30.6.17

QUEI CHARLIE INCONSAPEVOLI © Daniela Tuscano

 Anch'io   che  sono per  tesstamento  biologico   , considero  tale  decisone della magistratura  un omicidio di stato in   quanto  non viene  presa  in considerazione , in casi estremi    come questo  , la possibilità  per i  genitori  di decidere   . Ed in base  a  ciò riporto condividendo  in tutto  quello  che  ha  scritto la nostra utente  Daniela  .


Nella foto: Charlie Gard fra le braccia del padre)
Papa, fai sentire la tua voce in difesa del piccolo Charlie!


da
Compagnidistrada
28 giugno alle ore 18:32 ·


                                  QUEI CHARLIE INCONSAPEVOLI

Charlie Gard morirà, Charlie Gard sarebbe morto comunque.
Questo scriveranno. Ed è vero. Il destino di questo bimbo londinese, 10 mesi, affetto da una rarissima malattia mitocondriale (16 casi al mondo), è segnato. Ci vorrebbe un miracolo; un surplus di natura, qualcosa che la potenzi e la trasfiguri; una rinascita. La nostra biologia ordinaria, numerabile e quantificabile, non basta a salvargli la vita.
Ma Charlie Gard non è un semplice ammasso cellulare. Si chiama uomo perché, sottomesso alla natura, non ne è però schiavo. Morirà, certo. Come tutti noi, perché è questo il nostro arcano, sconvolgente tributo all'eternità. Ma nel frattempo esiste e resiste, tenace, esasperato, ostinatamente dipendente. Non può respirare da solo, ma gli occhi sono desti, e non soffre; c'è. Nella sua inerme lotta gli sono accanto i genitori, che nel miracolo, quindi nell'uomo - nell'uomo tutto intero - credono. Come tutti i genitori, non si sono mai arresi. Hanno cercato e trovato un ospedale negli Stati Uniti in grado di offrire le cure necessarie al bambino. O, almeno, una speranza. Una parvenza di speranza. Qualcosa, insomma. Raccolgono la somma necessaria per il viaggio, ma i medici inglesi si oppongono alla decisione e si appellano al tribunale. Che dà loro ragione: quella speranza non esiste, non deve esistere. Charlie va soppresso, meglio sospendere le cure. I due si rivolgono allora alla suprema corte dei diritti umani (diritti umani!) ed è un nuovo calvario: la sentenza viene dilazionata di una settimana, poi di tre, poi nuovamente anticipata. Ma il verdetto non muta: Charlie deve morire. Gli verrà tolto il respiratore. Se ne andrà nel buio. Quando gli mancherà l'aria, nessuno udrà il suo grido silenzioso.
Saremo Charlie? Lo siamo già, invero. Ma non ce ne rendiamo conto. Innanzi tutto perché lo ignoriamo. I mass media hanno tenuto occultata la vicenda il più possibile. Nei loro disegni, Charlie avrebbe dovuto sparire senza clamore, nella logica indifferenza. Se i genitori avessero accettato di farlo "morire con dignità", allora sì, Charlie adesso sarebbe un esempio mondiale, un idolo defunto da inalberare sull'ara del postmoderno, e i coniugi Gard gli eroici sacerdoti del verbo eutanasico. Ma i coniugi Gard esigono per loro figlio l'unico diritto che la società plurale non sa né vuol dargli: quello alla vita. E la vita è diventata un bene relativo, di mercato. Quindi disponibile e valutabile a seconda della convenienza. Alla famiglia non spetta più l'ultima parola: nel supermarket dei sentimenti, dove ogni pretesa ha diritto di cittadinanza, non vi è però spazio per un amore gratuito, fuori della logica efficientistica. Amare, e basta, un essere umano per la sua pura esistenza, non è contemplato. Troppo dispendioso. Senza tornaconto. E non importa si tratti d'un neonato, un anziano, un adulto solo e povero. Diviene peso e lo si elimina.
E in più si deve ringraziare, perché è per il suo bene, per evitargli inutili sofferenze (come se morire soffocati fosse un piacevole viatico), perché sarebbe lo stesso, perché siamo già in troppi su questo pianeta. E qualcuno dovrà pur andarsene. Sempre un altro, sempre l'altro. L'idea di comunità s'è sfaldata assieme a quella di famiglia. Distrutta l'una, vien meno l'altra; e ci ritroviamo massa, anzi, individui, legione che non crea gruppo, monadi nelle mani del liberismo più sfrenato. Siamo tutti Charlie, perché un giorno toccherà pure a noi giacere su un letto, indifesi e perduti, e forse vorremo morire, o forse no, e comunque vorremo, sempre vorremo, uno scambio d'occhi, qualcuno che ci abbia provato e c'infonda un refolo di futuro. Siamo tutti Charlie ma non lo sappiamo, perché non ci riguarda, perché - blandamente - i tempi di Hitler sono tornati (P. P. Pasolini) e nessun cardinale von Galen lo denuncia dal pulpito. I pulpiti sono anzi stati svuotati, fra gl'idioti applausi suicidi dell'egolatria. Siamo tutti Charlie e, finché le parole avranno un senso, oggi in Europa si perpetra un infanticidio di Stato.
Anche in Italia abbiamo un Charlie. Si chiama Emanuele Campostrini. La vicenda inglese vale come monito per noi. Ci stanno intimando di non provarci nemmeno. La nostra vita è nelle mani di moderni demiurghi senza volto. Ottant'anni fa, sui manifesti di un'avanzata nazione europea, campeggiavano bimbi sorridenti e, alle loro spalle, un profilo d'uomo accigliato, all'apparenza lontano, in realtà pervasivo e incombente. E il memento: "Anche tu gli appartieni". Siamo ancora in Europa, il profilo è sparito del tutto, ma la frase non ha smesso di rintoccare, implacabile come una campana.


© Daniela Tuscano

Il coraggio di Ilaria e la sua sfida agli insulti sul web La 31enne disabile aretina vittima di cyberbullismo



Martedì sera, Blob ha trasmesso un triste documento sulla stupidità umana: gli insulti che una giovane donna riceve quotidianamente sul suo profilo social. Insulti di questo tipo: «Miss Toscana della bruttezza», «nanoide», «handicappata deforme che suscita solo la pietà umana», «un mostriciattolo su cui sfogare le proprie depravazioni», «hai denti marci, capelli sudici e braccia lunghissime», e altri ingiurie del genere.




Ilaria Bidini, 28 anni, costretta a stare su una sedia a rotelle a causa di una malattia genetica, ha deciso di contrastare il dilagante fenomeno del cyber-bullismo denunciando in modo singolare e con

grande coraggio chi la offende e umilia quotidianamente sul web. Ha letto in pubblico tutte le cattiverie e le minacce scritte contro di lei.
Grazie alla collaborazione di Saverio Tommasi, della testata giornalistica Fanpage, Ilaria ha avuto la possibilità di girare un video (visibile su YouTube) per testimoniare la violenza e l’umiliazione cui quotidianamente è sottoposta da parte di alcuni vigliacchi che si nascondono dietro l’anonimato del sito lituano Ask.Facile dire che questi insulti si ritorcono contro chi li scaglia: sono peggio di una lapidazione perché provengono dal fondo della beceraggine, della cattiveria, della codardia umana. C’è solo da sperare che la Polizia Postale impieghi tutte le sue forze per scoprire chi sono o chi è il mascalzone: gente così non può farla franca, un moto di rigetto è indispensabile.
Una storia di violenze psicologiche continue quella di Ilaria, che nonostante tutto, si è fatta forza, ha continuato gli studi e oggi vive cercando di dimenticarsi della sua disabilità: «A scuola venivo minacciata ogni giorno, mi promettevano botte, mi facevano scherzi orrendi, come bucarmi le ruote della carrozzina, ero puntualmente vittima di scherzi di cattivo gusto…». Ce ne fossero di Ilarie!

27.6.17

come ridurre criminalità e dissocupazione ed i problemi ad esso relativi .Il progetto ha luogo sull'isola-carcere dell'Arcipelago toscano, nella vigna gestita dalla famiglia (e azienda) Frescobaldi e punta a riabilitare i condannati a pene lunghe attraverso il lavoro tra i filari



Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino che fa bene Il progetto ha luogo sull'isola-carcere dell'Arcipelago toscano, nella vigna gestita dalla famiglia (e azienda) Frescobaldi e punta a riabilitare i condannati a pene lunghe attraverso il lavoro tra i filari


Una bottiglia di Gorgona bianco 


Chargui e Santo si sono svegliati presto. Lavorare nelle prime ore del mattino è l'ideale, è più fresco e si fatica un po' meno. Il loro compito per la giornata è pulire, estirpando i rovi, una collinetta incolta proprio al centro di Gorgona, non distante dal porticciolo, dove ogni giorno attracca la vedetta della polizia penitenziaria che vigila sull'isola-carcere dell'Arcipelago toscano. Chargui ha 47 anni ed è tunisino adottato da Napoli, dove vive la sua famiglia, Santo è della Basilicata e di anni ne ha 36: sono due detenuti viticoltori, i più esperti dell'isola, coloro che da più tempo si dedicano alla vigna gestita da Frescobaldi.
Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino che fa bene
Una vista della vigna
La famiglia toscana del vino ormai da 6 anni gestisce due ettari e mezzo di terreni demaniali vitati da cui nascono due vini, fatti interamente dai carcerati: il Gorgona bianco (Vermentino e Ansonica) e da quest'anno il Gorgona rosso (Sangiovese). Davanti a sé, Chargui e Santo hanno ancora tanti anni da scontare: a Gorgona arrivano solo detenuti condannati a pene lunghe. Ma lavorare in vigna allevia in parte il peso della libertà negata e soprattutto permette loro di imparare un mestiere.

Gorgona: il lavoro da vignaiolo di Chargui

Giorno dopo giorno, si diventa esperti, più sensibili e responsabilizzati. Quella mattina, mentre falci e zappe avanzano tra le erbacce, a un tratto gli stessi detenuti fermano i lavori: tra gli arbusti ormai secchi si intravedono delle foglie verdi a loro familiari. A mani nude, i due si fanno strada nel groviglio, ed ecco spuntare anche un tralcio. Non uno dei tanti già visti, ma più grande, più robusto: siamo di fronte a quel che resta di una vigna storica, che potrebbe avere decenni se non secoli alle spalle. In Gorgona infatti già dall'Ottocento i monaci certosini coltivavano l'uva. E chissà che quelle viti non risalgano proprio  quell'epoca. Emozionati, i detenuti  danno l'allarme all'agronomo, nonché direttore del progetto Gorgona, Federico Falossi, che a sua volta avvisa il marchese Lamberto Frescobaldi, patron dell'azienda fiorentina. Ora quelle viti saranno oggetto di studio: potrebbero avere qualcosa di importante da raccontare agli addetti ai lavori.
Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino che fa bene
Lamberto Frescobaldi nella vigna
Questo è solo uno dei  miracoli a cui si può assistere sui due chilometri quadri dell'isola, che si trova a 37 km da Livorno. “Nella mia vita ho fatto gravi errori e sono deluso da me stesso – dice Chargui -  ma questa è la mia occasione: mi è stata data fiducia e io sto facendo del mio meglio per dimostrare di meritarmela ed essere all'altezza della situazione. Qui sto imparando un mestiere, quella 2017 è la  mia seconda vendemmia. Quando esco dal carcere vorrei lavorare in questo settore”. Se Chargui riuscisse a realizzare il suo sogno, non sarebbe il primo: nell'azienda livornese I Vigneti di Nugola del Gruppo Frescobaldi, diretta da Falossi, ci sono già 3-4 ex detenuti che sono stati assunti mentre un altro paio ha trovato lavoro in Nord Italia. “È questo il senso del progetto Gorgona – spiega Lamberto Frescobaldi – dare a queste persone una seconda chance nella vita. Finora, abbiamo assunto oltre cinquanta detenuti a rotazione. Ma chi pensa  che questo sia un progetto buonista si sbaglia: qui si lavora sodo, la vigna è fatica, ma i frutti si raccolgono”. E Santo è il primo a crederci: “Io ho sempre lavorato nell'agricoltura, anche prima del carcere – dice – e mi sento a mio agio in questo mondo. Sto imparando moltissimo, anno per anno. Un esempio? Ora so come si curano le malattie della vite...”. Francesco, napoletano di 30 anni, invece è un muratore e bazzica la vigna solo da pochi mesi: “Ho iniziato da zero – racconta – avere a che fare con la terra mi ha aiutato a sentirmi più responsabile. La  mia  vita è migliorata: stare all'aria aperta fa la differenza”.
Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino che fa bene
Francesco, 30 anni, detenuto viticoltore
L'esperienza dei detenuti si riversa nel calice con naturalezza. E i profumi dei vini dell'isola rispecchiano la ricchezza della natura. Gorgona bianco 2016 è un vino delicato e intenso allo stesso tempo: Vermentino (presente al 70 per cento), e Ansonica (30%), regalano un ricco bouquet di profumi floreali e di frutta esotica al naso, grande acidità, sapidità e struttura in bocca.  “Un vino che sa di mare, dai sentori di ostrica”, come lo ha definito lo chef stellato Luciano Zazzeri, del ristorante La Pineta a Marina di Bibbona (Livorno).
Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino che fa bene
Nicola D'Afflitto nel nuovo vigneto di Vermentino rosso
Merito dell'ottima esposizione del vigneto, incastonato in un anfiteatro naturale che, come spiega l'enologo della Frescobaldi, Nicolò D'Afflitto, è poco esposto al vento: “Un luogo molto assolato, non stressato dall'umidità, con un terroir arenario perfetto. Ma il segreto del Gorgona è un altro: è l'atmosfera unica che si respira  sull'isola, risultato di un lavoro di squadra che non ha paragoni. C'è il carcere con l'amministrazione penitenziaria, ci sono i detenuti e c'è la Frescobaldi: un gruppo solido”. E le soddisfazioni arrivano anche dal mercato: solo 4000 le bottiglie prodotte di Gorgona bianco, ma la distribuzione copre posti chiave al livello mondiale. Dai locali più rinomati della Toscana come l'Enoteca Pinchiorri a Firenze, Romano a Viareggio, Lorenzo a Forte dei Marmi all'enoteca Trimani a Roma fino ai ristoranti stellati nazionali per arrivare all'export, soprattutto negli Usa (Del Posto e Babbo del gruppo Bastianich a New York),  Hong Kong e Germania.
Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino che fa bene
Gorgona bianco

Affinato in acciaio e lasciato “riposare” per qualche giorno in barrique funzionali al trasporto dall'isola alla terraferma, Gorgona bianco mantiene struttura e acquista carattere con il tempo. “Assaggiatelo tra un decennio, poi se ne riparla”, dice D'Afflitto. E l'annata 2017, nonostante la siccità, si prospetta molto interessante. Ne è convinto il direttore del progetto, Falossi: “Sarà una grande annata, il vigneto si presenta benissimo, nonostante l'acqua scarseggi a causa della siccità, ma grazie ai bacini dell'acqua piovana contiamo di colmare questa mancanza. Sono sicuro che al calice il Gorgona 2017 ci delizierà più dei precedenti. Lavorare sull'isola non è facile: il mare crea inevitabilmente una forte distanza da superare, e programmare i viaggi non sempre è agevole. Ma finora è andato sempre tutto liscio: il rapporto con i detenuti e con l'amministrazione penitenziaria è ottimo e consolidato. E il clima di collaborazione aiuta”.

Falossi: "Gorgona e una fantastica quinta vendemmia"

Al bianco da quest'anno si aggiunge il rosso: per ora 100 per cento Sangiovese, in 600 bottiglie (distribuite in Italia ai clienti più affezionati, come spiega il produttore). Ma dall'anno prossimo sarà realizzato con l'aggiunta di Vermentino rosso, appena piantato sull'isola in un nuovo vigneto vista mare di 3.300 metri quadri. Un vino che Lamberto Frescobaldi ha definito “struggente, con un bel frutto e con sentori marini, adatto all'invecchiamento”.

Merito dei detenuti, della loro passione e dell'impegno in un lavoro che è fatica ma anche professionalità. “Com'è che si dice? - si domanda il detenuto Francesco – Impara l'arte e mettila da parte...”.



A volte il confine tra devozione e follia è molto labile, soprattutto nel calcioGiappone, centinaia di chilometri per seguire il suo club: la squadra applaude l'unico tifoso in trasferta

A volte il confine tra devozione e follia è molto labile, soprattutto nel calcio. E' il caso di un tifoso dell'SRC Hiroshima, piccolo club che milita in un campionato regionale giapponese, che ha percorso più di 400 chilometri per seguire la sua squadra in trasferta nonostante l'esito del match fosse pressoché scontato.



 In occasione del secondo turno della Coppa dell'Imperatore, la squadra della regione di Chugoku era stata abbinata ai ben più blasonati avversari del Nagoya Grampus, compagine che milita nella seconda serie nipponica. Il sorteggio aveva stabilito che la sede della partita sarebbe stata il Nagoya Mizuho Athletic Stadium, distante da Hiroshima più di 480 chilometri, ma un tifoso della SRC ha deciso ugualmente di seguire i giocatori della sua squadra in trasferta.

Giappone, centinaia di chilometri per seguire il suo club: la squadra applaude l'unico tifoso in trasferta



 L'incontro è terminato 6-0 in favore della squadra di casa, ma al termine del match quel singolo sostenitore dell'Hiroshima ha regalato una bellissima cartolina di sportività e devozione nei confronti di una squadra di calcio. Da solo, in un settore dello stadio completamente vuoto, alzava al cielo uno striscione di sostegno nei confronti dei giocatori, che accorrevano sotto la curva ad applaudirlo per il sostegno incondizionato alla maglia

la poesia sostituisce l'uso delle droghe e dialtri elementi artificiali per viaggiare

è il caso di    Alesandra Lorusso alias  https://www.facebook.com/sistajazz












26.6.17

Bari, l'ex agente di commercio cambia vita con l'orto sociale: "Aiuto i deboli e sono felice" e Da bioingegnere a sacerdote, la scelta di don Alessandro


Bari, l'ex agente di commercio cambia vita con l'orto sociale: "Aiuto i deboli e sono felice"




Quartiere Japigia, periferia di Bari. Angelo, 34 anni, tre anni fa ha deciso di cambiare vita. "Facevo l'agente di commercio per una grossa azienda che produce arredamento, percorrevo 80mila chilometri l'anno, avevo uno stipendio cospicuo, ma non ero felice. Così ho deciso di seguire seguire il mio cuore e ho realizzato un orto sociale". Dopo aver avuto le certificazioni per la produzione biologica, nel suo orto metropolitano Angelo ha intrapreso una serie di progetti di inclusione sociale. "Non mi importa di essere ricco, so che un giorno tutto il mio lavoro porterà i suoi frutti - afferma - Ma aiutare ragazzi inviati dai tribunali minorili e persone con handicap di vario tipo mi rende felice" (di Lorenzo Scaraggi)



Da bioingegnere a sacerdote, la scelta di don Alessandro
Da domenica la Chiesa udinese ha un nuovo pastore, ha 29 anni ed è nato in Belgio. Appassionato di orticoltura, parla cinque lingue. Sabato prossimo celebrerà la prima messa
di Monika Pascolo

  da il  messsageroveneneto del 26 giugno 2017




Don Alessandro Fontaine


UDINE. Di origine belga, ma cresciuto tra Bruxelles (dove erano emigrati i suoi nonni) e il Friuli (è stato battezzato a San Daniele), in tasca una laurea in Bioingegneria, da ieri il 29enne Alessandro Fontaine è un nuovo sacerdote della Chiesa udinese.
Attraverso il suo operato sarà uno dei protagonisti di quello che l’arcivescovo, monsignor Andrea Bruno Mazzocato – che ieri ha

24.6.17

l'arte salva la vita e ti fornisce occasione di riscatto

in sottofondo 4 Non Blondes - What's Up

un altra storia  in cui  l'arte  anzi le  arti  fanno  parte  della  vita  e  che anche qualcunoo tenterà d'ingabbiare  ( ditttature  )  e  o mologarle   (   tv spazzatura  )   esse  riemergono e ti  guidano senza neanche  te  ne accorgi
George Anthony Morton non sapeva che Florence fosse il nome inglese di Firenze. Per lui Florence è la cittadina in Colorado dove si trova uno dei quattro carceri di massima sicurezza dove ha passato dieci anni. Impensabile per questo afro-americano trentatrenne cresciuto in un ghetto di Kansas City che per tutto il mese di luglio sarà a Firenze. Un soggiorno finanziato dalla Florence Academy of Fine Arts, accademia d’arte americana con sede anche a Firenze dove vanno gli studenti di maggior talento (L'intervista di Andrew Andrea Visconti anche su Radio Capital domenica 25 giugno 2017 alle ore 11.15)
  fonte   http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2017/06/24/

Paura in Clinica ostetrica, bimbo salvato in extremis
Il professor Erich Cosmi era fuori servizio ed è stato richiamato in ospedale «Ho dovuto buttare via il vestito nuovo, ma è bello aver salvato una vita»

di Enrico Ferro

PADOVA. Miracolo in sala parto della Clinica ostetrica. Un bambino del peso di 4 chili e mezzo, giunto ormai alla quarantunesima settimana, è stato salvato in extremis da una delle più gravi emergenze in ambito ostetrico: la distocia di spalla. Il travaglio della madre, una profuga di origini nigeriane, era terminato. La testa era uscita ma il resto del corpo era rimasto incastrato a causa delle spalle troppo larghe. Erich Cosmi, professore associato, (  foto  sotto al centro  )
presente in clinica ma non inserito nel turno di sala parto, è accorso e con una manovra è riuscito a salvare il bambino. «Ho dovuto buttare un vestito appena comprato ma ho salvato una vita. Questa è la nostra missione», conferma il medico.
È successo giovedì tra le 11.30 e mezzogiorno e l’iter seguito prima di arrivare all’emergenza sarà esaminato attentamente per capire se è stato compiuto qualche errore.
La donna in gravidanza era ormai giunta alla quarantunesima settimana e già da tempo nella sua cartella clinica si faceva riferimento alle dimensioni importanti del feto. Un professore della Clinica ha indotto il travaglio, allontanandosi però subito dopo per la fine del turno di lavoro. Sono subentrati poi altri due colleghi ma la situazione è rapidamente precipitata nel momento in cui il feto è rimasto incastrato.
La distocia di spalla è un’emergenza ostetrica in cui la fuoriuscita delle spalle necessita di particolari manovre di assistenza dopo che sono stati effettuati delicati tentativi di trazione della testa verso il basso.
Cosmi è stato chiamato anche se non di turno in sala parto proprio per la sua competenza di fronte a simili urgenze. Intorno a lui c’erano colleghi e infermieri con il fiato sospeso. Fortunatamente la situazione si è risolta nel giro di pochi minuti.Il bambino ora è ricoverato in Patologia neonatale, è intubato ma sta bene.

e.ferro@mattinopadova.it


Ora  da profano  ,  anche  se  pro nipote e  cugino di medici  ,  mi   chiedo Ma non potevano fare un cesareo visto che sapevano quanto pesava ? Infatti , sempre  da  profano  Perché arrivare a quel punto di possibile non ritorno... magari un cesareo programmato sarebbe stato auspicabile !! Comunque Bravissimo il giovane medico ! propongo    come  
Doriano Canella
Complimenti al medico Cosmi; spero che la direzione dell'AOP lo promova Dirigente e il "professore" che se ne è andato per "fine turno" a fargli da assistente. O forse no; potrebbe fare anche danni!





c'è chi accellerà nello studio per emigrare all'estero c'è chi resta e ripopola antici borghi abbandonati

23 giugno 2017 il messagero venento



Sara brucia le tappe: affronta la Maturità dopo aver superato due anni in uno
Udine: mentre frequentava il quarto anno del liceo delle scienze umane all’Isis Percoto ha deciso di sfruttare l’abbreviazione per merito, una possibilità che il ministero riserva a quei ragazzi che hanno la media dell’otto in ciascuna delle materie di studio


Nel riquadro, Giulia Haruni assieme alla sorella Sara, studentessa del liceo Percoto, indirizzo scienze umane. E alcuni ragazzi impegnati nella prova


di Michela Zanutto


UDINE.
Due anni in uno, anche grazie a una memoria di ferro.
Sara Haruni mentre frequentava il quarto anno del liceo delle scienze umane all’Isis Percoto ha deciso di sfruttare l’abbreviazione per merito, una possibilità che il Ministero riserva a quei ragazzi che hanno la media dell’otto in ciascuna delle materie di studio.
Esattamente come, ormai quasi 80 anni fa, fece Pier Paolo Pasolini. Ma Sara ha trovato l’ispirazione in Albert Einstein che è diventato anche il fulcro della sua tesina d’esame.
L’insegnante di filosofia Annalisa Filipponi, quasi per caso, durante l’anno le consegna un libricino di 80 pagine, «Il mondo come lo vedo io» di Albert Einstein: «Non parlava di fisica o la relatività o quanti, ma di come Einstein vedeva la pedagogia, i metodi di studio – racconta Sara – e anche la sua concezione della guerra e della crisi, la reazione allo sgancio dell’atomica.
Mi ha colpita molto soprattutto la visione della crisi ed è nelle sue parole che ho trovato la forza per andare avanti. Einstein credeva che il momento della crisi fosse il più bello perché è quello in cui nascono i progressi. Mi sono ispirata a queste parole per rendere la mia vita migliore».
A dicembre dello scorso anno in classe è stata letta la circolare ministeriale che apriva la possibilità dell’abbreviazione per merito.
«Inizialmente tutti abbiamo creduto fosse una pazzia – ricorda Sara –. Ma ripensandoci mi sono detta, perché non provarci. I requisiti prevedevano la media dell’otto in tutte le materie e io ce l’avevo. Non c’erano esami integrativi, ma tutto il programma di quinta l’avrei dovuto preparare per conto mio».
E così Sara si è buttata. «Nel pomeriggio, più o meno fino all’ora di cena studiavo per la quarta e poi prendevo in mano i libri dell’ultimo anno – dice –. Nessuno ha mai valutato la quinta durante l’anno, ho fatto due simulazioni d’esame ma non potevano fare media nemmeno quelle.
Sinceramente non so nemmeno io come ho fatto, l’unica cosa brutta è che la circolare è uscita tardi, perciò ho dovuto recuperare i mesi da settembre a dicembre. Ho preferito iscrivermi, anche se non avevo la certezza di farcela, ma era meglio provarci piuttosto che rimpiangere».
Quello appena concluso è stato per Sara un semestre interamente dedicato allo studio. Perché, oltre all’impegno per superare brillantemente il quarto e il quinto anno, c’era anche la certificazione d’inglese, «una decisione presa prima del tuffo nell’abbreviazione», sottolinea.
«Se è stata dura? Diciamo che non mi è pesato molto perchè ho una memoria piuttosto forte – rivela –: mi basta leggere una volta e ripetere e poi è tutto fissato. È una fortuna.
Ma ci sono stati periodi terribili. Le vacanze di aprile mi hanno aiutata perché mi hanno consentito non solo di arrivare alla pari con il programma di quinta, ma di superare i miei compagni, che poi mi hanno ripresa».
Ad aiutarla in questo percorso è stata anche la sorella Giulia, che ha 21 anni e studia psicologia all’università: «Abbiamo un rapporto stupendo – riconosce Sara –. Ci siamo aiutate e motivate a vicenda in questo studio.
A un certo punto i miei genitori erano preoccupati perché avevano paura che questo grande impegno stesse facendo male alla mia salute. C’è stato un insieme di cose che li ha spaventati, ma il fatto di vedermi felice e tranquilla poi li ha rasserenati. Io non ho preso quest’avventura come un obbligo, ma la sto vivendo con serenità».
Dopo la fatica dei primi due scritti, «le tracce purtroppo erano molto simili fra loro», lunedì sarà il momento della Terza prova che però non spaventa Sara: «Sono abbastanza tranquilla – ammette –. I primi di luglio ci sarà l’orale e poi per tutto il mese non voglio toccare un libro. Ma già ad agosto mi rimetterò sotto in vista delle prove d’accesso all’università. Non so ancora cosa scegliere, ma di sicuro sarà una bella avventura».
Oggi, guardandosi indietro, Sara vuole ringraziare chi le è stato accanto (mamma Tale e papà Fatmir, oltre alla sorella Giulia e le amiche, i compagni e gli insegnanti sia di quarta sia di quinta «che mi hanno sempre sostenuta»).






Il “sì” di Francesca e Mirko a Portis vecchio, il borgo disabitato dal ’76

Nella frazione di Venzone i volontari hanno rifatto il perimetro della chiesa distrutta dal sisma. Sabato 24 giugno, alle 16.30, le nozze: «I nostri genitori ci hanno trasmesso l’amore per questo luogo»  di Giacomina Pellizzari

legi anche  Portis vecchio "rinasce" grazie a un gruppo di volontari




VENZONE. Un «sì» detto a Portis vecchio tra i ruderi della chiesa di San Rocco riportati alla luce da un gruppo di volontari, sabato 24 giugno, alle 16,30, farà risplendere l’anima del luogo disabitato da 41 anni. A Portis vecchio non vive più nessuno dalla sera del 6 maggio 1976, quando il terremoto distrusse il Friuli.La frazione di Venzone è stata ricostruita altrove, al riparo dalla frana, ma il cuore della gente è rimasto tra queste case il cui destino sembrava irrimediabilmente segnato dalle croci di Sant’Andrea. Le lesioni che decretano le demolizioni.
















Sembrava, è proprio il caso di dirlo, perché gli abitanti idealmente non hanno mai smesso di vivere lì e ora che Francesca Gollino e Mirko Fadi, 30 e 33 anni, entrambi di Venzone, si apprestano a giurarsi amore eterno nel paese che conoscono attraverso i racconti dei genitori, Portis vecchio riprende a vivere veramente.
Questa storia racconta come, dopo una catastrofe naturale, la gente cerca le sue radici tra le macerie. Tutto è iniziato nel 2012 quando gli Amis di Sant Roc (38 persone guidate dal sacerdote della parrocchia di San Bartolomeo, monsignor Roberto Bertossi) memori della fanciullezza trascorsa seguendo l’andamento delle piene del Tagliamento, hanno deciso di rimuovere le macerie depositate, dopo il sisma, nella strete dal’âghe, la scalinata che conduce al piccolo porto fluviale in cui fino all’Ottocento il legname tagliato in Carnia e diretto all’arsenale di Venezia veniva scaricato dalle zattere e caricato sui carri.
Da qui il toponimo Portis. Il riecheggiare dei racconti dove il tempo sembrava essersi fermato (nell’edificio riadattato a deposito la pagina del calendario indica maggio 1976), ha spronato i volontari a recuperare il sedime della chiesa quattrocentesca di San Rocco. «Tutti noi ricordiamo – si legge nel libricino redatto dagli Amis di Sant Roc – i racconti dei nostri avi che si riunivano di fronte al clapon a pregare perché le acque si ritirassero e restituissero sani e salvi i naufraghi».
Nell’Ottocento arrivò anche la ferrovia e per far spazio ai binari venne modificata la pianta della chiesa. Seppur rimpicciolita, quella stessa chiesa continuò a vigilare sul promontorio quasi fosse un faro.
Il terremoto non la risparmiò, venne demolita assieme a molte case. La frana costrinse i circa 200 residenti a rifare Portis altrove, ma quasi fosse un’inconsapevole presagio qualcuno riferendosi al trasloco obbligato scrisse: “Portis deve rinascere qui”. Non poteva immaginare che a 41 anni di distanza quella sorta di promessa sarebbe stata mantenuta.
In una mattina di novembre di cinque anni fa, i 38 volontari iniziarono a disboscare le aree dalla vegetazione che a oltre tre decenni dal terremoto aveva invaso l’area della chiesa e la piazza del paese.
A marzo dell’anno successivo vennero rimosse le macerie per liberare la scalinata verso il fiume e recuperate le pietre riutilizzate per rifare i muri di contenimento e il sedime della chiesa di San Rocco. Fu un lavoro duro e minuzioso, frutto della determinazione di chi non poteva sfuggire ai racconti ascoltati chissà quante volte da bambino.
Ogni estate il gruppo dei volontari aggiungeva un tassello: dalla celebrazione della Santa Messa all’inaugurazione della chiesa che la presenza della ferrovia impedisce di ricostruire. Ora qui si celebra la Via Crucis, si commemorano le vittime del terremoto e si organizzano concerti.
I volontari, con la collaborazione della Pro loco, hanno rifatto l’aula della chiesa, installato l’altare sul pavimento in seminato veneziano, recuperato le campane per sistemarle poi su un’intelaiatura in ferro che ricorda il campanile a vela. Tutto questo mentre negli orti le semine proseguono e le rose continuavano a sbocciare.
A Portis vecchio la vita non si è mai lasciata sopraffare dalla morte. Facendo tesoro della storia, la comunità e il sindaco, Fabio Di Bernardo, hanno proiettato Portis vecchio nel futuro trasformandolo in un laboratorio a cielo aperto dove gli studiosi dell’università di Udine e la Protezione civile mettono in sicurezza gli edificio.
Quello che è stato risparmiato dal terremoto non si tocca e la viabilità interna è parte integrante della ciclabile Alpe Adria. Recentemente il Comune ha investito 100 mila euro nell’asfaltatura della strada principale. Non si faceva da 41 anni.
Pure questo è un segno di rinascita che mantiene legati Francesca e Mirko a questo luogo. «I miei genitori sono originari di Portis vecchio, se ne sono andati assieme agli altri abitanti dopo il terremoto. Tutti hanno mantenuto un forte attaccamento con il paese e trasmesso ai figli l’amore per questo luogo», racconta Francesca non senza aggiungere: «Oggi è un paese abbandonato, ma in futuro Portis vecchio potrebbe diventare un museo a cielo aperto».
E in quel museo non mancheranno gli oggetti descritti nei tanti aneddoti sui vissuti nell’osteria gestita dai suoi nonni. Anche Mirko va alla ricerca delle sue radici a Portis vecchio: «Fa parte del mio vissuto – rivela –, non posso dimenticarlo».
E allora che la festa abbia inizio con i 100 invitati, gli Amis di Sant Roc e tutti coloro che hanno un legame con Portis vecchio. L’unico inconveniente potrebbe essere rappresentato da un possibile temporale estivo. Francesca alza gli occhi al cielo e scongiura l’arrivo delle nuvole.

23.6.17

Karitina, 77 anni, era stata la duemilionesima visitatrice della riproduzione della cappella. "È il mio primo viaggio"


La contadina messicana e la Sistina come premio: "Ho pianto, si respira Dio"
Karitina, 77 anni, era stata la duemilionesima visitatrice della riproduzione della cappella. "È il mio primo viaggio"

di PAOLO RODARI

  repubblica  del  23 giugno 2017


Karitina e la figlia nella Sistina
CITTÀ DEL VATICANO - "Non so cosa dire se non grazie". Piange Karitina, 77 anni, mentre in dialetto nahuatl, l'antica lingua uto-atzeca, l'unica che parla e che comprende, comunica al responsabile dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini, grazie alla figlia che traduce le sue parole in spagnolo, ciò che ha provato. Per la prima volta nella sua vita, infatti, ha lasciato il Messico, lo Stato centrale del Querétaro dove vive e dove ha sempre vissuto, per un viaggio premio fino a Roma. Ha lasciato il suo piccolo orto dove coltiva il necessario per vivere, le montagne da sempre conosciute, la sua casa a oltre duecento chilometri da Città del Messico, per un viaggio in aereo mai compiuto prima. Nella Città del Vaticano, l'altro ieri, ha incontrato Francesco mentre ieri è entrata per la prima volta nella sua vita, accompagnata soltanto dalla figlia e da due nipoti, nella Cappella Sisitina le cui porte le sono state aperte in esclusiva per lei alle sette del mattino. Entrata ha guardato in alto, verso il Giudizio universale, ed è scoppiata a piangere: "Dio mio - ha detto rivolgendosi alla figlia - non è possibile!".
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Il viaggio le è stato regalato dopo che per pura casualità era stata la duemilionesima persona a entrare all'interno di una riproduzione "uno a uno" dell'imponente capolavoro di Michelangelo che il regista e produttore Gabriel Barumen sta facendo girare per tutto il Messico a beneficio della popolazione. Si tratta di una replica "multisensoriale" in cui anche gli aromi, i suoni e l'illuminazione sono simili a quelli provati dai visitatori dei Musei vaticani quando fanno il loro ingresso nella Cappella. Per riprodurre gli affreschi sono stati necessari due anni e mezzo, due milioni di fotografie scattate in 170 notti (quando la Sistina era chiusa al pubblico) e la partecipazione di 80 artisti e 70 operai tra ebanisti, fabbri e carpentieri, dal momento che sono stati replicati anche la transenna di marmo e il tappeto usato durante la celebrazione del conclave capitolino.
L'accordo fra Barumen e i Musei vaticani era che il duemilionesimo visitatore avrebbe vinto un viaggio a Roma. Uscita qualche mese fa dal suo tour nella Sistina virtuale, Karitina è stata invitata a fermarsi un momento per una comunicazione importante: nel giro di poche settimane avrebbe avuto la possibilità di partire per l'Italia. Appresa la notizia è rimasta in silenzio, quasi spaventata dall'idea di dover lasciare casa. "Non ho soldi, non ho nemmeno il passaporto, non ho nulla", disse. Tanto che tramite l'Ambasciata messicana presso la Santa Sede è dovuto intervenire il ministero della Cultura del Paese per sbrigare ogni pratica necessaria per avere il passaporto e poter decollare verso Roma.
"L'idea della riproduzione della Sistina e successivamente del premio - racconta Berumen - è venuta al cardinale Giuseppe Bertello, presidente del governatorato vaticano, dopo che due anni fa un artigiano messicano che crea nel suo Paese oggetti che si rifanno a quelli contenuti nei Musei, è entrato per la prima volta in vita sua nella Sistina. Scoppiò a piangere tanta fu l'emozione. E così si pensò di riprodurre la Sistina in modo che tanta gente anche povera di mezzi potesse gratuitamente entrarvi e rivivere l'emozione che vivono i visitatori che giungono a Roma. Insomma, portare la Sistina nel mondo affinché anche chi non può permettersi di viaggiare possa godere delle meraviglie di Michelangelo, possa vivere un'esperienza di bellezza universale".
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Del resto, questo fu anche la pittura italiana nel corso dei secoli: una vera e propria Bibbia dei poveri. Chiunque vedendo le opere dei grandi artisti del nostro Paese poteva conoscere aneddoti evangelici, fatti narrati nel Nuovo e nell'Antico Testamento. Racconta oggi Karitina: "È stato davvero emozionate lasciare il Messico, venire qui e soprattutto incontrare papa Francesco. Entrare nella vera Sistina è un'emozione incredibile. Non so come dire: si respira Dio"

non so chi è peggio tra trap e neomelodici ( ovviamente senza generalizzare ) "Frat'mio", "Lione", "Amo'": i post che esaltano gli omicidi, a Napoli, e le armi «facili» nelle mani dei ragazzi

Dice: «Gli zingari». Dove hai preso la pistola? «Dagli zingari». E sarà pure vero. E se è vero, certo non lo ha scoperto guardando Gomorra, ...