Non riesco , e quindi mi contraddico con quanto ho scritto precedentemente , a stare zitto e a non scrivere di tale argomento davanti a simili storie pèoco note e che avrebbero rischiato l'oblio
25 metri. Ma non rivelò mai dove si erano nascosti i tre fratelli
Una storia rimasta sconosciuta per 70 anni e che ora Repubblica racconta per la prima volta
Storia di Livio: torturato dai fascisti, non tradì i fratelli partigiani
BASSANO DEL GRAPPA - Il pozzo è ancora lì, proprio come 73 anni fa. Il pozzo di casa Sandini, in contrada Rivana, riforniva di acqua tutti i vicini, gli abitanti di quelle quattro o cinque case che allora erano in aperta campagna e oggi si ritrovano inglobate nella periferia di Bassano del Grappa. Nuovi edifici sono stati costruiti, ma nel 1944 qui c'era solo una strada sterrata, alcune abitazioni e campi coltivati.
Il pozzo è ancora lì, ancora di proprietà dei Sandini, ma oggi è nascosto tra le nuove costruzioni. Quasi dimenticato, come la storia di cui è stato testimone.
Era l'estate del '44, gli alleati combattevano lungo la linea gotica, ma Bassano era ancora troppo a nord per sperare che la Liberazione potesse arrivare presto. In quei mesi il massiccio del Grappa era un incubo per i nazifascisti. Tre formazioni partigiane, per un totale di forse milleduecento uomini, facevano base e si nascondevano lì.
Erano le settimane che precedevano l'Eccidio di Monte Grappa (
la scheda). Una strage che cambiò - come in altre parti d'Italia - l'atteggiamento della popolazione civile, terrorizzata dalla ferocia nazifascista. Ma fino a quel momento tra partigiani e civili c'era stata quasi una comunanza di intenti. L'antifascismo era diffuso, i soprusi dei tedeschi e dei loro alleati di Salò erano la regola più che l'eccezione.
La caserma Efrem Reatto (oggi Montegrappa) base dei nazifascisti durante l'occupazione
I montanari e i contadini coprivano e aiutavano chi si batteva contro gli oppressori. Non solo sul massiccio del Grappa: in pianura c'erano altri gruppi partigiani meno strutturati che agivano sotto traccia, con azioni di sabotaggio piccole ma frequenti. Tra loro c'erano i fratelli Sandini.
Tornati dal fronte e renitenti alla leva della Repubblica sociale insieme ad altri vicini di casa, Domenico, Giovanni e Mario Sandini erano solo una parte della famiglia che viveva in contrada Rivana. Antonio, il secondogenito, nato nel 1920, era stato già deportato in Germania perché finito in una lista di indesiderati del regime. Tornerà sano e salvo solo alla fine della guerra. C'erano poi due sorelle: la più grande, Adele, era già sposata e viveva a Nove con il marito.
Domenico, il più grande, era del 1918, Giovanni del '22, Mario del '24. Avevano quindi tra i 26 e i 20 anni. A casa vivevano con la madre, Maria Zonta, e con il fratello piccolo, classe '32, Vittorio. Che aveva solo 12 anni. "Il nome ufficiale era Vittorio - spiega oggi Ugo Sandini, il nipote - ma in famiglia l'abbiamo sempre chiamato tutti Livio. Non so perché, ma per noi era solo zio Livio".
I tre fratelli, spinti certo anche dall'arresto e dalla deportazione del fratello Antonio, presero contatto con i gruppi partigiani e furono impegnati in azioni di piccolo sabotaggio contro i nazifascisti. Era la linea decisa dal comandante di zona: non fare azioni tali da scatenare le rappresaglie tedesche. Una volta i Sandini diedero fuoco a un grande quantitativo di sterpaglie lungo la linea della 'vaca mora', come nella zona era chiamato il treno che univa la città con Vicenza. Da Marostica a Bassano la linea rimase interrotta. Nessuna vittima, ma anche quella per alcuni abitanti della zona fu una provocazione troppo grande, che sarebbe stato meglio evitare. Un'altra volta rubarono le campane di bronzo delle chiese che erano state requisite dai tedeschi per fonderle e le nascosero nei campi: alla fine della guerra tornarono al loro posto.
Piccole o grandi che fossero, le azioni dei tre Sandini fecero rumore e Domenico, Giovanni e Mario entrarono nel radar dei fascisti della zona, guidati da giugno del 1944 dal tenente Alfredo Perillo, scelto anche perché parlava tedesco e quindi poteva tenere al meglio i contatti con i nazisti. L'Ufficio politico investigativo del tenente Perillo si insediò in quei mesi in un piccolo edificio accanto alla caserma Efrem Reatto, oggi chiamata caserma Montegrappa, in disuso e in attesa di ristrutturazione.
Al piano terra del piccolo fabbricato c'erano gli uffici della segreteria e la sala degli interrogatori, al primo piano la zona dove venivano tenute le donne e poi uno scantinato minuscolo, dove passavano i partigiani e dove venivano detenuti i sospettati prima di essere interrogati.
"Era una cantina che aveva un'area di tre metri per tre metri e con un solo piccolo pertugio, una finestrella; lì si trovavano normalmente più di 40 detenuti, i quali erano costretti a dormire in piedi l'uno accanto all'altro, senza acqua, senza aria e senza latrina"Con queste parole l'avvocato Antonio Gasparotto ricordava dopo la guerra (forse esagerando un po' sul numero di prigionieri) com'era quello scantinato. Nove metri quadrati d'inferno.
L'unica finestrella della cantina dell'Ufficio politico investigativo
La caserma e l'annesso edificio di Perillo erano il centro del fascio a Bassano. In quella caserma, nei giorni dell'eccidio, avvennero almeno 17 fucilazioni. Altri 14 partigiani furono costretti a scavarsi la fossa, per poi essere freddati da una raffica di mitra.
Da mesi Perillo osservava i Sandini e quello che succedeva in contrada Rivana. Addirittura aveva chiesto informazioni sui tre fratelli al parroco della Santissima Trinità, don Marco Carlesso. Il prete ebbe pochi dubbi sulle intenzioni di Perillo e avvisò i tre fratelli. Era piena estate e i tre ragazzi iniziarono a fare turni di guardia, controllando sempre chi girava nella zona e se delle auto si avvicinavano alla contrada. Avevano anche predisposto un nascondiglio: erano pronti ad andare a Nove, a nascondersi a casa della sorella Adele.
Erano quindi pronti la notte dell'11 settembre '44 quando videro arrivare la retata dei fascisti. "Corsero via, attraverso i campi coltivati a granoturco, c'era questo granturco molto alto, e si fermarono nei campi della mia famiglia, a 300-400 metri da casa loro". A ricordare quel giorno non c'è rimasto nessuno, se non Ilario Polo. Aveva 13 anni, uno in più di Vittorio 'Livio'.
La storia di quel giorno della famiglia Sandini non è mai stata raccontata in 70 anni, se non dalla voce di Ugo Sandini, figlio di Domenico e nipote di Livio, e accennata in un libro di Francesco Tessarolo, presidente della Fivl e storico della resistenza bassanese. Ma è un racconto che è rimasto circoscritto, chiuso, nascosto anche perché i fratelli, di quei giorni, di come hanno visto la morte arrivare ma l'hanno scampata, non hanno mai voluto parlare. È una storia di cui nessuno al di fuori della contrada ha mai sentito nulla. "Ma qui intorno, quella storia, tutti la sapevano", racconta Ugo Sandini.
I campi della famiglia Polo oggi. In linea d'aria il pozzo dista circa 400 metri
I fascisti arrivarono a notte fonda a casa Sandini, ricorda Polo, e naturalmente non trovarono i tre fratelli. Qualcuno aveva fatto la spia, e il commando andò su tutte le furie. Rabbia che si sfogò contro chi era in casa, la signora Maria e il piccolo Livio. "Sentivamo le mitragliatrici - racconta Polo - ero alla finestra di casa, in linea d'aria era pochissimo, ma era buio e non si vedeva". Si sentiva però, e si sentiva benissimo anche dal campo di granoturco dove Domenico, Giovanni e Mario si erano nascosti. E sentivano la madre e il fratello, poco più di un bambino, urlare.
I fascisti picchiarono la donna. Le puntarono una pistola alla tempia: "Dove sono i tuoi figli?". Non lo so, non sono qui, rispondeva la signora Maria. Le misero vicino all'orecchio la mitragliatrice e spararono in aria. "Volevano farle perdere la testa", spiega Polo. Le legarono anche una corda al collo, come un guinzaglio per un cane, ma lei non parlò, nemmeno quando le schiacciarono la mano con gli scarponi d'ordinanza.
Per farla parlare picchiarono anche Livio. Lo riempirono di botte. Dicci dove sono i tuoi fratelli. "Non lo so, sono andati via da tempo, non so dove sono". Inutile dire che Livio sapeva benissimo che erano appena scappati e che avevano predisposto il nascondiglio a casa della sorella Adele.
Dicci dove sono e dove si sono nascosti. Non lo so, non lo so, ripeteva Livio. Non lo so, lasciatelo, protestava disperata la signora Maria. Non si volevano arrendere e speravano che il dodicenne alla fine avrebbe parlato.
Il pozzo oggi: seppur coperto da una grata, è ancora lì
Se già picchiare una donna non è un atto nobile, l'infamia di quella notte toccò picchi più bassi ancora. Perché qualcuno del commando prese la corda che legava il secchio per prendere l'acqua in fondo al pozzo e la legò ai piedi di Livio. Che fu calato a testa in giù per oltre 20 metri nel pozzo, fino in fondo. Dove sono? "Non lo so". Inamovibile dalla sua posizione, nonostante il buio, il terrore, gli spari che sentiva. Sapeva il piccolo Livio che c'era una sola cosa da fare. Stare zitto, non parlare, non tradire il segreto dei fratelli.
Dal campo si sentiva tutto, e seppur parlando sottovoce per non farsi sentire, i tre fratelli discussero animatamente. Pensarono di tornare indietro, ma non avevano armi, valutarono di consegnarsi per fare smettere quella tortura. Nel campo di grano nel frattempo erano arrivati altri vicini, c'era il padre di Ilario Polo, c'era don Carlesso. "Mio padre alla fine ha insistito e li ha convinti. 'Se tornate indietro, vi ammazzano, vi ammazzano. Meglio che state qui buoni'. Ha avuto ragione, li avrebbero ammazzati".
Probabilmente il signor Polo sperava che con una donna e un bambino almeno questo tabù i fascisti l'avrebbero avuto. I tre fratelli si convinsero, e rimasero dove erano.
Livio non parlò, e furono costretti a tirarlo fuori dal pozzo. Ma i fascisti non rinunciarono. Lo portarono via e lo rinchiusero insieme ad altri nella cantina dell'Ufficio politico. Dove rimase - e qui i ricordi divergono - "mezza giornata" secondo Ilario Polo o "alcuni giorni" secondo quanto tramandato in famiglia. Nemmeno lì parlò, anche perché il peggio l'aveva già visto in fondo al pozzo e dopo aver resistito a quella tortura non era certo tipo da farsi piegare da una prigionia, seppur in una cantina asfissiante e sovraffolata.
"A quel punto - ricorda ancora Ilario Polo - don Carlesso andò a parlare con il tenente Perillo e lo convinse a liberare il ragazzo". Così Livio, con il suo segreto, poté tornare a casa. "Non sapevo - interviene Ugo Sandini - che ci fosse stata l'intercessione del parroco, ma è possibile. Lui si era speso molto".
I fascisti non si sono più avvicinati a contrada Rivana. I tre fratelli, dopo quelle ore di terrore, rimasero nascosti nella cantina della sorella Adele, uscendo poco e solo di notte, fino alla fine della guerra. Si salvarono. O meglio furono salvati: dal coraggio della signora Maria e soprattutto di Livio.
I fratelli Sandini nel 1961, al matrimonio di Livio. Da sinistra: Antonio, Mario, Livio con sua moglie Danila, Giovanni e Domenico
Danila Sandini, moglie di Livio, lo ha conosciuto dieci anni dopo e lo ha sposato nel 1961. C'è una foto, proprio di quelle nozze, che ritrae i 5 fratelli insieme. C'era anche Antonio, tornato dal campo di prigionia in Germania. Una foto che è lì a testimoniare l'eroismo di un bambino.
Danila Sandini non è una testimone diretta di quella notte, ma racconta: "Livio non aveva piacere di parlarne, era una cosa che voleva dimenticare". Conferma Ugo: "No, in famiglia non se ne parlava molto. Anche mio padre Domenico non mi ha mai raccontato molto di quel periodo. Ho saputo di più da mia madre che da loro. Quando ero adolescente chiedevo, volevo sapere, ma era difficile farli aprire. Penso sia naturale, un sistema di difesa".
Livio è morto nel 2004, dopo una lunga malattia. Ha vissuto 60 anni con il ricordo del pozzo, di quei 25 metri di buio, con le grida della madre, i suoni della mitragliatrice dei fascisti, di quello scantinato pieno di partigiani. "C'era un particolare che ripeteva sempre, quelle poche volte che me ne parlava - ricorda Danila - il fatto che l'avessero portato via scalzo. 'Nemmeno le scarpe mi hanno fatto mettere', diceva". Commossa, Danila conclude: "Com'era Livio? Una persona buona".
Foto di famiglia: il pozzo nei primi anni '60; Antonio Sandini di fronte alla casa di famiglia; Livio Sandini con i nipoti davanti al pozzo, anni '70
L'offensiva nazifascista, denominata in maniera roboante 'operazione Piave', che il 20 e 21 settembre 1944 annienterà le formazioni partigiane sul massiccio del Grappa è passata alla storia come rastrellamento o eccidio del Grappa. Il bilancio parla di centinaia di morti, seguiti a fucilazioni e impiccagioni. La popolazione fu terrorizzata: tre donne furono rasate a zero e fatte sfilare per le vie con un cartello appeso al collo: "Alle donne che offrono le loro grazie ai partigiani".
Trentuno giovani, alcuni appena saliti in montagna perché renitenti alla leva della Repubblica Sociale, furono catturati e impiccati agli alberi dei viali principali di Bassano.
Oggi delle targhe li ricordano, una per ognuno dei lecci che fiancheggiano via dei Martiri. Furono 'solo' 31 perché intervenne il vescovo di Vicenza e fermò lo scempio. Ma quei 31 rimasero appesi per 22 ore, abbastanza perché i maestri della scuola cittadina portassero in gita gli alunni a vedere che fine facevano i partigiani.
Tra i bambini c'era chi piangeva, chi si sentiva male e chi rimase più freddo, ma certo nessuno avrà mai dimenticato. Ricorderà Tina Anselmi, futura ministra della Repubblica, che era tra quegli alunni: "Fu straziante, una scena che mi lasciò turbata per molto tempo, che mai potrò cancellare dalla memoria".
Lo storico: "Così i nazifascisti hanno commesso l'eccidio del Grappa"
Oggi delle targhe li ricordano, una per ognuno dei lecci che fiancheggiano via dei Martiri. Furono 'solo' 31 perché intervenne il vescovo di Vicenza e fermò lo scempio. Ma quei 31 rimasero appesi per 22 ore, abbastanza perché i maestri della scuola cittadina portassero in gita gli alunni a vedere che fine facevano i partigiani.
Tra i bambini c'era chi piangeva, chi si sentiva male e chi rimase più freddo, ma certo nessuno avrà mai dimenticato. Ricorderà Tina Anselmi, futura ministra della Repubblica, che era tra quegli alunni: "Fu straziante, una scena che mi lasciò turbata per molto tempo, che mai potrò cancellare dalla memoria".
Una delle lapidi in memoria delle vittime dell'eccidio