11.7.17

Quella luce (quasi) eterna e la cospirazione mondiale sulle lampadine

Da http://pochestorie.corriere.it/

Quella luce (quasi) eterna e la cospirazione mondiale sulle lampadine


La lampadina nella caserma dei pompieri di Livermore (dal San Francisco Chronicle)
La lampadina nella caserma dei pompieri di Livermore (dal San Francisco Chronicle)
Brilla dal 1901 e per ora non dà segno di voler smettere in tempi brevi. E’ la lampadina più longeva del mondo, appesa nella caserma dei pompieri di Livermore, una cittadina della California, ed è anche il punto di partenza per noi di Poche Storie per parlare del Consorzio Phoebus, una straordinaria cospirazione risalente agli anni Venti del secolo scorso messa in atto per controllare il mercato mondiale delle lampadine attraverso l’invecchiamento artificiale dei prodotti. La cosiddetta obsolescenza programmata. A onor del vero, la lampadina di Livermore non è mai stata spenta se non in un’occasione: quando i vigili del fuoco si trasferirono dalla vecchia caserma nella zona centrale alla sede attuale, nel 1976. Il cordone di alimentazione venne tagliato (svitare il bulbo fu considerato eccessivamente rischioso) e la “centenaria, (quasi) eterna lampadina” fu spenta per 22 minuti. Il tempo necessario per il trasferimento. Nel 2001 il centenario fu festeggiato in perfetto stile americano, con balli, canti, cibo e un sonante Happy birthday to you,intonato in coro dagli abitanti della cittadina e dai non pochi turisti accorrsi per la celebrazione. La lampadina è anche finita nel Guinness dei primati. La sua esistenza è monitorata da una telecamera la cui immagine si aggiorna ogni 30 secondi, come si può vedere qui (da quando è stata decisa la sorveglianza video, tre telecamere si sono già guastate per l’usura, mentre lei resiste).
Adolphe Chaillet
Adolphe Chaillet
L’ingegnere francese – Il filamento è di carbone e la potenza originaria deve essere stata di 50-60 watt, anche se oggi si è ridotta a 4 watt per il decadimento naturale del filamento. E’ stata prodotta dalla fabbrica di Shelby, in Ohio, il cui direttore tecnico agli inizi del ‘900 era Adolphe A. Chaillet, un francese emigrato negli Stati Uniti nel 1892 (che si è portato nella tomba il segreto della sua costruzione). D’altronde non si sa nemmeno con precisione quando e come sia morto, nè pare siano sopravvissuti documenti dettagliati su come venivano prodotte le sue lampadine. In questa domanda di brevettodepositata nel 1900 e menzionata dalla voce di Wikipediain lingua inglese dedicata all’inventore, Chaillet si dilunga molto sulla forma del filamento e del bulbo. Entrambi erano concepiti per dirigere il fascio luminoso verticalmente verso il basso, a differenza delle lampadine della concorrenza che proiettavano molta luce in linea orizzontale, dove non serviva nel caso più frequente di installazione sui soffitti delle abitazioni. Tuttavia nel documento non si fa cenno alla costruzione del filamento.
Carbonio e tungsteno – In un articolo apparso sulla rivista Electrical review del 10 marzo 1897, la fabbrica di Shelby si era limitata a ribadire che il filamento veniva prodotto localmente, negando che fosse di importazione tedesca, e che
«the filament is much nearer pure carbon than anything on the market».


 carbonio purissimo, quindi, in un momento in cui le società che costruivano lampadine si stavano già dando da fare per sostituirlo con altri materiali più resistenti. Nel 1911 la General Electric, che un anno dopo avrebbe comprato la Shelby, avrebbe messo in commercio lampadine con il filamento in pasta di tungsteno, seguite nel 1913 da modelli in tungsteno puro e con il bulbo non più vuoto ma riempito di gas inerti, per esempio l’argo, un altro brevetto GE che assicurava una durata maggiore. Il problema è che per capire davvero i segreti della lampadina di Livermore, bisognerebbe romperla, cosa improponibile. Quindi per ora se ne sta lì tranquilla e protegge il suo segreto.
Stabilimento Siemens per la produzione di lampadine nei primi anni del '900
Stabilimento Siemens per la produzione di lampadine nei primi anni del ‘900
Vecchiaia rapida – Se state pensando che la stiamo facendo un po’ lunga su una semplice lampadina, di cui peraltro si sono già occupati molti organi di informazione (per esempio, qui una trasmissione di TV2000 quiun articolo del Daily Mail), avete forse ragione. Il fatto è che siamo venuti a conoscenza dell’esistenza del fenomeno di Livermore attraverso questo video in lingua spagnola, che ci ha introdotto al concetto dell’obsolescenza programmata. In altre parole la convenienza per l’industria di far durare relativamente poco i suoi prodotti e di renderli non riparabili se non a costi proibitivi, in modo da renderne in apparenza vantaggiosa la sostituzione e tenere in moto il volano del ciclo produzione-consumo. Lo stesso video ci ha informati dell’esistenza del Consorzio Phoebus, un accordo internazionale segreto stipulato nel 1924 tra i maggiori fabbricanti di lampadine a incandescenza per ridurre la vita dei loro prodotti in modo da assicurarsi un continuo mercato di sostituzione.
Accordo internazionale – Ci rendiamo conto, sembra una storia che potrebbe piacere molto ai complottisti, a chi parla delle scie chimiche e del finto sbarco sulla Luna. Però questa è vera, con fior di documenti a sostenerla, come si può leggere in questi due molto approfonditi articoli del New Yorker e di un sito collegato all’Ieee, l’Institute of electrical and electronic engineers. Nel dicembre del 1924 si riunirono aGinevra i massimi rappresentanti mondiali dell’industria delle lampadine: la tedesca Osram, l’olandese Philips, la francese Compagnie des Lamps, l’ungherese Tungsram,la britannica Associated Electrical Industries, la giapponese Tokyo Electric e alcune sussidiarie internazionali (brasiliana, cinese e messicana) dell’americana General Electric. Lo scopo era quello di controllare il mercato globale del settore che, seppur molto redditizio, stava cominciando a dare segni di rallentamento per l’eccessiva vita utile dei prodotti, in quel momento tra le 2.000 e le 2.500 ore di funzionamento ininterrotto. Osram, ad esempio, aveva registrato un brusco calo delle vendite sul mercato tedesco, con 63 milioni di lampadine nell’anno fiscale 1922-23 scesi a 28 milioni nell’anno successivo. Bisognava correre ai ripari.
Thomas Alva Edison
Thomas Alva Edison
Obiettivo mille ore – Si decise quindi di ridurre gradatamente la vita utile del prodotto a 1.000 ore, “vendendo” ai consumatori l’idea di uno scambio, per loro in apparenza vantaggioso, tra una minore durata e un prezzo più alto a fronte di una migliore qualità della luminosità prodotta. Ma non ci fermò lì: una parte importante dell’accordo prevedeva la divisione del mercato mondiale in quote di produzione e vendita cui le imprese avrebbero dovuto attenersi, con multe salate in caso di sforamento. Sanzioni altrettanto importanti sarebbero state comminate, sempre a opera del consorzio, a chi si fosse azzardato a mettere sul mercato lampadine più longeve di quanto stabilito. Ogni stabilimento delle imprese aderenti al consorzio doveva mandare esemplari dei propri prodotti ad alcuni laboratori situati in Svizzera, dove venivano sottoposti a dei test per misurarne la durata. Lentamente lo scopo venne raggiunto: tra il 1926 e il 1934 la vita utile delle lampadine prodotte dalle imprese del cartello Phoebus scese da una media di 1.800 ore a 1.205 ore. E le vendite ripresero fiato.
Guerra e fine – Tuttavia la “pax luminosa” e il relativo “bengodi” non durarono a lungo. Già all’inizio degli anni ’40 la General Electric si trovò sotto attacco da parte dell’Antitrust americano. E poi arrivò la Seconda Guerra mondiale, che trasformò in nemici i complici di pochi anni prima. Nel 1945 il consorzio Phoebus non esisteva più. La domanda che oggi ci dobbiamo fare è: il consorzio o qualcosa che gli assomiglia sono rinati? E’ ancora valida la teoria dell’obsolescenza programmata, che peraltro durante la Grande Depressione seguita alla crisi del 1929 fu promossa a dottrina economica vera e propria in grado di far ripartire le imprese, vincere la deflazione e rimettere in moto il ciclo economico stagnante? Sicuramente, rispetto agli anni Venti e Trenta, la sensibilità ambientale e la coscienza che le risorse del Pianeta non sono infinite hanno portato a un capovolgimento della mentalità dominante.
I Led eterni – Il mercato delle lampadine è ora sempre più dominato dai Led, che hanno portato la vita utile media a 25mila ore: in altre parole 1.041 giorni, tre anniUna lampadina a incandescenza prodotta da un’impresa Phoebus nel 1935, accesa sempre il primo gennaio, si sarebbe spenta il 12 febbraio dopo aver consumato molta più energia. Per quanto riguarda le lampadine, quindi, i fabbricanti sembrerebbero aver rinunciato all’obsolescenza programmata: tra l’altro la Osram, la società tedesca che per prima concepì l’idea di Phoebus, è fortissima sul mercato delle lampadine a Led di lunga durata. Ma l’idea del consumo ininterrotto come panacea di tutti i mali dell’economia è tutt’altro che passata di moda, come del resto dimostrano gli infiniti appelli a consumare di più lanciati dai vari leader mondiali, per uscire dalla crisi iniziata nel 2008 (e non ancora superata).
Un'immagine tratta dal sito Small Footprint Family per sensibilizzare i consumatori sull'uso delle lampade a led, meno dannose per l'ambiente
Un’immagine tratta dal sito Small Footprint Family per sensibilizzare i consumatori sull’uso delle lampade a led, meno dannose per l’ambiente
Moda e dintorni – Oggi l’impulso a consumare di più, almeno per certe categorie di prodotti, sembra affidato più ai contenuti emotivi degli oggetti che alla loro durata. Insomma è più facile farli passare di moda che farli rompere, come dimostrano i prodotti Apple che fanno appello a novità anche minime tra le diverse serie di uno stesso oggetto per indurre i consumatori alla sostituzione. Anche se la casa di Cupertino, con le sue batterie integrate di durata incerta e i suoi portatili sigillati di ultima generazione impossibili da potenziare, ha cominciato a profumare parecchio di anni ’30 e di obsolescenza programmata. Ma c’è forse anche dell’altro. Il video dal quale siamo partiti per scrivere questo articolo suggerisce per esempio che le stampanti siano state programmate per smettere di funzionare dopo un tot di ore grazie a un chip nascosto. Non siamo riusciti a trovare prove univoche di questa affermazione, che quindi non ci sentiamo di sottoscrivere.

Ibrahim, 24 anni, morto di appendicite e di razzismo

ma in che 💀💣💥💥💩 di paese viviamo ?Questo  è l'unico commento che mi sento da fare leggendo storie come questa che riporto sotto . Va bene che dal punto di vista giudiziario : << Sulla vicenda il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha detto: “Bisogna accertare eventuali responsabilità sulla morte del 24enne ivoriano >> ma  dal punto  di vista etico  morale    tale  persone  e tali atteggiamenti     vanno condannati  .  Prima  di lasciarvi  alla storia   , anticipo   a chi mi dirà , tu che  avresti fatto ?   io  l'avrei porto  anche  a piedi   o  avrei ( non avendo patente  )  dato l'auto   dei  miei  per  poterlo all'ospedale  o  soccorso  se  fossi stato medico   . perché   una persona che   sta male      va soccorsa indipendentetemente  dala nazionalità  . 



Ibrahim, 24 anni, morto di appendicite e di razzismo





Marco si è sentito male domenica, mentre era con suo fratello e gli amici. Un ragazzo gentile di 24 anni che parlava cinque lingue, impegnato come volontario per tradurre le informazioni ai richiedenti asilo. Si lamentava per i forti dolori all’addome. I crampi che provoca l’appendicite quando si infiamma. È corso in ospedale, dove lo hanno subito dimesso. «Ma io sto malissimo, mi fa male la pancia!», ripeteva. Non gli hanno creduto.
Nelle ore successive i dolori aumentano. La sera, Marco non riesce più a stare in piedi. Suo fratello e i suoi amici lo portano alla farmacia di turno, quella di Piazza Garibaldi, a un passo dalla stazione centrale di Napoli. Il farmacista si rifiuta di aprire la porta. Vede il ragazzo contorcersi per il dolore. Lo pregano di chiamareun’ambulanza. Attendono per più di un’ora, mentre Marco è riverso a terra, ma l’ambulanza non arriva. I ragazzi corrono alla fermata dei taxi più vicina, quella di Piazza Mancini. Per accompagnare Marco in ospedale servono dieci euro per la corsa. «Eccoli!», dicono, ma il tassista si rifiuta di caricarli. «Per piacere, sta malissimo!». Niente da fare. I ragazzi sollevano Marco e lo scortano a un’altra farmacia. Il farmacista osserva il ragazzo e gli suggerisce di acquistare farmaci per quindici euro. Marco inghiotte i farmaci, torna a casa, vomita.
Suo fratello e i suoi amici tentano di nuovo di chiamare un’ambulanza, invano. Si rivolgono a Mauro, che è medico. Telefona anche lui: «Non possiamo mandare un’ambulanza per un ragazzo che vomita». «Ma sta male – li supplica Mauro – è urgente!». Ricostruisce i fatti parlando al telefono con i colleghi, spiega i sintomi. Marco rantola, ha quasi perso conoscenza. «Niente ambulanza, dovete portarlo a farsi visitare alla guardia medica. Nel caso, poi, l’ambulanza la chiamano loro». Suo fratello e gli amici lo prendono in spalla, corrono disperati verso Piazza Nazionale. Fermano una volante dei Carabinieri ma nemmeno quelli vogliono caricare Marco in macchina. Si rimettono a correre.
Quando arrivano a destinazione Marco non risponde più. I medici capiscono che bisogna chiamare un’ambulanza e operarlo al più presto, ma il più presto era prima.
Poco dopo l’arrivo in ospedale, Marco è morto.
È morto perché non si chiamava Marco ma Ibrahim Manneh e veniva dalla Costa D’Avorio, come l’abbiamo ribattezzata noi europei nel 1500, quando abbiamo razziato tutti gli elefanti della zona portandoli all’estinzione.

Ora   ad  alcuni di voi   potrà sembrare  un caso   ma  ciò  sta  succedendo    sempre  più spesso  ma per   questo    forse perchè  storie  lontane  dai media e dal clamore mediatico , si hanno scarse notizie .


Infatti -  sempre secondo il fatto quotidiano -La denuncia è partita dai suoi amici: gli attivisti dello sportello medico e legale gratuito dell’Ex Opg Occupato. Stamattina hanno convocato una conferenza stampa per denunciare questa incredibilestoria di razzismo, ingiustizia e malasanità. Non è la prima che denunciano: in un anno di attività ne hanno seguite tante.
Quella della ragazza shrilankese alla quale, dopo il parto, non consentivano di riconoscere sua figlia perché non aveva i documenti. «Se entro dieci giorni non riconosci il bambino che hai partorito, vieni denunciato per abbandono di minore». I documenti li aveva persi nell’incendio che aveva distrutto la casa. I Carabinieri non avevano accettato la denuncia di smarrimento perché la ragazza non aveva i documenti. «Ora la bimba ha otto mesi, si chiama Violetta».
Quelle delle decine di ragazzi bisognosi di cure mediche urgenti e intrappolati anche loro in un Comma 22: per ricevere cure urgenti servivano i documenti che arrivavano dopo mesi. «Abbiamo aperto un tavolo con la prefettura e abbiamo ottenuto una circolare ministeriale che chiarisce che non c’è bisogno dei documenti per essere curati».
Quella delle decine di minorenni soli che arrivano dalla Libia con i segni della tortura addosso: «Li legano, li gettano a terra, li percuotono sotto i piedi e sulle gambe con i bastoni chiodati fino a spaccargli le ossa. Un ragazzo che abbiamo appena visitato ha perso un occhio per una manganellata». Siccome sono ferite cicatrizzate, all’ospedale non vengono refertate, quando invece sarebbe necessario per ottenere asilo politico.
Quella di Chek, che rischiava di finire come Ibrahim. «Per mesi lo hanno ricoverato e dimesso senza fargli analisi. Solo grazie al nostro intervento e dopo molte insistenze hanno acconsentito a fargli un emocromo e una elettroforesi dell’emoglobina che ha confermato il nostro sospetto: Chek ha un’anemia falciforme omozigote. Adesso sarà seguito da un centro specialistico e curato in modo adeguato ma se fosse morto, chi avrebbe spiegato perché ai suoi genitori? Chi spiega il perché per i tanti figli che muoiono attraversando deserti e mari?».



L’ambulatorio popolare dell’Ex Opg va avanti grazie a una rete di medici volontari. «Molti di loro non hanno alcuna appartenenza politica», spiega Mauro Romualdo, che voleva partire come medico volontario per l’Africa ma poi l’Africa l’ha trovata a Napoli. Ci sono specialisti di medicina generale, il ginecologo Enrico che lavora in una struttura convenzionata, l’ortopedico Francesco detto Ciccio, un primario in pensione, una pneumologa, una psichiatra del Policlinico, specializzandi in Infettologia, medicina interna legale, infermieri e psichiatri allo sportello di ascolto e sostegno psicologico. L’ambulatorio si è costituito grazie alle donazioni, come i due ecografi arrivati da un ginecologo in pensione. «Sono tante le gravidanze che abbiamo seguito. Da poco è nato Denis, il figlio di una ragazza cinese. «Non parlava italiano, ci capivamo traducendo sul telefono». Per questo, all’Ex Opg ci sono anche i corsi gratuiti di italiano. «Vengono a farsi visitare anche tanti abitanti del quartiere e delle altre zone di Napoli. Un napoletano che non sapeva leggere e scrivere sta imparando qui». Il controllo popolare della salute, lo chiamano.
Garantire le cure mediche ma anche l’istruzione, l’assistenza legale contro lo sfruttamento e il lavoro nero, il doposcuola, l’asilo, perché le cure non sono solo le medicine, cura è prendersi cura, capire i bisogni, ascoltare. Per salvare Ibrahim sarebbe bastato ascoltarlo e invece è morto di razzismo: un male incurabile, sebbene la ricerca stia facendo passi avanti e passi indietro. Passi indietro a Chioggia, passi avanti a Napoli, all’Ex Opg, dove si aiutano gli immigrati a casa loro, cioè qui.


Strano  che il minisro  la ministra  della  sanità  e  della salute    non  manda  ,  forse  per  evitare  di perdere lettori  malpancisti   e    filo salvinisti  che stanno avendo sempre  più 😈😕😌 seguaci    fra  la  gente  ,  gli ispettori ne   nelle  farmacie  nè  nel primo ospedale  . Però scometto   che   come tutti   i geniali dilettaqti  in selvaggia parata    saranno presenti  al  funerali  . 





10.7.17

dal fango nasce l'amore , in bagno con i documenti , ed altre storie





 odio le  smancerie   amorose  o le  diociarazioni    di matrimonio particolari  (  anche se  ne  ho parlato  in certi  post  )  come quella  fatta  al concerto di vasco a modena
  ma  questa   ha  il sapore    de andreiano

https://www.youtube.com/watch?v=EEH7bSeSL84dai diamanti non nasce niente  dal  letame ( nascono i  fiori

http://iltirreno.gelocal.it/montecatini/cronaca/2017/07/08

Dal fango nasce l’amore e Rudy sposa la sua Gabriella

Lui di Montecatini, lei di Albinia, si incontrarono cinque anni fa durante l’alluvione di Orbetello

ORBETELLO.
Un vecchio proverbio recita: «Non tutto il male viene per nuocere». In queste poche parole è racchiusa la storia di due innamorati che nella chiesa del borgo di Polverosa (Orbetello) sono convolati a nozze.


Gabriella Santi (orbetellese) e Rudy Matossi (di Montecatini Terme)



Dopo cinque anni di fidanzamento e convivenza, hanno dunque coronato il loro sogno d’amore. Un amore sbocciato in un momento del tutto particolare per la Maremma: l’alluvione di San Martino che cambiò volto ad Albinia e alle sue campagne. Campagne in cui Gabriella è nata e cresciuta.
La sua casa, per fortuna, si trova lontana dal fiume Albegna e venne risparmiata dalla devastazione, che invece colpì chi abitava a poche centinaia di metri più in basso.Gabriella in quei giorni, come lo è anche il fratello, Massimiliano Santi, era volontaria nella Misericordia di Albinia. E proprio ad Albinia arrivò la Protezione civile regionale.
«Durante l’alluvione – racconta il fratello Massimiliano – Rudy è venuto con il camper della segreteria della Regione Toscana per valutare l’emergenza e per coordinare le squadre di soccorso che venivano mandate da tutto il territorio». In quei giorni terribili, in cui tutto si era tinto di marrone, in cui le lacrime solcavano i visi di chi aveva perso ogni suo avere, sogni e ricordi, gli occhi di due giovani si sono incontrati ed è sbocciato l’amore. Quando l’emergenza è finita, quando tutto è stato un po’ più tranquillo, Gabriella e Rudy si sono fidanzati.
Fra i due innamorati però c’era la distanza a tenerli lontani. Lei a Orbetello e lui a Montecatini. L’amore si sa, quando è vero, è più forte di tutto e non conosce ostacoli. Gabriella ha lasciato la sua famiglia e dopo due mesi dal loro incontro è andata a vivere a Montecatini. Ora vive là e lavora all’Eurospin.
Ieri pomeriggio, in quella chiesa che l’ha vista bambina fare la sua prima comunione, è arrivata una donna pronta e deterinata a pronunciare il suo sì. L’amore di Rudy e Gabriella è l’amore nato quando non te lo aspetti. Quando la disperazione regnava intorno a due giovani che in quel momento erano al servizio di chi si trovava in difficoltà.
In mezzo a tutto quel fango, in mezzo a tutta quella melma però Cupido ha colpito. Agli sposi gli auguri del fratello Massimiliano, degli altri fratelli della sposa, dei genitori e della nostra redazione.


  Mancanza  di bun senso    queste due  storie   la  prima

Mancanza di bun senso queste due storie la prima Inizialmente quando ho letto questa storia presa  da http://www.emiliaromagnamamma.it/2017/07/le-mamma-fanno-chiudere-laltalena-disabili/ (  e che   riporto sotto   )   ho avuto la stessa reazione dell'amica



 “Io e Matteo ringraziamo tutti quei cittadini che hanno fatto chiudere l’altalena così che i propri figli ‘normodotati’ possano rimanere incolumi mentre loro chiacchierano e giocano con il cellulare. O sono tranquilli tranquilli al mare poiché non hanno bisogno di aiuto o accessibilità. Noi, non vi preoccupate, andiamo a rinchiuderci a casa. Grazie. W la civiltà”. Con questo amaro messaggio su Facebook Michela Aloigi,madre di Matteo, ragazzo disabile, e presidentessa dell’associazione La giraffa a rotelle, 



ha annunciato la chiusura di un’altalena speciale installata solo pochi mesi fa (a fine 2016) nel parco urbano di Imperia e da allora criticata dai genitori di bimbi ‘normodotati’ che la ritenevano pericolosa per l’incolumità dei propri figli. Il fatto è che l’altalena per i disabili veniva, appunto, impropriamente utilizzata da tutti gli altri bambini tra il disinteresse dei genitori. Da qui il giudizio di ‘pericolosità’: mamma e papà incapaci di badare ai propri figli e di far rispettare poche e semplici regole, hanno lanciato una crociata contro l’altalena inclusiva
Nelle scorse settimane erano comparsi post su Facebook che denunciavano l’abuso: “Vorremmo segnalare la pericolosità dell’altalena per disabili – spiegava uno degli interventi – benché sia riservata solo a un determinato pubblico, il gioco viene usato abusivamente da tutti i bimbi e persino dagli adulti. Il fatto è che quest’altalena è un ammasso di ferro di notevole peso, un’arma anti bimbo.

 Chiediamo di mettere un lucchetto all’attrezzo in modo da evitare rischi per l’incolumità dei bambini, magari dando la chiave solo ai ragazzi che ne hanno diritto”. Genitori e nonni si erano lamentati anche con i media locali della situazione.
Il post di denuncia di Michela Aloigi in poche ore ha avuto centinaia di condivisioni e questa battagliera mamma ha ringraziato sempre sul social network, in vista di futuri sviluppi: “Quanta solidarietà! Un grazie a tutti e vi terrò aggiornati sperando che tutto questo appoggio faccia riaprire e cosa importantissima, rispettare, giocando tutti insieme, l’Altalena!”.




accolgo  volentieri  l'appello   della mia  utente ( preferisco il termine   utente   perchè  amici     in rete   è  ambiquo )  sempre  attiva   e sensibile

4 h


L’egoismo di alcune mamme ha portato alla chiusura di un’altalena, che rappresentava un momento di svago per Matteo e la sua famiglia.
Chiediamo a tutti di scrivere al sindaco di Imperia affinché l’altalena per i disabili venga ripristinata.
L’indirizzo mail è sindaco@comune.imperia.it
Uniamoci come abbiamo fatto per le dichiarazioni inaccettabili del sindaco di Pimonte e anche questa volta facciamoci sentire la nostra voce.
Per Matteo e per tutti i bimbi che hanno necessità di strutture apposite.
  e  prima di passare  alla  storia  successiva      vi lascio  con questa  tocccantre      poesia  di Annalisa Cardia

L'immagine può contenere: una o più persone, cielo e spazio all'aperto

Immagine del profilo di Annalisa Cardia, L'immagine può contenere: 1 persona, con sorrisoAnnalisa Cardia
28 maggio · 



Altalene

Non ci sono più 
le altalene
su cui volavamo 
spensierati.
Il tempo
ha eroso
le loro corde,
che ora ciondolano
tristemente
sospese,
sullo sfondo dell’innocenza
e il primo piano
della maturità.



 . Un fatto comprensibile  se  ci mettiamo dalla parte del proprietario \  i dell'esercizio pubblicpo , ma  che dimnostra  come  il buon senso  stia sempre  vedendo meno    


Padova, in bagno al bar solo con i documenti
Succede nel locale del capolinea del tram alla Guizza: polemica sulla decisione del gestore
di Felice Paduano





PADOVA. 
Può un bagno di un locale pubblico essere gestito dal titolare come se fosse un luogo privato? Se una persona ha bisogno di utilizzare la toilette può usare i servizi igienici di un locale pubblico gratis o deve consumare ?

La questione è ampiamente dibattuta e non stupisce più dover chiedere la chiave, consumare, oppure addirittura pagare un obolo per poter usare il bagno. Diverso è dover mostrare i documenti. Sia perché i baristi non sono pubblici ufficiali, sia perché non c’è alcuna ragionevolezza, come se chi ha documenti in tasca usa il bagno senza sporcare o distruggere quello che c’è. Eppure a Padova accade anche questo.
«Per le chiavi del bagno chiedere in bar, muniti di un documento», si legge infatti sulla porta del bagno del locale situato al capolinea sud del tram, alla Guizza. Il cartello scritto dal gestore è posizionato sulla porta della stanza che si trova nel corridoio interno dell’esercizio pubblico a sette metri dall’ingresso del bar.Da circa due anni il titolare è Arturo Scattolin, uno dei più noti baristi della città, che, in via Aspetti 258, praticamente davanti al Bingo, all’Arcella, gestisce anche il locale pubblico Sottovento. Il bar in questione, in questo periodo, è aperto, dal lunedì al sabato, dalle 6.30 alle 19 e vi lavorano due ragazze (una al mattino e l’altra al pomeriggio), sono sempre gentili e garbate con tutti i clienti. Il bar funziona anche come rivendita dei biglietti per il tram e i bus urbani e suburbani di BusItalia ed è di proprietà di Aps Holding spa sin da quando sono stati costruiti, undici anni fa, gli uffici e il deposito dei tram. In pratica il gestore lo ha avuto in concessione dalla società partecipata del Comune di Padova, a cui paga l’affitto ogni mese. Ma è lecito pretendere la carta d’identità, il passaporto o, in alternativa per gli stranieri, il permesso di soggiorno per poter utilizzare la toilette ?
«Secondo me è l’unico locale pubblico del Veneto dove ci vuole la carta d’identità per fare pipì» sottolinea Gabriele, un giovane, originario di Crotone che prende spesso il tram al capolinea sud. «Una cosa del genere è inaudita. Mi meraviglio come mai, sino a oggi, nessuno si sia ribellato». Del tutto diversa la versione fornita dai tanti autisti che vanno a bere il caffè da Scattolin. «Il gestore ha fatto bene» rispondono in coro.
«Ci sono troppi tossicodipendenti che vanno a drogarsi dentro i bagni dei bar e, poi, ci risulta che il barista sia arrivato a tale scelta perché più di un cliente si sia portato la chiave del bagno a casa». Sulla toilette utilizzabile solo con un documento anagrafico in mano si esprime volentieri anche il direttore dell’Appe. «A prima vista mi sembra veramente molto strana la decisione del barista» osserva Filippo Segato, «capisco che se più di un cliente si è tenuto la chiave è giusto correre ai ripari. D’altronde la decisione si inquadra all’interno del dibattito spesso vivace sui bagni nei locali pubblici.
Ci sono diversi gestori che sostengono che le toilette dei bar non sono pubbliche. Altri che per il loro uso fanno pagare 0,50 centesimi o addirittura un euro. Altri lo riservano ai soli clienti con un codice a barra scritto sullo scontrino. Come sempre tuttavia, serve buon senso».



ma  concludiamo in bellezza  con una storia  ,  forse  un po' esagerato come  esempio , ma la libertà è anche questa presa  da  http://iltirreno.gelocal.it/pisa/cronaca/2017/07/08/

Dà l’addio al posto fisso in Comune: «Sarò una blogger a tempo pieno»  

La storia di Silvia Ceriegi e dello straordinario successo del suo sito Trippando. In una lettera ai figli spiega la decisione di licenziarsi. «Mi metto in gioco per potervi insegnare cos’è la vera libertà»

Neanche un posto fisso può fermare un sogno. Soprattutto se in gioco ci sono passioni e una cultura cosmopolita rimasta imprigionata per tanti anni nelle quattro mura di un ufficio del Comune di Vecchiano.


 Non c’è stipendio che possa reggere se in gioco c’è la libertà. O meglio, la sensazione di sentirsi libera dalla gabbia della burocrazia. Da quelle quattro mura, una scrivania e un computer che per tanti è l’aspirazione di una vita, ma che per Silvia Ceriegi, classe 1979, un marito e due figli, si sono trasformate in una sorta di prigione in cui il tempo ha fossilizzato le aspirazioni di una donna che ha intrapreso un viaggio intorno al mondo dispensando consigli e recensioni e diventando una delle più seguite e apprezzate travel blogger d’Italia e del mondo.
Impiegata all’ufficio ambiente del Comune di Vecchiano, ha rinunciato al posto fisso statale. Un’utopia per tanti, una speranza per molti, una sorta di oppressione per Ceriegi che a fine giugno ha presentato le dimissioni dall’incarico, diventante effettive ieri, per trasformare le sue passioni, la scrittura e i viaggi, nel suo lavoro. Sei anni fa ha aperto quello che in poco tempo è diventata la Bibbia dei viaggiatori. Trippando.it incassa una media di 130.000 utenti unici al mese. Un carico di passione e visitatori che l’hanno spinta a lasciare dopo otto anni uno stipendio sicuro e la certezza del futuro.
«Sarò considerata una pazza – sottolinea – ma ho preferito la libertà ai soldi “pochi, maledetti e subito”. La verità è che per lavorare in determinati ambienti, dove i giovani sono già vecchi, occorre il giusto carattere».
Laureata in chimica industriale, approda al Comune di Vecchiano vincendo un concorso per il settore ambiente, dove pian piano le sue ambizioni sono state travolte dalla burocrazia e dalla staticità di un lavoro che ha fatto maturare in lei la sfida di abbandonarlo, comunicata ai figli con una lunga lettera pubblicata sul suo blog.
«Questa scelta l’ho fatta per seguire le mie ambizioni e le mie aspirazioni – scrive Ceriegi rivolgendosi ai figli –. Mi sono laureata in chimica industriale e ho iniziato a cercare un lavoro. Erano i tempi degli stage a 500 euro. Ne ho fatti due; sono finita a Milano. Poi ho conosciuto il vostro babbo. Tra un lavoro incerto ed il sogno di un grande amore, non ho avuto dubbi: dopo due mesi di storia a distanza mi sono licenziata per tornare a casa e mi sono rimboccata le maniche. Poi la Piaggio, il lavoro che più ho amato, l’unico anno e mezzo in cui ho messo in pratica quello per cui avevo studiato. Ma non c’era posto per me. E allora altro giro, altra corsa. Nel frattempo ho rifiutato un colloquio alla Ferrari. Sì, a Maranello: per loro la mia esperienza alla Piaggio era motivo di chiamata, ma non sono andata. Se mi avessero preso non avrei potuto dir di no. Non avrei però potuto separarmi di nuovo dal vostro babbo. Allora, meglio non andare nemmeno a fare il colloquio. Dopo è capitato quello che pensavo fosse il colpo della mia vita – prosegue la blogger –: concorso in Comune, il mio Comune. Terza classificata. Non credevo ai miei occhi: assunta a tempo indeterminato. Dopo undici mesi sono convolata a nozze. Se mi fossi accontentata a questo punto sarebbe bastato un “e vissero felici e contenti”. Non credevo però fosse così difficile adeguarsi alla burocrazia. A me non è riuscito– conclude Ceriegi –. Questa mamma vuole mettersi in gioco ogni giorno per meritare il vostro rispetto e per essere degna di potervi insegnare la libertà: la libertà di scegliere la vostra strada, pur sapendo che quella più facile sarebbe stata un’altra».
Infatti  ella  rispèosnde  cosi  sul   su  facebook  a  chi si  meraviglia

Anita Iaconangelo In tanti paesi nel mondo e' normale lasciare un posto fisso per diventare imprenditrice. Perche' questo fa notizia in Italia?
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Ieri alle 11:53
Silvia Ceriegi È strana l' Italia. Sembra che se riesci a vincere un concorso pubblico tu debba baciare dove cammini ed accontentarti...
Agnieszka Stokowiecka Perché in Italia gli imprenditori spesso guadagnano meno dei dipendenti.
Mariacristina Serboni E pagano più tasse...
Rispondi6 h





non so chi è peggio tra trap e neomelodici ( ovviamente senza generalizzare ) "Frat'mio", "Lione", "Amo'": i post che esaltano gli omicidi, a Napoli, e le armi «facili» nelle mani dei ragazzi

Dice: «Gli zingari». Dove hai preso la pistola? «Dagli zingari». E sarà pure vero. E se è vero, certo non lo ha scoperto guardando Gomorra, ...