18.4.17

Boston Kathrine la rivoluzionaria di nuovo in corsa ritorno alla maratona dopo 50 anni




Il numero sul pettorale sarà lo stesso: 261. Eppure di anni ne sono passati 50 da quando Kathrine Swizter lo indossò per diventare la prima donna a partecipare alla Maratona di Boston, nel 1967. La maratona era aperta solo agli atleti di sesso maschile fino al 1972. Nel 1967 l'atleta di sesso femminile Kathrine Switzer ha corso la maratona di Boston grazie a uno stratagemma e gli organizzatori cercarono di strattonarla fuori dalla pista.





Infatti Le gare di fondo erano vietate alle atlete - considerate troppo fragili - e Kathrine usò un nome falso per registrarsi alla gara. Un giudice che l'aveva notata tra la folla cercò di strattonarla e impedirle di proseguire    foto sotto  )   ma il fidanzato la difese, lasciando che completasse la corsa in
4 ore e 20 minuti.  e impedirle di proseguire ma il fidanzato la difese, lasciando che completasse la corsa in 4 ore e 20 minuti. La scena, immortalata dai fotografi, fece il giro del mondo e cambiò la storia dello sport: le donne furono ammesse all'evento nel 1972. Kathrine Swizter, oggi 70enne, ha corso di nuovo quella che è considerata la Maratona più antica e patriottica - si tiene nel Patriot's Day - del mondo.non pago dell'articolo di repubblica riportato sopra scarno e ridotto solo ad una galleria fotografica sono andato a fare delle ricerche online ed ecco l'articolo più completo di https://www.tpi.it    di martedì 18 aprile 2017














LA DONNA SIMBOLO DELLA MARATONA DI BOSTON HA CORSO DI NUOVO DOPO 50 ANNI

Nel 1967 Kathrine Switzer partecipò alla maratona della città statunitense quando era ancora illegale per le donne. Quest'anno è tornata a farlo all'età di 70 anni
Kathrine Switzer durante la maratona di Boston del 1967.


Il 19 aprile 1967, cinquant’anni fa, si svolse una delle maratone più significative della storia: in quell’occasione, quando ancora alle donne non era permesso partecipare alla manifestazione, la ventenne Kathrine Switzer partecipò all’annuale maratona di Boston e arrivò fino alla fine dei 42 chilometri.
Non era la prima donna in assoluto a partecipare a una maratona, ma la sua impresa fece epoca perché fu la prima a farlo con un numero ufficiale di gara, e soprattutto perché la sua corsa fu immortalata da una foto che è diventata un simbolo della lotta delle donne nel corso del Novecento.
La maratona femminile all’epoca non era uno sport olimpico – lo sarebbe diventato solo nel 1984. Erano rarissime le donne che fino a quel momento avevano partecipato a maratone generiche, sempre facendolo non ufficialmente, e quindi senza la pettorina con il numero ufficiale di gara.
Switzer si era intestardita all’idea di partecipare alla maratona, che avrebbe corso insieme al suo ragazzo Thomas Miller, e grazie a una svista riuscì a registrarsi ufficialmente, quando invece di comunicare il nome esteso “Kathrine” si registrò come “K.V.”, lo pseudonimo che usava per firmare i suoi articoli sul giornale universitario.
Così il 19 aprile 1967 Switzer si confuse tra la folla e corse tra le centinaia di uomini presenti quel giorno, con il numero 261 ufficialmente intestato a suo nome.
Quando i fotografi la notarono, e si sparse la voce che una donna stava correndo con un numero ufficiale, il codirettore della maratona Jock Semple la raggiunse all'improvviso e cercò di bloccarla con violenza per impedirle di proseguire la gara.
Il tentativo di Semple, che con forza cerca di ostacolare la donna e staccarle il numero dal petto, fu immortalato dai fotografi presenti, e quell’immagine è rimasta nel tempo come un’allegoria degli sforzi fatti dalle donne per conquistare con fatica la parità di diritti.


Come dimostrano altre foto, il tentativo del direttore di gara fu immediatamente interrotto dal ragazzo di Switzer, un giocatore di football e lanciatore di martello professionista, che spintonò l’ufficiale, permettendo alla donna di terminare la gara senza problemi.


Questo non bastò a evitare che Kathrine venisse successivamente squalificata, ma la foto divenne un caso nazionale. Nel 1972, cinque anni dopo, alle donne fu finalmente concesso di partecipare ufficialmente alla maratona di Boston.Lunedì 17 aprile, cinquant’anni dopo la sua impresa, la settantenne Switzer è tornata alla maratona di Boston, correndo per la nona volta i 42 chilometri che la resero celebre. Ecco una foto scattata appena prima della partenza:



In quest’occasione, gli organizzatori della maratona hanno deciso di omaggiarla, e in qualche modo di fare ammenda, scegliendo di ritirare definitivamente la pettorina numero 261, in onore del numero che Switzer indossava nel 1967. “Sono stata molto orgogliosa di essere una donna”, ha ricordato Switzer. “Avevo i capelli lunghi, portavo il rossetto e l’eyeliner sulla linea di partenza. Tutti gli uomini intorno a me sapevano che ero una donna”.“Mi voltai e vidi la faccia più feroce che abbia mai visto”, ha raccontato la donna. “Un omone enorme mi afferrò per la spalla prima che potessi reagire e mi trattenne, urlando: ‘Sparisci dalla mia corsa e dammi quel numero!’. Sapevo che se mi fossi ritirata nessuno avrebbe creduto che le donne potessero correre distanze del genere e meritassero di far parte della maratona di Boston. Avrebbero pensato che ero un pagliaccio, e che le donne stessero cercando di irrompere in eventi in cui non avevano alcuna possibilità di arrivare in fondo”.Ora, in un post su Facebook dopo la corsa, Switzer ha scritto: “Ho finito, come 50 anni fa. Siamo qui per cambiare la vita delle donne. Provate a immaginare cosa succederà tra 50 anni!”.


Hey Friends, Thanks for all the support along the way! I finished, like I did 50 years ago. We are here to change... http://fb.me/x0PWVQdn


Questo un video di Sports Illustrated con foto e video delle due maratone della donna nel 1967 e 2017:



Vanno vengono ogni tanto si fermano le storie di ANGELA BARALDI: UNA DONNA TRA EROI DIMENTICATI e l'Addio di Bruce Langhorne, il folksinger che ispirò 'Mr Tambourine Man' di Bob Dylan




L’intervista alla poliedrica artista emiliana che ha pubblicato “Tornano Sempre”, un album nato dall’incontro con Giorgio Canali nel 2010 con il tributo ai Joy Division


                         di Giulia Zanichelli - 23 marzo 2017


Un lunghissimo filo di pensiero, decadente e intriso di inquietudine, rabbia malconcia e malinconiche asserzioni. Sono 10 le canzoni di Tornano sempre, ottavo album di Angela Baraldi. Sono tracce selvatiche, nate da un’improvvisazione corale, dall’unione della voce e del pianoforte di Angela Baraldi con le corde di Giorgio Canali (anche produttore del disco), i tasti o le chitarre di Stewie DalCol e la batteria di Vittoria Burattini dei Massimo Volume. Sono tracce infine addomesticate in un disco che lascia un segno, un lungo graffio, sul suo ascoltatore.

ANGELA BARALDI_COLOR 1


Angela, sei una donna totalizzata dall’Arte: musica, teatro, cinema, televisione… Come hai fatto a convivere tutto questo, tutta questa passione in una sola persona e in una sola vita?
“Pensa, ho anche studiato danza moderna da piccola (ride)! Credo sia un fatto un po’ caratteriale: mi sono sempre stancata a fare la stessa cosa. Diciamo che io sono stata molto attratta dall’idea del palcoscenico fin da quando ero bambina, e palcoscenico vuole dire tante cose…. Ma la parentesi del cinema è stata la più densa tra tutte le cose che ho fatto oltre alla musica”.
Il tuo suono è influenzato sia dal punk dei CCCP e CSI, da Massimo Zamboni, Giorgio Canali, che anche dalla scena cantautorale bolognese, Lucio Dalla in primis, un bel mix… “Sì in realtà ho cominciato in pieni anni 80, quindi diciamo che l’episodio CSI è l’ultimo di tutte le cose che mi sono successe. Non riesco a dirti che vengo da quella cosa lì. Inizialmente ho gravitato nell’ambiente dell’underground bolognese ed è lì che ho incontrato per la prima volta Zamboni, che ancora non aveva registrato niente, si erano tutti appena conosciuti. E poi ho rincontrato Massimo (Zamboni, ndr) dopo un sacco di tempo. Nel frattempo a me era successo di tutto: cinema, dischi, ho lavorato con Dalla, sono stata in giro con De Gregori ad aprire i suoi concerti…sì, in realtà sono frutto di una bella insalata mista di roba, proprio come dici”.
E quanto ti hanno diversamente segnato e condizionato queste esperienze, anche profondamente diverse, nelle tue scelte professionali?“Credo che spontaneamente tutto quello che vivi ti influenza: io cerco di fare tesoro di ogni esperienza di vita, dei grandi vantaggi che si hanno nel mio mestiere, del bello di crescere e diventare adulti. Cerco di incamerare tutto il meglio. Ad esempio, questi ultimi anni mi hanno dato molta sicurezza nei concerti, ho ripreso ad avere un dialogo con quello che faccio anche in pubblico, grazie al ruolo di interprete che per me era una cosa nuova (ha affiancato Zamboni nel 2016 nel tour di Solo una terapia: dai CCCP all’estinzione). Fino a pochi anni fa cantavo solo i miei pezzi, quindi questa ultima esperienza mi ha fatto crescere molto anche vocalmente”.

Il video del branoTornano sempre dall’album omonimo di Angela Baraldi su Rep.it

Parliamo di Tornano sempre, il nuovo disco. Com’è nato e perché? Cosa sentivi il bisogno di dire, se c’è qualcosa che volevi comunicare?
“Il disco è nato dall’incontro con Giorgio Canali, avvenuto con il tributo che abbiamo fatto insieme nel 2010 ai Joy Division, Suonando insieme abbiamo iniziato a pensare all’idea di fare anche un disco insieme, con lo stesso piglio con il quale abbiamo caratterizzato questo tributo. Così in questi anni abbiamo iniziato a fare diverse sessioni improvvisate e nel frattempo tra un concerto e l’altro io andavo avanti con i testi. Se devo dirti se avevo un’idea precisa di quello che stavo facendo la risposta è no, è stato tutto in progressione. Devo dire che una volta finito il disco il risultato mi ha anche meravigliato: è un lavoro coerente, involontariamente, ma mi fa piacere perché evidentemente nonostante tutto questo tempo sono rimasta collegata a un filo conduttore emotivo che ha dato al disco un carattere univoco. Sono molto soddisfatta quindi, è difficile mantenere l’attenzione per così tanto tempo”.
Chi è per te Michi Maus e perché dà il titolo a una tua canzone? Quando canti “Asfaltano le strade che vanno al mare e asfaltano anche me, e aspettano che tu sia solo” stai parlando della società di oggi?“Ho scelto Michi Maus perché lo trovo un personaggio triste, non mi è mai stato particolarmente simpatico. È un personaggio che immagino invecchiato, con le orecchie smangiucchiate: è nato nei primi del Novecento, poi ha avuto tante metamorfosi è stato rappresentato in tanti modi…io sono un po’ affezionata a quello di Pazienza, che è quello che molesta un po’ a livello psicologico, che viene fuori quando sei un po’ depresso, che ti indica la strada per approfondire i tuoi problemi. In realtà è stata una scelta involontaria, non saprei tornare indietro e capire perché è uscito lui…forse proprio perché è il meno simpatico della mia fantasia da bambina, mi piaceva molto più Pippo ad esempio. Non so poi se sto parlando della società di oggi o di quella di sempre…adesso sì, io sono testimone del mio tempo, e nei momenti di fragilità penso che sia un tempo crudele, con tutta quest’ansia da prestazione che c’è: come appari fisicamente, se sei solo o hai qualcuno, se hai fatto sesso tardi o presto, tutte queste cose che sono un po’ esistenziali, e un po’ anche adolescenziali. Trovo che sia un mondo particolarmente difficile per chi è tenero. Forse è sempre stato così, non lo so, ma questo è il grande momento dell’Esposizione Universale di tutti noi attraverso l’iper-comunicazione”.
Josephine invece è una sorta di inno alla libertà, a un essere selvaggio, un omaggio a chi lotta per alzarsi e rialzarsi ogni volta. Questo è anche il modo in cui tu intendi la vita?

“Questo pezzo è prima di tutto una dedica specifica a un personaggio, Josephine Baker, anche lei dei primi Novecento ma che rispetto a Topolino sta molto più avanti: è una donna che ha avuto una vita incredibile, c’è poca letteratura che la riguarda ma che io l’ho sempre molto amata, la trovo veramente una storia fonte di ispirazione. Secondo me la sua è la reazione giusta alla vita, non tutti ci riescono, ma lei è stata particolarmente forte: da schiava è riuscita a diventare una stella, pur essendo donna, pur essendo nera. Consiglio a tutti di leggere qualcosa della sua vita, soprattutto alle donne che magari si sentono ancora in un mondo con dei valori un po’ antiquati. Il nostro dopotutto è un Paese con un patriarcato ancora molto forte e sentito. Credo che lei sia una donna molto avanti e molto moderna, mi piace ricordarla e lodarla nella mia musica, come modello, come esempio da seguire”.
La cover dell'album
La cover dell’album ((Woodworm/Distr. Audioglobe)
In Uomouovo e anche – seppure in modo diverso – in 1000 poeti si parla al contrario di un’indifferenza che regna sovrana, di una vacuità umana.
“Sì, sicuramente in Uomouovo l’indifferenza è il tema centrale. Secondo me è una cosa che c’è sempre stata l’indifferenza, non è una cosa di oggi. Un’indifferenza come autodifesa, chiusi nel proprio privato, nella propria casa pulita e ordinata. Allo stesso modo c’è un’indifferenza nella partecipazione a un mondo che conosciamo sempre di più attraverso questa iper-connessione che si rivela talvolta crudele. 1000 poeti parla invece della qualità e della quantità in questo mondo. È una canzone che ho finito di scrivere il giorno in cui è morto Bowie, e parla di ispirazione, di poesia. Ho sentito subito la mancanza di una figura seminale come lui, indicatrice anche di altre forme d’arte: seguendo lui ho conosciuto tanti altri artisti. Mancano in questo momento figure così. Sicuramente c’è tanta proposta, tanta più roba rispetto a prima, ma la qualità va cercata. Forse parla proprio di questo il pezzo: del riconoscere la qualità, che è una dote quasi divina”.
Hollywood Babylonia racconta una realtà disincantata, dove non si può più credere alle favole, dove si presentano personaggi non più così perfetti come mentalmente li pensavamo. Secondo te bisogna accettare un Peter Pan che si buca le vene e si fa di bufera o continuare a guardarlo volare su un cielo di cartone?
“Questi personaggi di cui parlo sono casi estremi, sono le prime star popolari. Mi piaceva raccontare queste storie, ho fatto l’attrice per un periodo e mi ha interessato anche umanamente questo ruolo, l’effetto che ha sulle persone. Faccio riferimento al famoso libro Hollywood Babylonia di Kenneth Anger, che racconta questa storia decadente e drammatica dell’ascesa e del crollo di questi primi idoli del cinema che ancora non avevano dimestichezza con la propria immagine e con l’idea che la gente aveva di loro. E che quindi sono stati portati molto in alto velocemente e ferocemente tirati giù dalla massa. Penso che queste persone vedessero di avere una vita bugiarda davanti: la percezione che la gente ha di te non è mai quello che tu sei realmente, e quando diventi un personaggio pubblico la cosa può essere veramente invasiva. Però io credo che, pur restando con i piedi molto per terra, uno debba permettersi di sognare. Il problema nasce quando il sogno e la realtà finiscono troppo assieme, quando la gente ti punta il dito. Qui io ho voluto solamente fermare un momento drammatico della vita di queste persone, non volevo trovare una morale, mi interessava solo il lato umano di questa storia. Ma comunque penso sia meglio godersi la vita, in generale”.ANGELA BARALDI_COLOR 3

Tutti a casa, Chiudimi gli occhi, ma anche Immobili: sono tutte storie di vite che si perdono o vengono perse, vittime della violenza, del gelo umano. La disumanizzazione dell’uomo è un tema ritornante, drammatico e filtrante in tutto il tuo lavoro. Quanto credi che il “progresso” possa essere definito tale?
“Io penso che il progresso da solo, quello tecnologico, se non è accompagnato da un progresso umano, spirituale, possa essere delle due quasi un problema: immagino una macchina sempre più sofisticata guidata da una persona ancora primitiva, che ha ancora paura del buio e della solitudine. Noi siamo ancora legati a delle paure primordiali, quelle dell’uomo: da dove veniamo, dove andiamo. Il mistero che è proprio della condizione umana rimane quello. E questo progresso ci dà l’illusione di essere molto liberi, più formati e migliori, ma è un po’ uno specchio per le allodole. Penso che non sia questo o solo questo, penso che progresso sia anche empatia: sapersi mettere nei panni degli altri, avere questo tipo di educazione, avere un’educazione diversa nelle scuole, avere un’educazione sessuale diversa, più tollerante, più aperta. Trovo che sia più facile lanciare uno shuttle in aria che far progredire l’essere umano in una direzione spirituale, inteso non come religiosa ma come stato dello spirito, come capacità di relazionarsi con gli altri, di essere civili, semplicemente”.
Hai qualche progetto per il futuro, qualche sogno ancora nel cassetto nonostante le infinità di soddisfazioni che già ti sei presa?“Ne ho tanti, potrei stare ore ad elencarteli tutti! Ad esempio, ho avuto la fortuna di lavorare con un regista come Salvatores, è stato bellissimo e chissà che non possa ripetersi in futuro. Ma posso dirti? Il mio vero desiderio è essere felice, è il mio desiderio più grande per il mio futuro. E questo può comprendere tante cose, non solamente il lavoro. Non mi sono mai sentita completamente felice o realizzata, vorrei tanto essere una di quelle persone illuminate, che riescono ad avere questa possibilità. Io ho un carattere che mi porta sempre a guardare avanti, ci sto poco a gingillarmi nel brodo dell’autocompiacimento. Non credo che la felicità sia uno stato d’animo che può durare in maniera costante per molto tempo, penso sia una magia, come la musica”.


DA REPUBBLICA DEL 17 aprile 2017
Addio a Bruce Langhorne, il folksinger che ispirò 'Mr Tambourine Man' di Bob Dylan
Aveva 78 anni. Chitarrista e session musician collaborò, oltre che con Dylan, anche con Joan Baez e Gordon Lightfoot. Nel 1963 accompagnò la folksinger Odetta prima del celebre discorso di Martin Luther King





Bruce Langhorn Arrivò in studio con un tamburo turco extralarge decorato di campanellini e nacque una canzone immortale. Oggi il mondo della musica dice addio a Bruce Langhorne, il chitarrista che ispirò Mr Tambourine Man di Bob Dylan. Ma Dylan fu solo il nome più importante che incrociò la sua strada: suonò, tra gli altri, anche con Joan Baez, Gordon Lightfoot e Buffy Sainte-Marie. Langhorne è morto nel giorno di Venerdì Santo a Venice, in California. Aveva 78 anni.
Nato a Tallahassee, in Florida, si era trasferito da giovanissimo a Spanish Harlem, New York, Langhorne. Cominciò studiando il violino, poi fu la volta della chitarra. Ma nel corso degli anni avrebbe provato a suonare moltissimi altri strumenti. Bazzicava gli stessi luoghi di Dylan, in particolare il Greenwich Village. Era la fine degli anni Cinquanta, quando Dylan iniziava a interessarsi al folk, lasciando da parte l'iniziale passione per il rock&roll.

È stato lo stesso Dylan a dare a Langhorne - era il 1985 - il giusto credito di essere stato la sua musa. "Se c'era Bruce a suonare con te, quello che avevi bisogno di fare era praticamente nulla", ha ricordato Dylan. Mentre l'attore Peter Fonda, per il quale Langhorne aveva composta la colonna sonora del film The Hired Hand, raccontava: "Anche quando entravi nella stanza e non lo vedevi, sentivi al sua presenza. Semplicemente emanava amore e gentilezza, oltre che essere un virtuoso di qualcosa come 50 strumenti".
Ma Langhorne è noto soprattutto per essere stato l'anima di Bringing It All Back Home, l'album fondamentale dy Dylan del 1965, in cui i suoi accordi elettrici hanno tessuto la trama di canzoni come Maggie's Farm, Love Minus Zero/No Limit e She Belongs to Me. Il chitarrista suona dapprima in Corrina, Corrina, brano incluso in The Freewheelin' Bob Dylan, poi viene chiamato per lavorare su gran parte delle tracce del capolavoro Bringing It All Back Home.
Impegno musicale e impegno politico: nell'agosto 1963 Bruce salì sul palco allestito al Mall di Washington per accompagnare la folk singer Odetta subito prima del celebre discorso di Martin Luther King I have a dream.

17.4.17

"Ho salvato il palazzo di Capa dove morì l'ultimo soldato Usa

per chi non capisse l'inglese o non ha voglia di tradurselo sotto trovate l'articolo scarno nella versione web in italiano su repubblica del 15\4\2017


Leipzig flat made famous in Capa war photo becomes poignant memorial
Apartment featured in one of the most memorable images of the second world war restored to its former glory


American soldiers in the Leipzig apartment building now known as the Capa House. Photograph: Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos



Thursday 1 September 2016 13.00 BSTLast modified on Friday 11 November 2016 11.35 GMT


Robert Capa called them his most definitive images of the second world war. Seconds after the photographer had taken a portrait of a fresh-faced sergeant poised with a heavy machine gun on a Leipzig balcony, the soldier slumped to the floor. On 18 April 1945, in the final days of the conflict, he had been hit and killed by the bullets of a German sniper.
Capa climbed through a balcony window into the flat to photograph the dead man, who lay in the open door, a looted Luftwaffe sheepskin helmet on his head. The subsequent series of photographs show the rapid spread of the soldier’s blood across the parquet floor as other GIs attended to him and his fellow gunner took over his post at the machine gun.
“It was a very clean, somehow very beautiful death and I think that’s what I remember most from the war,” Capa recalled two years later in a radio interview.

The images were wired back to New York and featured prominently in Life magazine’s Victory edition on 14 May. The soldier, Raymond J Bowman, 21, of Rochester, New York, was later hailed as The Last Man to Die by Capa and the photographs would become some of the most memorable images of the second world war.
But their origins would have remained obscure had a group of Leipzigers interested in highlighting and preserving the city’s little-known Capa connection not discovered that a derelict 19th-century apartment block was where the photographer, embedded with the US army during the capture of the city, had taken the pictures.
Learning that the building was destined for demolition four years ago, the group set about trying to save it. And save it they have: following a €10.5m (£9m) refurbishment, including shoring up the foundations and replacing the balconies, the Capa Haus has been restored to its former glory.
The Leipzig apartment building after a fire on New Year’s Eve 2011 when it was scheduled for demolition. Photograph: Alamy Stock Photo

The Capa House after restoration in 2016. Photograph: Alamy Stock Photo

Strips of Jahnallee have been renamed Bowman Strasse and Capa Strasse. In the elegant ground floor Cafe Eigler a permanent exhibition is dedicated to The Last Man series and other Capa pictures which tell the story of 18 April.
“There was very little in the city to recall the last days of [the second world war],” said Meigl Hoffmann, “and we were struck by what a poignant and authentic memorial this actually was.”
Hoffman, 48, a Leipzig political cabaret artist and one of the founding members of the Capa Haus initiative, grew up with the many wartime stories of his parents and grandparents. But the US army’s role in liberating Leipzig from nazism had been an unfashionable version of events during the days of communism when the dominant story was of how the Red Army – which arrived in July – had saved his city.
“As a result the Capa connection had been suppressed because his pictures told the unfavourable story of the US troops, and so for years no one here really knew about them, they were considered subversive,” said Hoffmann.
Capa’s picture of the American soldier killed by a German sniper on 18 April 1945. Photograph: Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos

He discovered the Last Man to Die images in a banned underground magazine at the age of 19. “I was electrified by the pictures – they appeared 3D to me, and because a lot of the photos we knew in the East German era were in black and white, they struck me as being very contemporary,” Hoffmann explained.
He and a friend set about trying to locate the balcony, aided by Capa’s description of the “big apartment building that overlooked the bridge” on which German soldiers “were putting up considerable resistance”, as well as visual references in the photograph itself. “But the only building that matched the description didn’t seem to fit at all, as it had no balcony,” said Hoffmann.
The place he found – Jahnallee 61 – was on a busy crossroads in the west of the city. He clambered with trepidation through its broken ceilings and floorboards, finding the “nice bourgeois apartment” on the second floor as Capa had described it, a shell of its former self. The renamed Capa Strasse.

But, surprisingly, unlike the rest of the building, it was largely intact – apart from the fact that its balcony, close to collapse, had been removed years before – and it still had the commanding, unobstructed view of the Zeppelin Bridge.
With weeks to go before the wrecking ball was due to knock it down, the initiative contacted US war veterans involved in the battle for Leipzig.Bowman, the fifth of seven children, had been sent to Europe with Company D of the 23rd Infantry Regiment of the 2nd Infantry Division. He was taking it in turns with his fellow gunner, Lehman Riggs, 24, to operate the .30 calibre Browning.
Riggs had just stepped back inside the apartment and was reloading the gun as the fatal bullet struck. The grandfather clock behind which Riggs took shelter showed – in brighter exposures of the photographs – that Bowman died at 3.15pm.
Riggs, now 96 and living in Cookeville, Tennessee, said his memories of the incident had rushed back during a recent return visit to the apartment.
Robert Capa was embedded with US troops. Photograph:
 Time Life Pictures/Getty Image
“The event had so disturbed my mind because of the loss of my buddy, I had tried to block it, and hadn’t talked about it for years,” the retired postal worker said. “But returning to the scene unlocked all the memories.”
He recalled Bowman as a “very kind young man”. “I was 3ft from him when it happened. I could have reached out and touched him, but I knew he was dead. I had to carry on in his place, as I’d been trained to do.”
Events had happened so fast, he said, from the order to “run into an upper floor of the house and offer cover for our troops so they could come across the bridge”, to the death of his partner, that he had been unaware of Capa’s presence.Read more “In combat we often had army photographers with us. I thought he was just another one of those.”
He contacted his wife to buy Life magazine on learning that he featured in it, but described it as “extremely painful” to view the pictures once he returned from the war, “as they made me vividly relive what had happened”.
Robert Capa: 'The best picture I ever took' - transcript

Read more “In combat we often had army photographers with us. I thought he was just another one of those.”
He contacted his wife to buy Life magazine on learning that he featured in it, but described it as “extremely painful” to view the pictures once he returned from the war, “as they made me vividly relive what had happened”.
Robert Petzold, from Leipzig, who was 13 at the time, recalled the phone call he received from his grandmother the previous evening. “She lived a few kilometres further west and had seen that the Americans were arriving in Leipzig,” he said.
“She told us: ‘The enemy is coming, have a hearty breakfast.’”After doing just that, he, his mother and sister took cover in the air raid shelter in the basement and, while they could hear the heavy exchange of fire, they had little inkling of the drama that had unfolded on the balcony where, Petzold recalled, “I used to keep rabbits.”
Once they were given the all-clear, his mother returned to their flat to the horrifying scene of the dead soldier in her living room. “His blood was all over the floor, and soaked into a rug. On a dresser in the hallway she found letters and photographs that had been removed from his pocket, showing a woman and children. She said: ‘They may be our enemies, but they suffer the same fate as us,’” Petzold said.
For years, he said, his mother tried in vain to remove the blood stains from the rug. “But nothing, no chemical process, could get rid of them – they served to us as a permanent reminder of the horror of what had happened.”
The apartment’s current owner, Katrin Stein, said she tried not to think too much about what had happened there. Photograph: Kate Connolly for the Guardian

A dining room table in an adjoining room that was used by other members of the machine gun platoon had dents on its underside from the recoil motion of the gun. “The soldiers had been thoughtful enough to turn the table top upside down to avoid damaging it. My mother was always very impressed by that,” he recalled.
Raymond Bowman’s mother, Florence, at first refused to believe reports her son had died. When her other son contacted Bowman’s army unit for further confirmation, he was told to buy a copy of Life. There the family recognised the pin with the initials RB, which Bowman had made in high school.
The Capa Haus initiative, which was accompanied by personal appeals to city authorities by Riggs, Petzold and members of the Bowman family to save the historic site, led to approaches by a Munich investor, who prides himself on his track record of saving historic buildings that “tell stories”.
“It was an important picture but one that Capa almost didn’t take,” said Christoph Kaufmann, of Leipzig’s Civic History Museum and the main curator of the exhibition, pointing to Capa’s own take on the incident, in the only known recording of the photographer’s strong Hungarian-accented voice.
Lovers and fighters: Robert Capa's best second world war photography

“He’d just moved on to the open balcony and put up that heavy machine gun,” Capa said. “But God, the war was over, who wanted to see one more picture of somebody shooting? … But he looked so clean-cut and he was one of the men who looked like if it would be the first day of the war he still was earnest about it … So I said: ‘All right, this will be my last picture of war.’ And I put my camera and took a portrait shot of him.”
Katrin Stein now lives in the apartment, her balcony painted peach-pink and adorned with geraniums and a wash stand.
“I try not to think too much about what happened here,” she said, standing in the balcony doorway where Bowman fell. “But it certainly adds another dimension to the history I learned in school.”




da repubblica  del 16\4\2017




DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
BERLINO.

Aprile 1945. Sono gli ultimi giorni del Reich, gli americani stanno conquistando Lipsia. Un soldato individua una casa in una posizione strategica, si affaccia dal balcone e punta il mitra verso la città vecchia, dove i nazisti stanno battendo in ritirata. Il proiettile di un cecchino tedesco, nascosto chissà dove, lo centra in mezzo agli occhi. Raymond J. Bowman cade riverso, l'elmetto si storce nell'impatto con la finestra, il sangue riempie il pavimento. Dietro di lui, c'è uno dei più grandi fotografi di guerra del Novecento, Robert Capa, arrivato in Germania con le truppe americane. Il 18 aprile la sua foto del soldato morto viene pubblicata sulla rivista Life.
Passerà alla storia con la didascalia del suo autore: "last man to die", "l'ultimo uomo a morire".
Negli anni del dopoguerra, nella Germania comunista la memoria collettiva cancella Capa e gli americani. Ma il piccolo Meigl Hoffman, un quarto di secolo dopo, trova in soffitta proiettili e un elmetto "yankee", sente sussurrare in famiglia le imprese dei liberatori americani, censurati dai libri di storia del socialismo reale. Alla fine degli anni '80, arriva il momento che gli cambierà la vita. Su una rivista clandestina, Snowbag Magazine, trova cinque foto di Robert Capa di quei fatidici giorni di Lipsia. Sono immagini fotografate di nascosto dall'archivio della biblioteca comunale. Meigl ne rimane stregato.
Poco dopo la caduta del Muro, il cabarettista comincia la sua ricerca della foto perduta. Contatta il consolato americano - adesso può farlo - ma nessuno ne sa niente. Anche nel 2005, durante i festeggiamenti per il 60° anniversario della fine della guerra, chiede informazioni ad alcuni veterani americani venuti in città. Ma nessuno sa fornirgli dettagli di quell'"ultimo morto" della guerra dei nazisti.
Hoffmann, allora, comincia a studiare la foto. L'unico indizio utile è il balcone in stile Jugendstil. Dopo molte ricerche riesce a individuare la strada, persino la casa. Ma la facciata è piatta. E le condizioni dell'edificio disperate. Mezzo tetto crollato, porte e finestre distrutte, calcinacci. «Il fatto è che l'edificio non aveva balconi, ed era in uno stato catastrofico », ha raccontato alla Faz. Ma lui non si scoraggia. L'intuito gli dice di insistere. Con un amico riesce a entrare nella casa, sale lentamente le scale di legno marce. In un appartamento scorge dalla finestra il deposito del tram, il benzinaio, la Zeppelin brücke. È quello che ha visto Capa, è l'appartamento dell'"ultimo soldato". È la foto ritrovata.
Ma l'impresa più difficile deve ancora venire: salvare quella casa. Hoffmann fonda un'associazione e dopo peripezie varie trova un investitore, Horst Langner, disposto a spendere 10 milioni per risanare l'edificio, giusto in tempo per salvarlo dalla demolizione, decisa dal Comune nel 2012. Oggi si chiama "Capa- Haus", ricorda il grande fotografo famoso per aver detto che «se una foto non è buona, non eri abbastanza vicino». Nel bar al pianoterra, una sala è dedicata alla storia della foto. E tra i vari testimoni dell'epoca, Hoffmann ha ritrovato anche un uomo che viveva lì da bambino, Robert Petzold. All'epoca aveva dodici anni. Sua madre vide il corpo del soldato, trovò delle foto della sua famiglia, alcune lettere. Disse ai figli: «Vedete, sarà anche il nemico, ma è un essere umano come noi».

eroi , alternative agli smartphone e alla tecnologia , la morte fa parte della vita dichiarazioni di un ragazzo prima di morire di leucemia ed altre storie

come il proverbio \ dettpo : << ti devo dare due notizie , inizio da prima da quella bella o da quella cattiva ' >> ho scelto d'iniziare , a prescindere dal titolo da quella buona

N.B
Ora  sia  della prima   che della seconda   storia      Le  avrei   riportate  tutte  ma  bisogna  sapere  scegliere    ed  io ho fatto  . comunque  ecco  gli url     delle   gallerie fotografiche in questione

http://napoli.repubblica.it/cronaca/2017/04/14/foto/ischia_la_romantica_sfida_della_libraia_bimbi_giocate_con_gli_aerei_di_carta_-162996317/


Ischia, la romantica sfida della libraia: “Bimbi, giocate con gli aerei di carta”

Poesia e voli, rigorosamente di carta. Nel grazioso angolo di via Marina, a Forio, sull’isola d’Ischia, va in scena una gara di aerei di carta. La poesia di un gioco senza tempo, che qui si rinnova grazie all’iniziativa di una libraia, Barbara Pierini, che con la sua “Libereria” chiama a raccolta i bimbi dell’isola. La locandina fa il giro dei social, i genitori ci credono: contro la tirannia degli smartphone, abbracciando la primavera di Ischia. La libraia, che è anche arbitro, precisa sorridendo: “Chi non soffia sulla punta ha poche speranze di vittoria”. Iscrizione rigorosamente gratuita, per partecipare bisogna essere bambini. Qualche adulto ci prova, la libraia annuisce. I fogli si piegano, la fantasia corre. Poi è una questione di tecnica. E di fantasia. Tre i parametri valutati: la distanza percorsa, la permanenza in volo dell’areo di carta e la qualità delle piroette. Qualche aereo finisce sulle aiuole fiorite, la parabola di qualchedun' altro termina sui balconi colorati che affacciano sul vicolo. Sorrisi, applausi, la carta che si scopre rediviva nell’era degli smartphone e della tecnologia. “Qui non c’è spazio per i videogame”, sorride la libraia. Alle premiazioni, foto di rito e appuntamento alla prossima. Vincono tutti, naturalmente. (testo pasquale raicaldo - foto licia punzo)


http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/16/foto/autobomba_ad_aleppo_la_disperazione_del_fotografo_eroe_in_ginocchio_dopo_l_attacco_suicida-163150676/1/?ref=fbpr#1

  Autobomba ad Aleppo, la disperazione del fotografo eroe: in ginocchio dopo l'attacco suicida

E' a terra, in lacrime, con la macchina fotografica in mano. Una fotocamera che doveva documentare l'arrivo ad Aleppo di civili in fuga da Foua e Kefraya, due villaggi siriani controllati da ribelli islamisti e gruppi terroristi. Abd Alkader Habak, nel giorno dell'attacco suicida che ha causato la morte di almeno 126 persone, si è ritrovato invece a salvare vite. Poco dopo l'esplosione, con altri colleghi presenti sul posto, ha messo da parte la fotocamera e ha provato a trascinare via dalle fiamme bambini e adulti. Il suo coraggio e il suo dolore, testimoniati dagli scatti di altre persone presenti sul posto, sono diventati immediatamente un simbolo della strage di Rashideen del 14 aprile, condivisi migliaia di volte su Twitter e Facebook. Nello scatto originale, accanto ad Abd Alkader Habak, c'è il corpo di un bambino ucciso dalla bomba (che abbiamo deciso di non mostrare, ndr). Sul suo profilo Twitter il fotografo, dopo l'attentato, ha scritto: "Quello che io e i miei colleghi abbiamo fatto dovrebbe ispirare l'umanità e tutti coloro che hanno contribuito a uccidere i bambini di Khan Sheikhan".

concludo  due    storie  la prima  triste   ma   piena di vita  e  di speranza  \   accettazione della  morte    la  seconda  allegra e spensierata     una  vita  on the road

  
Prima di morire pubblica il suo ultimo saluto su Instagram. Le parole di questo ragazzo vi commuoveranno


Chi ha conosciuto Pablo Ráez di Marbella, sa che era una persona speciale, piena di vita e di sogni. Il ragazzo, spagnolo, il 26 marzo del 2015, ad appena 18 anni, ha scoperto di avere una malattia terribile: la leucemia. Era un giovane atleta e questa scoperta gli ha sconvolto letteralmente la vita. Per evitare il peggio, ha dovuto sottoporsi a cicli di chemioterapia e a un paio di trapianti di midollo osseo.Ormai passava più tempo in ospedale che a casa o a scuola. Per lui la speranza si riaccese quando l’ultimo trapianto di midollo osseo si rivelò di successo: il cancro era in remissione. Forse avrebbe potuto riprendere in mano la sua vita e progettare un futuro con la sua ragazza, Andrea. Ma anche questa speranza, nei mesi si è rivelata vana.
Solo dieci mesi dopo, la leucemia è tornata. Il midollo osseo del suo papà non aveva funzionato. Trovare un donatore era molto difficile. Pablo non voleva arrendersi, così con la poca forza che gli rimaneva, lanciò una campagna sui social media – #retounmillón – con lo scopo di raccogliere in tutta la Spagna un milione di donatori. Il suo obiettivo era quello di informare la gente sull’importanza di donare. Ecco quali sono state le sue parole: “Sarebbe triste morire solo perché non ho trovato il midollo compatibile. Chiunque potrebbe aumentare le mie possibilità di sopravvivere”.
Ha condiviso ogni giorno la sua quotidianità con la rete, per sensibilizzare il maggior numero di persone a quest’atto di solidarietà. Grazie a questa campagna, il numero dei donatori di midollo osseo in Spagna è cresciuto del 1.000%. Ormai era stato soprannominato, il “gladiatore”. I suoi follower su Instagram, più di mezzo milione, lo sostenevano tutti i giorni. Nell’ottobre del 2016, erano arrivate delle buone notizie: c’era un donatore compatibile.
 Solo dieci mesi dopo, la leucemia è tornata. Il midollo osseo del suo papà non aveva funzionato. Trovare un donatore era molto difficile. Pablo non voleva arrendersi, così con la poca forza che gli rimaneva, lanciò una campagna sui social media – #retounmillón – con lo scopo di raccogliere in tutta la Spagna un milione di donatori. Il suo obiettivo era quello di informare la gente sull’importanza di donare. Ecco quali sono state le sue parole: “Sarebbe triste morire solo perché non ho trovato il midollo compatibile. Chiunque potrebbe aumentare le mie possibilità di sopravvivere”.xHa condiviso ogni giorno la sua quotidianità con la rete, per sensibilizzare il maggior numero di persone a quest’atto di solidarietà. Grazie a questa campagna, il numero dei donatori di midollo osseo in Spagna è cresciuto del 1.000%. Ormai era stato soprannominato, il “gladiatore”. I suoi follower su Instagram, più di mezzo milione, lo sostenevano tutti i giorni. Nell’ottobre del 2016, erano arrivate delle buone notizie: c’era un donatore compati
Ecco cosa scrive sui social in questo momento assai positivo della sua vita: “Mi hanno chiesto dove trovassi la forza, la voglia di vivere e come riuscissi comunque a sorridere nonostante la situazione tragica. Ma io non ho paura della morte, mi sento libero. Quando smetti di aver paura sei libero, ed è allora che trovi la forza”.

Purtroppo, non è andato come sperava. Il destino aveva in serbo altro per lui. Dopo il secondo trapianto inutile, le speranze erano ridotte al minimo. Ma ha, fino all’ultimo giorno, trovato il coraggio per affrontare le sfide e non buttarsi giù. Lo scorso 25 febbraio 2017, a soli 20 anni, Pablo si è spento. Ecco cosa ha scritto su Instagram qualche giorno prima di morire:
“Ho pensato a qualcosa che vorrei condividere con voi. Viviamo in una società dove si lavora, si guadagna denaro e tutto è regolato dal tempo. Quindi viviamo per il tempo. Viviamo schiavi di un sistema basato sulla burocrazia. Il pianeta si sta deteriorando poco a poco e siamo noi che lo stiamo distruggendo: i poli si stanno sciogliendo, continuiamo a costruire con noncuranza, causiamo le guerre, uccidiamo altra gente e facciamo di tutto per portare questo mondo verso la fine. Lo facciamo per i soldi.
Non siamo felici di quello che abbiamo, vorremmo sempre di più. Dovremmo vivere più semplicemente, e in un sistema che si prenda cura delle persone e del nostro pianeta meraviglioso. Dovremmo essere più felici e accorgerci di quello che stiamo facendo per questo mondo. Dovremmo capire cosa è veramente importante. C’è bisogno di più amore, più sorrisi, abbracci e pace. Proviamo ad essere la migliore versione di noi stessi. Proviamo ad essere riconoscenti alla vita perché ci dona ogni giorno il lusso di svegliarci. Siamole riconoscenti”.
Il 28 febbraio, Pablo avrebbe dovuto ricevere una medaglia al valore dalla città di Marbella. Purtroppo, non è riuscito in tempo a riceverla. Ecco come concludeva il commovente post: “La morte fa parte della vita, ecco perché non dovrebbe essere temuta ma abbracciata”.

Andrea, la fidanzata, della quale Pablo aveva chiesto la mano qualche mese fa, ha ripubblicato questo scatto che i due avevano fatto qualche mese prima. Lei è rimasta sempre al suo fianco, durante questo travagliato cammino. Pablo aveva dedicato alla sua amata ragazza delle parole molto belle:
“Ti amo Andrea e non amo solo te, ma anche la vita e vivere al massimo. Non importa quello che mi succederà, sarà comunque un dono della vita. Grazie alla vita e a te, Andrea”.
Anche se è stata molto breve la sua vita, nessuno si dimenticherà di lui e di quello che ha lasciato al mondo intero.



Milano, mollo tutto e vado a vivere in camper: Pier e Amelia da 5 anni nomadi felici


Pierluigi Galliano e Amelia Barbotti sono marito e moglie. Cinque anni fa hanno deciso di licenziarsi, di vendere casa, mobili, auto per girare il mondo in camper. Hanno lasciato Milano e l'Italia per andare all'avventura. Lui lavorava come cameraman a Mediaset, lei come impiegata in un'azienda di rubinetteria. "Non mettiamo mai piede in un ristorante, gestiamo con oculatezza i risparmi di 50 anni di lavoro in due, non frequentiamo le aree di sosta a pagamento". Pentiti? "Nemmeno per sogno: siamo nomadi felici"

Video di Francesco Gilioli