Di professione non fa il veggente ma qualche previsione sull'anno che verrà ce l'ha proprio sotto gli occhi. Dice che certi segnali sono evidenti, più prevedibili degli stati d'allerta della Protezione civile e purtroppo meno suggestivi di chi si ostina a guardare in rosa.Antropologo (ma anche insegnante e scrittore), Bachisio Bandinu
è stato per poco più di un anno direttore di questo giornale. Esperienza breve, la sua. «Ero impegnato a spargere serenità in un mondo di forti contrasti, anche tra giornalisti. Non ho fatto in tempo a dare una mia impronta». Nato a Bitti settantaquattro anni fa, tre figli, è laureato in Lettere e Filosofia, specializzato alla Scuola di comunicazione sociale della Cattolica. Ha soprattutto collaborato al Corriere della Sera, allievo di Gaspare Barbiellini Amidei (col quale ha scritto un libro) e di Guglielmo Zucconi (padre del gettonatissimo Vittorio). In Lombardia c'è finito perché ad un tratto gli è venuta voglia di «conoscere l'altro universo». E l'altro universo non poteva essere che la Lombardia, in quegli anni all'avanguardia in moltissimi campi.Presa cattedra a Varese («l'aria di Milano non era il massimo per la mia gola») ha visto sbocciare la cultura della Lega, alunni tra i sedici e i diciannove anni che smaniavano «per mostrare la differenza». Bandinu li incoraggiava, li stimolava, sorrideva quando chiamavano il lago
le lac e nel frattempo si interrogava sul fatto che una regione così avanzata potesse tormentarsi «a recuperare una strana identità che non aveva». Mentre lui l'identità non solo ce l'aveva ma la sentiva scorrere insieme al sangue.Sei fratelli, babbo pastore, ha scalato la vita con la caparbietà dell'alpinista
. Tornato in Sardegna nel 1990 si è tuffato nello studio della sua terra fino a diventare un intellettuale di riferimento. «In realtà, sono un cane sciolto. Nel senso che non sono legato». Vicino agli indipendentisti («ma l'indipendenza non è un obiettivo immediato»), si considera rivoluzionario nonviolento: «Il fatto è che non credo nelle riforme. La storia insegna che sono rimaste solo promesse». Dell'autonomia pensa sia stata «un'esperienza fallita» e dunque tenta di guardare un po' più in là.Nel frattempo assaggia il peggio della Sardegna; per raggiungere Cagliari dalla sua casa di
Olbia prende il treno: da quattro ore e mezzo fino a sei, velocità media 55 chilometri orari. «Ma si può nel 2013, anzi nel 2014?»La mancanza di tessere gli ha conservato autorevolezza e capacità ad andare dritto al sodo. La politica in senso stretto (leggi candidatura) non gli interessa. Preferisce guardarla dal suo personalissimo osservatorio.
Chi vincerà le elezioni regionali ?
«Il centrosinistra».
Quindi Francesca Barracciu diventa presidente?«Dalla lettura dei giornali direi proprio di sì».
L'alluvione: abbiamo alle spalle una politica criminale oltre che parassita? «L'alluvione è il risultato di una non consapevolezza. Che cos'è il territorio? Pare sia uno spazio dove si possa fare di tutto: questa, almeno, è la concezione più diffusa. Pochi comprendono che invece il territorio è un organismo vivente».
In che senso?
«Nella cultura pastorale questo problema non si poneva. È stata la cultura industriale, quella delle fabbriche, a farci capire che il territorio vive, respira, s'ammala, muore. Basti pensare a Olbia: hanno costruito una città su un'immensa palude. A comprare la piana, fetida e insalubre, è stata gente di Bitti e di Buddusò. Perfino gli animali stavano male, gli veniva su male 'e sa 'ucca. Su quelle terre sono sorti interi quartieri, condomini sterminati».
Cinque anni di giunta Cappellacci.
«Non ho una competenza specifica per poter dire con sicurezza dove Cappellacci abbia fallito. L'impressione che ho ricavato dal suo governo fatica tuttavia a prendere corpo. Non riesco a ricordare un solo provvedimento significativo, una decisione che abbia, come dire?, qualificato il suo lavoro. Vedo grigiore, accomodamento e nessun orizzonte politico».
Conclusione?
«Non è accaduto nulla che potesse portare la Sardegna fuori dalle secche della crisi. Non mi pare che Cappellacci sia riuscito a compiere niente oltre l'ordinaria amministrazione».
Che dire poi degli onorevoli ladroni?
«L'inchiesta aperta dalla procura della Repubblica di Cagliari ci mostra quale sia la mentalità, il costume, l'etica della classe politica. Appropriazioni di danaro pubblico che - in un certo mondo - sono quasi operazioni scontate, di routine. È gravissimo quello che è successo anche per un'altra ragione».
Quale?
«È un segnale, l'insegnamento di un metodo. Evidenzia la meschinità e la piccineria di tanti insospettabili. Come si fa a rubare pubblico danaro per acquistare penne stilografiche da portarsi a casa?»
I contraccolpi sono anche di carattere culturale.
«Certo. Cultura vuol dire fare, vuol dire gesti concreti, prospettare un obiettivo, favorire un cambiamento. Questa è cultura. Se invece tu perdi il tuo tempo di pubblico amministratore inseguendo quattro cosette che ti stanno intorno, stai tradendo il mandato e la tua terra. Sono stati resi noti retroscena che, non fossero tragici, sembrerebbero comici. C'è da piangere».
Un grande politico che le viene in mente?
«Ho avuto una lunga amicizia con Mario Melis, personalità decisa, forte, molto orgogliosa della sua sardità. Uomo sicuramente in gamba ma non sono in grado di dare una valutazione della sua azione politica. Un protagonista che manifestava senso della collettività e visione del futuro è stato Renato Soru».
L'ha messo fuori gioco l'Agenzia delle Entrate.
«Però continua a fare politica. Quanto poi alla vicenda dell'evasione fiscale, come in tutti i casi giudiziari ancora sospesi, è bene aspettarne la conclusione prima di tirare le somme. In ogni caso Soru è riuscito a connotarsi: per il suo carattere, la solitudine rigorosa, la capacità di comunicazione, i rapporti (spesso tempestosi) coi suoi interlocutori. Dietro tutto questo c'è un politico che ha un orizzonte, una strategia che supera le mura del cortile di casa».
Da presidente di Regione ha dovuto fare le valigie in anticipo.
«Inevitabile. I compagni di partito hanno provato ad accoltellarlo fin dal primo momento in cui ha messo piede in Giunta».
Ha un senso che si faccia da parte?
«Non spetta a me dirlo. Resto comunque dell'opinione che sia una personalità capace di creare, inventare, coinvolgere. Una personalità assai diversa da quelle che abbiamo sperimentato negli ultimi anni di politica regionale. Purtroppo ora si è chiuso in un recinto partitico e dunque ha perso la possibilità di conservarsi extra partes, fuori dai giochi».
La novità 2014 può essere Michela Murgia, lunga marcia dal romanzo alla politica.
«Passare dalla narrativa alla politica non è affatto uno strappo. Cosa significa, in fondo, raccontare la Sardegna? Significa, più ancora che scriverne, viverla giorno per giorno, condividerne i problemi, battersi per riuscire a superarli. Il romanzo, anche se finisce nelle mani di tutti, è una sorta di creatura privata, intima, il frutto dell'interiorità. La politica non è altro che il cammino di questi sentimenti verso una nuova meta: il territorio».
Don Ettore Cannavera: ci vuole un prete per salvare la Sardegna?
«Stiamo parlando di un sacerdote immerso nella società sarda, che crede in certi valori e si sforza di applicarli nella vita di tutti i giorni. D'altra parte un prete, se è prete davvero, dev'essere fortemente impegnato verso il prossimo. Don Cannavera è una figura estremamente positiva. L'ipotesi d'una sua candidatura ha avuto il pregio di mobilitare, far discutere, aiutarci a uscire dal sonno».
È corretto che lui esca dal suo ruolo per una conclamata invasione di campo?
«Non credo nei ruoli chiusi, murati da regole invalicabili».
Psd'Az: cenere fredda di un partito clientelare.
«A partire dal 1990, appena rientrato dalla Lombardia, ho seguito questo partito da vicino. E ne ho un concetto molto triste: non è stato nulla più che una pedina nei giochi per la spartizione delle poltrone. Dunque partito sardo di cosa? E poi, d'Azione: quale azione?».
Il segretario Giacomo Sanna è stato definito il becchino del Psd'Az.
«La definizione è terribile ma storicamente fondata. Di sicuro non ha portato il partito a migliorarsi, a crescere, ad avere una prospettiva».
Indipendentisti: pochi, sognatori e in ordine sparso.
«La Fondazione Sardinia ha fatto una verifica per vedere se c'erano punti in comune. La sensazione che ho ricavato dagli incontri coi rappresentanti delle varie sigle è che ognuno stia cercando un proprio spazio, personale e privato. Per qualcuno è perfino un bene che ci siano tanti gruppi: sarebbe segno di vitalità».
E invece?
«In politica se non riesci a fare massa critica non approdi da nessuna parte. L'elettore, di fronte a una miriade di partitini da zero virgola, tende ad allontanarsi».
Esiste una curva nord indipendentista che tende a idealizzare la Sardegna, raccontarla come non è mai stata?
«Una frangia di questo genere esiste certamente. Ma anche fuori dal fronte dell'indipendentismo c'è chi vuole tornare a su connottu. Non si può tornare a su connottu. E poi, quale connottu? È un fantasma mentale, un sogno regressivo che punta a recuperare un passato meraviglioso e perfetto che in realtà non c'è mai stato».
I conti col presente: sempre più disoccupati.
«A parte il dramma umano, mi pare ci sia un pessimismo diffuso. La demoralizzazione sta portando a non credere più nella lotta politica. Gli accampamenti che si susseguono sotto il Consiglio regionale sembrano trascinarsi nel segno dell'accattonaggio più che della rivendicazione. Tendono a suscitare la pietà della gente e non l'indignazione. L'operaio di un tempo, anche di un tempo recente, non c'è più».
È che siamo un popolo di truffati: basta vedere il disastro-Ottana.
«L'industrializzazione di Ottana, lo dicono gli atti di fondazione, è nata per trasformare la realtà violenta del mondo agropastorale in una cultura industriale. Le fabbriche ci dovevano liberare: ma da cosa?, dalla nostra civiltà, dal nostro modo di essere? Non bastasse, l'industria è nata con piedi d'argilla, nata per morire in tempi rapidi. Ottana è stato un disegno criminoso e premeditato».
Costa Smeralda, è il turno dell'emiro del Qatar.
«Cambieranno l'architettura, le case, le piazze, il panorama. Quando si fanno contratti politici con grandi investitori manca il coraggio di stabilire con precisione i limiti e le regole. E mai una volta che venga calcolato sul serio il tornaconto, che dev'essere altissimo, dei sardi e della Sardegna. Non si capisce purtroppo che, a differenza di quanto accade per un'industria qualunque, nel caso del turismo in gioco non c'è la sorte di un capannone ma del territorio. I risultati di questa politica sono sotto gli occhi di tutti».
Qual è la via di salvezza?
«Vi farà sorridere ma a salvarci può essere solo la cultura. Che vuol dire scuola, lavoro, artigianato. Cultura non è una parola astratta di cui riempirsi la bocca durante dibattiti e convegni: al contrario, è concretezza. Significa produrre la cultura del formaggio, del vino, delle botteghe, delle campagne. È una rivoluzione mentale».
pisano@unionesarda.it