14.4.17

“Ero un uomo violento e pensavo: non è colpa mia”

lo  so che  andrò contro le  femministe     con  il post  d'oggi  , ma   fra  gli stalker  ed  i violenti     c'è  anche  se    una piccola percentuale   casi come   quello   che riporto    qui  sotto  . Prima  d'iniziare il post     faccio delle  precisazioni  :
1)  non sto  giustificando  , ma cercando di capire  cosa  spinge  noi uomini a comportaci cosi
2)   condanno sempre  la  violenza     contro le  donne  e non solo
3 ) il dialogo fra  generi  e  l'educazione all  diversità fin dall'asilo  \  scuola materna   supera  ogni confine  ed  aiuta  tantissimo

  da   http://www.associazionelui.it/ del 14 aprile 2017



“Ero un uomo violento e pensavo: non è colpa mia”
associazione-lui
Giovedì 13 aprile 2017 su Il Tirreno Toscana è uscito un articolo che “ci riguarda”, di Ilaria Bonuccelli che ringraziamo di cuore.
“Sono stato un uomo violento” L’ammissione secca. Uno sciocco. Il cazzotto che rompe la radio. La pedata secca alla moglie. Il piatto fracassato contro il muro. “Ma stiamo attenti: la violenza che fa male non è solo quella fisica”. Ugo – il nome che si è scelto l’uomo – soppesa. le parole. Due anni di percorso all’Associazione LUI di Livorno per capire decenni di soprusi. Per venirne fuori. Colloqui personali, di gruppo. Una terapia per “uomini maltrattanti”. “E non si è mai al sicuro. Al massimo, oggi sono più sicuro di non avere tentazioni di questo tipo”. Un modo complicato per dire: ho imparato a gestire i momenti di crisi. A capire che la causa della mia violenza sono io e non gli altri. Non mia moglie.
Provare a parlare è una prova. Non è facile. Accetta l’incontro con Il Tirreno perché da oltre un mese conduce una campagna contro la violenza sulle donne. In particolare per rafforzare le misure di prevenzione della violenza, a cominciare dall’attivazione dei braccialetti elettronici salva-vita per evitare il cosiddetto “ultimo appuntamento”, spesso letale per la vittima.
Lei riconosce di essere stato un uomo violento?
“Certo che riconosco di essere stato un uomo violento, in tanti aspetti. Soprattutto lo sono stato perché ho pensato che la violenza fosse una risposta logica a quello che succedeva. La mia giustificazione era: “Sono violento perché l’altro o l’altra  hi ha detto o fatto questo”. Intraprendendo il percorso nell’associazione, invece, mi sono reso conto che era un modo sbagliato di ragionare”.
Ma che cosa intende per violenza? E con quali tipi di violenza sente di aver “agito”?
“La violenza, anche la mia violenza, non è stata solo fisica. La violenza è anche imporsi dal punto di vista economico, culturale. Certo, c’è il cazzotto, lo schiaffo. Ma c’è soprattutto l’atteggiamento di chi si sente superiore all’altro, tende a sopraffare l’altro: io sono il maschio, tu sei la femmina; i soldi in casa li porto io, quindi si fa quello che dico io. Oppure: bada a quello che hai speso; quello non si fa perché l’ho detto io”.
Lei aveva atteggiamenti violenti o prepotenti già da bambino? Si dice che spesso gli adulti violenti siano stati bambini vittime di violenza almeno assistita.
“No, non sono stato un bambino violento. Ma mi sono ritrovato addosso certi comportamenti che da bambino consideravo “normali” e che pensavo succedessero in tutte le famiglie, come la litigata feroce fra babbo e mamma. E’ chiaro che ciascuno di noi si porta dentro, a livello inconscio, questi esempi e che poi li replica da adulto, considerandole situazioni “normali”, anche se poi non lo sono”.
A lei è accaduto questo?
“Si. Diciamo che nella mia famiglia di origine ci sono state tensioni piuttosto forti fra i miei genitori, anche se poi ciascuno ha la propria storia e trova le proprie giustificazioni alla violenza nei confronti di chi gli sta intorno”.
Lei quando ha iniziato ad avere comportamenti violenti? Non solo fisicamente.
“Con il matrimonio. QUnado si è fidanzati e si hanno divergenze ciascuno va a casa propria e hai tempo per rivedere la tua posizione. Quando sei sposato, invece, non c’è lo stacco temporale che ti permette di rivedere la posizione e stemperare il clima. Così non ti rendi conto che il tuo atteggiamento non è corretto, che in una discussione non è sempre colpa dell’altro, anche se tu tendi sempre a incolpare l’altro. Allora si creano situazioni che possono sfociare nella violenza o nella separazione che non esclude, la prosecuzione della violenza”.
Quali erano, scusi, le sue reazioni in “mancanza di tempo di ragionare”?
“Quando non hai tempo di ragionare tiri fuori quelle reazioni che, secondo te, sono le normali conseguenze di una litigata: sferri un pugno e rompi un tavolo o una sedia. Poi tutto si placa. Li per lì non ti rendi conto della gravità del gesto e pensi di aggiustare tutto con un “scusa qui, scusa là”.
Quindi lei non era consapevole della sua violenza?
“Ti ripeti:”Non sono violento perché non faccio altro che rispondere a una violenza”. Anche la lite fra genitori la leggi in questo modo: la mamma che tira il piatto al babbo o il babbo che tira lo schiaffo alla mamma sono la conseguenza ordinaria di un’azione: “perché l’altro ha fatto qualche cosa di violenza” e non ci si sofferma a capire perché.
Non si rendeva conto neppure della rabbia che la muoveva?
“Rispondere sì o no sarebbe sbagliato, in entrambi i casi. Da una parte ero consapevole della rabbia che non dovevo avere: dall’altra mi giustificavo: “Non ce l’ho fatta più a sopportare”. In quegli atti tendi sempre a darti una giustificazione. E la più frequente è che l’altro ti ha portato a essere così. Non esci da questo meccanismo fino a quando non riesci a capire che l’atteggiamento della violenza è solo responsabilità tua”.
Lei quanto ha impiegato a capire di essere un uomo violento”
“Diversi anni. Il concetto è sempre lo stesso: ti dici che sei violento perché è colpa dell’altro oppure perché l’altro se lo merita: “Non ha fatto quello che si era deciso”.
Quale è stato il fatto e che le ha fatto intuire che stava sbagliando?
“Quando ho visto il comportamento dei miei figli. Ciascuno a modo proprio stava metabolizzando il mio comportamento violento. Stavano replicando lo stesso ruolo. Quando vedi che un figlio diventa violento, capisci che devi fare qualche cosa. Per te e per lui. Mettendo in gioco te stesso e tutta la famiglia”.
Ora è sempre un uomo violento?
“Spero di no. Dopo due anni di percorso, ho imparato a capire quando la situazione per me diventa critica e devo staccare. Non ho smesso di discutere con mia moglie, ma so quando fermarmi”.
Si sente al riparo dalla violenza?
“Non ci siamo mai. Ma sono più al sicuro dalle tentazioni della violenza”.
E che cosa direbbe a uomini che, invece, continuano a essere violenti?
“Che la violenza è un atto anche contro se stessi. E per quante giustificazioni uno possa darsi, non sono mai la realtà”.

w le donne con le loro imperfezioni Charli Howard, la modella inglese che sfoggia la sua cellulite su Instagram

queste  sono le donne  che preferisco  non quelle di plastica  e perfette  a tutti i  costi     .  ha  aveva ragione vecchioni   in 





La modella inglese Charli Howard ha scelto di non seguire gli standard di bellezza dettati dalle case di moda, ma di accettare il suo corpo con tutte le imperfezioni. 



Così ha pubblicato sul suo profilo Instagram le foto del suo "lato B" senza ritocchi, commentando:"Questo è un corpo naturale, e non c'è niente di cui vergognarsi". Nel 2015 Charlie scrisse una dura lettera alla sua agenzia che pretendeva che calasse di peso: "Non posso tagliarmi le ossa per essere magra", scrisse la modella su Facebook

Quelli della prima Repubblica, De Mita e la Dc: ''Le canzoni con Gorbaciov e le zie suore di Berlusconi''

la prima repubblica checco zalone


 se  come me   all'epoca eri adolescente  o  se  hai dimenticato    potrebbe   interessarti   le puntaste precedenti  dei politici  che hanno traghettato l'italia dagli anni  '70\92



premetto che   :  sono cresciuto   con genitori anti Dc e nonni  Dc ,  mi sono avvicinato alla politica  e  poi alla politika  (  ho  già  espresso nelle faq   e  i vari post  la loro differenza  ) . Diventando  poi anti sistema    e  che  questi vecchi tromboni   non mi sono   mai piaciuti   prima  ne  ora  ,  ma    rispetto  a questi  cialtroni  (  lo so sto generalizzando  , ma  io  non  ne  vedo  neppure    uno\a  e  quando  speravo di trovarne  zac   fregato  )   d'adesso  avevano una solida base  culturale  pur   fossero ed  il caso ( almeno da  qui ricordi  indiretti    che  ho   di tale epoca    della mia adolescenza  avvenuta  fra il 1989\1994 era il simbolo della DC corrotta e degli inciuci assieme ad Andreotti che se l'e' sempre cavata ma le sue colpe le aveva anche lui solo che e' stato un gran Furbacchine  era il simbolo della DC corrotta e degli inciuci assieme ad Andreotti che se l'e' sempre cavata ma le sue colpe le aveva anche lui solo che e' stato un gran Furbacchineera il simbolo della DC corrotta e degli inciuci assieme ad Andreotti che se l'e' sempre cavata ma le sue colpe le aveva anche lui solo che e' stato un gran Furbacchine)



era il simbolo della DC corrotta e degli inciuci assieme ad Andreotti che se l'e' sempre cavata ma le sue colpe le aveva anche lui solo che e' stato un gran Furbacchine  suo  era il simbolo della DC corrotta e degli inciuci assieme ad Andreotti che se l'e' sempre cavata ma le sue colpe le aveva anche lui solo che e' stato un gran Furbacchine

Venerdì Santo. La Via Crucis al Colosseo con le «donne del Vangelo»

  condiviso sula nostra pagina  facebook    compagnidistrada   dall'amica  daniela  tuscano 

Venerdì Santo. La Via Crucis al Colosseo con le «donne del Vangelo»
Lungo il cammino che porta il Signore al Golgota e poi al sepolcro ci sono «gli uomini, le donne, persino i bambini violentati, umiliati, torturati, assassinati, sotto tutti i cieli»; c’è «ogni povero che è nudo, prigioniero, assetato»; c’è il «pianto delle donne» che «non manca mai in questo mondo» insieme con quello «dei bambini terrorizzati, dei feriti nei campi di battaglia che invocano una madre», il pianto «solitario dei malati e dei morenti sulla soglia dell’ignoto», quello «di smarrimento, che scorre sulla faccia di questo mondo che è stato creato, nel primo giorno, per lacrime di gioia, nella comune esultanza dell’uomo e della donna». E ci sono ancora «le menzogne che ambiscono a regnare sui nostri cuori» oppure «la follia dei torturatori e di chi li comanda». Ma ai piedi della Croce c’è anche – e soprattutto – «la dolcezza di Dio» che visita «il nostro inferno», «unico modo per liberarci dal male»; c’è «l’infinita tenerezza» del Padre «nel cuore del peccato del mondo»; ci sono i grandi «sentieri dell’umiltà» e «i gesti delle donne che onorano la fragilità dei corpi che esse circondano di dolcezza e di onore». 
L'immagine può contenere: 1 persona, in piedi


È una Via Crucis non tradizionale quella che emerge dalle meditazioni per il rito che papa Francesco presiederà la sera del Venerdì Santo al Colosseo. Testi composti dalla biblista francese Anne-Marie Pelletier, laica, madre e nonna, docente di Sacra Scrittura allo Studio della facoltà “Notre Dame” del Seminario parigino e impegnata nella diffusione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia.Le sue riflessioni – che in alcune delle quattordici Stazioni si soffermano in particolare sulle «donne del Vangelo» – portano sotto Cristo crocifisso il «nostro mondo» con «tutte le sue cadute e i suoi dolori, i suoi appelli e le sue rivolte, tutto ciò che grida verso Dio, oggi, dalle terre di miseria o di guerra, nelle famiglie lacerate, nelle prigioni, sulle imbarcazioni sovraccariche di migranti», scrive nell’introduzione. «Tante lacrime, tanta miseria» che, aggiunge, «non vanno perdute nell’oceano del tempo, ma sono raccolte da Lui, per essere trasfigurate nel mistero di un amore in cui il male è inghiottito». Lo scherma proposto prevede la lettura di un brano biblico, la meditazione e a seguire la preghiera. Nei testi – che L’Osservatore Romano ha anticipato e che, come di consueto, saranno pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana – torna più volte il vocabolo “misericordia” che è «il nome» del Signore, un nome «che è follia», nota la studiosa. E fa sapere nella quinta Stazione (“Gesù porta la croce”): «Non c’è caduta che possa sottrarci alla tua misericordia; non c’è perdita, non c’è abisso tanto profondo che tu non possa ritrovare chi si è smarrito».L’attenzione al “femminile” emerge con forza in due Stazioni d’impronta mariana. Nell’undicesima (“Gesù e sua madre”) si sottolinea la grandezza della Madonna: «In piedi, lei non diserta. Stabat Mater. Nel buio, ma con certezza, sa che Dio mantiene le promesse. Nel buio, ma con certezza, sa che Gesù è la promessa e il suo compimento». Poi la docente d’Oltralpe osserva: «La lama che trafigge il fianco del Figlio trafigge anche il cuore di lei. Anche Maria s’immerge nella fiducia senza appoggio, in cui Gesù vive fino in fondo l’obbedienza al Padre». E la tredicesima Stazione (“Gesù è deposto dalla croce”) si chiude con un Canto a Maria: «O Maria, non piangere più: il tuo figlio, nostro Signore, si è addormentato nella pace. E il Padre suo, nella gloria, apre le porte della vita! O Maria, rallegrati: Gesù risorto ha vinto la morte!». Ha un marcato tratto “femminile” anche la settima Stazione (“Gesù e le figlie di Gerusalemme”) in cui Anne-Marie Pelletier descrive il «pianto che Gesù affida alle figlie di Gerusalemme come un’opera di compassione». Quindi il richiamo alle «lacrime di sangue di cui parla Caterina da Siena».Accanto al Signore, nelle sue ultime ore, la studiosa colloca anche una donna ebrea, un teologo ortodosso e un pastore protestante, offrendo alla Via Crucis uno sguardo ecumenico e interreligioso. Nella settima Stazione compare Etty Hillesum «rimasta in piedi nella tempesta della persecuzione nazista, che difese fino all’ultimo la bontà della vita», si racconta. E lei «ci suggerisce all’orecchio questo segreto che intuisce alla fine della sua strada: ci sono lacrime da consolare sul volto di Dio, quando piange sulla miseria dei suoi figli. Nell’inferno che sommerge il mondo, lei osa pregare Dio: “Cercherò di aiutarti”, gli dice. Audacia così femminile e così divina». Nell’ottava Stazione (“Gesù è spogliato delle vesti”) il riferimento al filosofo greco contemporaneo Christos Yannaras è lo spunto per spiegare che lo Spirito Santo ci insegna la «lingua di Dio». «Gesù bambino nudo nella mangiatoia – è la citazione di Yannaras –; spogliato nel fiume mentre riceve il Battesimo come un servo; sospeso all’albero della croce, nudo, come un malfattore. Attraverso tutto questo egli ha manifestato il suo amore per noi». E nella decima Stazione (“Gesù sulla croce è deriso”) si evidenzia «che “soltanto un Dio debole può salvarci”, come scriveva il pastore Dietrich Bonhoeffer pochi mesi prima di morire assassinato, quando, sperimentando sino in fondo il potere del male, poteva riassumere, in questa verità semplice e vertiginosa, la professione della fede cristiana». Altro rimando è all’assassinio dei sette trappisti sequestrati nel loro monastero in Algeria e massacrati da frange fondamentaliste islamiche nel 1996. La biblista avverte che «i monaci uccisi a Tibhirine alla preghiera “Disarmali!” aggiungevano la supplica “Disarmaci!”».Al Colosseo riecheggeranno nodi da sciogliere e vicende l’attualità. La prima Stazione è l’occasione per lanciare un monito: «Siamo peccatori e complici di morte». Nella quarta Stazione (“Gesù re della gloria”) si esorta a non cedere agli «idoli» del mondo e alle «figure menzognere del successo e della gloria». Nell’ottava Stazione si parla della «folla immensa degli uomini che subiscono la tortura, la spaventosa schiera dei corpi maltrattati, tremanti d’angoscia all’avvicinarsi dei colpi, agonizzanti in sordidi bassifondi». Certo, tiene a ribadire l’autrice, «Gesù non ha portato la croce come un trofeo» e «non somiglia in nulla agli eroi della nostra fantasia che abbattono trionfanti i loro malvagi nemici». E conclude nell’ultima riflessione: sappiamo che ogni «preghiera» e ogni «attesa» saranno «esaudite dalla Risurrezione di Cristo».
Avvenire Giacomo Gambassi lunedì 10 aprile 2017

13.4.17

Yuja Wang, la pianista che suona con stile: ''La musica è sensuale, io mi adeguo''

leggi anche
 http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2017/04/la-musica-indipendentemente-dal-genere.html



E' stata una bambina prodigio. Oggi, concertista di fama internazionale, è diventata il simbolo di una ricerca che va oltre la musica e guarda alla femminilità.  Prima che inizi a eseguire le partiture dei suoi compositori preferiti al pianoforte, Yuja Wang conquista il pubblico con un look anticonformista. ''

Se un pianista uomo indossa dei pantaloni stretti non mi faccio tante domande - ha spiegato la musicista in un'intervista al Guardian - quando suono devo sentirmi me stessa, mi piace mettermi a nudo. Se la musica è sensuale, perché non possiamo provare semplicemente ad adeguarci?''. Classe 87, nata a Pechino, Yuja Wang ha studiato al Curtis Institute of Music di Filadelfia dove si è formata con Gary Graffman, maestro, tra gli altri, di Lang Lang. Ha un contratto discografico con la Deutsche Grammophon e da aprile 2017 sarà in tour in Europa

Usa bambina bianca con la bambola nera e i razzisti. Figlia di Martin Luter King: "Segno di cambiamento"

da  repubblica  di qualche  giorno fa  , mi pare  l'11 aprile  ,   ho letto questa  news

Usa, la bimba con la bambola nera e i razzisti. Figlia di King: "Segno di cambiamento"
La cassiera al negozio di giocattoli: "Prendine una che ti assomiglia di più", dice alla piccola bianca. L'episodio, postato dalla mamma su Fb, è virale. Migliaia i commenti, tra solidarietà e critiche durissime

dalla nostra inviata  FRANCESCA CAFERRI





NEW YORK - Quando la mamma le ha detto che poteva scegliere un regalo, Sofia, due anni, non ha avuto dubbi: voleva una bambola, ma non una qualunque. "Quando siamo arrivate al negozio ha scelto la bambola-dottoressa - racconta la madre, Brandi Benner - perché nella sua testa lei è già una dottoressa. Propone un controllo medico a tutti quelli che entrano a casa". Sarebbe una storia qualunque se Sofia non fosse bianca e la sua bambola-dottoressa nera. Ma le cose stanno così e la cassiera del negozio dove la bimba era con sua madre ha pensato bene di sottolinearlo.
"Le ha chiesto perché non prendesse una bambola che assomigliasse a lei - ha scritto la mamma sul suo profilo Facebook - e Sofia le ha risposto che la bambola che aveva le somigliava già: era una dottoressa, come lei. Era carina, come lei. Aveva lo stetoscopio, come lei. Mia figlia non si è fatta scoraggiare: magari un'altra bimba lo avrebbe fatto". Pubblicato venerdì su Fb, il post di Brandi Benner è diventato virale: condiviso più di 140mila volte, ha attratto oltre 19mila commenti, fra cui quello di Berenice King, figlia del reverendo Martin Luther King.



Non è una storia qualunque questa anche perché fu proprio un esperimento con le bambole condotto nelle allora segregate scuole degli Stati Uniti a portare, nel 1954, all'istituzione di scuole miste in tutto il Paese. Negli anni '40, un gruppo di psicologi usarono appunto le bambole per testare il grado di pregiudizio in cui crescevano i bambini: la netta preferenza dei bimbi - sia bianchi che neri - per le quelle bianche contro quelle scure e le parole con cui spiegavano la scelta, li spinsero ad affermare che la segregazione andava cancellata. "The Doll Experiment" fu riproposto nel 2010 da Anderson Cooper su Cnn e si capì che nell'era di Barack Obama, primo presidente afroamericano, molti pregiudizi razziali restavano intatti.



Ciò che è accaduto a Sofia acconta l'ennesima puntata della vicenda. Una bambina di due anni che non vede differenze fra sé e una bambola nera, una mamma che la incoraggia, una cassiera a cui la scena sembra assurda. Una metafora perfetta della spaccatura che attraversa la società americana oggi e che la mamma di Sofia si è trovata di fronte. Su Facebook molte le parole di solidarietà ma anche le critiche, spesso dai toni durissimi. "Non mi curo di loro - ha detto Benner - ai miei figli voglio insegnare l'amore".
Ma questa storia dimostra che per cancellare i pregiudizi ci vuole ancora tempo, anche se qualcosa si è mosso. "La scelta di questa bambina è il segno di un cambiamento che ci porterà a vedere oltre il colore della pelle e che metterà fine ai giudizi che si basano su questo", ha scritto su Facebook Berenice King.

Modena, Maria è immobile e senza più voce: «È una vita bella, la voglio vivere» Modena Paralizzata da dieci anni, per tre è stata creduta in coma e invece vedeva e sentiva ogni cosa Non ha mai perso speranza e ottimismo.

E' davanti a storie  come  questa , una delle tante  di coloro ha  scelto  di   continuare  a vivere   fra  le sofferenze  ,  che   mi rendo conto   ( OVVIAMENTE  RISPETTANDO  E NON GIUDICANDO  LA LORO SCELTA )   di come   siano più  "  tutelati  " nella  scelta    loro   di quelli   che  fanno  la scelta  di vivere  nella sofferenza  . Tutta  colpa  di   un manipolo   di  politicanti   che non ha  le  palle  il  coraggio   di portare   alla  discussione  parlamentare   e  quindi  fa  mettere  ai  voti   o   portarla  a l referendum    come  si fece  (   erano altri tempi   e  i vecchi politici    avevano più coraggio   ed  avevano il   vero valore   dell'etica    , SIC  ) per  il divorzio e  per la l'aborto  ,  la legge    sul testamento biologico  \  fine  vita  . 


Modena, Maria è immobile e senza più voce: «È una vita bella, la voglio vivere» 

Modena Paralizzata da dieci anni, per tre è stata creduta in coma e invece vedeva e sentiva ogni cosa Non ha mai perso speranza e ottimismo. 

MODENA L’occhio di Maria dice tutto. Spalancato su un mondo fatto di affetti e poche cose, chiuse in una stanza, grazie a un computer parla di dolore, ricordi e nostalgie. Ma anche di speranza e gioia di vivere “a qualunque costo”. Un atteggiamento straordinario, perché Maria Ragazzi, 68 anni, a causa di un incidente stradale, è completamente paralizzata da dieci anni. “Mi è stato tolto tutto – scrive - mi è rimasta solo la speranza, quella è radicata in me profondamente e non si può abbattere”.

In termini medici è tetraplegica, soffre di disfagia e anartria. Significa che non muove le gambe, le braccia e le mani, non parla, non può mangiare come gli altri e viene alimentata con una cannula. Gli restano l’udito, l’occhio destro e soprattutto una mente non solo vigile, ma vivace. E consapevole della propria condizione: “Sento una grande nostalgia per i tempi passati e vivo di ricordi; questa nuova esistenza non mi dispiace, anche se è molto vuota”.





















Qual fiamma tiene accesa la tua speranza?
«I miei figli».

Sei orgogliosa di loro.

«Molto».
Vive immobile in un letto, eppure per lei, “la vita è bella” come ha scritto nel suo diario. Un racconto intimo che è diventato un libro in uscita: si intitola “Ascoltami”, una richiesta semplice che suona come una preghiera.
Altri, nelle sue stesse condizioni, hanno cercato la morte, supplicando la fine di un calvario interminabile, prigionieri di un corpo diventato estraneo e insopportabile. Lei no.

Conosci la storia di deejay Fabo?

«Sì».

Che cosa ne pensi?

«È una libera scelta».
Se deejay Fabo ha disperatamente voluto far cessare la sua “non vita”, Maria al contrario vuole ostinatamente vivere, coraggiosa e indomita, anche se le sue giornate sono dure, anche se ogni centimetro del suo corpo porta evidenti i segni delle sofferenze patite. Le mani gonfie, le gambe innaturalmente sottili e il volto che non è più quello di una donna serena e che con pudore lei non vuole sia fotografato “perché non mi riconoscerebbero”.

Che cosa ti manca di più?

«La voce».

Vorresti poter parlare come un tempo?

«Sì, il computer non mi basta».
Ha sopportato tanto, Maria, e ancora tanto dovrà sopportare: questo non la spaventa: “Vive la vita, o quel che per lei ne rimane, assaporandola fino all'ultima stilla e ad essa non intende rinunciare, né porvi anticipatamente termine” spiega Roberto Masoni, il suo giudice tutelare. Così le piccole cose acquistano altre dimensioni: “Oggi – scrive Maria – Milena mi ha fatto assaggiare un frullato e una mousse di mela e ho deglutito finalmente dopo 5 anni di flebo”. E riesce a sorprendere tutti facendo progetti per il futuro: “Giusi mi ha dato una magnifica notizia: Vasco Rossi terrà un concerto al Parco Ferrari il primo luglio… Io spero di andarci perché lui mi piace tanto e conosco bene quel parco”.
Con l’occhio scrive, un sintetizzatore vocale legge le sua parole. “Ormai vivo solo per scrivere al computer che ho sempre detestato”. Maria, che insegnava italiano ai bambini stranieri, scrive ogni giorno, così è nato il suo diario “per aiutare quelli che si trovano nelle mie condizioni”.
Carlo Bonacini di Artestampa, che sta per pubblicare “Ascoltami”, crede nel libro di Maria. Per lui non è più un'operazione editoriale come le altre, ma qualcosa di più, nella quale spendere energie e mettersi in gioco. Riordinare il flusso di pensieri e ricordi di Maria non è stato semplice, tanto era il materiale su cui lavorare. E più il progetto andava avanti, più acquistava spessore. “La nostalgia che si respira negli scritti dei primi anni diventa riflessione sulla sua condizione d'inferma, occasione per fermarsi a pensare alle possibilità che ancora le restano, il significato più vero e profondo dell'esistenza. Maria è una donna colta e intelligente, ironica e sensibile. Si poteva lasciare cadere nel silenzio il suono di questa voce?”.
È un diario di viaggio, quello di Maria, attraverso tre vite. La prima simile a tante altre, fatta di una famiglia serena, un marito, due figli. La vita di oggi, nella struttura “9 Gennaio” con accanto gli infermieri, la logopedista Maria Letizia Lombardi e il tutore legale. E poi la vita di mezzo durata tre anni e peggiore, se possibile, dell’invalidità totale e permanente.
“Un mio collega che insegna matematica - scrive Maria - una volta in sala professori mi ha parlato di questo numero dicendo che il 7, rispetto ad altre cifre, è il numero magico per eccellenza, è l’emblema della totalità dello spazio e del tempo. È anche il segnale del cambiamento. Tutte storie; io non credo alla numerologia e in più odio la matematica”. Eppure la storia di questa famiglia modenese cambia il 7 luglio 2007.
È un sabato mattina, Maria e suo marito Italo decidono insieme di fare una gita in moto alla Pietra di Bismantova. C'erano già stati, ma “ogni volta rimanevamo stupefatti da tanta meraviglia e ricordavamo quando a scuola l'insegnante ci leggeva quei versi di Dante che la paragonava al monte del Purgatorio”. Italo e Maria salgono su una Yamaha 750 e partono. “Era bello stare abbracciata a Italo, condividere passioni ed emozioni”.
Lungo la strada, sull'asfalto, finisce la prima vita di Maria, quella luminosa. La descrive così: “Avevo raggiunto la pace e l’equilibrio ed ero felice di quello che avevo: un bel marito, due figli, un lavoro che mi piace e, finalmente, un benessere economico”. Poi il buio.
Vengono investiti da una motocicletta. “A un certo punto sento Italo gridare Mariaaaaa tieniti forte e senza che neppure io me ne accorga sono sdraiata per terra, sento un liquido caldo che scende lungo la gamba destra e sento un dolore lancinante alla spalla, la testa mi gira ma il casco è ancora al suo posto. Italo è a terra esanime ma muove una mano. Il suo casco è sventrato e si intravvede una lunga lacerazione sulla testa. I pantaloni sono strappati ed esce molto sangue dalla gamba destra. I due motociclisti che ci hanno investito sono doloranti ma lucidi anche se sotto shock. Subito si fermano in tanti”.
Italo avrà una gamba amputata e una lesione cranica irrimediabile, Oggi vive nella stessa stanza di Maria, anche lui sul letto, dove mangia e dorme. “Poveretto, nelle sua condizioni non può fare altro” commenta Maria. Lei invece sembra meno grave. “La diagnosi aveva messo in luce solo traumi in diverse parti del corpo, ma niente di grave”. Una volta dimessa dall'ospedale, però, perde conoscenza. La trovano i suoi figli vicino al letto.
Ecco come Maria racconta nel diario il suo risveglio.
“Non so quanto tempo è trascorso, ma sono distesa su un letto in una piccola stanza con un altro letto occupato da una signora anziana. Non riesco a muovere nessuna parte del corpo, ho un buco nella gola dal quale escono dei tubi di gomma, ho un occhio chiuso ma quello destro funziona. La stanza è luminosa, c’è un televisore a parete acceso. Il giornalista inizia il telegiornale dicendo che è venerdì 24 agosto. Ma come? Cosa è successo? Come mai sono in ospedale e non a casa?”.
Maria non riesce a parlare, a muoversi. “Sono sicura che si tratta di un problema temporaneo; domani andrà meglio. Ma anche i giorni successivi la situazione è la stessa. Vengono i miei figli ma anche a loro non riesco a fare capire che li sento, che capisco quello che dicono ma che non posso parlare. E passano i giorni, le settimane e i mesi”.
Tutti la credono in coma, colpita da ictus “probabilmente conseguenza di un trauma cranico”. Ma lei non è in coma. Sente e vede dall'occhio destro tutto quello che accade nella stanza, le parole di chi le fa visita, dei medici, del personale infermieristico. Sente e nessuno se ne accorge. Capisce ma non riesce a comunicarlo. Uno stress talmente forte e debilitante che le causerà anche crisi cardiache. Tre anni di incubo, al centro di un mondo che la considera perduta. Cosa si può dire di fronte a una persona in coma da tempo, un corpo che non ha più anima, destinato a restare in un penoso stato vegetativo? Maria ascoltava, impotente, incapace di gridare “io ci sono, vi ascolto, capisco ogni vostro discorso”.
La vita di mezzo finisce per caso. Una addetta alle pulizie sta lavorando nella stanza e urta un braccio di Maria, d'istinto le chiede scusa e guardandola in faccia nota un leggerissimo movimento dell'unico occhio aperto. Resta stupita: quella donna è in coma da anni, non sente nulla eppure... Nel dubbio le ripete la stessa frase di scuse e la reazione è la stessa: succede qualcosa di inaspettato, l'occhio ha un piccolo movimento. La donna delle pulizie corre a chiamare i medici. “Inizia una nuova vita”, scrive Maria La terza.

Maria,

riesci a sognare?

“Sogno spesso il mio gatto”
Non possono portartelo qui?
“No, ha un carattere molto selvatico”
Gli animali somigliano sempre ai loro padroni.
L’occhio di Maria sbatte. E’ il suo sorriso

Da Pavia a Nairobi al fianco dei bambini di strada


IL VIAGGIO
Da Pavia a Nairobi al fianco dei bambini di strada
Guido Bosticco, Guido Mariani e Vince Cammarata in Kenya con il èprogetto Ciak! Kibera e Amani per realizzare un documentario con gli ex ragazzi di strada ospitati
nei centri della ong Amani for Africa: "Negli slum tanti talenti da valorizzare"

di Anna Ghezzi





Guido Bosticco e Vince Cammarata di Epoché Pavia raccontano una giornata sui campi da calcio della baraccopoli di Kibera, a Nairobi, in Kenya. Professore di scrittura all'università di Pavia il primo, fotografo e videomaker il secondo, sono a Nairobi con il progetto Ciak! Kibera, organizzato dall'associazione Cherimus in collaborazione con Amani for Africa. In queste settimane stanno facendo workshop e seminari con un gruppo di ex ragazzi di strada che, alla fine del percorso, realizzeranno un cortometraggio

 professore, un giornalista e un fotografo e videomaker tra gli slum di Nairobi per girare un documentario insieme a un gruppo di ex ragazzi di strada. Sono Guido BosticcoGuido Mariani e Vince Cammarata di Epoché, agenzia giornalistica culturale di Pavia e partecipano in queste settimane a “ Ciak! Kibera ”, un progetto di cooperazione internazionale realizzato dall’associazione di arte contemporanea Cherimus , in collaborazione con Amani for Africa . L'obiettivo? Realizzare con gli ex ragazzi di strada che partecipano ai laboratori un cortometraggio, perché nelle baraccopoli non c'è solo povertà, ma anche talento e potenzialità.
Slum in inglese significa baraccopoli, il suono sbatte in faccia come la visione di queste "città nella città". Selve di lamiera e terra rossa in cui un'umanità varia si accalca, vive, dorme, ama. Da cui gli adulti ogni mattina si incamminano per raggiungere il centro di Nairobi e andare a lavorare. In cui migliaia di bambini vivono in strada, in piccole comunità, vivendo di espedienti, smettendo di studiare e giocare. Cercando di sopravvivere.
Un pezzo di slum visto dall'alto...
Un pezzo di slum visto dall'alto (foto di Vince Cammarata)
Nairobi, capitale del Kenya, è una città di più di tre milioni di abitanti: più di un milione di questi vivono in slum, baraccopoli e bidonville. Kibera, un’area situata a sud della metropoli, è il più grande slum dell’Africa, popolato da circa 700mila persone. Il progetto “Ciak! Kibera” si concretizza in una serie di workshop dedicati all’arte, alla musica, alla comunicazione e alle tecnologie multimediali e si rivolge a un gruppo di giovani residenti nelle periferie della capitale.
Alcuni degli alunni che partecipano al lavoro sono ex bambini di strada che hanno intrapreso un percorso di recupero e di reinserimento. Il lavoro si svolge in gran parte presso il centro di Kivuli, fondato nel 1997 dalle associazioni "gemelle" Koinonia basata in Kenya e l'italiana Amani. Kivuli, che in kiswahili significa "ombra", rifugio, accoglie bambini con un passato di vita sulla strada, cerca di reinserirli nelle famiglie da cui provengono con progettti che aiutano la famiglia a rialzarsi. E' una casa per gli ex bambini di strada, un centro di riferimento sanitario per lo slum di Kabiria, un pozzo di acqua potabile al servizio della comunità e ospita laboratori artigiani in cui lavorano anche alcuni rifugiati rwandesi scampati al genocidio.
Uno scorcio della Kabiria road a...
Uno scorcio della Kabiria road a Nairobi (foto di Vince Cammarata)
"Con questo progetto - spiega Emiliana Sabiu, fondatrice di Cherimus, laureata a Pavia ed ex studentessa del Collegio Universitario Santa Caterina - vogliamo allontanarci il più possibile dai cliché legati alla povertà e all’Africa, attraverso l’arte vogliamo esaltare i talenti ed evidenziare le potenzialità che questa città e i giovani con cui stiamo lavorando sanno esprimere.”
L'arte è il terreno di scambio, di comunicazione. “Stiamo lavorando - racconta Guido Bosticco di Epoché, docente di scrittura all’ Università di Pavia - con un gruppo di giovani di età molto diverse, dai 14 ai 27 anni, molti di essi vengono da esperienze di vita difficili. Alcuni sono studenti, altri hanno già una professione, anche nel mondo dell’arte e della comunicazione. Abbiamo impostato un lavoro differenziato che ha messo in luce il loro impegno e i loro interessi".
I ragazzi al lavoro (foto di Vince...
I ragazzi al lavoro (foto di Vince Cammarata)
"Sono tutti giovani che, nonostante le sfide affrontate, hanno un’eccellente formazione scolastica - prosegue Bosticco - e non hanno bisogno di altri stimoli, ma cercano un modo per incanalare la loro creatività e con il nostro lavoro cerchiamo di dare loro strumenti per farlo. Il nostro gruppo di lavoro è composto da artisti visuali, un regista, un fotografo e un musicista e il cortometraggio che stiamo producendo è un’occasione per trasferire competenze, dalla scrittura, alla realizzazione di un video, fino alla creazione di una colonna sonora. Una cosa è certa sin da ora, la formazione è reciproca poiché il lavoro che stiamo svolgendo è partecipativo ed è fonte per noi di grande ispirazione e di conoscenza sulla realtà di questa città dinamica e vivacissima”.Ieri era la Giornata internazionale dei bambini di strada e Amani e Koinonia hanno organizzato un momento di giochi e gare dedicate ai bambini e alle bambine delle comunità, Kivuli, Ndugu Mdogo e Casa di Anita che ormai la strada l'hanno abbandonata, e quelli che ancora vivono nelle varie "basi" nelle baraccopoli.Tornei di calcio, atletica, sfide e giochi perché ogni bimbo ha diritto a essere bambino, almeno una volta all'anno. Per l'intera giornata il team pavese ha gestito la pagina Facebook di Amani raccontando in diretta la giornata.