di GIORGIO PISANO
Ha una certa esperienza per essere un magistrato al culmine della carriera: s'è fatto nove mesi di carcere. Ma era giovane, giovanissimo: servizio militare. «Fare la leva a Buoncammino è stata un'esperienza importante, indimenticabile». Mauro Grandesso Silvestri ricorda con evidente disagio il rito della perquisizione delle celle. Si sentiva dentro una violenza non dichiarata, l'invasione di un campo che spiazzava un ragazzo come lui: era giusto metter le mani perfino tra mutande e calzini?, giusto frugare tra le cose più intime di un detenuto?
Quei mesi (nove) gli sono rimasti scolpiti nel cuore e nel cervello. Cinquantanove anni, cagliaritano, due figli, Grandesso Silvestri ha una somiglianza impressionante col padre, magistrato e galantuomo per una vita. Come figlio d'arte quasi in fotocopia, raccoglie opinioni convergenti, da destra e da sinistra. Gli avvocati, mentre sfrecciano da un corridoio infinito all'altro nel palazzo cagliaritano della giustizia, sintetizzano il profilo: «Non è un colpevolista a prescindere. E questo è già moltissimo» (ogni riferimento ad altri magistrati è puramente casuale).
Presidente della prima sezione del Tribunale, governa (sempre nella veste di presidente) l'Associazione nazionale dei magistrati (Anm), sezione Sardegna. Rappresenta insomma i 220 togati che affogano nel mare monstrum di una categoria che conta (a ieri) 9.162 in servizio permanente effettivo, al netto dei risultati. All'interno di questo sindacato - unico come quello dei giornalisti - guerreggiano tre correnti: Unità per la Costituzione (la più numerosa, ascrivibile grossolanamente al Centro), Area (di impronta progressista) e Magistratura indipendente (conservatrice).
Prima pretore e poi giudice, Grandesso Silvestri s'è fatto ossa e muscoli sul fronte giudiziario del Lavoro in una carriera lunga 34 anni. Ha pronunciato migliaia di sentenze e assicura che il dubbio d'aver sbagliato lo assale regolarmente. Si consola pensando che, sbagliato e meno, il suo giudizio passerà comunque all'esame di un Appello e di una Cassazione. «Insomma, riesco a non fare moltissimi danni anche se sbaglio».
Difende la categoria (altrimenti non farebbe il sindacalista) ma scansa diplomaticamente la recente requisitoria contro gli avvocati del presidente della Corte d'appello, Grazia Corradini. Ammette, con qualche pudore, i 45 giorni di ferie l'anno (caso unico nel mercato del lavoro) e stipendi che vanno dai 2.500 euro degli esordienti ai 7.500 di fine carriera. A domanda se il carcere redima, risponde per fatto personale: «Buoncammino sicuramente no. In nove mesi ci ho visto entrare e uscire le stesse persone. Sempre poveracci».
Perché in Sardegna si dice giustizia mala?
«La mia non è una risposta da storico né da sociologo. So che la Sardegna è stata dominata da potenze straniere che hanno varato leggi e istituzioni distanti dalla mentalità locale. E i magistrati sono stati visti come quelli che imponevano il rispetto di queste leggi».
Cani da guardia del potere, insomma.
«Sì, ma è una valutazione a torto poiché il magistrato non fa altro che applicare leggi non decise da lui».
Berlusconi ha detto che per fare il vostro lavoro bisogna essere diversamente normali.
«Io mi sento normale. Sotto tutti i punti di vista».
Riforma della giustizia bloccata: dovreste essere grati al signor B. Non ci fosse lui, si sarebbe già fatta.
«Purtroppo vedo molta volontà di riformare i giudici e pochissima, anzi niente, di riformare davvero e seriamente la giustizia. Non vedo la depenalizzazione di quelli che noi chiamiamo reati bagattellari, non aumentano i giudici onorari, non si restringe il raggio d'azione dei magistrati. Il bersaglio siamo noi, non l'organizzazione della macchina giudiziaria».
Quali sono, secondo lei, i reati da depenalizzare?
«Ci occupiamo delle ingiurie, delle beghe di condominio...»
Per quelle c'è il giudice di pace.
«Certo, ma poi c'è l'Appello. Dove, manco a dirsi, emerge perfino più accanimento. A seguire, per fare un altro esempio, la guida senza patente: depenalizzata e penalizzata mille volte. Il legislatore italiano è un po' ondivago, insegue l'attimo sociale e politico del momento».
Le sentenze non si discutono, si dice. E perché mai?
«Magistratura democratica, gruppo al quale appartengo, punta invece proprio al fatto che qualunque verdetto possa essere oggetto di discussione e di critica. Però, piuttosto che critiche e analisi fondate, vedo altro».
Cioè?
«È analisi critica seguire per strada un magistrato che ha emesso una certa sentenza? È analisi critica raccontare sui giornali il colore dei suoi calzini?»
Quello si chiama squadrismo giornalistico.
«Lo sta dicendo lei».
Il vostro presidente sostiene che l'attacco ai magistrati mina la democrazia. Ma dove, scusi?
«Credo che Rodolfo Sabelli intendesse quello che ho appena detto. Le critiche sono sacrosante, direi anzi necessarie. Da qui a certe cose che sentiamo o che leggiamo ce ne passa».
Sbaglia chi vi considera una casta?
«Se per casta si intende una categoria di persone privilegiate che difende tutti i suoi privilegi, beh sì, siamo una casta. Però siamo anche secondi in Europa per quanto riguarda l'irrogazione dei provvedimenti disciplinari».
Non risultate neanche lavoratori indefessi, non riceverete mai il premio Stakanov.
«Si scaricano sul magistrato le incongruenze dell'apparato. Bisognerebbe rimettere ordine ma questo, come tutti sanno, non spetta a noi. Abbiamo un indice di efficienza che non ha pari nel resto d'Europa. Francia e Spagna sono dietro di noi. Sul Penale viene definito il 95 per cento dei processi, sul Civile si arriva al cento per cento».
Dite di essere oberati dal lavoro ma il tempo per gli incarichi extra-giudiziari lo trovate.
«I magistrati ordinari non possono più svolgere questo genere di impegno se non previsto espressamente dalla legge. Chessò, la presenza obbligatoria in una commissione di disciplina».
E i dispersi nella pubblica amministrazione?
«Sono appena duecento su oltre novemila magistrati in servizio. Il Consiglio superiore della magistratura valuta caso per caso. Sorrido quando si parla del numero dei fuori-ruolo per spiegare la lentezza della giustizia. Fosse davvero così, il Csm li farebbe rientrare immediatamente nei ranghi».
Siete degli intoccabili. Come i fili dell'alta tensione.
«Non la penso affatto così: vorrei essere giudicato per quello che faccio. Bisogna tuttavia uscire da un equivoco e mettersi in testa che il magistrato nasce da questa società, non è un marziano o una persona speciale».
Le risultano parentele fra i magistrati del palazzo di giustizia di Cagliari?
«Sì, ci sono. La legge prevede incompatibilità che ognuno di noi deve subito segnalare. Se mio figlio iniziasse a svolgere attività legale, ho il dovere di informarne il Csm perché valuti se questo può condizionare la mia autonomia».
Ma ci sono anche parentele tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti.
«Ci sono, è vero, ma operano in settori diversi. Abbiamo dei colleghi che sono sposati: e allora? Uno opera nel Civile, l'altro nel Penale. Impensabile che un giudice si esprima su un processo istruito dal coniuge».
Esiste una via politica della giustizia?
«Tutte le volte che uno di noi tocca interessi che hanno risvolti politici, è chiaro che questo problema si pone. La domanda però è un'altra: i politici possono essere inquisiti come qualunque cittadino oppure no?»
Tangentopoli ha cambiato l'Italia, segnato il passaggio dalla prima alla seconda repubblica.
«Non si può attribuire al giudice la colpa di un livello di corruzione che non ha eguali nella comunità europea. La politica dovrebbe emarginare chi si discosta dalle regole. Tangentopoli ha scoperchiato un sistema di tangenti di cui tutti sapevano e che è venuto clamorosamente a galla quando è saltato un certo equilibrio tra vecchia classe dirigente e politici emergenti».
Prima Di Pietro, poi De Magistris e ultimo Ingroia: perché vi piace tanto diventare onorevoli?
«Dovrebbe chiederlo agli interessati. So di sicuro che all'interno della nostra categoria c'è una sempre maggiore insofferenza verso questo tipo di scelta. Alcuni pensano che se fai politica non dovresti poi rindossare la toga, altri ritengono che invece si possa ma solo a certe condizioni. È proprio il caso di Ingroia che, tornato in servizio dopo le elezioni, è stato assegnato alla Procura di Aosta. Comunque: attualmente i parlamentari che provengono dalla magistratura sono nove».
Perché un magistrato che sbaglia non deve pagare?
«Sono dell'idea che se sbaglia deve pagare eccome. Non si possono però fare paragoni coi medici. Il lavoro del medico è farci guarire, fare del bene. Il magistrato, invece, fa male. Sempre. La responsabilità civile del magistrato per dolo o colpa grave è prevista. L'Europa ci contesta tuttavia una farraginosità della procedura. Ha ragione: dipende però dallo Stato, non da noi».
Ha mai colto degrado morale nella categoria degli avvocati?
«Non proprio».
Le risultano avvocati che per danaro sono pronti a tutto?
«Gli avvocati esercitano una professione da cui ricavano il loro sostentamento. Svolgono un ruolo importantissimo per l'amministrazione della giustizia».
Nega lo strapotere dei pubblici ministeri, eccesso di discrezionalità?
«Il Pm ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. Non può, come accadeva col vecchio codice, incidere sull'applicazione di misure cautelari. Deve rivolgersi a un giudice e chiedere che quella certa persona venga portata in carcere. Ci si accanisce coi pubblici ministeri ma chi decide gli arresti è un giudice e non un Pm».
Accusa e difesa, secondo lei, si confrontano ad armi pari nel processo?
«Nel sistema attuale direi di sì. Le norme del codice penale sono a difesa del cittadino nei confronti della pretesa punitiva dello Stato, perché di questo si tratta. Come giudice ho il dovere di rispettare fino in fondo il ruolo che svolge la difesa».
Separazione delle carriere.
«Argomento di confronto serrato al nostro interno. L'Anm non ha una posizione ufficiale: ci sono favorevoli e contrari. Se ne può discutere evitando strumentalizzazioni e magari chiedendosi se davvero sia utile alla società tenere i Pm distanti dall'ordine giudiziario».
Intercettazioni: se ne abusa, siamo un Paese di spiati?
«Le intercettazioni sono un formidabile strumento di indagine. Non se ne può fare a meno. La gente deve sapere che vengono decise solo in presenza di reati molto gravi: sequestri, omicidi, stalking, pedopornografia, sfruttamento della prostituzione e altro. In Italia quelle autorizzate sono circa centoventimila l'anno. Considerate che i “bersagli”, come li chiamiamo noi, adoperano non meno di cinque utenze telefoniche diverse. Dunque le intercettazioni riguardano lo 0,042 della popolazione».
È civile che in un Paese normale esistano ancora i manicomi giudiziari?
«No, non è civile. C'è una legge che li ha soppressi ma ha provvisoriamente prorogato l'attuazione delle nuove regole. La magistratura, com'è evidente, non c'entra».
La sua categoria ha un arretrato di nove milioni di fascicoli. La imbarazza?
«Imbarazzare forse no. Mi crea ansia, mi fa sentire inadeguato. So che il mio lavoro è dare un servizio ai cittadini, e so anche che questo servizio è pessimo».
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