10.4.17

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni" Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie".

due  parole  sono poche  ed una troppa  per  esprimere  il mio disgusto di questo stato  che   ipocritamente  va   a  funerali    o  da  in pompa  magna  medaglie ed onorificenze    delle vittime  , ma  non   solo per    quelli più in vista     gli altri   come  lui    non sa  che farsene o  gli emargina  \  mobizza 

 da  repubblica  online   d'oggi 

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni"
Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie". In un libro il racconto del suo drammadi SALVO PALAZZOLO - video di GIORGIO RUTA


PALERMO - "Al risveglio, dopo l'esplosione, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita, il 23 maggio 1992". Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone scampato alla strage di Capaci, scuote la testa. "No, mi sbagliavo. Non era quello il giorno più brutto della mia vita. Restare in vita è stato peggio. Quasi una disgrazia, una condanna. Perché dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me".

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni"
Giuseppe Costanza vicino ai resti dell'auto sulla quale viaggiava con Giovanni Falcone e Francesca Morvillo 

L'uomo sopravvissuto al tritolo della mafia è rimasto schiacciato per anni dalla burocrazia del ministero della Giustizia. "Mi misero a fare fotocopie", racconta. "Rinchiuso in fondo a un corridoio del palazzo di giustizia di Palermo, dentro un box. Era mortificante dopo otto anni passati in prima linea sempre accanto al giudice Falcone. Mi sentivo rinchiuso in una gabbia, per di più costretto a sopportare il mobbing di un capo ufficio a cui era chiaro che non andavo a genio". In quei giorni, a Giuseppe Costanza non importava per niente di aver ricevuto una medaglia d'oro al valor civile. Lui voleva solo lavorare. "Non certo come autista - dice - non potevo più farlo, volevo essere assegnato in un ufficio in cui la mia esperienza potesse essere utile. Ad esempio, avrei potuto coordinare il parco auto del tribunale". Ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono con pignola precisione burocratica che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. "E che cosa ero stato io se non un militare? - sbotta - nell'auto blindata di Giovanni Falcone c'era una radio collegata con la sala operativa della questura, accanto a me c'era il giudice. E alla cintola portavo sempre una pistola con il colpo in canna".Venticinque anni dopo la strage di Capaci, l'uomo sopravvissuto a trecento chili di tritolo ha deciso di scrivere un libro per raccontare la sua odissea, prima nei gironi infernali accanto al suo giudice, poi, da solo, negli altri gironi terribili, quelli di una pubblica amministrazione ottusa. Stato di abbandono, si intitola il commuovente libro di Giuseppe Costanza (scritto assieme a Riccardo Tessarini, edizioni Minerva). La storia di un uomo semplice, che pensava di avere già vinto la sua battaglia con la vita, e poi invece scoprì che aveva ancora un altro nemico da sconfiggere. Un esercito di piccoli burocrati. "Dopo anni di lettere, proteste, piccole vittorie e ancora altre umiliazioni, nel 2004 sono stato dispensato dal servizio", sussurra Costanza, come fosse una sconfitta, che lui continua a non accettare. "Pensavo di poter dare ancora tanto alle istituzioni, pensavo di poter dare un contributo importante nell'organizzazione di un servizio delicato come quello dell'autoparco del tribunale di Palermo, impegnato a stretto contatto con i servizi di scorta. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mi hanno rottamato".
Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo. "C'eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l'arrivo a Punta Raisi. Alle 17,45 sono all'aeroporto assieme alla scorta. Il giudice ha due borse nelle mani. "Strano", penso. "Non ha il suo computer". Lo portava sempre con sé, lo riempiva di annotazioni. Eppure, l'hanno trovato vuoto, ma questo l'ho saputo molto tempo dopo". È uno dei misteri del 23 maggio, il computer portatile era rimasto nell'ufficio di Falcone, al ministero della Giustizia. "Quel pomeriggio - ricorda Costanza - Falcone è alla guida, accanto c'è la moglie, Francesca Morvillo. Io sono dietro. Gli dico: "Ecco il resto che le dovevo". Mi aveva chiesto di comprare un cric. Mi guarda, sorride: "Aveva un pensiero - dice - non poteva aspettare più". Era sereno, Giovanni
Falcone, nel suo ultimo viaggio verso Palermo. "La settimana prima mi aveva detto: è fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l'abbia voluto fermare". Presto, l'auto dell'ultimo viaggio di Falcone tornerà a Palermo. "Verrà sistemata fra i due palazzi di giustizia - spiega Costanza - non possiamo dimenticare".







9.4.17

Cari fratelli Mussulmani .....

leggi anche  
http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2017/04/agli-unici.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Copti
https://it.wikipedia.org/wiki/Jih%C4%81dismo

Cari fratelli  e  sorelle   Mussulmani

La chiesa copta a Tanta (Epa)


Sono un occidentale  di formazione , anche  se  non più praticante  e anticlericale  ,  cristiano  \  cattolica  e come   questo  film   riportato sotto (anche  se   fatti   e contesti sono  diversi  ) 


 abbiamo  in comune  l'essere  vittime  da parte  interpretazioni  che  ormai non dovrebbero avere ragione d'esistere  . E' vero   che   noi occidentali  prima con  il colonialismo  , poi  con il neo colonialismo   vi abbiamo  sempre depredato e poi vilipeso instaurando  governi e  regimi fantoccio che  imponevano una  cultura ed una fede diversa ( anche   se  la nostra  religione   nacque appunto  in medio oriente  )  dalla vostra  e quindi l'uso \ la  trasformazione , il cosiddetto   Jihadismo ( "gihadismo"  ) ,  da lotta  spirituale  a  lotta  violenta  terroristica   risulta   comprensibile . Ma   qui  in occidente  ,  con questi attentati (  e non solo )   contro noi  europei  e  ora  contro i nostri e  credo  anche  vostri  fratelli  copti  non fa  che  aumentare  l'odio   generalizzato nei vostri confronti  . Quindi   come    avete fatto  e  come sapete  fare   quando  ci sono stati gli attentati  contro noi occidentali , sarebbe bello   vedervi in piazza  ed  esprimere  vicinanza  anche  a  vostri  fratelli   cristiani orientali   .   

AGLI UNICI




No, non è una festa. Ha i paramenti rossi come il sangue. E sangue ne è scorso a fiumi, oggi, ad Alessandria e al Cairo. Vittime, ancora una volta, i cristiani copti, massacrati dai jihadisti durante la Messa delle Palme. Il sorriso di questa domenica mostra i denti, finge il tripudio ma prelude alla Passione. In Egitto, terra così vicina a quella di duemila anni fa, il buio è piombato all'improvviso. 
Non è la prima volta. Lontani i momenti in cui il futuro papa copto Shenuda III veniva allevato da una famiglia musulmana e giocava coi figli di quest'ultima in qualche cortile a Cleopatra. Da molti anni i cristiani sono nel mirino del Daesh; il martirio di Sirte, due anni fa, ne rappresentò solo l'episodio più sconvolgente. 
Ma chi sconvolse, poi? Europa e Usa, no davvero. I media neolaici continuano a disinteressarsi della sorte dei cristiani mediorientali; e lo stesso può dirsi di certo terzomondismo "progressista". In effetti, per quest'ultimo sembra non esistano chiese distrutte in Medio Oriente, non famiglie perseguitate, non bambini rapiti e convertiti a forza. 


L'immagine può contenere: spazio al chiuso
Forse non li considerano abbastanza indigeni per destare interesse.Forse li ritengono un prodotto del colonialismo europeo.
Forse pensano Gesù provenga da Lentate sul Seveso e non li sfiora neppure l'idea che quei luoghi non sono nati musulmani, bensì cristiani.
Forse, e senza forse, si vergognano di loro. Non li prevedono. Oggi, un occidentale desideroso di passare per aperto, intelligente e dialogante "deve" rinnegare il cristianesimo. 
Ebbene: queste vittime, questi morti mettono a soqquadro il perbenismo corretto. Il quale, del resto, ha i giorni contati. Molto presto saranno costretti ad ammetterlo: sì, li uccidono perché cristiani. I cristiani vengono martirizzati, oggi come ieri. Addirittura più di ieri, secondo osservatori qualificati e secondo papa Bergoglio, atteso proprio in questi giorni. I cristiani sono inscindibili dalla croce. 
E non perché amino la sofferenza, ma perché ne sono attraversati, lo siamo tutti, è la cifra del nostro esistere. Averlo dimenticato significa vivere fra parentesi, simulare la festa. In tal modo non resta nulla, se non un'idiota allegria di naufragio, ondivaga come la folla. Che prima acclama, poi ripudia.
I nostri fratelli e sorelle copti, appena calcato il terreno della città, sono stati crocifissi. Vittime designate. È l'unica, lapidaria realtà. 
E oggi, in questa domenica delle Salme, per sentirmi realmente vicina a tutti, devo distinguere quelle morti, restituir loro l'originale, specifica fisionomia. Non voglio mescolarle a nessun altro. Oggi, affinché la mia solidarietà universale non risulti posticcia, sono cristiana copta.





© Daniela Tuscano
(Grazie per l'immagine alla comunità "Gesù Buon Pastore" di Madre Longhitano)

50 anni fa moriva il principe della risata. Triste, cieco e stroncato

da ilfattoquotidiano
di Marco Travaglio | 3 aprile 2017




Giovedì 13 aprile 1967, primo pomeriggio. Il principe Antonio de Curtisrincasa dal set molto presto, più presto del solito, a bordo della Mercedes grigia guidata dal fido autista Carlo Cafiero. Proprio quel giorno ha cominciato le riprese de “Il padre di famiglia” di Nanni Loy. “Cafie’, mi sento ‘na schifezza”, dice entrando nell’ascensore della sua casa di via Monte Parioli 4 a Roma. Ad attenderlo c’è Franca Faldini, la giovane attrice dagli occhi azzurrissimi, sua compagna da 14 anni. Il medico assicura che non è nulla, ma la sera seguente Franca lo trova appoggiato al tavolo, pallidissimo. “Chi mi ha tirato questa fucilata al petto?”. Attacco alle coronarie. Tre infarti in due ore. Poi l’ultimo attimo di lucidità e le ultime parole sulle quali, come per tutti i grandi, si litiga da 50 anni. “Lasciatemi in pace, fatemi morire”. Oppure: “Sto male, portatemi a Napoli”. O ancora: “Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano”. O forse tutt’e tre le frasi insieme. Spira alle 3 di notte di sabato 15 aprile. Qualche ora dopo iniziano a piovere le telefonate, i telegrammi. Poi la processione nella camera ardente di parenti amici, colleghi, attori, registi, autorità, semplici cittadini e critici. Quei critici che fino al giorno prima non avevano fatto che disprezzarlo.
La salma parte per Napoli. Esequie solenni nella chiesa del Carmine, una folla immensa accorsa ad accogliere la bara fin dallo svincolo dell’autostrada. Nino Taranto, la voce spezzata dal pianto, pronuncia la breve l’orazione funebre: “Hai regalato a Napoli il sorriso al posto della malinconia… Il tuo pubblico è qui e ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l’ultimo esaurito della sua carriera…”. Ma due giorni dopo il suo rione Sanità gli regala un secondo funerale. Lo organizza Nicola Campoluongo, detto “Nase ‘e cane”, il vecchio guappo della mala che, conosciuto Totò in gioventù, se n’era autoproclamato il protettore: “’O principe ha da turna’ a casa”. La bara vuota viene portata sulle spalle dai gorilla del guappo, tra gli stessi napoletani piangenti e acclamanti di due giorni prima. E dire che, poco prima di morire, ‘O Principe aveva detto nell’ultima intervista: “Chiudo in fallimento, nessuno mi ricorderà…”.
Antonio nasce a Napoli, rione Sanità, il 15 febbraio 1898. Figlio naturale di Anna Clemente, popolana di umilissime origini, e del marchesino Giuseppe de Curtis, rampollo di una nobile casata decaduta. Che, per il divieto degli aristocratici genitori, è costretto ad abbandonare la ragazza col bebè in fasce. Anna lo tira su con mille sacrifici lavorando giorno e notte e affidandolo alla nonna. Totò passa il tempo a giocare con gli amici del rione, detesta la scuola, non spiccica una parola d’italiano. 
E, quando rischia di finire malamente, viene spedito per tre anni in un collegio per ragazzi poveri, fino al termine delle elementari. Qui, mentre si allena alla boxe con un istruttore, si procura quella deviazione cronica del setto nasale che farà la sua fortuna (l’altra metà della sua maschera comica se la procurerà lui stesso, prendendosi a pugni la mascella fino a sganciarla dalla sua sede naturale). Tornato a casa, ripiomba nei vicoli, bazzicati anche da Eduardo De Filippo, di due anni più giovane, ma di famiglia meno misera. Lo chiamano “Totò ‘o spione” per l’abitudine di pedinare i personaggi più stravaganti del rione facendone il verso . Il suo primo palcoscenico è proprio la strada: improvvisa imitazioni, scenette, spettacolini, che poi replica in casa davanti ai parenti. Ma la madre sogna per lui una carriera da ufficiale di Marina. E lui, anche per sfuggire dall'asfissiante tutela materna, parte volontario per la Grande Guerra.
È il 1915. Lo destinano a Pisa, poi in Francia. E mentre già sta sulla tradotta verso il confine, capisce che la guerra è una cosa seria. E riesce a farsi riformare in extremis simulando una raffica di attacchi epilettici. L’ufficiale medico abbocca e nel ’18 lo rispedisce a Napoli. Ha quasi vent'anni e deve decidere cosa fare da grande. Ma combina poco. Nel 1922 il marchese suo padre si rifà vivo con la madre per sposarla. Ad Antonio, vissuto da sempre nell'onta del figlio bastardo, non par vero di scoprirsi figlio di un marchese, per quanto spiantato. Ma non si accontenta e si fa adottare dal principe Francesco Gagliardi, che gli regala una sfilza di titoli araldici: Focas Flavio Angelo, Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio Giuseppe di Luigi Napoli, Principe Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano impero, Nobile Altezza Imperiale. Il padre, piccolo impresario teatrale, lo fa ben sperare per la carriera artistica. Lui intanto segue come un’ombra il re dell’avanspettacolo napoletano Gustavo De Marco. Ma Napoli non offre sbocchi. E la famiglia De Curtis finalmente riunita si trasferisce a Roma. Antonio bussa a tutte le porte della capitale, invano. Soffre la fame, recita per un tozzo di pane nelle compagnie più malfamate, conosce persino l’abiezione della droga (una boccetta di etere che, scoperta dalla madre, gli vale una scarica di botte). In teatro ci entra, alla fine, ma come maschera: accompagna la gente ai posti prima degli spettacoli, al teatro del varietà, il Jovinelli, fondato dall'omonimo impresario casertano Peppe.
Poi, una sera, il colpo di fortuna: De Marco, approdato a Roma sulle ali del successo, litiga con l’impresario e dà forfait. Si fa avanti Antonio: “Don Peppe, saccio fare il repertorio di De Marco. Se volete, stasera recito io”. Jovinelli lo mette alla prova. Funziona. Il contratto, da giornaliero, diventa settimanale, poi mensile, poi annuale. Nel 1931 già guadagna mille lire a serata, proprio mentre un cantante in voga, Gilberto Mazzi, sogna “mille lire al mese”. In cartellone “Totò imitatore di De Marco” diventa semplicemente “Totò”: serata dopo serata, abbandona le macchiette demarchiane e crea un personaggio tutto suo: sciamméria (una specie di frac) larga e lunga, pantaloni “a saltafosso”, calzini a rigoni colorati, bombetta nera, laccio da scarpe a mo’ di cravatta. Totò, appunto: marionetta in carne e ossa, povera e surreale, snodata e scattante, l’ultima maschera della commedia dell’arte. Successo clamoroso, tournée sold out in tutta Italia, ingaggi da favola, avventure galanti. Travolgente quella intrecciata nel ’29 con la soubrette più famosa d’Italia, Liliana Castagnola: dura un anno, poi la diva abbandonata si suicida con due flaconi di sonnifero. Totò non riuscirà mai a perdonarselo. E non sarà più lo stesso. Disperato, poi triste, infine malinconico. Per qualche mese medita di mollare tutto. Ma nell’estate del ’31 conosce Diana Baldini Rogliani, 16 anni, bella e innamorata pazza di lui. Prima la “rapisce”, poi la sposa e due anni dopo nasce Liliana (come la Castagnola), l’unica figlia. Ben presto però la morbosa gelosia di lui guasta i rapporti dei coniugi. I due si separano di fatto nel 1940, ma per non turbare l’infanzia della figlia decidono di vivere insieme fino ai suoi 18 anni. Diana però se ne va prima per risposarsi, stufa delle infedeltà del marito che per questo le dedicherà Malafemmena, la canzone struggente su cui si favoleggerà tanto (secondo alcuni, smentiti da Liliana, era dedicata a Silvana Pampanini che aveva rifiutato la sua proposta di nozze).
Sono gli anni ruggenti del varietà e Totò ne è il primattore assoluto. Gira l’Italia con la rivista e le commedie di Eduardo Scarpetta (che porterà poi al cinema, da “Miseria e nobiltà” a “Il medico dei pazzi”), recita nella grande compagnia di Michele Galdieri, fa coppia con Anna Magnani e terzetto con Eduardo e Peppino De Filippo (capolavori di cui purtroppo non resta traccia filmata, a parte qualche sketch ripreso nei suoi film, a cominciare dal collage “Totò a colori”). Incappa persino nelle maglie della censura per il suo vezzo di parodiare il Duce e il Fuhrer. Si becca una denuncia per un’innocua battuta su “Galileo Gali-lei/Gali-voi”, che prende in giro la campagna del regime per il “voi” contro il “lei”. Nel marzo del ’44, in una Roma pullulante di nazisti dopo la strage delle Ardeatine, il coprifuoco sbarra tutti i locali, compresi i teatri. Anche il Valle, dove Totò è in cartellone con la Magnani nella rivista “Che ti sei messo in testa?”. Il questore Pietro Caruso – lo racconterà lo studioso Francesco Canessa su La Repubblica-Napoli – avverte il principe che i tedeschi vogliono arrestarlo per le sue imitazioni di Mussolini, più esplicite in privato, solo accennate sul palco. E con lui rischiano la galera Peppino ed Eduardo, impegnati in quei giorni alla Sala Umberto. Totò avverte Peppino tramite un macchinista del teatro, poi corre a nascondersi nel casale di un contadino a Valmontone, mentre i De Filippo si rintanano in casa di amici in città. Fino al 4 giugno, quando gli Alleati entrano nella Capitale. Tre giorni dopo riapre il Valle: Totò e la Magnani tornano sul palco, con la stessa rivista intitolata però “Con un palmo di naso” e aperta da una nuova “sortita” liberatoria del principe che, sulle note accelerate di Lili Marleen, marcia al passo dell’oca sbeffeggiando Hitler con baffetti, divisa militare e un telefono in mano: “Tutte le sere al general quartier / arriva una telefonata per me il Furier! / si rincula al sud, dice ma / ma si avanza verso il nord! / Si rincula a sud, ma si avanza al nord!… Eins-zvei-eins-zvei…”.
Intanto nel 1937 Totò ha debuttato al cinema in “Fermo con le mani”, scritto dal futuro leader dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini. Un mezzo fiasco. Ci riprova con “Animali pazzi” di Achille Campanile, diretto da quello che diverrà uno dei suoi registi preferiti, il futurista Carlo Ludovico Bragaglia. Altro insuccesso. Il terzo tentativo però va meglio: “San Giovanni Decollato” di Cesare Zavattini. È il 1940, l’anno dell’entrata in guerra. Di film Totò ne girerà 97 in 30 anni. “Papà non amava il cinema – racconterà la figlia Liliana – ma lo faceva perché gli dava la possibilità di guadagnare molto di più con minore fatica. Soprattutto da quando cominciò a perdere la vista, fino alla cecità pressoché totale. Un occhio lo perse da giovane per distacco della retina, l’altro nel ’56 per una polmonite virale trascurata, e da allora non vide che ombre confuse”. Ma poi l’adrenalina da palco e da ciak faceva ogni volta il miracolo.
All’uscita di ogni pellicola, i critici storcono il naso e stroncano il Principe, siglano le recensioni “Vice” per non sminuirsi con la propria firma e coniano per i suoi film un neologismo spregiativo: “totoate”. In effetti molti soggetti sono deboli, canovacci da commedia dell’arte, e meno male perché il resto lo aggiunge lui, il Principe, col tocco del suo genio, riuscendo a rendere appetitose le trame più sciape, irresistibili i copioni più insulsi con invenzioni pirotecniche, improvvisazioni fulminanti, gag esilaranti, giochi di parole, mimiche da marionetta umana anzi sovrumana (le scene della lettera alla malafemmina e del treno inizialmente duravano 30 secondi). Comunque lavora con signori registi come Mattoli, Steno, Mastrocinque, Corbucci, su su fino a Lattuada, Comencini, Monicelli, Risi, Rossellini e Pasolini. E duetta con Peppino, Eduardo e Titina De Filippo, Taranto, Fabrizi, De Sica, Macario (il prediletto, per la sua stralunatezza), Magnani, Fernandel, Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Manfredi, Franca Valeri, Sophia Loren, Virna Lisi, oltre alla fedele spalla di sempre, Mario Castellani (l’onorevole Trombetta nello sketch del treno).
Le sale sono sempre strapiene, il popolo lo adora da un capo all’altro d’Italia. Ma la puzza sotto il naso della critica fighetta e impegnata, che non riesce a cogliere la profondità tridimensionale del suo lavoro di vero intellettuale e poeta, inventore di una neolingua che gli sopravviverà in eterno, non gli perdona il disimpegno politico, né coi governi Dc né con le opposizioni socialcomuniste. Infatti il commovente “Totò e Carolina” di Monicelli si guadagna il record di film più tartassato dalla censura di Stato: “Hanno fatto 82 tagli – ricorderà Totò – e hanno persino preteso la soppressione del nome del mio personaggio che si presentava dicendo: Caccavallo, agente dell’Urbe” (“dell’Urbe” suonava, per gli ottusi censori, troppo nostalgica e fu sostituita con “di Roma”, rovinando la battuta). Di politica capisce poco e s’interessa ancor meno. È iscritto alla massoneria, eppure cattolico osservante. E monarchico, forse per la passione araldica, ma soprattutto per la sua natura di uomo fuori dallo spazio e dal tempo. Una sera del 1958, al Musichiere di Mario Riva, si lascia sfuggire un “Viva Lauro!” (Achille, l’armatore monarchico). Riva, spaventato, lo rimbrotta: “Ma Totò…”. E lui: “A me piace Lauro, che vuo’ fa’?”. Non lo si rivedrà più in tv, fino al celebre duetto del 1965 con Mina a Studio uno.
“Ho fatto un ammasso di schifezze”, ripete negli ultimi anni sempre più cupo, amareggiato e menomato della cecità. Riservato e malinconico, mai mondano, ma sempre gentile e generoso con tutti i bisognosi come lo era stato lui: elargisce biglietti da 10mila ai poveri che l’aspettano sul portone di casa, regala moto agli operai della troupe, dona auto come regali di nozze agli amici e la notte si fa portare nei quartieri popolari per infilare sotto usci buste anonime gonfie di banconote per garantire risvegli da favola a gente che non saprà mai chi ringraziare. Adotta anche 150 cani abbandonati, mettendo su un canile sulla Cassia.
Ricco, famoso, mai felice. Tutto il contrario della sua maschera. I grandi registi “seri” lo snobbano (a parte Rossellini e poi Pasolini: Fellini risponde ai suoi appelli facendosi beffe di lui). E negli ultimi anni anche alcuni colleghi, come Peppino, iniziano a rifiutare di recitargli accanto per non “sminuirsi”. Un giorno gli assegnano un premio minore. Lui, serissimo, va a ritirarlo, sale sul palco e si accorge, con quel po’ di vista che gli è rimasta, che in sala a festeggiarlo non c’è quasi nessuno. Se ne va piangendo, con la sua statuetta di latta sotto il braccio. Solo quando Pasolini lo chiama per “Uccellacci e uccellini” la critica “impegnata” sembra ricredersi. Ma è tardi. Anzi quel successo tardivo lo deprime vieppiù, come se dei suoi quasi cento film non si fosse accorto nessuno. “Sarei potuto diventare un grande attore e invece non ho fatto nulla di buono”, dice sconsolato pochi mesi prima del passo d’addio. Non sa che, a funerali avvenuti, persino Fellini proporrà addirittura di farlo santo. E che saranno i suoi critici a essere dimenticati, non lui. Chissà le risate lassù su quella nuvoletta nel paradiso dell’incanto e della fantasia, della tenerezza e dell’ironia. Là dove si pasteggia a Moet Chandon. E lui: “Mo’ esce Antonio”.

la ricerca scientifica su fa anche fuori laboratorio un biologo in surf a caccia di super batteri Cliff Kapono studia l'acqua ingerita in mare, da lui e da altri atleti, e trova le nuove resistenze agli antibiotici



la ricerca scientifica su fa anche fuori laboratorio


da repubblica  del 09 aprile 2017

La farmacia nell'oceano: un biologo in surf a caccia di super batteri
Cliff Kapono studia l'acqua ingerita in mare, da lui e da altri atleti, e trova le nuove resistenze agli antibiotici 

di GIULIANO ALUFFI




Cliff Kapono sul suo surf




ROMA - Silver Surfer, il glabro e argenteo personaggio della Marvel, non è l'unico surfista che si fa in quattro per difendere l'umanità. Ma mentre Silver Surfer combatteva il gigantesco Galactus, alla University of California di San Diego c'è un surfista con i dreadlocks, 29enne ricercatore in chimica, che vuole proteggerci da minacce ben più nascoste. Si chiama Cliff Kapono, è nato nell'isola di Hawaii e ha fondato un progetto che lo porta a cavalcare, con la sua tavola, i mari del mondo in cerca di batteri resistenti agli antibiotici: il Surfer Biome Project.
Kapono ci ha spiegato in che modo i surfisti possano aiutare la scienza. "Noi che abbiamo questa passione - io faccio surf da quando cammino perché è qualcosa di legato alla mia cultura, i nativi delle Hawaii sono stati i primi a stare in piedi sulle onde - abbiamo una caratteristica: entriamo a contatto con i milioni di batteri dispersi nell'oceano più di ogni altra categoria di persone, per la frequenza e la durata delle uscite in mare" spiega Kapono. "Per ogni uscita con la tavola beviamo in media 170 millilitri di acqua salata. Siamo esposti più di tanti altri a batteri potenzialmente nocivi, come mostrano studi dell'Università di Exeter". I surfisti sono un campione prezioso per studiare gli effetti del microbioma marino sull'uomo. "L'oceano è un ambiente ancora largamente inesplorato dai microbiologi - conosciamo meglio la Luna del mare profondo - e molto competitivo" sottolinea Kapono. "L'acqua facilita i contatti tra gli organismi, scatenando una lotta senza quartiere, combattuta a colpi di sostanze difensive. E di resistenze che evolvono in risposta, e richiedono ancora nuove armi chimiche". Succede così che certi microbi marini possano risultare resistenti agli antibiotici che si usano in medicina anche se non sono mai stati a contatto con farmaci prodotti dall'uomo: "La loro resistenza si è evoluta per sopravvivere agli organismi marini rivali, ma può proteggerli anche dai nostri antibiotici".



Ed ecco che vengono chiamati in causa i cavalcatori dell'onda. "Nelle viscere dei surfisti, i batteri provenienti dal mare possono rendere più resistenti - mediante il cosiddetto "trasferimento orizzontale" di geni - i batteri più "nostrani", come l'E. coli. O altri ancora più pericolosi che oggi teniamo a freno grazie agli antibiotici". Un rischio da prevenire, identificando in anticipo i batteri marini più resistenti. Prova a farlo il Surfer Biome Project lanciato da Kapono come estensione dell'American Gut Project, iniziativa di "citizen science" che chiede a chiunque voglia partecipare di passare dei tamponi sulla pelle, sugli occhi, sulla lingua e sulle feci e inviarli alla mia università, l'Ucsd, insieme a un questionario sulle abitudini di vita e sul luogo in cui si vive. "In laboratorio estraiamo il Dna dei batteri raccolti e lo sequenziamo, usando anche la spettrometria di massa per studiare le proprietà delle singole molecole di cui il batterio è composto. Così possiamo scoprire nuovi batteri resistenti agli antibiotici" spiega Kapono. "Cercando nuovi modi di usare questi strumenti, ho pensato di focalizzarmi sui surfisti. Raccogliendo campioni entro due ore dall'uscita dei surfisti, me compreso, dall'acqua in California, Marocco, Inghilterra, Irlanda, Hawaii".
Il progetto è iniziato a settembre 2016 e finirà quest'estate. "Per ora stiamo vedendo due cose: che i surfisti di ogni parte del mondo hanno un microbioma piuttosto simile, e che - seppure esposti all'incognita dei batteri marini- non accusiamo più infezioni delle altre persone". Chissà che non sia proprio il surf il migliore farmaco.


8.4.17

proposte di lavoro "hot" sui profili di ragazze e belle donne Sconcerto e annunci di denuncia per le proposte che molte donne del litorale si sono viste recapitare per lavorare in un night con lap-dance



Il fatto successo  a Jesolo  , vedi articolo  sotto  , potrebbe  capitare  anche  in qualunque  altra  città  italiana   visto  l'ormai  sempre più massiccio e  codificato uso   di mettere   pubblicamente  le proprie  foto  sexy    sui  social  .  
Quindi   mi  fa  indignare    , quelle    donne  (  purtroppo  anche  adolescenti    e  e  ventenni )  che mettono  le loro  foto  in pose ammiccanti  e  sensuali   e  poi   s'indignano     se  succedono cose  del genere  
Quindi mi  chiedo  ma  .....  ti lamenti   se   sei  tu  ad  offrirli  un esca  .  





Jesolo, proposte di lavoro "hot" sui profili di ragazze e belle donne
Sconcerto e annunci di denuncia per le proposte che molte donne del litorale si sono viste recapitare per lavorare in un night con lap-dance

di Giovanni Cagnassi




Un locale di lap dance

JESOLO. Ma quale stagione estiva come cameriera o barista, adesso arrivano le proposte di lavoro decisamente "hot". Direttamente sul cellulare o il computer, attraverso i social.
Un misterioso agente ha rintracciato le ragazze in rete, magari basandosi sulle foto che le ritraggono su Facebook. E ha proposto nuovi lavori ben remunerati per danzare in locali del Trevigiano: night e locali in cui il sesso è protagonista assoluto nelle sue tante sfumature dalla lap dance a chissà quali incontri.
Così, tante ragazze e anche qualche avvenente mamma un po' più matura e ancora seducente, hanno ricevuto la proposta, assolutamente corretta e legale, ma quanto meno audace e sopra le righe. "Vuoi lavorare in un night? Contattami". E poi altre descrizioni e allusioni al genere di lavoro che non manca mai, come del resto i clienti. I vari episodi hanno solle
"Mi è arrivata questa proposta di lavorare in un night della Marca", racconta una ragazza di Jesolo, " e mi sono decisamente stupita. L'ho detto al mio compagno, che aveva già occhieggiato il cellulare con curiosità e lui si è subito inalberato, pensando che io avessi contatti in un certo tipo di ambiente. "Capisco che magari questo agente posa aver visto la mia foto sul profilo Fb", aggiunge imbarazzata, "ma utilizzare i social come veicolo per proposte di lavoro certamente non usuali è sbagliato a crea inutili tensioni in famiglia o tra gli affetti. Adesso vedrò che cosa fare, ma queste sono le storture dei social, che possono anche diventare ben più gravi".
vato più di qualche tensione nelle famiglie jesolane e del Basso Piave, tra mamme scandalizzate, papà visibilmente arrabbiati, fidanzati gelosi e scattati sull'attenti davanti alle "proposte indecenti".
"Mi è arrivata questa proposta di lavorare in un night della Marca", racconta una ragazza di Jesolo, " e mi sono decisamente stupita. 
L'ho detto al mio compagno, che aveva già occhieggiato il cellulare con curiosità e lui si è subito inalberato, pensando che io avessi contatti in un certo tipo di ambiente. "Capisco che magari questo agente posa aver visto la mia foto sul profilo Fb", aggiunge imbarazzata, "ma utilizzare i social come veicolo per proposte di lavoro certamente non usuali è sbagliato a crea inutili tensioni in famiglia o tra gli affetti. Adesso vedrò che cosa fare, ma queste sono le storture dei social, che possono anche diventare ben più gravi".
Oltre ai "leoni della tastiera", come sono chiamati in gergo coloro che dietro i terminali denunciano e offendono o si sfogano alimentando scontri e liti, ci sono altri fenomeni incontrollati come queste proposte di lavoro diciamo osé, o, peggio ancora, persone meschine che usano i social media per incontri viscidi e inganni, truffe o addirittura violenze, minacce e estorsioni. La polizia postale e i carabinieri sono in questi anni sommersi da denunce e segnalazioni e di recente, nelle scuole del territorio sono stati organizzati seminari e incontri sulle insidie della rete. Ma la proposta di lavorare in un night, oltretutto in un periodo in cui trovare lavoro è sempre più difficile, è l'ultima novità che ha turbato il territorio e soprattutto l'universo femminile ancora mercificato come accadeva in un lontano passato che si credeva ormai archiviato.

Cagliari, con 'Merendine solidali' 1200 euro per aiutare la compagna malata

Ansa  8 aprile 2017 Cagliari





Quando la scuola è davvero buona: i bambini della primaria Randaccio di via Venezia a Cagliari raccolgono 1200 euro con le "merendine solidali" per aiutare una loro compagnetta che ha bisogno di costose cure per una malattia neurologica, la sindrome di Brett. E ieri il generoso gesto è stato ricordato durante una cerimonia ufficiale organizzata dall'associazione no profit La Pecorella Solidale e dai suoi piccoli soci. La bambina, dieci anni, frequenta la scuola a tempo pieno. Ma - racconta l'associazione- le necessità sono tante: non solo c'è bisogno di un'insegnante di sostegno e di un'educatrice durante le ore di lezione, ma anche a casa le giornate vengono scandite dalle sessioni di terapia riabilitativa e dal sostegno continuo delle persone che la aiutano a camminare, a mangiare e a compiere tutti quei piccoli gesti che forse vengono dati per scontati tutti i giorni dalle persone normali. "L'iniziativa- spiega la presidente de La Pecorella Solidale, l'insegnante Giorgia Meloni- è nata durante la scorsa primavera, periodo in cui l'associazione ha organizzato due merendine solidali con cui sono stati raccolti questi soldi. Avevamo deciso che li avremmo destinati a bambini in difficoltà economica per le spese dovute a particolari cure. Durante quest'anno scolastico, son venuta a conoscenza che nell'istituto dove insegno c'era questa bambina affetta dalla sindrome di Rett, abbiamo così deciso che sarebbe stata lei la beneficiaria". Oltre ai soldi, consegnati attraverso un assegno simbolico, la bambina ha ricevuto una tshirt de La Pecorella Solidale con le firme di tutti i bambini e la tessera di socio a vita. "Ci auguriamo- ha detto la docente- che questo piccolo gesto di solidarietà possa essere d'aiuto alla famiglia, ma soprattutto che riesca a sensibilizzare tutti nei confronti di persone affette da malattie rare, ma non solo".

da  http://www.sardiniapost.it/cronaca

Quando la scuola è davvero buona: i bambini della primaria Randaccio di via Venezia a Cagliari raccolgono 1200 euro con le “merendine solidali” per aiutare una loro compagnetta che ha bisogno di costose cure per una malattia neurologica, la sindrome di Brett. E ieri il generoso gesto è stato ricordato durante una cerimonia ufficiale organizzata dall’associazione no profit La Pecorella Solidale e dai suoi piccoli soci. La bambina, dieci anni, frequenta la scuola a tempo pieno. Ma – racconta l’associazione- le necessità sono tante: non solo c’è bisogno di un’insegnante di sostegno e di un’educatrice durante le ore di lezione, ma anche a casa le giornate vengono scandite dalle sessioni di terapia riabilitativa e dal sostegno continuo delle persone che la aiutano a camminare, a mangiare e a compiere tutti quei piccoli gesti che forse vengono dati per scontati tutti i giorni dalle persone normali.
“L’iniziativa- spiega la presidente de La Pecorella Solidale, l’insegnante Giorgia Meloni– è nata durante la scorsa primavera, periodo in cui l’associazione ha organizzato due merendine solidali con cui sono stati raccolti questi soldi. Avevamo deciso che li avremmo destinati a bambini in difficoltà economica per le spese dovute a particolari cure. Durante quest’anno scolastico, son venuta a conoscenza che nell’istituto dove insegno c’era questa bambina affetta dalla sindrome di Rett, abbiamo così deciso che sarebbe stata lei la beneficiaria”.
Oltre ai soldi, consegnati attraverso un assegno simbolico, la bambina ha ricevuto una t-shirt de La Pecorella Solidale con le firme di tutti i bambini e la tessera di socio a vita. “Ci auguriamo- ha detto la docente- che questo piccolo gesto di solidarietà possa essere d’aiuto alla famiglia, ma soprattutto che riesca a sensibilizzare tutti nei confronti di persone affette da malattie rare, ma non solo”.


ANSA 08-04-2017 11:58

7.4.17

A mezzo secolo di distanza dall'uscita dell'album d'esordio della leggendaria band di Los Angeles, ristampato in questi giorni, il chitarrista racconta la sua esperienza con Jim Morrison e la Los Angeles della Summer Of Love: "Mi sento un sopravvissuto"

legi anche  http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2016/08/02/news/jeff_jampol_l_agente_delle_star_morte-145128375/



Robby Krieger e i Doors, 50 anni dopo: "Le droghe ci hanno rovinato"
 di   ALFREDO D'AGNESE





A mezzo secolo di distanza dall'uscita dell'album d'esordio della leggendaria band di Los Angeles, ristampato in questi giorni, il chitarrista racconta la sua esperienza con Jim Morrison e la Los Angeles della Summer Of Love: "Mi sento un sopravvissuto"



Ricordi la prima volta? È il titolo di un servizio sui più grandi debutti di tutti i tempi realizzato dalla rivista britannica Q. Robby Krieger, ex chitarrista dei Doors, rammenta perfettamente le registrazioni al Sunset Sound Studio nell’estate del 1966 per l’album d’esordio del gruppo in cui suonava. I Doors non sono mai scomparsi dalla sua vita. “Se guardo indietro – dice – non mi sembra affatto che siano trascorsi 50 anni. Ho suonato la musica dei Doors ininterrottamente negli ultimi venti”.

A Los Angeles c’è il sole, fa caldo. Krieger è in giro per la città. In movimento. Il suo cellulare squilla a lungo prima che risponda. Parla a voce bassa, quasi lamentandosi, a fatica. Non è entusiasta di raccontare per la milionesima volta la leggenda del Re Lucertola. Ma la sua vita è stata talmente condizionata da quel disco e dall’avventura con Jim Morrison, Ray Manzarek e John Densmore che il malumore e la noia passano quasi subito. I ricordi di quella stagione lo riportano al buonumore in poche battute. La linea cade continuamente: “Sono in un cattivo punto”, prova a scusarsi. Poi ferma il suo cammino e riprende a parlare. “I Doors sono vivi nella testa e nel cuore. Continuo a suonarli dal vivo con una nuova band. Alla voce c’è mio figlio”, dice quasi schernendosi. Per lui è stato impossibile liberarsi della stagione “in cui tutto sembrava possibile”. Una storia troppo grande per essere cancellata da un colpo di spugna.



Video

 L’eterno presente di Krieger ha una data, quella della pubblicazione di The Doors. Il primo gennaio 1967 arrivava nei negozi il disco del quartetto californiano. Conteneva 11 canzoni che sarebbero passate alla storia. Era il perfetto apripista di una stagione che avrebbe segnato l’universo del pianeta giovani. Nel giro di pochi mesi sarebbe stato seguito dai debutti di Pink Floyd, Procol Harum, Velvet Underground, Captain Beefheart e Jimi Hendrix. Sarebbe stato l’anno di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band e di molti album indimenticabili.
Da qualche giorno The Doors è nuovamente nei negozi per celebrare l’anniversario, The Doors: 50th anniversary deluxe edition è un cofanetto di tre cd contenente l’edizione originale in versione mono e stereo più la registrazione del concerto tenuto il 7 marzo al club The Matrix di San Francisco. La confezione è arricchita da foto rare o inedite e dal testo scritto dal giornalista David Fricke. Nonostante Jim Morrison e Ray Manzarek siano scomparsi da anni, il mito dei Doors non accenna ad affievolirsi. “Già – commenta Krieger – la nostra è stata un’epoca mistica. Eravamo giovani. Avevo appena 19 anni. Intorno a noi fiorivano movimenti d’ogni tipo: gruppi di meditazione, collettivi anti-guerra. Avevamo tutti in testa la stessa idea: volevamo cambiare il mondo”.

{}

Perché non ci siete riusciti?
“Non so cosa sia successo. I soldi, le banche, le grandi corporazioni hanno avuto il sopravvento sui nostri ideali. Perfino le droghe, che sembravano nostre alleate, ci hanno rovinato. Erano gli anni dello strapotere della CIA e della guerra in Vietnam”.

Qual era il ruolo della musica in quella stagione?
“È stata una grande era, una manna per la creatività. La musica era analogica e tutto quello che dovevi fare era suonare bene il tuo strumento. Quando ho conosciuto Morrison in California regnava un’atmosfera rilassata. Era l’estate dell’amore, la Summer of Love. C’era un incredibile giro di artisti che collaboravano tra di loro. Ogni sera si improvvisava tutti insieme in qualche locale. Ricordo bene i Buffalo Springfield, Neil Young, Frank Zappa e the Mothers of Invention, i Mamas and Papas”.

Che ricordi ha delle registrazioni di The Doors?
“Non eravamo mai entrati in uno studio, ma avevamo suonato nei club quelle canzoni tante di quelle volte che in sala il lavoro fu veloce. Le conoscevamo a memoria. Solo The End ci ha dato qualche problema. Era più complessa degli altri brani. Non avevamo fatto i conti con Jim e la sua follia. Alla fine dette di matto. Dopo una lunga giornata di incisione decise di tornare di notte allo studio, sotto l’effetto di alcol e droga, convinto che stesse andando a fuoco. Prese un estintore e provò a spegnere le fiamme. Mi ha distrutto la chitarra, non l’ho mai dimenticato. Ci abbiamo riso per anni”.
Cosa ha reso speciale quel disco?
“Le canzoni. Hanno fatto la differenza e la fanno ancora oggi. Siamo stati un gruppo diverso dagli altri. La poesia di James era la padrona di casa. Ognuno di noi portava in dote un tocco di personalità, le proprie passioni e influenze: io ero innamorato del flamenco, Ray amava la scuola di Chicago e il blues, John seguiva il jazz. Nessuno aveva mai scritto musica come quella prima d’ora. È un’opera irripetibile. Contiene una serie di combinazioni che la storia ha reso uniche”.

Lei è anche l’autore di Light My Fire, il singolo che determinò il successo planetario dei Doors.
“Era una canzone dedicata alla passione. Conoscevamo il suo potenziale. Alla Elektra Records piaceva a tutti, ma aveva un difetto. Era troppo lunga per essere trasmessa in radio. E senza promozione radiofonica sapevamo che non avrebbe avuto successo. Il nostro produttore (Paul Rothchild, ndr) un giorno ci chiamò e ci fece ascoltare una versione perfettamente tagliata e rimontata senza gli assolo. Durava tre minuti ma sconfessava tutto quello in cui credevamo. Non volevamo farlo. Ma uscimmo dal suo studio dopo aver dato il nostro assenso. E finimmo primi in classifica”.

Che ruolo hanno avuto le droghe nella vostra formazione?
“Penso che sia stata un’influenza positiva. Almeno all’inizio. Tutti cominciammo ad assumere droga con l’idea di esplorare la mente. Allo stesso tempo cominciava a diffondersi una cultura esoterica in cui si ascoltava la musica di Ravi Shankar e tutto ciò che arrivava dall’Oriente. Jim e molti altri hanno esagerato. Agli stupefacenti si è aggiunto l’alcol in dosi sempre più massicce. Ed è stata una rovina”.

Quali sono i suoi ricordi di Jim Morrison?
“Non ci sarà mai un artista come lui. Aveva una grande personalità. Non gli interessavano i soldi. L’unica cosa che lo smuoveva era la poesia. Jim era un esploratore dell’universo e non si fermava davanti a nulla. Metteva in gioco anche la sua vita in cambio di emozioni e risposte alle sue domande”.

Vi hanno definito come la faccia oscura del rock. Era così?
“Solo in parte. I Beach Boys e i Beatles erano dipinti come il lato buono del movimento giovanile. Ma noi non eravamo così cattivi come ci dipingevano. Jim poteva essere sia un angelo che un diavolo. I problemi arrivavano quando emergeva la sua parte eccessiva. È quella che lo ha distrutto”.

Ha mai pensato di scrivere la sua versione sulla storia dei Doors?
“Ho un sacco di materiale già pronto. Prima o poi pubblicherò un libro. Le biografie di Ray (Manzarek) e John (Densmore) ci hanno causato molti problemi. Aspetterò il momento giusto. Ora ho uno studio di registrazione e sto seguendo la carriera di alcune giovani band”.

Perché lei e Manzarek avete provato più volte a resuscitare i Doors?
“Dopo la morte di John abbiamo provato in tre a continuare, ma non aveva senso. Abbiamo sciolto i Doors. Nel 2000 ci abbiamo riprovato con diversi cantanti, come Ian Astbury e Scott Weiland, ma non ha funzionato come doveva. Non poteva più esistere il gruppo dopo Jim”.

Com’è cambiata Los Angeles?
“Beh, Hollywood è sempre lì e ci sono un mucchio di gruppi che suonano nei club di rock’n’roll. C’è più traffico, oggi. In questi anni sono scomparsi un po’ di vecchi amici. Come mi sento? Come un sopravvissuto”.




6.4.17

Vince la Juventus: tre romanisti apprezzano Esplode un nuovo caso social dopo tre mi piace messi su Instagram da altrettanti calciatori giallorossi al passaggio di turno dei bianconeri.


da  Sportal.it  del  6\4\2017

Il clima non è di certo dei migliori in quel di Trigoria. Per strappare lo scudetto alla Juve servirà quasi un miracolo, eliminazione dall'Europa League e ultima, ma non di importanza, la bruciante eliminazione in Coppa Italia nel doppio confronto del derby contro la Lazio.

A mettere benzina sul fuoco ci pensa un episodio che ha provocato non poche polemiche: 3 "like" messi da Nainggolan, Rudiger ed Emerson Palmieri all'ex compagno Pjanic, alla foto che ha postato mercoledì il bosniaco su Instagram.
La foto in questione ritrae la squadra juventina dopo il passaggio del turno, che è valso la finale, negli spogliatoi del San Paolo.
I tifosi hanno reagito in maniera diversa: c'è chi ha lasciato sotto dei commenti di cattivo gusto, c'è chi invece riconosce che certe amicizie vanno oltre i colori della maglia con cui si scende in campo, eccone uno: "il valore dell'amicizia. La Roma ha altri problemi, non certo il like a una foto di Pjanic".
L'amicizia tra Pjanic e la maggior parte dei giocatori della Roma non è qualcosa di nascosto, anzi più volte documentata dai social, in particolare il rapporto con il suo grande amico Nainggolan, con il quale Miralem va spesso in vacanza. 

il politicamente corretto è l'ipocrisia linguistica , circolare dell'amministrazione penitenziaria sul gergo carcerario

le parole sono importanti come dice questa  famosa  scena   di un famoso  film  da me   citato  più  volte qui sul  blog 
e per citare  don Lorenzo Milani (  1923-1967 ) : <<  una parola non imparata  oggi  è un calcio in culo  domani  >>    che  
L'immagine può contenere: sMS


Ma  soprattutto   che   il potere  usa  la lingua  e le  parole  per   assoggettarci     come mettono benissimo in evidenza  questi due  libri

Il  primo

La manomissione delle parole
In un mondo in cui le parole vengono manipolate e travisate, Gianrico Carofiglio ci ricorda in questo saggio che restituire loro il senso è il primo, indispensabile passo per fondare la verità: dei sentimenti e delle idee. La sua indagine si concentra su. una selezione di parole-chiave – “vergogna”, “giustizia”, “ribellione”, “bellezza”, “scelta” - e su un ambito a lui familiare, quello del linguaggio dei giuristi, che più di altri produce conseguenze concrete sulle persone e sul mondo. È un'indagine a un tempo linguistica, letteraria e storica - e dunque, inevitabilmente, critica e civile - che si dispiega attraverso il confronto con grandi autori e grandi testi: da Tucidide a Victor Klemperer, da Cicerone a Primo Levi, da Dante a Kavafis, da Italo Calvino a Piero Calamandrei alle pagine esemplari della Costituzione italiana.

















il  secondo



La fabbrica del falsoIL LIBRO CHE SPIEGA COME FUNZIONA E A COSA SERVE LA MACCHINA DEL FALSO Se un tempo le verità inconfessabili del potere erano coperte dal silenzio e dal segreto, oggi la guerra contro la verità è combattuta sul terreno della parola e delle immagini. Perché chiamiamo democratico un Paese dove il governo è stato eletto dal 20 per cento degli elettori? Perché dopo ogni “riforma” stiamo peggio di prima? Come può un muro di cemento alto otto metri e lungo centinaia di chilometri diventare un “recinto difensivo”? In cosa è diversa la tortura dalle “pressioni fisiche moderate” o dalle “tecniche di interrogatorio rafforzate”? Perché nei telegiornali i Territori occupati diventano “Territori”? Perché un terrorista che compie una strage a Damasco diventa un ribelle? Che cosa distingue l’economia di mercato dal capitalismo? Rispondere a queste domande significa occuparsi del grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo: la menzogna. Vladimiro Giacché ha studiato nelle università di Pisa e di Bochum (Germania) ed è stato allievo della Scuola Normale di Pisa, dove si è laureato e perfezionato in Filosofia. È partner di Sator e presidente del Centro Europa Ricerche (Roma), autore di numerose opere e saggi. I suoi libri più recenti: Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (2012), tradotto in lingua tedesca; Anschluss - L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (2013), tradotto in tedesco e francese; Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile (2015).

Cosi pure   che  le  parole  fanno   male  in quanto  : <<  non esistono parole sbagliate  .Esiste un uso sbagliato delle parole  >>   e  che   come  evidenza  l'intenzione del portale i http://www.parlarecivile.it/home.aspx

il   cui progetto  

 è volto a fornire un aiuto pratico a giornalisti e comunicatori per trattare con linguaggio corretto temi sensibili e a rischio di discriminazione. È il primo in Italia che affronta in una cornice unica i seguenti argomenti: Disabilità, Genere e orientamento sessuale, Immigrazione, Povertà ed emarginazione, Prostituzione e tratta, Religioni, Rom e Sinti, Salute mentale.
Il progetto consiste in un libro dallo stesso titolo (edito da Bruno Mondadori, 2013) e nel presente sito web, che contiene oltre 200 schede su parole chiave redatte alla luce dell’etimologia, dell’uso corrente, dei dati, di innumerevoli esempi di buono o cattivo uso nella comunicazione, di alternative praticabili.

Parlare civile è un’opera di servizio, di documentazione e formazione. Le schede sono compilate con lo sforzo di essere didattiche e informative, e non censorie o prescrittive, nella consapevolezza che il linguaggio non è statico ma in continua trasformazione. I casi giornalistici citati a mo’ di esempio non indicano il nome della testata o dell’autore dell’articolo, ma soltanto la tipologia (quotidiano nazionale, sito internet, data di pubblicazione ecc.). Per la spiegazione dei termini, le schede si basano sull’uso scientificamente certificato e più accreditato, quello più accettabile e in cui non è insita una possibile discriminazione o un’offesa.

ma  il  politicamente   corretto    a  tutti   costi    di    cui  parla,  e  di cui  mi trova  completamente   d'accordo  ,  Michele  Serra   nella sua  rubrica     su   repubblica   d'oggi  6\4\2017   
L'immagine può contenere: sMS
Infatti   come  dice   su https://www.facebook.com/AmacaMicheleSerraRepubblica/  il  commento  di  
Antonio Aiosa

L'ipocrisia del linguaggio esonera dal problema, dal farsene realmente carico, anche solo moralmente!
Se lo chiami "non vedente" invece di "cieco" lo avrai rispettato così tanto da potertene fottere delle barriere architettoniche!
Se parli di "alternanza scuola/lavoro" (ipotizzando che dei ragazzini di ginnasio siano in grado di ipotizzare una azienda, fare il business plan, metterla in esercizio e portare il bilancio in utile) puoi fregartene che di lavoro vero per i giovani poi non ce ne sia affatto!
Parole, parole, parole... cantava Mina!

E poi scusate Nelle carceri la parola assistente si usa da molti anni, mentre la cella è e resta cella, senza che per questo qualcuno si senta offeso come persona. Ci si sente offesi sempre per questioni di diritti e dignità negati. La camera di pernottamento sovraffollata col quarto materasso sotto il letto a castello e un bagno per nove persone rendono la "camera di pernottamento" insopportabile, non la parola che la descrive. L'edificio penitenziario possiamo chiamarlo come vogliamo, ma come disse un detenuto "la galera è galera e la capisce solo chi la fa", con buona pace degli sforzi retorici ministeriali. Esistono parole obsolete nel nostro linguaggio ed è giusto che ce ne occupiamo per cambiarle se le nuove portano ad una maggiore accettazione dell'altro. Ad esempio mi chiedo da molti anni perché non ci sia un dibattito sull'eliminare le parole patrigno e matrigna portatori a priori di una connotazione linguistica negativa che finalmente potremmo abbandonare. Nel frattempo le camere di pernottamento con le sbarre si possono continuare a chiamare con una sola parola, celle.  Infatti  



Franco Cascio Come se descrivendola con parole migliori e positive, la situazione carceraria potesse cambiare in quanto a confort e rispetto.Continueranno ad essere 5 in una cella, anche se la chiamassero "suite", continueranno a verificarsi pestaggi e suicidi e qualche uccisione. Nessuno avrà nessun vantaggio dal cambiamento delle parole, neanche i piantoni o guardie carcerarie o "assistenti alle persone" e i carcerati continueranno ad essere galeotti, ladri ed assassini, almeno quelli che lo sono veramente. Gli unici ad averne una gratifica saranno i membri della Amministrazione Penitenziaria, pieni di ipocrita gioia per avere migliorato le apparenze. Cosi ,come spesso avviene in Italia, ci si convince di avere risolto un problema, emanando una norma nuova.






Un esempio di grande attenzione e sensibilità dell'Amministrazione penitenziaria e dello stato ... a parole .






Anna Kratter E il suicidio, molto diiffuso tra gli ospiti delle camere di pernottamento, come lo dobbiamo chiamare?
Orietta Tami Ha disdetto la camera?





la soluzione , vi chiederete .L'avevo proposta in questi due articoli ( chi mi segue dalle origini o mi conosce già perchè lege anche i mie extra su sui social : facebook e twitter può saltarli e passare direttamente al video sotto riproposto sotto che riassume la situazione in particolare nell'intervallo 25.30 -32.58\33


  1. http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.it/2013/07/un-timido-elogio-della-parolaccia-con.html
  2. http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.it/2013/10/basta-con-la-volgarita-gratuita.html






 non  so     più che  altro dire  alla  prossima