2006 il comune di Milano riconvertì nei pressi del parco Trenno un parcheggio di fronte a una scuola in due campi da tennis pubblici e gratuiti, una rarità non solo per il capoluogo lombardo ma anche per il resto del Paese. Da allora, negli anni, si è formato un nucleo storico di frequentatori che si sono autonominati "TCT", ovvero "Tennis Club Trenno", che, tramite una divertente pagina Facebook, raccontano la gestione dei campi e associano - anche se informalmente - i nuovi arrivati. "Il nostro - racconta Fabio Maffini, tra i gestori della pagina e insegnante di tennis - non è un circolo ufficiale ma ideale, dove tutti possono associarsi. Il tennis ha un costo, da noi no". E così, fra inverni passati a spalare la neve dal campo e pomeriggi estivi tra volée o partite a carte, il club è arrivato fino a 140 iscritti. "Questo - argomenta Mauro, altro giocatore - è un luogo di vera socializzazione che tiene lontane le persone da bar, bicchierini, scommesse e via discorrendo".



 Il circolo ha una forte componente di pensionati anche se non mancano i più giovani. Rispetto a pallacanestro o calcio, sport molto praticati in aree urbane in maniera estemporanea e gratuita, il tennis non ha storicamente uno spirito "di strada". Cosa che, invece, al TCT è molto presente e non senza polemiche sulla gestione dei campi. "Per prevenire incidenti su chi deve giocare e chi no - dice Pino, storico frequentatore 69enne - c'è una regola non scritta. E cioè si fanno doppi, da due set e poi si lascia il campo. Chi non rispetta la regola non è benvenuto". Nel gruppo del TCT ci si dà soprannomi, come "Acciughina" o "Bradipo", c'è "L'Artennista" Francesco, che disegna caricature dei nuovi arrivati e i campi sono divisi in due: uno per i più bravi, l'altro per i principianti. Un piccolo esempio di comunità creata da un intervento amministrativo che, ai suoi membri, fa lanciare un messaggio: "Ce ne vorrebbe uno in ogni zona di Milano".
                                    di Andrea Lattanzi

  da  non confondersi  con  Il padel (dallo spagnolo pádel, a sua volta dall'inglese paddle )  sport con la palla di derivazione tennistica. Si pratica a coppie in un campo rettangolare e chiuso da pareti su quattro lati, con l'eccezione delle due porte laterali di ingresso. Il gioco si pratica con una racchetta dal piatto rigido con cui ci si scambia una pallina uguale a quella da tennis, ma con una pressione interna inferiore, che permette un maggior controllo dei colpi e dei rimbalzi sulle sponde. Non è da confondersi, quindi  ,  con il paddle tennis di cui è una variante. ..... qui altre  notizie   sul  suo derivato Padel

19.8.22

Nella casa famiglia di Napoli che ospita la bimba vittima della violenza dei genitori, segregata tra indicibili sofferenze: "Non parla, ma adesso ti guarda se la chiami"



da   repubblica  



Elsa a 9 anni "impara a vivere e ti stringe la mano": coccole, frullati e peluche







Ha il sorriso obliquo di chi per 9 anni di sorrisi non ne ha fatti a nessuno e non ne ha ricevuti. I fratellini che la nutrivano di nascosto dai genitori, con quel che avanzava loro di latte e biscotti, le dimostravano affetto così, preoccupandosi che sopravvivesse all'abbandono, nel migliore dei casi, e alla violenza cieca di genitori che l'hanno rifiutata da sempre. Picchiata, maltrattata, e chissà cos'altro.








Ma adesso Elsa, nome di fantasia, ha una casa colorata e pulita, attrezzata e piena di giocattoli. Un nido, finalmente, dove comincia per lei una nuova vita. Circondata da altri 5 bambini, il più grande ha 13 anni, e soprattutto dalle cure e dall'amore del gruppetto di educatori, infermieri e terapeuti che gestiscono "La casa di Matteo" a Napoli. Una struttura socio assistenziale che ieri ha aperto le porte a Repubblica.



Elsa ha finalmente, qui, la possibilità di rimettersi in piedi. "Camminerà? Correrà come tutti gli altri bambini? Non lo sappiamo - spiega Matteo Cudemo, il ventottenne coordinatore educativo della struttura - . Presto cominceremo un recupero attraverso la psicomotricità e la logopedia. Ma innanzitutto vogliamo che Elsa capisca cosa vuol dire essere amata".







E forse i primi passi in questa direzione la bimba li sta già facendo. Dopo che per 9 anni non è esistita agli occhi del mondo, pur essendo registrata all'anagrafe in un paese in provincia di Caserta, dopo che è diventata un fantasma per il sistema sanitario, come per quello scolastico o assistenziale, Elsa si guarda attorno curiosa del mondo.
Era un nulla lasciato a terra a marcire, gli arti spezzati in più punti per le percosse e saldatisi storti, le anche fuori sede, la schiena che non ha imparato a stare diritta, né in piedi né stesa. Ora ha un divano sul quale siede, circondata da cuscini che le impediscono di cadere, e finalmente un amico: è un altro ospite della struttura, ribattezzato "Kung fu Panda", un ragazzino forzuto quanto affettuoso che ha scelto proprio il posto vicino a lei, sul divano, per guardare e mostrarle i cartoni animati che vanno a manetta sul suo tablet.



La pietà di un vicino che ha segnalato la presenza della piccina alle autorità comunali ha permesso il giro di boa nella vita di Elsa. È intervenuto il Tribunale per i minori, poi per un mese la bambina è stata ricoverata nell'ospedale pediatrico Santobono (mentre i genitori sono finiti in galera e i fratellini affidati a una casa famiglia).
Infine, la struttura in cui Elsa ha cominciato persino a mangiare, dopo 9 anni di denutrizione. Non ha imparato ancora a masticare, ma sono bastati pochi giorni di omogeneizzati e frullati, come fosse un bebè, per farle apprezzare i sapori nuovi e destare in lei la curiosità per il cibo. "È un ottimo segno", dicono gli operatori che la seguono e che non disperano, sin dai prossimi giorni, di poterla "svezzare".



Elsa ha finalmente un lettino, arancione, con i pupazzi sulle lenzuola. Il suo recupero passa anche da lì, dalla normalità dell'infanzia che sin qui le hanno negato. E dall'affetto di chi, per la bimba è un miracolo, la pettina e le raccoglie i capelli in codini, la bacia e la coccola. Elsa avverte la loro delicatezza. E lo dimostra imparando, giorno dopo giorno, ad alzare lo sguardo quando si sente chiamare con un vezzeggiativo. La bimba non sa parlare. Non ha sin qui conosciuto parole d'amore.
Chiude gli occhi se incrocia sguardi estranei, ritrae il visino se le giunge una carezza, ma stringe la manina a pugno se al palmo le si accosta un dito, come il riflesso dei neonati che intenerisce i genitori. In Elsa è ben più di un riflesso. Alle dita dei giovani operatori della "Casa di Matteo" si aggrappa come a dei salvatori; e Flavia Crisci, educatrice di 24 anni, confessa: "Non ho esperienza della maternità, ma credo che l'amore per Elsa si accosti straordinariamente a quello che proverei per un figlio. Speriamo che qui Elsa possa rinascere". E dimenticare la casa dell'orrore e i genitori orchi.



La struttura socio assistenziale che la ospita è dedicata ai bambini fino a 13 anni non normodotati. Fu fondata cinque anni fa da Luigi Volpe - che aveva appena perso il figlio Matteo - e dall'attuale assessore al Welfare della giunta Manfredi, Luca Trapanese. Proprio Trapanese ha accompagnato il presidente della "Casa di Matteo", Marco Caramanna, a prendere la bambina in ospedale, una settimana fa. "Benvenuta piccola - ha detto l'assessore - da oggi inizia una nuova vita dove la violenza e l'incuria cedono il passo all'amore e alla cura".
E dopo i primi giorni in cui si spaventava per ogni presenza estranea, ora ci accoglie facendo smorfie che non raccontano timore, ma fiducia. La presenza dei visitatori non la turba, ma certo le coccole vanno centellinate per non infastidirla. Di certo quel sorriso obliquo racconta, oggi, che la bimba ha capito che qui la violenza non è di casa.

7.7.22

Un ragazzo si è riunito con la propria madre biologica dopo 20 anni; stavano lavorando nello stesso posto

 lo so che    sono noioso   o sembrerò un vecchio  ma  essendo cresciuto  con anime che  trattavano argomenti  simili   e con  racconti   simili da parte dei nonni  specie quelli paterni  ,  certe  storie mi  affascinano ancora  .


 da  https://curiosandosimpara.com/2022/06/25/

Un ragazzo si è riunito con la propria madre biologica dopo 20 anni; stavano lavorando nello stesso posto

Benjamin Hulleberg è un ragazzo di 21 anni che vive nello stato dello Utah insieme alla sua famiglia adottiva da quando aveva solamente pochi giorni di vita. Angela e Brian Hulleberg, i suoi genitori adottivi, non gli hanno mai nascosto le sue origini e hanno sempre espresso la loro gratitudine nei confronti di Holly, la ragazza che l’aveva messo al mondo e che molti anni prima, il giorno del Ringraziamento, aveva dovuto separarsi da lui.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Per questo, Benjamin ha sempre avuto il desiderio di poter incontrare la propria madre biologica, tuttavia, non conoscendo nemmeno il suo congnome era consapevole che non sarebbe stata una ricerca facile. Nonostante questo, con l’appoggio di Angela e Brian si iscrisse ad un registo di adozioni e fece il test del DNA con la speranza di ritrovare mamma Holly.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Quando nacque Benjiamin, Holly aveva solamente 16 anni e per questo si vide costretta a fare una scelta molto difficile, ma, nonostante questo, il suo bambino continuava a rimanere al centro dei suoi pensieri. Per i primi tre anni dopo l’adozione gli Hulleberg avevano continuato ad inviarle lettere e foto, in seguito, quando l’agenzia di adozioni a cui si era rivolta venne chiusa, non ebbe più alcuna notizia.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Non riuscendo a darsi pace, Holly provò a cercare il proprio figlio sui social network e riuscì a trovarlo nel 2019, quando il ragazzo aveva circa 18 anni. Nonostante le sue ricerche fossero andate a buon fine, Holly non aveva il coraggio di entrare come un fulmine a ciel sereno nella vita di quel giovane che aveva tanti progetti e sogni da realizzare, per questo, inizialmente decise di non contattarlo e di “osservarlo da lontano”.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Tuttavia, il 19 novembre del 2021, il giorno del 20° compleanno di Benjamin, la donna ha deciso di inviargli un messaggio per fargli tanti auguri e, con sua grande sorpesa, il ragazzo non ha perso tempo e le ha chiesto di potersi incontrare il prima possibile.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Così, la sera successiva la famiglia di Benjamin e quella di Holly si sono incontrati a cena ed è stata per tutti un’emozione unica. Durante l’incontro, oltre a lacrime di gioia, baci e abbracci, madre e figlio si sono resi conto di lavorare nello stesso posto da almeno due anni. Infatti, entrambi sono impiegati presso il St. Mark’s Hospital di Salt Lake City, Holly come assitente medico presso il reparto di cardiologia, mentre Benjamin come volontario presso l’unità di terapia intensiva neonatale.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Durante un’intervita Holly ha raccontato che: “Ogni mattina entro dal reparto di maternità per andare a lavoro. Di fatto, sono passata direttamente dalla terapia intensiva neonatale ogni singolo giorno. Abbiamo parcheggiato nello stesso garage e siamo stati sullo stesso piano, non avevamo idea di essere così vicini“.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Da quando si sono riuniti, Benjamin ha stretto un legame anche con i suoi due fratellastri minori e, almeno una volta a settimana, si incontra con Holly per bere un caffè e per fare due chiacchiere insieme a lei.


6.7.22

Da analfabeti a diplomati e ora pronti per l’Università La nuova vita di Barry, Milly e Dikson arrivati dall’Africa con i barconi. L’incontro con donne speciali che li hanno adottati e fatti studiare



Da analfabeti a diplomati e ora pronti per l’Università


la nuova sardegna del 06 luglio 2022

                                            Silvia Sanna

La nuova vita di Barry, Milly e Dikson arrivati dall’Africa con i barconi. L’incontro con donne speciali che li hanno adottati e fatti studiare


Uno in fuga dalla miseria, un altro spinto dalla voglia di libertà, il terzo che sul gommone c’è finito per caso e in Sardegna è sbarcato a petto nudo, con le sole mutande che aveva indosso. Tre storie di tre ragazzi, di due madri e di una comunità chioccia che li ha protetti, indirizzati, amati. Si chiamano Barry, Milly e Dikson: hanno 27, 24 e 23 anni, sono arrivati tra il 2015 e il 2016 dalla Guinea Conakry, dal Mali e dalla Nigeria. Oggi sono diplomati, dopo una full immersion sui libri che si è chiusa con tre anni di Serali all’Alberghiero di Arzachena. E ci hanno preso gusto perché, come dice Barry «lo studio ti aiuta a trovare il tuo

posto nella società». E infatti tutti e tre sognano di continuare a studiare all’Università e nel frattempo si godono la meritata e sudata Maturità. Ecco i voti: Barry 77, Milly 75 e Dikson 73. Giusti? «No – dice Dikson – secondo me io meritavo qualche punto in più».Barry e Milly. Il primo, ex analfabeta, ha superato brillantemente l’esame orale parlando del Notturno di D’Annunzio. E anche Barry, in quei momenti, ha ricordato la sua esistenza precedente, segnata dalle privazioni, dalla povertà e dall’assenza di prospettive. «Oggi ho la sensazione di vivere una “vita rovesciata”: nel 2016 sono stato soccorso dopo un lungo viaggio in mare sul barcone, ora sono io che soccorro gli altri in ambulanza con la Protezione civile di Lungoni. È bello, mi sembra di dire grazie». Milly invece fa il giardiniere per la “Cmn garden” di Santa Teresa e nel tempo libero divora libri di storia: «Già da bambino in Mali mi incantavano le vicende dei grandi personaggi, le storie dei luoghi e dei monumenti, la scoperta del passato. Volevo studiare ma in famiglia non c’erano soldi: mio padre faceva il contadino, mia madre è morta quando ero bambino. Sul barcone avevo tanta paura ma salirci era l’unico modo per sopravvivere». La svolta per Barry e Milly è arrivata nel 2016 a Porto Pozzo, quando nei paraggi del centro migranti che li ospitava una signora si è rivolta a Milly per strada parlando in francese: era Alessandra Correzzòla, quella che loro oggi chiamano mamma e che negli ultimi 6 anni è stata anche insegnante, amica e compagna di scuola. «Alessandra ci ha aiutato a imparare l’italiano – dice Barry – a me che ero analfabeta ha insegnato tutto. Grazie a lei siamo andati a scuola, prima alle Medie e poi alle Superiori». Aggiunge Milly: «Alle Serali si è iscritta anche lei, nonostante il diploma e la laurea l’avesse già: ha preso 98, meritatissimo. E poi ci ha dato una casa quando il Centro migranti ha chiuso e noi non sapevamo dove andare. Lei e la sua famiglia sono diventati la nostra famiglia». Ma non è stato tutto facile, perché soprattutto all’inizio la diffidenza era tanta: «Le prime volte in ambulanza la gente non voleva farsi toccare da me – dice Barry – ero il ragazzo di colore che non parlava l’italiano. Secondo alcuni dovevo solo guardare». «Il problema è che spesso si tende a giudicare senza sapere nulla dell’altro – aggiunge Milly – ho capito che spetta anche a noi farci conoscere e apprezzare, il rispetto te lo devi guadagnare».Dikson. Il 1 ottobre del 2016 aveva 16 anni quando è salito sul barcone che dalla Libia lo avrebbe portato in Italia. Il viaggio è durato 6 giorni e lui ha pianto tutto il tempo: «Avevo paura, ero solo, non avevo nulla e volevo tornare a casa mia in Nigeria. Ora ringrazio chi mi ha convinto a partire». Quella di Dikson è un’altra storia incredibile, segnata dagli incontri e dalle coincidenze. «Non ho mai conosciuto i miei genitori naturali, appena nato sono stato affidato a un’altra famiglia con cui ho vissuto sino ai 16 anni e da cui sono stato trattato bene. Ma soldi non ce n’erano, mio padre faceva il saldatore e mamma era casalinga. Non ho potuto studiare e sono andato presto a lavorare, a raccogliere meloni nei campi. Un giorno ho conosciuto un signore. Mi ha detto: “Ci sai fare, vieni con me a lavorare nella mia campagna». Quando sono arrivato ho scoperto che dovevo occuparmi di raccogliere l’erba per dare da mangiare alle mucche e alle capre. E se non trovavo abbastanza erba, quello mi picchiava. Un incubo durato più di un mese sino a quando non è arrivato il fratello e mi ha portato via. Io pensavo mi riaccompagnasse a casa, invece ho scoperto che organizzava i viaggi dei migranti sui barconi. Mi ha detto “parti, tanto se non muori nel viaggio morirai qui”. Sono sopravvissuto e arrivato a Cagliari». Poi il trasferimento ad Aglientu e come per Barry e Milly, una donna, una madre, nel suo cammino: «Si chiama Anna Franca Satta, prima mi ha insegnato a leggere e a scrivere e poi mi ha adottato. Sono suo figlio dal 2020. Mia madre mi ha fatto studiare, le Medie a Valledoria e poi l’Alberghiero ad Arzachena. Grazie a lei mi sono diplomato e quasi non mi sembra vero. Sono arrivato in mutande, lei mi ha ridato la vita»

3.6.22

I pugili di Auschwitz, veri e improvvisati: costretti a battersi nei lager per sopravvivere


  repubblica  online  

La storia di Noah Klieger, che sarebbe poi diventato scrittore, giornalista e dirigente sportivo in Israele, ha ispirato José Ignacio Perez a scrivere ''K.O. Auschwitz". Atleti nell'inferno dei campi di concentramento 


Noah Klieger ha avuto un vita lunga, dal 1925 al 2018. E’ stato scrittore, dirigente sportivo, giornalista: ha raccontato il basket in dieci mondiali e

cinque olimpiadi. Tutto o quasi passa però in secondo piano rispetto ad anni maledetti, a un maledetto: 1944, 1945, Auschwitz. “Sai fare la boxe?”. In quella miriade di porte che il destino apre e chiude, la sua vita può ruotare anche intorno  a una banale domanda. No, la boxe Noah non la sa fare, ma coglie la sfumatura, capisce che può essere una via di scampo. “Sì”, nonostante non abbia mai messo un paio di guantoni e sul ring non sia ammessa improvvisazione, perché su quel quadrato ci salgono non solo kapo fisicamente molto più in forma di lui, ma anche gente che prima di entrare nell’inferno la boxe l’ha fatta davvero.

Quel ‘Sì’ potrebbe trasformarsi in una condanna se non fosse per Jacko Razon: campione di Grecia, poi militare e fatto prigioniero dai nazisti, che lì sono intervenuti dopo l'impantanamento delle truppe italiane. Jacko, che deve affrontare Noah, ci mette poco a capire che il suo avversario di boxe sa poco. E allora gli insegna i rudimenti, come stare sul ring, la fase difensiva. Di fatto il loro incontro è una sorta di recita, ma tanto basta a Noah per prendere tempo, imparare, combattere (lo farà una ventina di volte), per salvarsi con la classica forza della disperazione. Una storia raccontata nell’ultimo anno della sua vita a José Ignacio Perez, che ne ha tratto ispirazione per scrivere ‘’K.O. Auschwitz”. E’ un libro in cui si ripercorrono le vicende di alcuni pugili, veri o improvvisati, nei campi di concentramento.

Match organizzati usando violenza allo spirito nobile della boxe, degradata a senso della sopraffazione, privata di qualsiasi significato sportivo. Eppure, sembra impossibile, anche un contesto di follia presenta delle eccezioni. Come quella di Walter Durning, un kapo meno spietato del solito: affronta Tadeusz Pietrzykowski, pugile forte e molto popolare in Polonia. Ne esce demolito, ma riconosce la grande bravura dell'avversario al punto da fargli aumentare le razioni di cibo e alleggerirgli i carichi di lavoro. Tadeusz è fortunato, non come Victor Young Perez, che invece non sopravvive alle tante marce della morte.

Un libro che ci dà lo spunto anche per ricordare tante altre storie. Quella sinti Johann Trolmann ad esempio, un ballerino del ring, forte al punto da diventare campione di Germania in anni difficilissimi per la sua etnia. Purtroppo lui sulla sua strada non trova Walter Durning, ma Emil Cornelius: è uno che non accetta di essere distrutto sul ring da un avversario che neanche riesce più a stare in piedi e si vendica a colpi di piccone.

Quella di Harry Haft: il nome è l’americanizzazione di Hertzko. Lui è un pugile vero, lo dimostrerà nel dopoguerra, quando riuscirà addirittura a ottenere una chance mondiale per il titolo dei pesi massimi contro l’immenso Rocky Marciano.  Si chiama ancora Hertzko quando mette nei suoi combattimenti ad Auschwitz una tale ferocia da venire chiamata la ‘belva giudea’. Le cicatrici nell’anima gli rimarranno, ma la sua storia è di quelle in cui tante sensazioni si confondono. Una storia diversa da quella del romano Leone ‘Lelletto’ Efrati, uno dei parecchi idoli dei ring romani degli anni Trenta. Va forte, abbatte i confini, va all’estero: in Francia e poi in America, dove arriva a battersi per il titolo mondiale fallendo di poco l’impresa. Potrebbe restarsene al di là dell’oceano, ma torna per stare vicino alla famiglia. Caduto in una retata della Gestapo, vincerà tante volte nonostante – peso piuma – venga spesso costretto a battersi contro gente fisicamente molto più grande. Non potrà farlo quando, intervenuto per difendere il fratello, la furia dei guardiani si accanirà contro di lui.

il parroco di Losson, frazione di Meolo, in provincia di Venezia, vieta il campo da calcio alla squadra femminile: «La comunità è impreparata»

    ecco una storia   di   come   che in italia ci sono sacche d'arrettramento culturale e ci vuole una bella guerriglia cont...