della polemica ed delle accuse di banalizzazione della shoah ed olocausto che ha creato questo video
"Un giorno ci hanno detto di andare alle docce, mia madre ed io ci tenevano per mano". Ragazze dai volti truccati per renderli pallidi, sofferenti, raccontano attimi di vita nei campi di concentramento come se camminassero in quei luoghi da incubo, come se fossero loro giovani ebrei vittime delle persercuzioni dei nazisti."Sono morta nelle camere a gas", recita un'altra dalla maglietta bianca come il volto.
E' l'ultimo trend dei video di TikTok, la piattaforma amata dai giovanissimi della generazione Z\ millenians cresciuti col telefonino in mano e social come via di comunicazione di vita, pensieri.
<< Omaggio, ricordo, esibizionismo ? >> --- si chiede la repubblica del 16\9\2020 in questo articolo ---- << Quella che è diventata una mania, una gara, una sfida spinta all'estremo divide, raccoglie critiche, commenti pieni di dubbi da parte di psicanalisti e psicologi che parlano di pornografia del dolore, di una ricerca senza limiti in cerca di popolarità. E una condanna dagli storici, da chi lo sterminio l'ha vissuto, subito. Il Memoriale di Auschwitz si è espresso negativamente ritenendo questa tipologia di messaggi dannosa e offensiva:“Alcuni video sono pericolosamente vicini o hanno già superato la linea di trivializzazione della storia.” Tanto che TikTok ha disattivato l’hashtag #HolocaustChallenge. [....] Volevo condividere la storia di mia nonna ebrea per far arrivare la tragedia dei campi a tutti e diffondere consapevolezza”, dice una di loro. Parole che fanno pensare. Per questo il fenomeno è ancora più difficile da capire, da analizzare, per stabilire dove supera il confine dell'omaggio, della memoria, per diventare sensazionalismo.>> Capisco ma allo Non capisco , come ho scritto nel titolo la comunità ebraica . Capisco la tristezza quando dice sempre su repubblica
Di Segni: "Ma la Memoria non è uno show"
La convinzione degli esperti è che difficilmente brevi filmati di TikTok possano esperimere drammi così complessi e diventare un omaggio alle vittime della Shoah. "Noi abbiamo la sfida di creare un progetto della Memoria per giovani ma dobbiamo evitare banalizzazione, spettacolarizzazione. Ci vuole complessita, profondità, nozioni ed emozioni. Tutte cose che non si possono elaborare in un micro video. E' vero che questo è il linguaggio dei ragazzi, dei nativi digitali, ma bisogna evitare che si appiattisca tutto in un'emozione che dura solo tre secondi, che poi si spegne", dice Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche.
Infatti
corriere della sera 16 settembre 2020
Non capisco però questa arretratezza \ chiusura verso i nuovi media . Infatti invece proponessero soluzioni innovative e non le solite ( documentari , testimonianze , ecc ) , che vengono viste dalla maggior parte dei giovani come noiose ed antiquate e disertate . IL giorno La settimana dell'olocausto ero in giro per commissioni , ed ho sentito dei ragazzi delle superiori ( non ricordo se del biennio o triennio ) che avevano fatto sega alla scuola una dice alla zia o conoscente della famiglia giustificando il non essere a scuola << oggi ci siamo evitati la palla dell'olocausto . >> e l'altro ( quasi ridendo << già abbiamo evitato una lezione di anticaglie >> . Poi io ero arrivato a destinazione e gli ho persi di vista e quindi non ho sentito l'eventuale palliatone \ cazziatone della persona adulta nei loro confronti .
Allora come se n'esce ? come spiegarla alle nuove generazioni allora senza cadere nel nozionismo e nella retorica ? allora come dobbiamo raccontarla e spiegarla alle nuove generazioni ? Riporto qui , lasciando a voi capire da che parte sto, una discussione con le stesse domande commentando tale articolo prima citato sul gruppo facebook Storia moderna e contemporanea. Spunti e riflessioni
come spiegarla alle nuove generazioni allora senza cadere nel nozionismo e nella retorica ? allora come dobbiamo raccontarla e spiegarla alle nuove generazioni ?
si possono far vedere film, documentari, fare incontri con i pochi superstiti che sono ancora in vita, leggere testimonianze ma non fare video su tick tock. Mi sembra una parodia irrispettosa di chi ha sofferto davvero.
se non ci si adatta ai nuovi mezzi di comunicazione i messaggi non arrivano .. se anche la politica si fa sui social anche certi messaggi Devono passarci
Ma se al momento la comunicazione passa attraverso questo, e se fa conoscere la tragedia e l’importanza della cosa, non capisco perché non debba andare bene.
Sarebbe anzi bello se poi si chiedesse loro di approfondire la cosa. In fondo pezzi per il teatro se ne sono sempre fatti sull’argomento e non mi sembra che nessuno di loro lo abbia preso come un gioco.
si figuri. Non capisco perché c’è gente ferma al passato e rifiuta il fatto che comunque gli strumenti tecnologici attuali non sono per forza “il male”. È cambiato il mezzo di comunicazione e di apprendimento. Con un telefono in mano puoi, con le giuste indicazioni, praticamente accedere a tutto il sapere possibile. Insegnamo ai giovani ad utilizzare quello che hanno a disposizione al meglio possibile!
Se fossi un professore darei come compito di fare post intelligenti su Instagram
Insulti a candidata Lega. “Zingara…rumena, leghista con la merda nel cervello"
Travolta da insulti razzisti. Aylin, 20anni, studia, è figlia di romeni, intelligente e bella da togliere il fiato. La colpa? Si candida con la Lega. Intervista
“Rumena e leghista. Un giorno qualcheduno andrà a spiegare cosa c’è nel cervello di certa gente oltre la merda”, scrive sullo stesso social network Luc.Aofficial.
In Italia gli insulti razzisti ad una donna sono consentiti se colpiscono una candidata leghista. Non ci sono autorità o paladini del gentil sesso che intervengano a strapparsi le vesti, come invece accade sempre. E siamo anche al salto mortale carpiato: gli antileghisti usano un linguaggio razzista, violento e sessista per attaccare una candidata della Lega, partito tacciato di essere razzista.
E’ la storia di Aylin Nica, giovane studentessa di economia e marketing internazionale. Da quando ha 9 anni vive a Vignola in provincia di Modena, lì studia, dà una mano alla madre nel bar di famiglia e per passione ogni tanto posa come modella (è bella da togliere il fiato). La sua aspirazione però non è sfilare ma candidarsi al consiglio comunale ed essere un punto di riferimento per la sua comunità di giovani, italiani di prima, seconda e terza generazione. La colpa? Farlo con la Lega perché nata in Turchia, figlia di genitori romeni e italiana di adozione.
Infatti la candidatura è stata immediatamente accolta su Instagram con le offese che avete letto o con frasi più prosaiche come: “…bel culo”.
La ventenne ha presentato la sua candidatura con un video: “Sono candidata al Comune di Vignola e non c’è stato bisogno dello Ius soli”, dove motiva perché vuole dare una mano. Per farlo non c’è bisogno dall’approvazione dello Ius soli, la legge che dà l'acquisizione della cittadinanza a chi è nato su quel territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori.“Un figlio di extracomunitari iscritto a rappresentare la Lega, capisci che c’è da vergognarsi quando ti dimentichi chi sei. Non aggiungo altro”, reagisce un utente. Un altro ancora la attacca così: “Per un po' di immagine ti sei venduta al partito che odiano le persone come i tuoi genitori che si sono trasferiti altrove per vivere meglio”. Ma la ragazza ha ricevuto anche commenti di sostegno di molti utenti che la esortano a non demordere.Dopo le offese l’abbiamo contattata. Già dalla voce sottile da canarino Aylin sembra contraddire l’identikit che si attribuisce alle classiche candidate di centro-destra. [.... ] l'articolo seque qui
Ecco la sua reazione
Mi conoscete. Sono Aylin.
Una ragazza che crede ancora nella forza delle idee e dei valori.Quelle idee e quei valori che contraddistinguono l’unicità dell’individuo e che permettono al nostro animo più intimo ed etico di realizzarsi nel corso di una vita intera, una vita fatta di esperienze e percorsi di crescita, successi e fallimenti, dove dedizione, serietà, determinazione e correttezza sono senz’altro necessarie per rapporti maturi, civili e adulti: quelli di cui la società di oggi ha bisogno.Perché è quello che purtroppo tutt’ora manca, alla nostra società, e soprattutto ai più giovani, coloro che un domani si troveranno a raccogliere e ad affrontare le sfide più importanti del solo e unico futuro del genere umano.In questi giorni, ho avuto modo di constatare in prima persona quanto sia diffuso e superficiale l’odio profuso da certe persone nei confronti del libero arbitrio. Proprio così, nel paese in cui pensavo di trovare un consolidato pluralismo politico e una sostanziale tutela delle diversità, mi sono invece ritrovata vittima di offese e attacchi personali solo perché donna, giovane e inesperta, solo perché ho un pensiero politico autonomo grazie al quale ho deciso di mettermi a disposizione della mia comunità per contribuire al rilancio della mia città e al benessere di chi mi circonda.Ho avuto la conferma di come sia ormai diffusa la “logica del branco” che tanto affascina i personaggi che hanno deciso di scagliare la loro rabbia e il loro odio verso la mia figura, comprendendo che certe persone prediligano l’assenza di dialogo e confronto per non uscire dalle loro convinzioni, per non mettersi in discussione ed affrontare in modo informato una profonda conversazione a sfondo politico.[...] Per questo, oltre a ringraziare profondamente tutte le persone che hanno deciso di esprimermi la loro vicinanza e le persone che, anche con idee politiche divergenti alle mie, hanno avuto un confronto educato e paritario, scrivo qui, oggi, per rinnovare un speranzoso messaggio di pace ed evoluzione, fondato sull’informazione, la cultura, il rispetto e l’EDUCAZIONE: quello che probabilmente manca alle persone che non sono riuscite a comprendere il messaggio che volevo trasmettere.Sono questi i motivi che mi hanno spinta a scegliere, assieme a tanti altri giovani di mettermi in gioco con buonsenso, entusiasmo e senso civico. Non sarà l’ignoranza di alcuni a fermare la forza delle idee di chi vuole un paese migliore.
Ora voi che mi seguite sapete che culturalmente contro la lega e considero Salvini politicamente un cazzaro , o la candidatura dei nuovi italiani ( come Aylin Nica ) o gli immigrati presenti i italia da più anni che si candidano contro coloro gli riempono di .... non mi piace ed lo critico , ma da li ad arrivare agli insulti anche personali , razzisti e sessisti ( perchè tali pratiche sono presenti da ambe le parti politico \ culturali ) . Come
Si che sia frequente come dicono a destra che sia solo un caso come dicono a sinistra ciò non giustifica, il deprecabile e da condannare, il metodo di aggressione sessista e maschilista lo stesso adottato sistematicamente dalla macchina del fango leghista e company contro ogni esponente femminile, politica o meno, che opponga una critica al capo della lega. Da Boldrini a Fornero alla Kyenge, da Silvia Romano ad Elodie fino alla Azzolina e Bellanova .
Conlcudo con quanto dice un mio amico di centro destra
Siniscola, un padre e un figlio uniti da un tatuaggio
Il piccolo ha una malattia che gli provoca lividi: Marco Dalu se li è fatti tatuare per non farlo sentire solo
SINISCOLA. Ci sono diversi modi per incidere sulla propria pelle l’amore che si prova per una persona. Marco Dalu, giovane siniscolese commerciante in un negozio di mobili, ne ha scelto uno per condividere con suo figlio una grande forza di volontà che si manifesta, giorno dopo giorno, da quasi quattro anni. «Ma non sono un eroe – sostiene Marco –, io non ho nulla in più rispetto a mio padre o agli altri padri che si alzano presto e che si spaccano la schiena per l’amore e per il futuro dei loro figli. Eroe è mio figlio, un combattente fin dai suoi primi giorni di vita. Ed eroica è Tiziana, la madre, che non lo ha mai lasciato solo». Il bambino ha lividi sul corpo: la rarissima patologia emorragica che porta con sé (Tromboastenia di Glanzmann) è dovuta a un malfunzionamento delle piastrine che, non riuscendo a formare gli aggregati, non fermano il sangue durante le emorragie. <br/><br/>I lividi di Marco, il padre, invece, sono tatuati. Un vero e proprio atto d’amore per non lasciare solo il figlio in un momento particolare della sua vita in cui comincia ad accorgersi degli sguardi delle altre persone su di sé. L’uomo (classe 1983) non esita a definirsi una persona timida. «Lo sono sempre stato, fin da piccolo. Esitavo ad alzare il braccio a scuola anche se ero in grado di rispondere a una domanda improvvisa dell’insegnante». Il suo gesto d’amore, quindi, doveva rimare privato. E così è stato fino a quando lui e la moglie (Tiziana Manca è dell’82 e a Siniscola fa l’artigiana in un laboratorio per la produzione di bottarga) non si sono messi in contatto con l’osservatorio “Omar” sulle malattie rare, con lo scopo di scambiare opinioni con altre persone che convivono con la stessa patologia. «Rimango il timido che sono, ma qui c’è in ballo il futuro del mio bambino. Da quando abbiamo fatto conoscere la sua storia e i miei tatuaggi abbiamo ricevuto tanti messaggi dall’Italia e dall’estero da parte di altre persone colpite da questa patologia rara».«Finché mio figlio era piccolino, io e Tiziana eravamo gli unici a percepire gli sguardi delle altre persone. Crescendo ha cominciato a percepirli pure lui. Si sente diverso dagli amichetti che, seppure senza cattiveria, possono fare qualche domanda che lo mette a disagio. Molte volte si nasconde e si copre i lividi con le manine». Da qui l’idea, sofferta, di questi particolari tatuaggi paterni. «Quando stavo per varcare lo studio avevo una paura tremenda. Quando poi ho visto i tatuaggi mi è venuta voglia di piangere. Ma quando sono rientrato a casa e Tiziana si è rivolta a lui dicendogli che “Anche babbo è così”, lui si è messo a ridere». Nella vita, dice Marco Dalu, «ci sono cose belle e cose giuste. Io ho dovuto fare una cosa giusta, ma la guerra non è finita. A mio figlio dovrò insegnare ad affrontare la vita e questa patologia. Diversamente il mio gesto rimarrà un simbolo e io avrò fallito la sfida. Ma insieme la vinceremo».
sempre sulla nuova
La storia del bambino di Siniscola, nel riprendere la narrazione del combattente fatta dal padre (portatore sano della malattia), è quella di una battaglia ingaggiata fin dai primi giorni di vita, quattro anni fa. A iniziare dall’emorragia cerebrale che costrinse i medici di rianimazione neonatale ad intubarlo. I lividi andarono via via scomparendo dopo un mese di incubatrice e il bambino riacquistò la facoltà di respirare da solo. Ma poi le ecchimosi
ricomparvero e per la famiglia Dalu-Manca erano necessari nuovi viaggi, a Nuoro prima e al Microcitemico di Cagliari dopo. Il bambino ha di continuo lividi sul corpo: la rarissima patologia emorragica di cui soffre (Tromboastenia di Glanzmann) è dovuta a un malfunzionamento delle piastrine che non riuscendo a formare gli aggregati, non fermano il sangue durante le emorragie.
Bouba Diang: «Ciao cari sassaresi, qui lascio il cuore»
Da vent’anni in città ora ritorna in Senegal dalla sua famiglia e con una nuova attività
DI ANDREA MASSIDDA NUOVA SARDEGNA DEL 14 SETTEMBRE 2020 SASSARI. Nero e spaventoso è il mare quando di notte la nave oscilla tra le onde e le luci del porto ormai non si vedono più. Nero e malinconico è il soffitto della stanza quando rimani sveglio a fissarlo pensando alla tua famiglia che è lontana migliaia di chilometri. Ma neri e sognanti sono anche gli occhi di Bouba Dieng, originario del Senegal, quando sorseggiando una coca cola in un bar di via Oriani racconta del giorno in cui, vent’anni fa, senza un centesimo in tasca, per la prima volta mise piede a Sassari in cerca di fortuna.</p><p>E rivela che il 29 ottobre salirà su un aereo diretto in Africa, dove è atteso da una moglie e ben cinque figli per avviare insieme a loro la sua nuova attività di allevatore di polli. Il nome dell’azienda è impresso su un biglietto da visita fresco di stampa: “Lu Sassaresu”. Già, perché lui in questa città in cui giunse da clandestino preferendola a Parigi con un regolare permesso di soggiorno, presto ci lascerà il cuore e centinaia di persone che gli vogliono bene. «Sassari – dice Bouba, che ha appena compiuto 54 anni – mi ha regalato amicizie, sorrisi e tante mani tese nei momenti meno felici. È diventata la mia seconda casa e i sassaresi la mia seconda famiglia. Ma tutte le avventure, anche le più belle, hanno un termine. E adesso è proprio arrivato il momento di riabbracciare i miei figli: voglio viverli giorno dopo giorno e cominciare un nuovo capitolo della mia vita».<b>L’arrivo.</b> Questa storia di straordinaria integrazione comincia nell’autunno del 2000. Bouba in Francia non vuol restare: nella banlieue parigina il clima è caldissimo ma soltanto a livello sociale, per il resto fa un freddo cane. E le cose cambiano poco o niente quando riesce a passare la frontiera per arrivare più a sud, in Italia, precisamente a Bergamo: gelo insopportabile, anche nei rapporti umani. Così, seguendo un consiglio di un amico, il 26 novembre decide di imbarcarsi su un traghetto per Porto Torres. «Se ripenso a quella traversata mi vengono i brividi – ricorda –, non ero mai salito su una nave, c’era il mare mosso e passai la notte a vomitare. Poi quando arrivammo a terra, vedendo il paesaggio mediterraneo e la pelle olivastra della gente, mi venne il dubbio di essere sbarcato nel Maghreb». Pochi istanti dopo, ecco il primo incontro, quasi rivelatore del lato accogliente che poi Bouba avrebbe ritrovato in molti sardi. «Ero sfinito e avevo fame – racconta ancora – ma poco prima di prendere l’autobus per Sassari mi si avvicinò un vecchietto dicendo: “Tu devi essere un nuovo arrivato, vieni al bar che ti offro un the caldo e qualche croissant”. Capii che questo luogo era diverso dagli altri».Il primo lavoro.</b> Con il sostegno della comunità senegalese Bouba trova un alloggio e comincia a darsi da fare per guadagnarsi da vivere e mandare a casa – cioè a Saint-Louis, la vecchia capitale del Senegal – almeno il 60 per cento dei soldi che riesce a racimolare come venditore ambulante: «Ho iniziato quasi per caso in un giorno di pioggia. Ero in viale Italia sotto un improvviso diluviare. Nel giro di pochi minuti i miei amici mi fecero avere un grappolo di ombrelli e un consiglio prezioso: “Sii gentile con tutte le persone, saluta sempre dicendo buongiorno e ringrazia”». Poi, pian piano, allestisce un punto vendita stabile con merce varia all’ingresso del supermercato di via Gramsci, allora Multimarket. «Ancora una volta rimasi stupefatto dalla cordialità dei sassaresi – rimarca Bouba –. Signor Ugo (il mitico Ugo Multineddu, titolare del market invece di cacciarmi o di essere infastidito dalla mia presenza, fu sempre gentilissimo, al punto che ogni sera mi evitava una sfacchinata pazzesca consentendomi di parcheggiare la merce in un angolo del suo locale. Una gran bella persona e un imprenditore geniale». amici. Con il passare del tempo, questo ragazzone di colore sempre sorridente e di buonumore diventa per molti clienti del market una figura familiare. «È lì che ho conosciuto e fatto amicizia con un sacco di sassaresi e quel saluto “ebbè Bubba”, con il suono quasi africano, mi rimarrà sempre dentro. Ho molte persone a cui essere grato – continua –, così tante che sarebbe impossibile citarle tutte: ma in particolare tengo a ricordare Anna Parisi e il marito Gianfranco Pischedda, a casa dei quali passai il mio primo Natale, e la famiglia Vanacore, che mi assunse con un vero contratto nel loro negozio di lampadine».L’arrivederci. Ma allora, viene da chiedersi, qual è il segreto per integrarsi così bene in un ambiente nuovo? Bouba non ha dubbi: «Quando arrivi a casa degli altri o in un Paese che ti ospita – dice –, devi comportarti con il massimo rispetto. E se c’è chi inizialmente si mostra ostile, mi è capitato, devi restare sereno, senza forzare i tempi ma anzi facendo di tutto per creare empatia. Non posso dimenticare la frase di mio padre, che in Senegal faceva il medico, anche se lì i medici guadagnano molto poco. Diceva: “Se parti in cerca di fortuna, dimentica la fortuna e pensa a farti amici sinceri”».Gli stessi amici sassaresi che adesso lo stanno aiutando con una colletta ad acquistare un’incubatrice, uno spennatore e un piccolo gruppo elettrogeno, strumenti indispensabili per la sua prossima attività di allevatore di polli. Gli stessi amici che sperano di riaccoglierlo nella loro casa in Sardegna, ma una volta tanto in vacanza e con l’intera famiglia.
DI MARIALAURA IAZZETTI espresso 14 settembre 2020
Dopo aver attraversato tra mille sofferenze il deserto e il mare per venire in Italia, ha deciso che la sua missione era evitare lo stesso destino agli altri. E ha iniziato a costruire un'alternativa coltivando un orto
Chi nasce e vive a Tambacounda ha un unico sogno: raggiungere l’Europa. Dal Senegal, alla Libia. Dalla Libia, all’Italia. Il grande viaggio: seimila chilometri. Le speranze sono tante, forse troppe. I rischi non vengono presi in considerazione. La povertà fa più paura. A Tambacounda non esiste l’elettricità. I villaggi sono insediamenti rurali con piccole capanne. Il fango copre i campi da calcio improvvisati dove i ragazzi trascorrono le giornate. Tambacounda è uno dei territori più arretrati del Senegal, dorso occidentale dell’Africa subsahariana, a ovest confina con il Gambia, a est con il Mali. «L’Europa è il nostro paradiso. Qui non ci sono prospettive future. Viviamo ingannando il tempo». La voce di Seny è ferma. Non sembra avere 28 anni. È partito quando ne aveva 20. È tornato nel 2016. «Ma non dobbiamo scappare. Dobbiamo lottare». Seny infatti ha deciso di lasciare l’Italia e di tornare a casa. Per una scommessa: garantire un futuro ai suoi coetanei e a chi ancora vuole fuggire. «Insieme all’associazione Don Bosco, stiamo costruendo orti nei villaggi di Tambacounda. Insegniamo ai ragazzi come poter coltivare la terra, come prendersi cura della propria famiglia senza dover tentare la fortuna in Europa». Fino a ora Seny ha coordinato e seguito la progettazione di cinque orti. In tutto è riuscito a coinvolgere una trentina di persone: donne, uomini, ragazzi. Chiunque voglia contribuire alla rinascita di una regione abbandonata all’attenzione delle associazioni di volontariato. L’obiettivo è far in modo che il paese sviluppi una propria economia, anche se di semplice sussistenza. «Non possiamo più contare soltanto sui soldi che i migranti spediscono ogni mese ai propri familiari», spiega Seny.Si parte per se stessi e per chi rimane. Molti senegalesi riescono a comprare beni di prima necessità grazie ai guadagni di chi ha attraversato il Mediterraneo. Nel 2017 dall’Europa sono stati spediti quasi 2 miliardi di euro: il 13,7 percento del Pil del paese. Più di 300 milioni provenivano dall’Italia. Rispetto agli altri Stati africani, nonostante le guerriglie tra le forze locali, il Senegal è uno dei territori più stabili a livello politico ed economico. «Il problema è che tutti gli investimenti gravitano intorno alle città; i villaggi come Tambacounda, essendo lontani dal centro e poco sviluppati, non vengono presi in considerazione», accusa Seny. Nelle zone rurali due abitanti su tre vivono in povertà; a Dakar, la capitale del Paese, uno su quattro. Pochi ragazzi, in campagna, frequentano la scuola; molti, spinti anche dalle famiglie, si affidano agli istituti coranici dove imparano solo a pregare e a chiedere l’elemosina. Nelle regioni più arretrate il 90 per cento dei bambini viene utilizzato come forza lavoro. E non è cambiato molto da quando, nel 2012, le elezioni presidenziali sono state vinte dal democratico Macky Sall. Riconfermato un anno fa, il 57enne geologo ha promesso di aumentare le infrastrutture e di migliorare le condizioni lavorative. Ha sempre detto di volersi distinguere dal suo predecessore, Abdoulaye Wade, che negli ultimi anni aveva avviato una gestione clientelare dello Stato a beneficio di familiari e conoscenti. Nel 2016 Sall ha indetto un referendum per ridurre il mandato presidenziale da sette a cinque anni. In molti continuano a sperare che durante la sua amministrazione il Senegal possa stabilizzarsi e crescere. Seny è convinto che «la chiave sia cominciare dalle piccole iniziative: un passo alla volta». Prima di iniziare a costruire orti in giro per Tambacounda, viaggiava per le scuole del paese raccontando ai giovani quanto fosse pericoloso e difficile il viaggio per l’Europa. Qui, a seimila chilometri di distanza dalle molteplici notizie di naufraghi e dispersi, la percezione di cosa succede in Libia e nel Mediterraneo è molto più labile: «Le persone non si rendono conto». Seny era andato via dal Senegal perché non voleva sottostare ai dettami che la sua famiglia desiderava imporgli. «Io quella donna non l’amavo», spiega. Ha racimolato un po’ di soldi ed è partito per la Libia. «Conoscevo un amico che lavorava lì». Ha trascorso con lui alcuni mesi. Poi è dovuto scappare: «Un gruppo di banditi ha distrutto il negozio del mio amico. Lui è morto durante la rapina, io sono riuscito a nascondermi. Avevo paura, volevo soltanto andare via». È il 2013: il colonnello Gheddafi ha perso il controllo del territorio e Tripoli, nonostante le elezioni libere del 2012, attraversa una guerra civile senza fine. Seny cerca un trafficante che possa aiutarlo a lasciare il paese. Chiede di poter tornare a Tambacounda, nel suo villaggio, ma la tratta dalla Libia al Senegal non esiste. «Potevo soltanto andare in Europa». Seny accetta, paga 500 euro e si imbarca. Attraversa il Mediterraneo. Racconta: «Il viaggio è durato cinque ore. Avevamo un solo gommone, eravamo 97. Una ventina di noi non ce l’hanno fatta. Accanto a me sedevano donne, bambini. È stato tremendo». È sbarcato a Lampedusa. Ricorda il giorno esatto, nonostante la misura del tempo fosse sbiadita: «Il 25 ottobre del 2013». Trascorre un anno e mezzo nel centro di accoglienza di Castellammare del Golfo. Aspetta che la sua richiesta d’asilo sia valutata. Una volta ottenuta la protezione internazionale, viene trasferito ad Aidone. «Qui ho conosciuto l’associazione Don Bosco e ho iniziato una nuova vita. Mi hanno accolto e aiutato». Impara l’italiano, si iscrive a corsi di formazione. «In Senegal avevo frequentato le scuole medie, ma in Italia il mio diploma non era riconosciuto. Me ne sono fatto una ragione e ho ripreso a studiare». Comincia un processo di integrazione che per la maggior parte dei migranti rimane soltanto un miraggio. Dice di essere stato fortunato. «Quando sono andato via dal mio Paese, non avevo idea di che cosa volesse dire chiedere aiuto all’Europa. Pensavo fosse più facile. Non sapevo di non essere il benvenuto. Molte cose le ho scoperte con il tempo, stando qui». In quegli anni arrivavano moltissimi senegalesi nel centro di accoglienza dell’associazione Don Bosco. Mancavano mediatori e traduttori. Seny decide di dare una mano, inizia a fare da interprete. L’associazione Don Bosco decide di assumerlo a tempo indeterminato come mediatore culturale. Seny ottiene un permesso di soggiorno per motivi lavorativi. «Parlavo con le persone, gli spiegavo perché erano lì, cosa dovevano fare. Alcuni erano spaesati», aggiunge. A ogni nuova storia che gli veniva raccontata, si convinceva sempre di più che il problema dell’immigrazione potesse essere risolto soltanto alla radice. «Bisogna dare un’alternativa a chi desidera fuggire», ripete. Questa volta scandisce ogni parola lentamente. Ha paura che la poca connessione e i rumori di sottofondo disturbino la conversazione. Vuole che la semplicità del suo messaggio non venga perduta. L’impegno e la costanza di Seny sono la concreta realizzazione di quell’“aiutiamoli a casa loro” che la politica utilizza per giustificare le inefficienze del sistema d’accoglienza italiano. Poco importa se si tratti di destra o sinistra. «Basterebbe veramente poco: servono fatti non parole», accusa Seny. L’idea di tornare in Senegal per fermare la partenza di migliaia di giovani è nata quasi per caso. «Mi hanno chiesto: torneresti a casa? Io ho risposto subito di sì, non aspettavo altro». Dall’Italia al Senegal, dal Senegal all’Italia. Seny ha incominciato a viaggiare. Stava un mese o due e poi tornava dai suoi colleghi dell’associazione Don Bosco. Quando ne parla, quasi si commuove: «La prima trasferta è stata nel 2016. Siamo andati a sentire che cosa pensassero gli abitanti di Tambacounda del nostro progetto agricolo. È stato stranissimo rivedere il mio villaggio». Nel 2017 si è trasferito definitivamente in Senegal. «Dopo gli incontri nelle scuole, abbiamo iniziato facendo corsi di formazione per i ragazzi. Ci occupavamo di agricoltura, artigianato, turismo», ricorda. Poi è arrivato il primo orto, a Wassadou. «Abbiamo scelto questo villaggio perché da qui partono moltissimi migranti. Volevamo dare un segnale». L’orto si estende su un terreno di un ettaro. Per la sua costruzione, sono stati installati tre pannelli solari che garantiscono l’irrigazione a goccia ed è stato scavato un nuovo pozzo. «Riusciamo ad avere un buon raccolto soltanto durante la stagione delle piogge, che dura più o meno tre mesi. Durante il resto dell’anno dobbiamo arrangiarci». Vivere arrancando per chi cresce a Tambacounda è la normalità. Seny vorrebbe esportare in queste zone tecniche di coltivazione più sofisticate, in modo da garantire un approvvigionamento continuo. È fiducioso: «Ci vorrà un po’ di tempo, ma ce la faremo. Bisogna sperimentare per crescere. In un altro villaggio abbiamo deciso, per esempio, di non far lavorare nei campi solo cinque o sei persone, ma di coinvolgere tutta la popolazione: la frutta e la verdura sono diventate un bene comune da dividere equamente tra gli abitanti». Su WhatsApp, Seny ha una bellissima immagine del profilo, si intravede una ragazza sorridente. «È mia moglie», commenta. Il matrimonio l’hanno celebrato a Tambacounda. Ora vivono lì, sembrano felici. Seny ha anche ricominciato a parlare con la sua famiglia. È tornato a casa. Come lui, anche altri migranti accolti dall’associazione Don Bosco, stanno facendo la stessa scelta: il grande viaggio, seimila chilometri. Questa volta dall’Italia al Senegal.
questo ottimo articolo di DANIELE MENCARELLI Scrittore sul primo numero del quotidiano nuovo quotidiano Domani uscito oggi che trovate qui https://www.editorialedomani.it/
Il virus vuole darci un pretesto per espellere ciò che non amiamo davvero
Il primo giorno di scuola davanti a un cubo di cemento di comune bruttezza, segno concreto che il Covid-19 è devastante quando si abbatte su crisi già in atto. Cronaca di una mattina fra drammi, distanziamenti, TikTok e racconti d’estate, perché va bene la pandemia, ma il mare è il mare
Il primo giorno di scuola davanti a un cubo di cemento di comune bruttezza, segno concreto che il Covid-19 è devastante quando si abbatte su crisi già in atto. Cronaca di una mattina fra drammi, distanziamenti, TikTok e racconti d’estate, perché va bene la pandemia, ma il mare è il mareIl primo giorno di scuola davanti a un cubo di cemento di comune bruttezza, segno concreto che il Covid-19 è devastante quando si abbatte su crisi già in atto. Cronaca di una mattina fra drammi, distanziamenti, TikTok e racconti d’estate, perché va bene la pandemia, ma il mare è il mare","articleBody":"La ragazzina parla al telefono, non lo tiene all’orecchio ma davanti al viso. «Nun puoi capire. Quattro ore de mascherina, ricreazione seduti, se devi anna’ al bagno te guardano tutti male, dai professori ai bidelli». La scuola è ufficialmente cominciata, in convivenza forzata con il Covid-19, le chiacchiere lasciano il posto alla pratica della realtà, regina, sempre. Il plesso scolastico sta a sud di Roma. Un istituto comprensivo come tanti sparsi sul nostro territorio, dall’asilo alle scuole medie. Sono le 12, all’entrata si mischiano vite e desideri, richieste e preoccupazioni. Una masnada di genitori in fitto conciliabolo, alla faccia del distanziamento, voci che si parlano sopra, un coro stonato che mastica rabbia. La vita dei figli ricade su quella dei genitori. Ogni famiglia è un incastro di bisogni primari e altri assolutamente secondari, se non inutili, ma oramai tutti noi abbiamo agende che sprizzano impegni, e la scuola non è più quello centrale, fondamentale, per i nostri figli, ma uno dei tanti. Da un’altra parte i ragazzi, a raccontare dell’estate aggredita dal Covid, pure lei, ma il mare è il mare, due ragazzine si abbracciano unite dalla nostalgia in suo ricordo, anche loro, alla faccia del distanziamento. Con la maglietta della Roma, biondo, quasi bianco, si allontana a tutta velocità un ragazzino delle medie, è stanco, sudato. Ha la mascherina infilata all’altezza dell’avambraccio. «Com’è stare a scuola con la mascherina?» Lui non si aspettava una domanda da uno sconosciuto, mi studia da testa a piedi. «Com’è? È n’ammazzata. Ecco com’è. Nun se respira, se devi parla’ te manca il fiato, se t’avvicini a n’amico la prof te strilla. Il peggio poi è a ricreazione, la famo scaglionata, ma devi sta’ seduto e con la mascherina comunque, se c’hai il telefono puoi usa’ quello. Basta». Si ravvia i capelli tagliati di fresco, rasati ai lati, un ciuffo lunghissimo sulla fronte. «Con tutte le regole che hanno messo per il Covid come ti trovi?». Il ragazzino mette su una faccia da adulto, improvvisa quanto credibile. «Io so’ albanese, cioè io so’ nato qui, ma mamma e papà no. Il problema è loro più che mio. Perché mamma e papà lavorano in nero, e so’ preoccupati perché se me viene anche solo un raffreddore non me possono porta’ a scuola e non sanno dove lasciamme, invece prima me portavano anche con la febbre, me mettevano la Tachipirina e me portavano». In me, istantaneamente, si affaccia il genitore con due figli in età scolare, il piccolo borghese educato in un certo modo. «Però se ci pensi anche quello che facevano i tuoi genitori non è giusto, per gli altri bambini, se uno sta male deve stare a casa, altrimenti rischia di ammalare tutti». Lui inizia ad annuire meccanicamente, ma senza grande convinzione. «È vero». Poi mi assesta uno sguardo che vale un trattato di sociologia. In un lampo mi dice che la verità, la giustizia, sono valori altissimi e non meno condivisibili, ma spesso permetterseli non è possibile. Intanto, con una capacità che mi fa rodere d’invidia, scrive a due mani sullo smartphone, a velocità impensabile, almeno per me nato analogico. «Qual è la materia che ti fa soffrire di più?». Ora è prostrazione allo stato puro. «Matematica. Ma tu me spieghi a che serve? Ormai ci stanno i telefonini, se devo fa’ un conto apro la calcolatrice e via». Anche in questo caso vorrei rispondere dal mio punto di vista, ma rinuncio, anche perché smontare la sua convinzione rischierebbe di portarci altrove. «Mi dici una cosa? La pandemia dei mesi scorsi, questo anno scolastico che inizia con le mascherine e tutto il resto, tu come lo hai vissuto? Come lo vivi?». L’interrogato incrocia le braccia. Riordina i pensieri. «Bellissimo all’inizio, schifoso dopo, e adesso. Sta’ a casa il primo mese m’è piaciuto, ma poi me so’ mancati gli amici, il pallone, ho giocato a Fortnite tutto il tempo, ma alla fine me rompevo, e poi i miei so’ stati senza lavoro. Mio padre bestemmiava tutto il tempo. Mamma uguale». Vorrei chiedergli tante altre cose ma temo di approfittarmi del suo tempo, lo saluto, lui fa altrettanto, si allontana da me correndo. Alla sua età non si cammina, si vola. Ho per un secondo l’istinto di richiamarlo, abbiamo parlato senza nemmeno dirci i nomi. Un senso di colpa mi intristisce di colpo, gli ho fatto tante domande senza partire da quella più importante, come si chiama. «Se ti dico che è pazza, fidati» «Questi so’ tutti matti, ma matti veramente». Non posso dar fondo al senso di colpa per come vorrei, attratto dalle parole di un uomo in divisa da guardia giurata che scende le scale dell’ingresso, guadagna l’uscita passandomi proprio a fianco. «Problemi?». Avrà una trentina d’anni, alla vita la fondina con la pistola. Anche lui è sudato, balla dal nervosismo. «Ho chiesto informazioni sulla mensa, se già ce so i blocchetti dei buoni pasto, io c’ho mi fija celiaca. Nun m’hanno saputo risponne. Però m’hanno detto che i ragazzini piccoli dovrebbero pranza’ alle undici e mezza, perché devono fa’ diversi turni, dai piccoli ai grandi. Ma puoi fa’ pranza’ un ragazzino alle undici e mezza? E fino alle quattro de pomeriggio come c’ariva?». La guardia giurata è meno disponibile, e senz’altro più imbufalita, del ragazzino di prima. Poco lontano da me, in capannello stretto stretto, quattro signore di diversa età. Non ci vuole particolare ingegno per capire che si tratta di professoresse. Mi avvicino, cercando il più possibile di non dare nell’occhio. «Se ti dico che è pazza, fidati, secondo lei noi riusciamo veramente a tenere fermi ventisette ragazzini di 12 anni, con mascherina e distanziamento, con tre Dsa e una 104?». Le prof si accorgono di me, immediatamente smettono di parlare. Il capannello, per colpa mia, si scioglie dopo un breve saluto. Ora, a parte me, non c’è più nessuno. L’entrata della scuola è visitata solo dal sole e dalle cicale, a rammentare che l’estate ancora non è morta. Dal portone d’ingresso, poi su di piano in piano, resto a fissare questo cubo di cemento vecchio di una quarantina d’anni. Gli anni che ci siamo lasciati alle spalle, soprattutto i decenni che vanno dai Sessanta alla fine del Novecento, hanno prodotto brutture che dovrebbero essere rasate al suolo. Semplicemente. Nel nostro paese la categoria del brutto è nata dal secondo dopoguerra in poi. Prima del Covid, ci abbiamo pensato noi a sprofondare in luoghi, scuole come questa. Dove la bellezza non sembra necessaria al benessere del singolo individuo, poi della collettività. Questa pandemia maledetta aggiunge abbruttimento su abbruttimento, traccia in maniera spietata le differenze, le possibilità degli uni contro le difficoltà materiali degli altri. È la decima piaga che si abbatte su un paese massacrato di suo. E come ogni piaga che si rispetti accresce le distanze, protegge quelli che hanno e condanna tutti gli altri. Il Covid è la somma degli addendi, rischia di trasformarsi in un pretesto meraviglioso per togliere quel poco che tanti hanno strappato alla vita. La maglietta di TikTok Alle mie spalle, un fiato grosso in avvicinamento. «Speriamo che la bidella me fa entra’». La prima ragazzina incontrata, quella che parlava al telefono tenendolo di fronte al viso. Sulla maglietta bianca il logo di TikTok. «Tutto ok?». Anche lei mi scruta, intimorita. «Sì, sì, me so’ scordata l’elenco delle cose che dobbiamo compra’ co’ i miei, ogni anno c’è una lista de materiali». Mi risponde senza fermare la corsa verso l’ingresso della scuola. Di nuovo solo, io e il canto delle cicale. Di fronte a un cubo di cemento armato trasformato in scuola. La ragazzina marchiata TikTok ha avuto successo: mi passa nuovamente di fronte tenendo in pugno un foglio. «Ci sei riuscita». Lei lo sventola neanche fosse un trofeo. «Sì, pe’ fortuna». «Questa scuola con il Covid come ti sembra?». Si mette le mani sui fianchi. «Sinceramente è pesante, il tempo a scuola già non passa, così sembra ancora più lunga, ma quello che me fa soffrire di più è altro, mi’ madre da quando c’è il virus non me manda più dai nonni, dai genitori de papà, perché dice che sono pericolosa per loro, ma loro ormai escono, nonna va al supermercato, lo potevo capì durante il lockdown, ma ora no». Mi saluta con la mano, poi se ne va. Un pretesto meraviglioso. Fare del virus esattamente questo. Non è un rischio che corrono solo i governanti, i capitani d’industria, quelli che volano sopra le nostre teste. Lo corriamo tutti. Trasformare il Covid in una resa dei conti indolore, espellere dalla nostra vita tutto quello che non amiamo veramente facendolo passare per un gesto di cortesia. «Aspetta quarcuno dotto’?». La bidella porta in ogni mano un sacco nero, pieno di carta e altro. Faccio di no con la testa, poi mi dirigo verso il grosso cancello di ferro. Il Covid passerà, se non sarà per questo inverno dovremo aspettare il prossimo. Ma ce lo lasceremo alle spalle. Noi rimarremo. Dentro le nostre scuole, famiglie, vite che cercano forme di resistenza nuova ai mali di sempre. Buona scuola a figli e genitori."
Con questo post verrò considerato più realista del re . Ma tali accuse per me sono un vanto in quando a volte capita che i conservatori siano più progressisti dei progressisti .
Non essendoci niente d'interessante , mi sono messo a sminchionare ho letto sull'aggregatore di news per cellulari newsrepublic questa news de la stampa del 10\9\2020
VICOLUNGO Ormai nelle scuole purtroppo non si fa più ginnastica. Con questa iniziativa stiamo dando il buon esempio. È necessario che i ragazzi pratichino sport». Così Alberto Cirio, presidente della Regione Piemonte, all'inaugurazione del primo «Kinder joy of moving park».Il complesso da 1.700 metri quadrati è un'area giochi per bambini da 5 a 12 anni realizzata all'interno dell'outlet di Vicolungo: rientra nel programma internazionale «Joy of moving», ideato dal gruppo Ferrero con l'obiettivo di avvicinare all'attività motoria bambini e famiglie di tutto il mondo. «L'attenzione allo sport nelle scuole si è perso nel dopoguerra, forse per reazione al periodo fascista - ha riflettuto Cirio -. Durante il ventennio si prestò infatti grande cura per il corpo e lo sport. Investire nell'attività motoria significa anche fare educazione e prevenire una parte della spesa sanitaria»." ragionando sullo spazio concesso all'educazione fisica a scuola. "C'è una necessità nel nostro Paese, quello di far fare la ginnastica nelle scuole. Sono andato a studiarmi perché, è un retaggio del post fascismo. Nel ventennio c'era talmente cura del corpo e attenzione nella scuola per la ginnastica, che quando è caduta la dittatura è quasi stata cancellata".
Dopo le numerose critiche arrivate da più parti (LEGGI l'articolo) Cirio ha poi precisato di essere antifascista e di aver solamente fatto una ricostruzione storica del motivo per cui l'educazione fisica sia oggi così poco incentivata e sostenuta a livello scolastico.
Ora Non essendo un esperto della materia ho chiesto via watzapp un parere ad alcuni amici fra cui il mio ex prof d'educazione fisica alle medie che s'era laureato isef\ istituto superiore di educazione fisica
Purtroppo però, siccome in Italia la ginnastica è stata associata al mito fascista del culto del corpo, quando cade il fascismo si cancella la ginnastica dalle scuole come "reazione" al fascismo .per cui sono d'accordo con lui. Purtroppo i cretini che hanno associato e creato il binomio ginnastica=fascismo hanno fatto il danno ed ecco che per prendere le distanze dal fascismo viene quasi totalmente cancellata la ginnastica. Una boiata pazzesca Purtroppo però, siccome in Italia la ginnastica è stata associata al mito fascista del culto del corpo, quando cade il fascismo si cancella la ginnastica dalle scuole come "reazione" al fascismo .per cui sono d'accordo con lui. Purtroppo i cretini che hanno associato e creato il binomio ginnastica=fascismo hanno fatto il danno .
ed alcuni amici laureati in scienze motorie ( che ha sostituito l'ISEF ) :
Sono assolutamente d'accordo sull'importanza della cura e la gestione del corpo dei ragazzi, e quindi dell'importanza dell'insegnamento dell' EDUCAZIONE fisica. è vero che nel ventennio fascista c'era molta attenzione verso la FORMA FISICA, soprattutto maschile, con l'obiettivo di far crescere ragazzi forti che potessero servire lo stato, anche e soprattutto a livello militare. Dopo la caduta del fascismo non è vero che l'Ed. fisica è stata abbandonata, ma sicuramente è stata posta più marginalmente rispetto a prima (c'erano tantissimi problemi, anche di altra natura, che sono stati più considerati). Il fascismo non aveva l'obiettivo di far crescere persone (anche donne) in buona salute, anche con la lungimiranza di abbassare i costi della sanità, ma solamente per uno scopo militare, per cui io non la definirei un'Educazione corporea, che è quello che dobbiamo insegnare nelle scuole
nonostante le divergenze di metodo per arrivare alla metà , cioè riportare l'attività fisica nelle scuole dell'infanzia ( medie ed elementari ) c'è. Infatti pur nell'uso distorto della cultura del corpo da parte del fascismo
dove più che sport, era un' esibizione di regime con partecipazione "spontanea", se non ti presentavi ti prelevavano da casa.
si faceva attività fisica ed i ragazzi erano più sani .Ecco che dopo la fine del secondo conflitto mondiale con il subentro di quella democristiana fu creato lsef e sostituito nel 1998 dalla facoltà di scienze motorie . Ma negli ultimi 20\25 anni l'educazione fisica è stata lasciata all'improvvisazione e alla buona volontà degli insegnanti , lasciati però allo sbando perchè lo stato ed i suoi enti piuttosto che tagliare le spese o gli enti doppi ed inutili tagliano in cultura ed in educazione creando il vuoto ed il malessere , anzi alimentandolo ulteriormente con l'odio ed la frustrazione che ha portato ed porta alla violenza bieca come è avvenuto recentemente a Colleferro .
L'intervento di Cirio che fa discutere: "La ginnastica a scuola è un retaggio del post fascismo" - La Stampa
L'intervento di Cirio che fa discutere: 'La ginnastica a scuola è un retaggio del post fascismo'" name="twitter:title">