25.10.15

Loris Stival, parenti stipendiati per comparsate tv. “3mila euro per andare da Barbara D’Urso” Loris Stival, parenti stipendiati per comparsate tv. “3mila euro per andare da Barbara D’Urso”

Nonostante Renato Zero non sia l'emblema della coerenza, come del resto la stragrande maggioranza dei vip e salottieri nostrani  . "Le sue canzoni specie quelle trasgressive sono ancora valide a distanza di tempo . Infatti egli nel 1981 (anno della morte in diretta del piccolo Alfredino). cantava in "Per carità":Se muore un bambino c'è un teleobiettivo"







 Ma è attuale oggi più che mai. nel  Aggiungendo , come  suggerisce  Massimiliano Frassi dell'associazione   prometeo   la frase: " e pure un bancomat". 


Dalle intercettazioni depositate dalla procura di Ragusa agli atti dell’indagine sull’omicidio del piccolo emerge come i familiari di Veronica, mamma della vittima accusata di avere ucciso il figlio, abbiano ricevuto compensi per rilasciare interviste a trasmissioni televisive, soprattutto quelle delle reti Mediaset
di Giuseppe Pipitone |  da  il  fattoquotidiano  16 ottobre 2015

Pagamenti anticipati per le interviste, richieste di “regalini”e offerte di aiuti, anche attraverso il pagamento di visite mediche. È un quadro inquietante quello che emerge dalle decine d’intercettazioni telefoniche depositate dalla procura di Ragusaagli atti dell’indagine sull’omicidio del piccolo Loris Stival, il bambino trovato morto nel comune di Santa Croce Camerina il pomeriggio del 29 novembre 2014. La procura guidata da Carmelo Petralia ha chiuso le indagini e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio di Veronica Panarello, la madre di Loris, per omicidio aggravato.
Quello ricostruito dalle oltre 250 pagine d’informativa, depositate nelle ultime ore, è però uno scenario che racconta di come i familiari di Veronica abbiano ricevuto migliaia di euro per rilasciare 
La D’Urso dice all’Anguzza che deve tornare in trasmissione a dire che ha visto sua figlia e, guardandola negli occhi, costei le ha detto che è innocente. La D’Urso insiste sul fatto che in questo momento devono rimanere sul pezzo perché altrimenti l’opinione pubblica si convince sempre più che Veronica è colpevole”. La donna però ha qualche tentennamento. “Cercano in tutti i modi diconvincerla – continuano gli investigatori – dicendole che sono disposte ad aiutare il figlio minore con eventuali consulti presso strutture mediche e con dei piccoli regali”.
E se all’inizio la madre di Veronica dice di non volere andare in tv perché le sembra di fare “sciacallaggio”, in seguito le chiamate registrate dagli inquirenti diventano una vera e propria trattativa: alla donna vengono offerti duemila euro. Lei “risponde, dapprima che non sa ancora se sarà possibile e successivamente, chiede il motivo dell’esiguità del compenso”. Poi, “si consulta con il figlio in merito ai compensi offerti precedentemente e risponde alla giornalista” chiedendo “se è possibile anticipare a 30 il pagamento, anziché a 60 giorni, perché ha bisogno di soldi”.
Stesso copione quando a chiamare è il produttore della trasmissione Delitti e Segreti. “La informa – scrivono gli inquirenti – del fatto che lei era venuta in trasmissione a Domenica Live e avevano percepito la prima volta 3.500 euro e la seconda volta 2 mila euro. Lui le farà direttamente 3 mila euro”. E quando ipagamenti arriveranno, ma “a pezzi a pezzi”, e cioè rateizzati, la sorella di Veronica non si lamenterà. “È come se gli stanno dando uno stipendio un po’ alla volta”. Ma non solo. Perché dalleintercettazioni emergono anche delle profonde divisioni tra i familiari di Veronica. Come quando Antonella Stival (prozia diLoris), confida ad un amico di ritenere Francesco Panarello, e cioè il padre di Veronica, “un parassita”. Il motivo? Si sarebbe appropriato del denaro versato dai sostenitori della tesi innocentista su una Postepay intestata alla stessa Veronica.

interviste a trasmissioni televisive, soprattutto quelle delle reti Mediaset (contattati dal Fatto Quotidiano, dallo staff della società del Biscione preferiscono non commentare) . “La morte di Loris per l’intera famiglia Panarello è diventato un business economico”, scrivono gli inquirenti, guidati dal capo della mobile Nino Ciavola. Carmela Anguzza e Antonella Panarello, rispettivamente madre e sorella di Veronica, “hanno trovato un’ottima risorsa economica nei proventi derivanti dalle loro partecipazioni ai programmi televisivi, nei giorni a seguire, mutando totalmente il contenuto delle loro dichiarazioni rese innanzi agli organi inquirenti, in presenza delle telecamere, fanno dichiarazioni totalmente contrastanti rispetto a quanto riferito”. Un esempio? È il 21 gennaio 2015 e un’addetta della trasmissioneDomenica Live, chiama Carmela Anguzza. “Successivamente – annotano gli inquirenti – l’Anguzza interloquisce direttamente con la conduttrice del programma Barbara D’Urso.

A questa gente non posso che augurare un giorno di trovarsi dava ti ad uno specchio e vedere finalmente ció che vediamo noi quando li guardiamo leggendo   i  giornali  e  i media  ( evito    di fare  perchè ormai   si sono fusi  uno con l'altro tanto da non capire    da  un giornale di gossip e  cronaca nera  da   un quotidiano    vedere  sotto    una delle  poche  cose   giuste  che dice   il cervellotico  Nanni Moretti   )





 nelle insulse    e  trash  ,  metaforicamente  parlando  ,  trasmissioni  tv     di raimediaset  ( scritto volutamente    tutto  attaccato  per  evidenziare    che  ormai    dai  tempi di  Craxi Rai    e mediaset  sono la stessa  cosa   , eccetto per  il canone  ) 



Come l’attimo fuggente: tutti pazzi per il prof che rottama voti e libri, ma Berkeley lo licenzia


iSchool












La vicenda  sotto mi ricorda  tale  film













Come l’attimo fuggente: tutti pazzi per il prof che rottama voti e libri, ma Berkeley lo licenzia


Alexander Coward, 33 anni, insegna matematica all’università di Berkeley. I suoi metodi sono innovativi e le sue lezioni affollatissime: ma l’innovazione non piace al senato accademico e viene licenziato. Gli studenti organizzano una petizione per riaverlo in cattedra



Carlotta Balena 24 ottobre 2015



Il cinema ci ha raccontato spesso delle storie di insegnanti straordinari, fuori dagli schemi, a volte fuori dal tempo. Robin William, alias John Keating, ne “L’attimo fuggente” intimava gli studenti a strappare le introduzioni delle poesie dai libri di testo, a salire sui banchi per osservare la vita da un diverso punto di vista. Julia Roberts, in “Monna Lisa smile” riproduce la stessa storia al femminile: siamo negli anni ’50, Roberts insegna arte in un college dove le ragazze non fanno altro che aspettare un uomo che le porti all’altare. E lei, la professoressa Katherine Ann Watson, si ribella di fronte a tanti cervelli sprecati a far lavatrici.

La storia di Alexander Coward, professore 33enne del dipartimento di matematica di Berkeley, sembra proprio uno di questi film. Inglese, Phd all’Università di Oxford, varie esperienze nell’insegnamento e alla fine una cattedra a Berkeley. I suoi metodi sono anticonvenzionali: non usa i voti numerici (pur insegnando la scienza dei numeri), è solito inviare email personalizzate agli studenti per ispirarli e motivarli, non segue il libro di testo né gli esercizi che contiene, piuttosto come compiti a casa assegna problemi che inventa lui stesso. Gli studenti sono pazzi per lui, le sue lezioni sono affollatissime. Ma tanta popolarità non piace al senato accademico e il professore viene sottoposto a fortissime pressioni: alla fine viene licenziato.




Alexander Coward. Foto: The Guardian
In principio fu l’email

Alexander Coward è originario di Londra, ha ottenuto il suo Phd a Oxford con una tesi sul calcolo algoritmico e poi ha insegnato al College St Catherine di Oxford, alla Th ́ai Nguyˆen University in Vietnam, alla European Innovation Academy in Francia e poi all’Università della California Davis prima di spostarsi a Berkeley nel luglio 2013. Proprio quell’anno il professore ha acquistato una certa notorietà dopo aver mandato una email ai suoi studenti che poi è diventata virale. Nell’email il professore descriveva a 800 corsisti perché non avrebbe aderito a uno scioperodegli impiegati dell’università. Invece di adottare toni difensivi, il professore è stato quasi poetico, descrivendo l’importanza dell’apprendimento per gli studenti:


Non cadete nella trappola di pensare che focalizzarvi sulla vostra istruzione sia un affare personale o egoistico: non lo è. E’ la cosa più nobile che potete fare

ha scritto Coward, aggiungendo che per lui è un privilegio insegnare a persone così belle. “La società sta investendo su di voi, in modo che possiate contribuire a risolvere le tante sfide che stiamo per affrontare nei prossimi decenni, da quelle tecnologiche alla ricerca della felicità per tutti. E’ questo il motivo per cui domani terrò la mia lezione”. La risposta è stata virale: Facebook, Twitter, Reddit e altre piattaforme hanno diffuso l’email in lungo e largo, e il professore ha ricevuto per la maggior parte apprezzamento, nonostante qualcuno lo abbia accusato di aver “sorpassato la linea”. Il sito degli alunni di Berkeley che ha riportato l’email è andato in tilt, con quasi un milione di accessi.
Un metodo disruptive

Sembra una favola: un’email quasi poetica e un professore che suscita un entusiasmo virale tra gli studenti. Questa settimana, però, la favola è finita. In un post sul suo blog datato 11 ottobre Coward ha annunciato che è stato licenziato ed ha raccontato finalmente la sua storia. La sua vera storia, fatta di mobbing, incomprensione, depressione. E’ la storia di un docente di 33 anni che adora insegnare:


il suo entusiasmo è contagioso, la percentuale di presenze alle sue lezioni arriva al 90%, quella negli altri corsi non supera il 20%.

Gli studenti gli danno valutazioni tra le più alte di tutto il dipartimento di matematica. Lo stesso dipartimento che, però, non riesce a “digerire” i suoi metodi, la sua popolarità e il suo successo.


Il mio metodo è stato considerato disruptive

ha detto il prof. “Ho provato a condividere il mio metodo ma non ne hanno voluto sapere”. Lo stress di vivere sempre sotto osservazione nel maggio 2014 “ha la meglio” e si fa ricoverare in un ospedale psichiatrico per una depressione con tendenze suicide. A ottobre del 2014, il direttore del dipartimento, Arthur Ogus, gli dice che la sua cattedra terminerà nel giugno 2016. A questo direttore ne succede un altro, che non cambia idea sulla sorte di Coward.


Alexander Coward. Foto: The Guardian
Il licenziamento

Nel post sul suo blog è lo stesso Coward a raccontare i motivi del suo licenziamento.I suoi superiori gli hanno intimato più volte di smetterla con i suoi metodi innovativi – seppur efficaci. “Questo significava cominciare a insegnare seguendo il libro di testo, significava smetterla di scrivere email agli studenti per incoraggiarli, di assegnare gli esercizi dal libro invece dei problemi che scrivevo io.


Questo significava, più di tutto, smetterla di motivare gli studenti a lavorare sodo e a seguire le lezioni con coinvolgimento

smetterla di ispirare e incoraggiare condividendo la passione per la meraviglia della matematica; e invece significava forzare gli studenti all’obbedienza, con una serie infinita di esercizi sempre uguali e quiz giorno dopo giorno, semestre dopo semestre.In parole povere mi hanno detto: smettila di farci sembrare cattivi, altrimenti ti licenzieremo”. Così è successo.

L’annuncio delle sue dimissioni ha sollevato la rabbia degli studenti in tutto il campus. Più di 3 mila persone hanno firmato una petizione online per chiedere all’università di mantenere la cattedra del professor Coward, definendolo insostituibile per gli studenti e per il dipartimento di matematica: “Non ha alcun senso licenziarlo perché è troppo bravo nel fare il suo lavoro”. Il 20 ottobre il senato accademico di Berkeley si è riunito per discutere del suo licenziamento e davanti all’università si è riversata una folla di studenti che chiedevano a gran voce la sua re-introduzione nell’università. Ora Coward dovrà aspettare la fine del mese per avere un responso finale sulla sua storia. Che potrebbe, tranquillamente, finire in un film.

@carlottabalena



dello stesso tenore  

Stanislav Petrov, l'eroe sconosciuto che salvò il Mondo dalla Terza Guerra mondiale Stanislav Petrov decise di non reagire ad una presunta aggressione americana. Salvò così il mondo da una folle guerra

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Che  storia interessante  quella  raccontata   da  Andrea Riva - Sab, 24/10/2015 - 16:34   sul
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/

Si chiama Stanislav Petrov ed è l'uomo che ha salvato il mondo dalla terza guerra mondiale.



Nessuno però si è preso la briga di dargli una medaglia e neppure di ringraziarlo. Siamo nel 1983, in piena Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Petrov, nella notte del 23 settembre di quell'anno, si trova all'interno del bunker Serpukhov-15, sul confine occidentale dell'Urss. Come consuetudine, monitora i cieli russi, pronto a dare l'allarme nel caso di un attacco nucleare americano. All'improvviso, una spia si accende: un missile Usa è partito dalla base del Montana.
A questo punto Petrov deve premere quel maledetto pulsante. Deve rispondere all'attacco. Eppure qualcosa lo ferma. Petrov non è convinto del fatto che gli Usa stiano attaccando l'Unione Sovietica e, così, decide di non fare nulla. Passati alcuni minuti, Petrov si accorge che nessun missile ha raggiunto il suolo russo. Si allontana così dal bunker e si scola, e qui si entra nella leggenda, qualche bottiglia di vodka, dormendo 28 ore di fila. Ed è grazie a Petrov che il mondo ha evitato un'altra folle guerra. Eppure nessuno lo ricorda.


News vera ma ingigantita Essa testimonia di come in un mondo dov'è c'è una conclamata pazzia di molti "grandi",qualche volta esiste un piccolo in questo caso Stanislav Petrov che riesce a fermare il mondo a un passo dal baratro. La cosa è curiosa tanto da non riconoscere il sottile filo tra leggenda metropolitana e verità storica . Infatti   in  un  commento all'articolo stesso  


DordolioSab, 24/10/2015 - 22:10

Scusate, vi voglio bene ma questa non la bevo. La salvezza e la sicurezza del mondo sarebbero nelle mani di vari Petrov, alcolizzati abilitati a premere o meno un pulsante? Stiamo freschi. Semmai il Petrov (come l'equivalente Smith negli USA), informa il presidente, che dispone la rappresaglia missilistica inviando un codice speciale che deve corrispondere a quello in possesso del Petrov. Che poi non è solo. Di Petrov ce ne devono essere DUE, che contemporaneamente devono eseguire delle procedure. Un Petrov solo non è sufficiente.....

Comunque sia andata  è sempre  una bella  cosa  e di come    sono  anche   le persone  (  comprese  quelle    che dal potere    vengono considerati insignificanti a fare la storia 




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21.10.15

Ulisse Bezzi: il contadino/fotografo Ravennate che a 90 anni conquista New York Da Matteo Rubboli - ott 17, 2015 su http://www.huffingtonpost.com e Miroslav Tichý artista fotografo e vagabondo








Ci sono favole che sembrano fatte apposta per essere lette. O essere scritte. Quella di Ulisse Bezzi è una di queste, e ci riporta in una realtà contadina che non esiste più, quella della Romagna degli anni ’50 e ’60. Il Bezzi (l’articolo determinativo prima del cognome in dialetto è obbligatorio) è un lavoratore agricolo come allora ce n’erano moltissimi, immerso nella nebbiosa campagna di San 
estratto dal video  documentario del 2006 di Alessio Fattori ed Enrico M. Belardi
riportato sotto  a  fine  post
Pietro in Vincoli, un paese fra Ravenna e Forlì dove l’evento più importante è la tombola di fine anno al Bar Sport. Dove lavorare d’estate sotto il sole significa essere costantemente immersi nel sudore, e dove d’inverno la neve colora la sconfinata pianura di un bianco pallido illuminato soltanto dai pochi raggi di sole che riescono a vincere la perenne cortina di nuvole e nebbia. Ma la straordinarietà, a volte, nasce proprio dove gli eventi della vita si ricordano in base ai decenni, tanto sono rari.Il Signor Bezzi ha una passione viscerale per la fotografia, in un periodo in cui per scattare delle foto bisognava comprare i rullini, e per vederle era necessario trasformare casa propria in un laboratorio di stampa. Le macchine fotografiche usate da Ulisse sono una Retinette Kodak 24X36 e una Rolleiflex 6X6, due pezzi che oggi affollano le bacheche degli appassionati di fotografia vintage. Alla fine delle lunghe giornate di lavoro o alla domenica passa parte del suo tempo ad immortalare quella realtà contadina in procinto di sparire, 


 quei volti di persone che ormai non esistono più, quelle rughe di fatica che oggi si vedono (quasi) soltanto sulle facce dei braccianti emigrati in Italia alla ricerca di fortuna. Ulisse documentava la campagna ma anche il porto di Ravenna, e realizza anche splendidi ritratti di vita dei propri conoscenti.





Gli amici lo convincono a spedire le immagini ad importanti rassegne nazionali ed internazionali, come quella di San Paolo nel quale risulta vincitore. Ha una carriera fotografica di un certo livello, ma come la sua ce ne sono molte, le sue fotografie rischiavano di finire dimenticate fra gli oceani del tempo e delle immagini. Poi, qualche settimana fa, alla soglia della rispettabile età di 90 anni, arriva la chiamata di Keith De Lellis, uno dei galleristi più famosi di New York e del mondo. L’imprenditore invita il fotografo/contadino a New York, ma Ulisse declina, pensa forse ad uno scherzo. Allora, con pervicacia, De Lellis si reca personalmente a San Pietro in Vincoli ed esamina le centinaia di scatti realizzati da Bezzi, acquistandone alcuni per una mostra sulle fotografie vintage in corso nella sua galleria in Madison Avenue.

Adesso, raggiunta la vera celebrità, c’è solo da sperare che quelle fotografie, conservate accuratamente in casa, trovino la via per essere ammirate dagli appassionati di tutto il mondo…

Sotto, un documentario del 2006 di Alessio Fattori ed Enrico M. Belardi :



Meglio tardi che mai !!!!!!!  queste  foto sarebbero  rimaste  nascoste     e difficilmente  se  non per    culo .. ehm  .... fortuna    sarebbero state riscoperte o  scoperte  dai più come  https://it.wikipedia.org/wiki/Vivian_Maier  di cui  ho  già  parlato qui    sul blog  da  qualche parte   e  per  cui vi rinvio   per chi volesse  saperne  di più   a  consultare  il link riportato  nelle  righe precedenti 









L'uomo che vedete nella foto in alto è Miroslav Tichý, nato il 20 novembre del 1926 a Kyjov ha studiato presso l'Accademia di Belle Arti di Praga. Durante il regime comunista era considerato un dissidente, dopo la fuga dalla polizia cecoslovacca iniziò a vivere come un vagabondo. Fu considerato folle e fino alla sua morte visse una vita di autosufficienza e di libertà dagli standard della società.
Tichý realizzò di nascosto dal 1960 al 1985 migliaia di foto di donne nella sua città natale di Kyjov, Repubblica Ceca, con macchine fotografiche costruite artigianalmente con tubi di cartone, lattine e altri materiali.



La maggior parte dei suoi soggetti non erano a conoscenza di essere fotografatipoiché non si rendevano conto che la parodia della macchina fotografica che portava con se era reale.


Le sue foto in soft-focus e gli scorci fugaci delle donne di Kyjov risultano oblique, macchiate e mal stampate; viziate dai limiti della sua attrezzatura primitiva e una serie di errori in fase di sviluppo deliberate voluti con lo scopo di aggiungere imperfezioni poetiche.
Dei suoi metodi Miroslav Tichý ha detto: "Prima di tutto è necessario avere una macchina fotografica scadente" e "Se vuoi essere famoso, è necessario fare qualcosa peggio di chiunque altro al mondo".
Le sue fotografie rimasero sconosciute fino al 2000, fino quando non venne scoperto da un critico d'arte, Harald Szeemann che gli organizzò una mostra alla Biennale di Arte Contemporanea di Siviglia nel 2004. Miroslav Tichý acquisì grande prestigio e le sue opere furono esposte a Madrid, Palma di Maiorca, Parigi e presso la prestigiosa galleria ICP di New York.
Morì il 12 aprile 2011 a Kyjov, Repubblica ceca.


Su youtube sono presenti due video degni di nota, il primo mostra le foto realizzate da Miroslav Tichý, mentre il secondo è un documentario in cui viene ripreso all'interno della sua abitazione e mentre è all'opera, purtroppo non è in italiano.

12.10.15

TURCHIA, QUASI EUROPA di © Daniela Tuscano


Ankara, 10 ottobre 2015.
La fine. Sono crollate sabato scorso, davanti ai corpi dilaniati d'un pacifico corteo, le speranze, o piuttosto le illusioni, sul futuro democratico della Turchia di Recep Tayyip Erdogan.




Qualcuno parla, probabilmente non a torto, di strategia della tensione, ben nota soprattutto ai miei coetanei (il corteo era formato da molti curdi, dei quali Erdogan è acerrimo nemico). S'accusa il solito Is/Daesh, anche in tal caso con fondatissime ragioni. Ma a me bastano quei centotrenta (per il momento) fatti a pezzi da una bomba infame: il più giovane aveva nove anni, la più anziana ottanta. Erano donne - molte -, ragazze, studentesse, lavoratrici, professori di liceo, casalinghe e muratori, laici e credenti. Era un popolo che manifestava, come tanti di noi, diverso da noi. Quanto l'ho respirato, in questi giorni, l'odore della libertà, il privilegio di poter vestire come mi pare, di contestare, sbagliare, pregare e bestemmiare, cantare e scrivere, piangere o ridere. E quanto mi sono resa conto della sua fragilità. Anche noi italiani siamo liberi da poco tempo, ma abbastanza smemorati da non accorgercene più.
Le responsabilità morali dell'aspirante sultano del 2000 restano intatte. A partire dall'acquiescenza, o tolleranza - se vogliamo ricorrere a un eufemismo - verso il gruppo Stato islamico, per cui adesso muoverebbe al riso, se non fosse tragica, la sua adesione al fronte anti-"califfato", che del resto finora gli è servita non per combattere quest'ultimo ma gli odiati curdi e le truppe di Assad. Ma, se Sparta piange, Atene non ride, e la vergogna per l'Erdogan "amico" non è superiore a quella nei confronti dell'Arabia Saudita, altro paese notoriamente democratico, aperto, civile, che si appresta a "giustiziare" (e mai vocabolo risuona oggi più sconcio e grottesco) il ventunenne Alì an-Nimr tramite decapitazione, crocifissione e imputridimento del cadavere fino a completa decomposizione. Affinché serva da monito. Il crimine commesso dal giovane, diciassettenne all'epoca dei fatti, non è diverso da quello del corteo di sabato. Aveva osato protestare.
Un altro suo connazionale, Raif Badawi, di anni ne ha 31 e per adesso ha scampato la pena capitale ma non un centinaio di frustate e il soggiorno in un bagno di pena in condizioni che non vogliamo immaginare. E sempre per la stessa colpa: tenere un blog in cui poter esprimere il proprio pensiero.
Lo sdegno occidentale verso la loro sorte è stato modestissimo, e si capisce: l'Arabia Saudita è un partner commerciale troppo importante e non ci si può giocare un'alleanza strategica per un paio di futili ragazzi. Così altri paesi in cui i diritti umani sono costantemente e violentemente negati, come Cina o Corea del Nord. Così la Turchia. Tutti assai avanzati dal punto di vista tecnologico ed economico ma, parafrasando papa Francesco, l'umanizzazione non si misura da questi soli aspetti. Sviluppo non significa progresso, avvertiva, ancor prima, Pasolini. Grave, fatale errore, scambiare il mezzo per il fine. D'altronde, questi sono i cardini dell'ideologia liberista; ma non intendo qui addentrarmi in analisi politologiche, non me ne attribuisco la competenza. Faccio piuttosto un passo, un lungo passo indietro. Fino al 2002.
Bresso, dicembre. Ultimo mese di vita d'un glorioso giornalino locale, il nostro. Si chiamava "L'Urlo", chiudeva i battenti dopo undici indimenticabili anni. Io e i miei amici gli avevamo dedicato tempo (gratuito, si capisce), cura e passione. E proprio in quello scorcio d'inverno la Turchia conosceva la folgorante vittoria di Erdogan e del suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo. Vittoria alquanto temuta da diversi osservatori occidentali per il dichiarato carattere islamico, anzi, islamista del suo leader. La questione, tuttavia, era mal posta. Su quello sparuto giornalino autogestito la sottoscritta firmò, dietro lo pseudonimo che allora amavo adottare, alcune riflessioni su tale trionfo e sull'atteggiamento, già burbanzoso, del leader turco. Pur con la prudenza che mi contraddistingue subodorai la pericolosità del soggetto da un paio di frasi. Queste: "La donna dev'essere libera d'indossare il velo. La Costituzione lo vieta? Risolveremo il problema". Promessa scrupolosamente mantenuta, e si trattasse solo del velo: l'atteggiamento di Erdogan verso le donne nel corso degli anni avrebbe assunto caratteri vieppiù paternalistici, autoritari, oppressivi, fino alle irriferibili, recenti scempiaggini davanti al fenomeno dei femminicidi e degli stupri, che sotto il suo governo sono aumentati del 400%. Naturalmente ai tempi nessuno badò a un tema considerato assolutamente marginale; questioni muliebri, ça va sans dire. Al massimo si demonizzò il velo con argomentazioni fruste, generiche e permeate di razzismo, come l'equazione, non sempre vera, velo=schiavitù (e un corpo nudo sbattuto su un manifesto pubblicitario simboleggia invece emancipazione? Era emancipazione lo strip-tease delle Femen?).
Ma cosa c'entra questo flashback con l'orribile strage di due giorni fa? C'entra, c'entra eccome. Perché fin quando la donna è considerata un problema, fin quando la si tiene in uno stato di soggezione, magari sancito da leggi, in nome d'una imprecisata "natura" o, peggio, credo religioso, nessun reale cammino democratico comincerà davvero. Mai si potrà attuare compiutamente quella giustizia, pace e libertà (concetti così ampi, all'apparenza imprendibili, ma in verità concreti, Dio sa quanto concreti) invocata dai manifestanti ad Ankara. L'hanno ben compreso i curdi e le curde che, pur divisi all'interno, si relazionano fra loro su un piano del tutto paritario.
Prima che storico, è matematico: nessuna delle nazioni summenzionate, come altre in cui i diritti delle donne sono incerti o addirittura negati, è una democrazia; né potrà diventarlo a queste condizioni. E, se soffrono le donne, ne pagano lo scotto pure gli uomini. Gli anziani. I bambini. Il popolo tutto. Anche in tal caso, basterà una rapida verifica per sincerarsene.
Ho letto su alcuni social network l'invito di alcuni pii, a pregare "per la pace in Medio Oriente". Ma la Turchia non è "Medio Oriente". Non è nemmeno Europa, pur restando in lista d'attesa da oltre dieci anni (io ne ero un'entusiasta sostenitrice, ma, con Erdogan al potere, l'assunto è impossibile). La Turchia oggi, è "quasi" Oriente, "quasi" Europa o piuttosto, semplicemente, non è. E non sarà forse per diversi anni, non è affatto scontato che alle prossime elezioni Erdogan venga sconfitto. Anzi, potrebbe trionfare ancora, molti fattori, non ultima la paura, giocano a suo favore. Colpa del suo islamismo o dell'Islam come tale? Non è questo, lo ripeto, il vero nodo da sciogliere. Benché consapevole di quanto nefasto sia l'intreccio fra religione - qualsiasi religione - e politica, e dei grovigli interni - fondamentalismo, interpretazione del testo sacro, risentimento per il passato colonialista, commistione fra nazionalismo, identità e credo, frustrazioni varie ecc. - continuo a ritenere realizzabile, a molte e dolorose condizioni, una democrazia anche da quelle parti, nel modo specifico e originale che sapranno esprimere. Ma anche in questo caso, anche per una nuova ermeneutica dell'Islam, l'apporto del genio femminile è ineludibile; finché continua a latitare, o a essere avvilito, aspettiamoci altre Ankara, altre bombe, altre guerre; altra, primordiale, inciviltà.

                                             © Daniela Tuscano

10.10.15

La tragedia della Nave Regia Roma nella seconda guerra mondiale: il racconto di uno dei superstiti ancora in vita Aldo Baldasso

Il 9 settembre 1943, alcune ore dopo l’annuncio radiofonico della firma dell’armistizio di resa, la Nave Regia Roma, fiore all’occhiello della Marina Militare Italiana, libera gli ormeggi dalla base di La Spezia e inizia quello che si rivelerà il suo ultimo viaggio.


  se  non si dovesse   riuscire    a vederlo e vedere  solo la  pubblicità   lo  trova  qui

Con la supercorazzata armata c’è la flotta italiana, composta da 23 unità navali, comandata dall’ammiraglio in capo Carlo Bergamini, sulla plancia della Roma. Imbarcato anche un giovane piemontese di 23 anni.
Oggi Aldo Baldasso ha 95 anni e vive a Pirri con la moglie Gina e la figlia Paola. Non ha dimenticato nulla di quell'immane tragedia che si è consumata a una ventina di miglia a nord dell’Asinara.
L'album di Aldo Baldasso
L'album di Aldo Baldasso
Baldasso è uno dei pochi superstiti sardi, ancora in vita, e oggi racconta una delle pagine più tristi e drammatiche dalla storia della Marina Militare Italiana e della Seconda Guerra mondiale.
Nel pomeriggio di quel 9 settembre due ordigni guidati con un carico esplosivo di 1400 chili, sganciati da un aeroplano tedesco, un Dornier Do 217 K-2, misero fine alla storia della grande nave italiana: 1700 caduti, 622 superstiti.
Sette navi italiane portarono i naufraghi a Mahon (Minorca) e i loro equipaggi (circa 2000 uomini).
Il 17 giugno 2012, l’ingegnere Guido Gay, grazie a un robot sottomarino da lui stesso progettato (il “Pluto Palla”), individua il relitto della Roma su un fondale di circa 1200 metri.
Lo scorso anno è nata un'Associazione “Reduci e familiari caduti nave Roma e navi Vivaldi e Da Noli” per ricordare la storia della Roma ma anche delle altre 2 navi affondate in quell’attacco aereo: appunto il Vivaldi e il Da Noli.

8.10.15

le unioni civili ? un attentato alla famiglia , l'educazione sessuale in classe ? fa diventare gay i bambini , tutte l bufale della destra e non solo ultra cattolica che si oppone ma non propone altri metodi ai tentativi di superare sessismo e omofobia




colonna sonora
Stefano Guzzetti. The road to you

Dire ai piccoli che i cuori di maschi e femmine sono uguali diventa "insegnare a toccarsi" Un fenomeno carsico fino all'inizio del 2014\2015 e poi esploso con l'ultimo Family Day . Infatti  su  repubblica del 1\10\2015  

di maria novella de  luca

I LIBRI all'indice a Venezia e la campagna contro le unioni civili. Le "scuole di Dio" di Staggia Senese e i manifesti che minacciano la "compravendita dei bambini" nelle strade di Roma. La famiglia naturale contro "l'omosessualismo", i comuni della Lega che in Lombardia si proclamano de-genderizzati e gli appelli su WhatsApp delle mamme di Brindisi per difendersi dal "genter" pronunciato con la T al posto della D... Le delegazioni di genitori che chiedono ai dirigenti scolastici di proteggere i loro figli dalla "contaminazione" gay, i filmati dei gruppi pro-life che annunciano un'apocalisse dei costumi, l'assessore veneto alle Pari opportunità Elena Donazzan che si scaglia contro i libretti delle giustificazioni perché, ormai da anni, non c'è più la parola mamma o papà.
C'è un vento che soffia al contrario in Italia, in questo autunno, a poche settimane dall'approvazione, forse, del testo sulle unioni civili al Senato, mentre si fa sempre più urgente la legge contro l'omofobia, e nelle scuole, seppure timidamente, si inizia a parlare di parità tra i sessi e di "prevenzione della violenza di genere". Genere appunto, e non Gender, parola, anzi bandiera, dietro alla quale in una nuova crociata, sempre più capillare e pervasiva, si affratellano ogni giorno più forti i gruppi della destra cattolica e della destra estrema. Una vera e propria "fabbrica del pregiudizio". Nella quale si aggrega quella galassia rinvigorita dal successo del Family Day del giugno scorso, oggi decisa ad affossare ogni apertura verso le unioni omosessuali, ma anche verso quei nuovi linguaggi, suggeriti dall'Europa e dall'Oms, che dovrebbero insegnare ai bambini il rispetto tra maschi e femmine, radice della prevenzione di omofobia e femminicidi. «Ma le unioni civili andranno in aula il 15 ottobre - assicura la relatrice Monica Cirinnà - e approveremo il testo subito dopo la legge di Bilancio. La campagna anti-Gender non ci tocca ».
C'è forse una data di nascita della "fabbrica del pregiudizio", che si può far risalire all'inizio del 2014, quando lo sparuto ma agguerritissimo gruppo cattolico Giuristi per la vita, fondato dall'avvocato Gianfranco Amato, inizia una battente campagna di boiocottaggio degli opuscoli anti-omofobia commissionati dall'Ufficio antidiscriminazioni del ministero per le Pari opportunità, all'Istituto Beck di Roma. Libretti destinati agli insegnanti, in cui per la prima volta si parla di nuove famiglie, di differenza tra genere (nascere maschi o femmine) e identità di genere (sentirsi maschi o femmine al di là della propria anatomia).
In realtà si tratta di testi accurati e scientifici, privi di ogni propaganda, ma sulla Rete inizia un vero tam-tam dove per la prima volta appare la parola Gender, attorno alla quale si coalizzano le sigle ultrà. Il messaggio è: attenti, dietro questa parola si nasconde la spinta a far diventare i vostri figli gay, cadranno le differenze tra maschi e femmine, a scuola verrà insegnata la masturbazione ai bambini.
Evidente la mistificazione, eppure la campagna appoggiata anche dal cardinal Bagnasco convince il ministro Giannini (che offre spiegazioni confuse) a ritirare i libretti. Il termine Gender inizia a circolare nel ramificato mondo dei siti pro-life: dalla Croce di Adinolfi a Tempi, dal Sussidiario a La Nuova Bussola Quotidiana, Manif pour tous, Pro-Vita. Negli stessi mesi, molte associazioni e gruppi che nelle scuole portano avanti il progetto Educare alle differenze destinato a insegnati e presidi denunciano attacchi violenti e boicottaggi. A cominciare dall'associazione Scosse, fondata da Monica Pasquino, che par- la di una vera e propria campagna diffamatoria. Il movimento anti-gender in poche settimana raccoglie più di centomila firme, e le invia al Miur chiedendo di fermare "chi insegna la teoria Gender"… Ricorda Federica M, maestra di scuola primaria della capitale: «Per mesi avevamo avuto incontri tranquilli e proficui con insegnanti e genitori, poi un pomeriggio ci siamo trovati davanti alla scuola un gruppo di pazzi che ci gridavano: " Siete froci e abortisti, viva la famiglia naturale". Abbiamo concluso il corso, ma con paura e disagio ».
Gender: la parola diventa popolare. Un ombrello sotto il quale si sommano le più diverse parole d'ordine, dalle campagne anti-aborto all'esaltazione della eterosessualità. Ma è contro l'approvazione alla Camera del disegno di legge Scalfarotto sull'omofobia che la "fabbrica del pregiudizio" si riaggrega. Ammette con amarezza Giuseppina La Delfa, presidente delle Famiglie Arcobaleno che riunisce le famiglie omogenitoriali: «Per noi e per i nostri figli la vita è diventata difficile. Soprattutto nelle regioni del Nord. Questi gruppi fanno terrorismo psicologico, e ormai presidi e insegnanti hanno paura anche di raccontare una fiaba diversa... Il ministero dell'Istruzione deve reagire: non è giusto che i nostri bambini vengano discriminati ». Se il fenomeno all'inizio del 2015 è ancora carsico in tutta Italia, è nel marzo che la questione riesplode. Il caso arriva da Trieste, dove i gruppi di genitori, subito sostenuti dal "movimento" anti Gender, contestano l'arrivo nelle scuole d'infanzia di un programma sull'educazione di genere, dal titolo "Il gioco del rispetto". Un vero e proprio kit per i più piccoli messo a punto da un gruppo di psicologi, dove si sollecitano i bambini a fare i giochi che preferiscono, senza pensare se siano da maschi o da femmina. Il gioco prevede anche che alla fine di una corsa i bambini e le bambine mettano la mano uno sul cuoricino dell'altro e dell'altra, per sentire che nonostante si sia di sesso diverso, i cuori battono tutti allo stesso modo. L'accusa lanciata dai Pro-Life è pesantissima quanto mistificatoria: «Negli asili di Trieste si insegna ai bambini a toccarsi...».
Ma è il 20 giugno 2015 che la "fabbrica del pregiudizio" trova la sua apoteosi, con il Family Day, organizzato dal Comitato Difendiamo i nostri figli e da tutta l'ultradestra cattolica. Al grido "Il Gender sterco del demonio", tra gli applausi dei neocatecumenali, il fantasma del Gender diventa un nemico in carne e ossa da abbattere in ogni modo, per salvare l'innocenza delle nuove generazioni. Ormai è una valanga, spesso grottesca. A luglio l'incauto sindaco di Venezia decide di ritirare da tutte le biblioteche scolastiche i famosi libri gender, delicate storie che raccontano oltre l'omogenitorialità anche adozioni e disabilità, guadagnandosi l'ironia dei giornali di mezzo mondo.
Però non basta. Il 14 settembre a Staggia Senese e a Schio è suonata la campanella delle prime "scuole di Dio". Ossia classi parentali, create da gruppi di genitori, ospitate nei locali delle parrocchie, per fuggire da scuole contaminate dal Gender. Come Dio comanda. Il comitato del Family Day gira l'Italia con conferenze a tappeto per raccogliere firme contro la legge sulle unioni civili. L'epicentro è tra Lombardia e Nordest: a Milano la Regione ospiterà dibattiti sulla "famiglia naturale" e sull'esaltazione dell'eterosessualità.

ed  è  sempre  dallo stesso giornale  un altro articolo interessante  che 


mette in evidenza   la mia posizione critica   verso  i  neo tecon   . . Esso mi  è  utole  a  spiegare  il perchè  li combatto   ovviamente senza  scendere  al loro  livello   d'insulti  ,  di  chiusura mentale 

4.10.15

VOGLIAMO QUEI VOLTI © Daniela Tuscano


Questa è l'unica foto


 

 
reperibile sul web di uno dei 12 operatori uccisi a Kunduz. Non è trascritto il nome, né l'età. Somiglia a mio zio Aldo quando frequentava l'ateneo, i trent'anni non li aveva sicuramente raggiunti, come gli altri suoi amici.
L'Afghanistan è un Paese giovane e pullula di visi come questo. Limpidi, affacciati sul mondo. Con le loro belle e invincibili speranze. Un viso familiare perché dappertutto lo stesso. Il viso di chi crede, di chi ha fiducia in un domani felice e grandioso.
Si gettano allo sbaraglio, i giovani. Non sono saggi. E li chiamiamo sventati, generosi forse, ma in fondo inutili, e quel loro naturale prodigarsi per gli altri ci fa storcere la bocca. Tanto, fra poco matureranno. Fra poco "la vita" li temprerà, diventeranno come noi, scettici, umoristi.
A me invece pare che questo viso, e quelli rimasti ancora anonimi, fossero già assai maturi. Temprati, anche. Scettici e umoristi certo no. E meno male
Vogliamo quei volti non solo per piangere un efferato assassinio definito oscenamente "danno collaterale". Li vogliamo non solo per onorare, sia pur in maniera tardiva e inefficace, un sacrificio che la stampa d'Occidente continua a trascurare, preferendo occuparsi d'altre faccende e faccenduole, tanto si sa come vanno le cose da quelle parti lì. Da quelle parti lì le cose vanno come dovrebbero andare dappertutto, quando si tratta di giovani. Vogliamo quei volti perché, nonostante tutto, c'infondono coraggio. Perché sono esperti. Perché sanno. Perché in essi si scorge il midollo dell'umanità. Il futuro sarà su questa Terra, non su remoti pianeti come sentenzia qualche luminare, molto scettico e molto umorista, rivolgendosi naturalmente ai pochi privilegiati che potrebbero permettersi viaggi intergalattici. Il futuro sarà qui finché esisteranno questi volti, volti di tutti, per tutti, per ognuno.

Li ha spenti lo scetticismo della gerontocrazia. È questo il danno collaterale, l'accidente della storia. Non permettiamogli più di sovrastarci.
Abbiamo diritto a quei volti. Ne abbiamo distrutto i corpi, ancora una volta, noi saggi che non impariamo mai nulla. Ma i corpi dopo tre giorni, tre interminabili giorni, risorgono. E saranno lì a giudicarci.

© Daniela Tuscano

2.10.15

MORTE DEI CAMPI di © Daniela Tuscano

MORTE DEI CAMPI
Come una Nedda cresciuta, o un . Sud verghiano, naturalista e positivista, spietato, di oltre cent'anni fa. Sud dei vinti. Invece siamo nel 2015. E Paola Clemente era italiana. Non un'immigrata. Ma proviamo a sentirla mormorare, mentre s'ammazza letteralmente di fatica in quel deserto di seminagione, "che è quest'Italia?". Sgobbava sette giorni su sette per due euro l'ora, sotto la schiavitù del caporalato. Alla fine è schiattata, ma nelle fotografie, lei, col suo cognome da pontefice (ottocentesco pure quello), riusciva ancora a sorridere. Un sorriso liquido, largamente mansueto sopra un modesto vezzo di perle. Perché la vita è fuori. Deve esserlo. 




Paola voleva sentirsi umana e s'insinuava in feste amicali per restituirsi all'umanità. Quell'angolo d'esistenza, i caporali non erano riusciti a spegnerlo. E lei vi s'aggrappava tenacemente. Appesa a un pensiero, alla gioia della famiglia, come Rosso al ricordo del padre. La femminilità di Paola si sformava avvilita nel sole, ma lei insisteva a sentirsi bella, annotava scrupolosamente sul calendario le "giornate" che le restavano, la miseria largita. Lenta pure la grafia, così grottescamente infantile, ansante, inesorabile. Perché manca poco, ce la posso fare, solo per oggi, poi finalmente la pace.
Ma la pace non è giunta. Il corpo s'è arreso. L'anima forse no. Oggi quegli appunti mai trascurati rappresentano un formidabile atto d'accusa contro i suoi aguzzini. I conti non tornano, a Paola hanno dato ancor meno del nulla che le rifilavano.
E che è, quest'Italia. Nel frattempo divenuta repubblica e, almeno sulla carta, Stato di diritto. Era il paese di Paola e di tante vinte e vinti come lei, sul cui sangue questo diritto è nato. Ma quando soccombe al profitto diventa involucro vuoto, suono inarticolato. La cifra dei nostri anni tecnologici e bestiali. E tuttavia il diritto esiste, l'inesorabilità non è più destino. Il sorriso di Paola, dietro l'aria da povera crista, ne trasmetteva la consapevolezza.
Lo si chiami assassinio, il suo. E lo si punisca con la massima severità.

                                .© Daniela Tuscano

1.10.15

Un aereo fatto in casa per vincere la paura di volare (di Daniela Usai videolina )

Si è costruito un bimotore nell officina di casa lo ha portato a battesimo. Un sogno che si avvera a Perdasdefogu. Il servizio è di Daniela Usai,



 che ha contribuito in prima persona al collaudo. Gli intervistati sono: FEDERICO PIANO ISTRUTTORE ESAMINATORE VELIVOLI, GIGI LOI PROPRIETARIO SAVANNAH S e MARCO CORONGIU COSTRUTTORE VELIVOLI

tornare indietro per andare avanti . intervista a Michele santoro di www.saperepopolare.com

Per la serie interviste oggi intervisto Michele Santoro, l'ideatore e fondatore di "Saperepopolare". 
   
Da una veloce visione del sito, ma soprattutto della pagina Facebook omonima, si comprende che si tratta di un «e-commerce che unisce lo spirito imprenditoriale del suo gruppo di lavoro ad una passione trasformatasi nel tempo anche in un obiettivo culturale strategico: descrivere i riti, le feste, le antiche tradizioni delle comunità italiane e delle minoranze linguistiche che vivono in Italia ma anche le idee innovative e "le buone pratiche" di vita». Lo scopo è quello di preservare «la "memoria" raccontando, nel contempo, l'Italia che cambia e di essere una finestra permanente sulla storia locale italiana e sui tanti "patrimoni" - materiali ed immateriali - presenti nelle comunità italiane e nelle culture "altre" che vivono in Italia». Per quanto riguarda invece gli aspetti di natura commerciale, Saperepopolare rivendica una sua originalità, quella di essere una sfida editoriale, «una scommessa affascinante, perché utilizza la rete e punta alle tecnologie del futuro per riportare in scena un passato che appartiene al mondo dell'antica sapienza popolare, prestando grande attenzione al momento in cui essa incontra la vita contemporanea e il pensiero dell'uomo d'oggi. Per questo motivo, accanto al classico libro nuovo e usato, (   www.sito   e la  pagina  fb  )   propone anche un catalogo selezionato di e-book, un grande assortimento di titoli in formato digitale continuamente aggiornato, dedicato a tutti gli argomenti della cultura ma che privilegia i prodotti di case editrici indipendenti». E c'è anche il finale col motto: "il "Sapere" non è mai stato così "Popolare"!  
Si potrebbe continuare a lungo nel descrivere Saperepopolare, ma è meglio dare la parola a Michele Santoro, il quale, tiene da subito a precisare che proviene dal mondo della ricerca, essendo "Cultore della materia" in "Teatro Sociale e di Comunità" all'Università di Torino.

1) Come  mai  questo  termine - Saperepopolare - di lontana memoria, ideologica tipica del XIX e XX secolo, secondo alcuni/e?
MS: In quel motto - "il "Sapere" non è mai stato così "Popolare"! - c'è un gioco di parole che svela un po' i nostri obiettivi: "Popolare" non solo in termini di "sguardo dal basso", ma anche di "diffusione" massima del "Sapere". Il riferimento, da questo punto di vista, è per nulla ideologico e tutto rivolto a capire come, in passato, si affrontavano (e spesso si risolvevano) i problemi, quelli di natura quotidiana, come il cibo, l'abbigliamento, le malattie, il lavoro, ecc. rapportandoli al presente. E non sempre il progresso ci offre soluzioni migliori di quelle che si individuavano nel passato. Insomma, utilizziamo il concetto di "sapere popolare" come una sorta di filtro storico per capire come siamo (mi riferisco alla popolazione italiana) cambiati nel corso del tempo. Con un occhio particolare alle tradizioni ed alle feste popolari, tra sacro e profano, ed anche alle popolazioni di lingua minoritaria che via via sono venute ad integrarsi con le persone nate nel nostro Paese.

2) Saperepopolare è nato da subito con l'intento di salvaguardare ed integrare le tradizioni popolari, come dichiarato al Gruppo AXA "Nati per proteggere" - ( https://natiperproteggere.it/it/storia/254/sapere-popolare.html - ) oppure   lo è diventato via via?
MS: Saperepopolare che, giuridicamente parlando, è un'impresa individuale, origina in effetti da un impegno si salvaguardia «delle identità  territoriali, in un'ottica di integrità nazionale». Ciò è stato mantenuto nel tempo, anzi si è riforzato, perché mettere in rete e tutelare le identità territoriali italiane meno conosciute e far conoscere, rendere visibile con la narrazione «prodotti tipici, ambiente, territorio, usi e costumi locali» ci è sembrata un'impresa entusiasmante. In seguito ci siamo sempre più convinti che la cultura popolare doveva essere intesa non solo come tradizione, ma anche come contenitore di buone pratiche di territorio, di buoni esempi che partono dal basso, dalla gente comune, e che
da  google.it 
possono diventare appunto modelli da imitare. Ma questa seconda strada non rinnega la prima, anzi la ricomprende in un obiettivo più ampio. Inoltre, ci siamo accorti che la ricerca sulla cultura popolare poteva essere un mezzo ottimale per accrescere il dialogo intergenerazionale. La realtà di «ieri» e dell'«altro ieri» poteva cioè essere riletta e consegnata (“tradendo”, nel senso filologico di trasmissione, la tradizione) ai futuri giovani testimoni e «costruttori» di nuove memorie. Di qui l’idea di sviluppare il nostro lavoro, principalmente su due piani pratici: 1- creare e far crescere una sorta di giornale telematico innovativo, aperto alla collaborazione di tutti; 2- editare una collana di libri in formato digitale di immediata e facile fruizione. Ci stiamo impegnando per mettere in pratica questi nostri due percorsi. Ma non ci fermiamo qui. Andremo avanti anche su altre strade, come spiegheremo dopo, rispondendo a un'altra domanda.   3) Come distinguere la vostra missione di recupero e integrazione fra tradizioni e modernità senza scordarsi chi siamo stati e cosa eravamo come folklore? 
MS: Occorre precisare da subito che, né nei nostri scritti del Blog, né come categoria di classificazione nel catalogo libri, usiamo il termine folklore, parola piuttosto ambigua. A parte la connotazione svalutativa che esso ha assunto, finendo per indicare aspetti più che altro "turistici" (si pensi all'opposizione tra gli aggettivi "folklorico" e "folkloristico"), in Italia - a partire dall'opera di Alberto Mario Cirese - l'oggetto di studio di questa disciplina è stato sostituito da "Demologia" e, negli insegnamenti accademici, da "Studio delle tradizioni popolari". Più propriamente si parla, con Cirese, di "Demologia, come lo studio dei "dislivelli interni di cultura", cioè dei comportamenti e delle concezioni degli strati subalterni e periferici di una società rispetto a quelli egemonici. Ora, noi ci siamo posti il problema di come aggiornare gli studi demologici alla contemporaneità.



fiera  del tappeto di Mogoro edizione  2015  foto mia  
Ci ha molto suggestionato l'idea dell'antropologo Pietro Clemente, che nei suo scritti parla della necessità di fondare una "Antropologia dell'Italia". Abbiamo ritenuto la sua una necessità e ci sentiamo in cammino in questo solco di studi. Si tratta di un contesto culturale ampio e ricco, che ci permette di lavorare sull'Italia a tutto campo: da come si sono trasformati i comportamenti e le visioni del mondo delle persone, a come sono cambiati i territori e i loro abitanti dal punto di vista socio-economico, a quella particolarità che l'Italia presenta in ambito museale, rappresentata dai "Musei etnografici", molti dei quali nati per iniziativa privata di singoli cittadini, ma talvolta anche grazie all’impegno degli enti locali e delle pro-loco. La crescita numerica di questi musei, particolarmente negli ultimi due decenni del Novecento, è stata talmente rapida e diffusa che il nostro Paese può, a buon ragione, essere definito come la nazione con più musei etnografici al mondo. 

4) Non c'è il rischio che recuperando le proprie tradizioni si passi - come la lega ed altri - a posizioni d'identità chiuse e di xenofobia ed  pensiero unico dominante? O  peggio come  




MS: Su questo argomento siamo chiari e rigidissimi. Noi studiamo le tradizioni italiane più antiche con obiettivi storico-antropoligici. Non ci sono indicazioni di valore. Siamo convinti che le aree geografiche, chiamamole "territori" per maggior semplicità, abbiano specificità e tipicità (pensiamo al cibo) proprie, ma tenendo sempre conto di questa considerazione: la diversità serve unicamente per confrontarsi, al di là di ogni eccessivo e "talebano" campanilismo. E quanto più si è diversi, per abitudini di vita e di pensiero, più c'è da imparare da chi ci sta di fronte. In un'ottica di curiosità, oltre che di civile convivenza, principio che non va mai messo in discussione.  

5) Quali sono i vostri progetti per il futuro, visto che nell'immagine di copertina della pagina Facebook si legge: "Progetti per lo sviluppo di comunità"?

MS: Già Saperepopolare si manifesta, mediante il Blog, come un osservatorio culturale partecipato per promuovere lo sviluppo di comunità, affinché la specificità dei diversi territori possa diventare sempre più un patrimonio comune da far conoscere, valorizzare e tutelare. Di più, nel corso degli ultimi mesi, abbiamo maturato la decisione di calarci sul territorio, promuovendo progetti concreti da proporre ad Amministrazioni locali ed a Associazioni rappresentative, come ad esempio le Pro Loco. Detto in poche parole - poiché il progetto è molto lungo e articolato - si tratta di coinvolgere (e far partecipare) i cittadini di un determinato centro abitato o borgo nella scrittura di una "nuova storia" dei loro territori, quella che rappresenta la contemporaneità, ovvero l'epoca in cui vede come protagonisti quegli stessi cittadini. Inviteremo i testimoni privilegiati (in genere le persone più anziane, ma non sempre è così) del borgo a raccontare storie legate ai luoghi simbolo dei loro territori e poi utilizzeremo queste narrazioni come materiali fruibili attraverso strumenti della moderna tecnologia come i codici QR. Ma il progetto è ancora "work in progress...". Come si suol dire, "prossimamente su questi schermi..."

30.9.15

I social sostituiranno programmi come chi lo ha visto o l'integreranno ? Per 40 anni cerca l'infermiera che le ha salvato la vita: ci riesce grazie a Facebook

  come  da  titolo    voi la  risposta  



la foto del 1977
                      La foto del 1977
Per quasi 40 anni ha cercato la donna che le ha salvato la vita.
Ce l'ha fatta solo oggi, grazie a Facebook.Lei è Amanda Scarpinati, 38enne americana.
Nel 1977, all'età di tre mesi, è rimasta gravemente ustionata in seguito a un incidente domestico (si era scottata con il vapore bollente di un diffusore elettrico).
La prima a soccorrerla, tranquillizzarla e curarla in ospedale era stata un'infermiera della clinica di Albany, Stato di New York.Un "angelo" rimasto sempre sconosciuto.Di quel tragico momento, ad Amanda è rimasta solo una foto, scattata da un fotografo presente al pronto soccorso e pubblicata sul bollettino dell'ospedale.
Una volta venuta in possesso di quello scatto, la donna, che nel tempo ha dovuto sottoporsi a numerosi interventi di chirurgia estetica, ha cercato per anni di risalire alla sua salvatrice.Invano.Poi, con l'avvento dei social network, ci ha riprovato.E l'immagine, grazie a migliaia di condivisioni, è arrivata finalmente sotto gli occhi di una ex dipendente dell'ospedale di Albany.Quest'ultima ha riconosciuto l'infermiera: Susan Berger, che ai tempi aveva 21 anni e che oggi è dirigente in un college di New York.
Amanda ha così potuto contattarla per chiederle un incontro.Avvenuto ieri, perfetto lieto fine, tra lacrime e commozione.

28.9.15

IMPARIAMO COME SI GODE LA VITA DAGLI ANZIANI


Questa immagine sta facendo il giro del web ed è stata condivisa migliaia di volte su Twitter.
E' stata scattata al Boston Globe quando i fan attendevano l'arrivo di star del cinema come Johnny Depp, Kevin Bacon e Dakota Johnson.  Vediamo se  capite    il perchè del titolo   è perchè     è diventata  virale
Stiamo rasentando la follia, invece di vivere i momenti, cerchiamo solo di immortalarli....e loro passano e non ritornano indietro..... meditiamo.....
Infatti  come  dice  Roberto Reginali  commentando   la  news    presa  dala  pagina fb   del'unione sarda  d'oggi      : <<       questa piccola e anziana signora, nella sua semplicità da prova di possedere un cervello e di saperlo usare meglio di tutti i restanti presenti messi assieme.Lunga vita a lei. >>
  Vero Daniele Fois un  conto  è  fare  una  foto  o  un video  un aòltro   è  come dici   tu  vivere  <<   la realtà di come la gente si sta ipnotizzando ad una società finta mentre la nonnina e l'unica a capire come va la società malata  >>


Questa notizia    mi  ha  fatto ritornare  in mente : 

questa    lettera  scritta    a repubblica   del 27\9\2015 

In fila al supermercato avevo pensato di cedere il mio posto a
un anziano signore.Con un sorriso mi ha risposto: «Grazie, non
ho fretta, mi godo il piacere della lentezza. Nell’era dei nano secondi
e delle tecnologie più avanzate, anche voi giovani dovreste riscoprire
i pregi del vivere lento. Quando è possibile naturalmente!
Ma perché avete fretta anche in vacanza prenotando
un pedalò, al parco comprando un gelato ai vostri bimbi
o in fila per visit re un museo?».
Non ho saputo rispondere.


e  questa  vignetta   di Silvia Ziche  tratta    topolino n  3108 



                                                       immagine da outducks.org

24.9.15

DADAVIAJEM mostra di danile castiglia sul viaggio in sud d'america te,mpio pausania 21-30\9\2015

mia recensione precedente
la  pagina  fb   con alcune delle foto  messe  in mostra
l'album di  flickr  con foto  del viaggio


Oggi  mentre aspettavo il mio turno   del barbiere   sono andato  a rivedermi DADAVIAJEM  mostra  di daniele  castiglia  sul viaggio in sud  d'america
Confermo quanto  ho detto nel  post  precedente  ( vedere  sopra  url  ) . Una mostra molto bella   che   si può riassumere  panello introduttivo  gentilmente   concesso   dall'autore


Confesso.

Confesso che ho viaggiato.

Mi piaceva tanto questo titolo, lo avrei scelto se avessi deciso di

scrivere un libro di viaggio. Un titolo che parafrasa volutamente quello

dell'autobiografia di uno dei maggiori poeti del mondo, il cileno Pablo

Neruda, Confesso che ho vissuto.

Un altro grande sudamericano, Garcia Marquez, diceva che la vita non

è quella che abbiamo vissuto, ma quella che ricordiamo, e poi come la

raccontiamo. Così è il viaggio, o il racconto di viaggio. Narrare ciò che

è avvenuto durante un periodo fuori di casa, ritagliato dentro la propria

quotidianità, è come raccontare una vita intera. Occorre scegliere,

selezionare, trovare un filo, un senso.

In quasi nove mesi, 257 giorni, trascorsi da un ostello all'altro,

mangiando sempre in posti diversi, lungo venticinquemila chilometri

attraversati per lo più in autobus, attraverso 8 nazioni, dai ghiacciai

eterni della Terra del Fuoco alle spiagge brasiliane di Bahia, di

esperienze se ne accumulano tante, di persone se ne incontrano a

centinaia, ma ciò che resta è unicamente una serie di sensazioni,

immagini, suoni ed echi di parole. Una mostra di fotografie non è che

una difficile selezione tra migliaia di scatti, un vano tentativo di

condivisione, ma è anche tutto ciò che si può fare, tutto ciò che resta.

È una storia che diventa il viaggio stesso.

Confesso.

Un viaggio ha bisogno di soldi, del consenso di chi si ha intorno, di un

po' di coraggio. Nel mio caso, io avevo la possibilità di chiedere un

aspettativa dal lavoro, i soldi li ho chiesti in prestito (ipotecando senza

alcun rimpianto i prossimi dieci anni), ho parlato chiaramente con le

persone care, dopo di che il coraggio si è trasformato in entusiasmo. Il

resto è stato facilissimo.

Sì, perché, pur se si parte da soli, in viaggio non si è soli mai. In giro

per il mondo si trovano migliaia di persone che, in un modo o nell'altro,

stanno facendo la stessa esperienza. Persone che vanno dai venti ai

settanta e più anni, maschi e femmine, all'avventura senza soldi o con

una carta di credito senza limiti, ma sempre per strada, in cammino,

una grande comunità in movimento.

Ci si incontra, si stringono amicizie, si scoprono affinità, si saldano

sodalizi eterni (almeno fino al bivio successivo), e poi si ride, si resta

sorpresi ad ogni passo, ad ogni voltar d'angolo, perché è sempre tutto

nuovo, inaspettato. È l'oblio di se stessi negli altri, nel paesaggio di

fronte.

Confesso.

Temo le utopie, e perciò mi sono accontentato di realizzare un sogno.

Quel tipo di sogno che può trasformarsi in idea e quindi in progetto da

concretizzare, affinché diventi il trampolino per nuove visioni, maggiori

ambizioni; un divenire più che un traguardo.

Un viaggio, soprattutto un lungo viaggio, da immaginare, progettare e

attuare, è sempre una nuova possibilità; una via di fuga, forse, ma

anche il modo per ritrovare la strada.

Sono partito il 6 settembre 2013 e sono tornato il 21 maggio 2014.

Dopo essere sbarcato in Brasile ho visitato il Paraguay, l'Argentina,

l'Uruguay, il Cile, la Bolivia, il Perù e l'Ecuador, per poi tornare in

Brasile e chiudere il cerchio. Mi ci è voluto più di un anno per

sedimentare questa esperienza.

Spero, con queste poche foto, di condividere qualcosa di questo

viaggio, un po' di questa vita.

ISTRUZIONI PER L'USO: Non sono un fotografo. Quelle esposte sono

immagini di un percorso, scatti senza la pretesa di una perfezione tecnica,

che a volte acquisiscono o completano il loro senso solo se osservati dopo

averne letto la didascalia.