5.9.20

La storia di Black Chopin, una piccola cornacchia salvata a Capri da morte certa e diventata una mascotte dell’isola.


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Capri pazza per Black Chopin: storia di un’amicizia tra uomo e cornacchia Maddalena la chiama, lei arriva. Nel giro di qualche minuto. Si chiama Black Chopin la piccola cornacchia divenuta quasi una mascotte sull’isola di Capri: era un pulcino in difficoltà, tre mesi fa, accerchiata dai gatti del porto turistico, quando la ragazza decise di raccoglierla e accudirla, con la consulenza a distanza di un veterinario, Giordano Nardini. Oggi la cornacchia vive libera nel cielo dell’isola ma risponde entusiasta ai richiami dell’amica umana, che ha 32 anni e fa la stilista (ma a Capri gestisce anche un B&B). Sembra una vera amicizia, dalla quale – certo – l’uccello ricava pasti succulenti e qualche coccola. C’ero, quando ha spiccato il primo volo”, racconta Maddalena, che la premiava di volta in volta con del cibo. “I corvidi riconoscono voce e volti degli umani”, aggiunge. Così oggi la cornacchia pare mostrare una certa predisposizione al contatto con l’uomo. “E in molti capresi mi mandano le foto di Black Chopin ai bordi di una piscina o in piazzetta: un messaggio per sottolineare la necessaria armonia dell’uomo con gli altri esseri viventi, in una dimensione forse in parte inedita dell’isola di Capri”.

Pasquale Raicaldo e video di Maddalena Mangialavori

per  verificare la news        ho fatto delle ricerche  ed    ho trovato la  conferma  da  caprinews 
del  5 Settembre 2020


La storia di Black Chopin, una piccola cornacchia salvata a Capri da morte certa e diventata una mascotte dell’isola. Foto e video







La storia di Black Chopin, una piccola cornacchia salvata a Capri da una morte certa e diventata nel tempo una piccola mascotte per l’isola. Una storia di amore per gli animali, di tolleranza, di altruismo che val la pena raccontare attraverso le parole di chi l’ha aiutata fin da subito prendendosene cura, insieme a foto e video che documentano l’intero percorso.
“Ho trovato la piccola cornacchia, ormai più di 3 mesi fa, sola e impaurita giù in Darsena. Era visibilmente un pulcino in difficoltà (accerchiata com’era dai gatti del Porto Turistico), zoppicava dalla zampa destra, gonfia e dolorante. Non la poggiava neppure”.
Inizia così il racconto che Maddalena Mangialavori affida al nostro giornale online.
“L’ho osservata per parecchi minuti – prosegue la ragazza – prima di avvicinarmi e raccoglierla, perché sapevo che spesso i genitori si prendono cura dei piccoli anche quando essi cadono dal nido, ma in questo caso il tempo passava, e nessuno sembrava in procinto di giungerle in soccorso. Così l’ho raccolta io.
Non era la prima volta che salvavo un animaletto in difficoltà e sapevo già a chi rivolgermi per un consulto veterinario professionale serio.
Giordano Nardini è uno dei migliori veterinari in Italia. Mi aveva aiutato già parecchie volte in passato, e così anche questa volta.
Mi ha spiegato come prendermi cura della piccola, da come nutrirla e curarla, a come procedere a pesarla giorno dopo giorno… Sempre presente e premuroso, Giordano mi ha insegnato tutto quello che oggi so rispetto a questo meraviglioso animale. E’ stato fondamentale e sincero il suo aiuto visto che da anni porta avanti l’Aba (l’Associazione Benessere Animale, fondata nel 2007 da un gruppo di Medici Veterinari) che si pone come scopo quello di aiutare concretamente animali abbandonati e bisognosi di cure”.
Oggi Black Chopin, questo è il suo nome, è un piccolo di cornacchia sveglio e vivace. Ama il contatto con gli esseri umani, dà confidenza e vuole giocare con tutti, ma non è stato facile e immediato all’inizio.
“Le prime settimane – racconta Maddalena – sono state cruciali, ancora non ero sicura che sarei riuscita a salvarla, ma una cosa era certa: è stata cresciuta libera sempre. Mai messa in gabbia, neanche dal primo momento. Non solo per un discorso etico personale, ma anche scegliendo di operare nel pieno rispetto delle leggi Italiane che lo vietano appunto. Dopotutto quando l’ho trovata era troppo piccola, non sapeva ancora volare, ma in tutto ciò desideravo che lei si sentisse pronta e così è stato. Alla vista dei primi saltelli e dispiegamenti di alucce, io e la mia amica Michelle Lauro abbiamo passato interminabili pomeriggi insieme a lei facendole fare esercizi di volo, chiamandola con un premio in cibo da un braccio all’altro dapprima, e poi spronandola via via a voli sempre più lunghi”.
La cornacchia è un animale davvero intelligente e sensibile, e così la piccola Black è alla scoperta del mondo.
“Tutta l’isola – continua Maddalena – sta facendo pian piano la sua conoscenza, anche perchè è facile entrare in sintonia con questa buffa palla di piume nere e grigie. Si riconosce che abbia già avuto un contatto umano dagli anelli blu sulle zampe, e dalla sua enorme voglia di cibo e coccole! Fabio Ferraro inoltre mi ha aiutato tantissimo in quest’ultimo periodo, ho avuto il piacere di conoscerlo e apprezzarlo sempre di più per il grande lavoro che fa sull’isola battendosi in prima persona per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente e degli animali”.
“In questi mesi – aggiunge la “madre adottiva” di Black Chopin – l’isola sta imparando a conoscere Black, e così a ricordarsi che amare gli animali si traduce in ‘rispettarli e proteggerli’, ma significa anche accettare e comprendere che anche loro fanno parte della nostra casa, la Terra. Significa comprendere che esista una profonda connessione che ci lega tutti. Vuol dire essere davvero in armonia con l’universo.
Da questa concezione nasce la necessità di un rapporto solidale e di reciprocità con l’ambiente di cui Capri si fa portavoce da sempre per le sue bellezze eterne, e oggi ancora di più forse anche con la storia di Black, una storia a lieto fine sia per la piccola, sia per il feedback positivo dimostrato dai Capresi per la tolleranza e la cura di questa creaturina”.
“Dalle esigenze individuali nascono atteggiamenti partecipativi all’interno dell’ecosistema e ogni giorno ricevo da Fabio video di tutte le persone che entrano in contatto con Black, che le danno da mangiare e giocano”, conclude Maddalena.






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Il porno che emancipa Per i ragazzi dei Paesi repressivi, l’industria del sesso è spesso l’unico strumento di liberazione dell’immaginario

da d di repubblica DI NICOLA BARONI

 I film porno piacciono anche alle donne | RagazzeOnline

 Porn is business». Michael Lucas risponde senza neanche pensare alla domanda se abbia mai consideratoil suo lavoro come una forma di attivismo. Nato a Mosca nel 1972 da genitori ebrei e naturalizzato statunitense, una laurea in legge, nel 1998 ha fondato la casa di produzione cinematografica Lucas Entertainment, specializzata in pornografia gay.
 «Ciò non significa che non possa avere un impatto positivo sulle persone. È quello che ho vissuto io stesso: la società russa in cui sono cresciuto considerava l’omosessualità qualcosa di criminale, di cui vergognarsi. Non se ne parlava, e quando lo si faceva gli omosessuali erano rappresentati come clown, esseri umani effeminati, volgari e senza sessualità». Poi nel 1990 un amico che viaggiava per lavoro in Occidente tornò con un porno in videocassetta. «Per la prima volta vidi che le persone gay erano esseri umani sensuali, di bell’aspetto, maschili e muscolosi: cose che prima non avrei neanche potuto immaginare. Inoltre facevano sesso divertendosi, senza paura, orgogliosamente: fu una liberazione».L’omosessualità in Russia è stata depenalizzata nel 1993, ma dal 2013, con la scusa di proteggere i minori, è vietata la “propaganda gay”, concetto volutamente ambiguo. Il consumo di pornografia è permesso, ma non la sua produzione, con conseguenze paradossali. L’attivista Yulja Tsvetkova lo scorso giugno è stata accusata di “produzione e diffusione di materiale pornografico” per aver postato sul social VKontakte disegni stilizzati di vagine, e rischia fino a 6 anni di carcere; ma questo stesso social è una delle piattaforme più utilizzate dai russi per accedere alla pornografia pirata statunitense, omosessuale e non. «I social e i media del Paese oggi permettono di conoscere la realtà occidentale, inoltre ci sono club e associazioni gay. Una situazione simile a quella della Russia in cui sono cresciuto si ritrova oggi in molti paesi africani e mediorientali», continua Lucas. «Ricevo migliaia di messaggi sui miei profili social da giovani di tutto il mondo, molti da paesi musulmani, che mi esprimono gratitudine per il mio lavoro».La Lucas Entertainment è rimasta una casa di produzione indipendente, mentre tutte le altre negli ultimi anni sono state acquisite dai due colossi del settore (AEBN e MenGeek), incapaci di fronteggiare da sole la pirateria e la concorrenza delle piattaforme che monetizzano la produzione amatoriale, come OnlyFans. Eppure è solo attraverso la pirateria che i video di Lucas - scaricati, tagliati, rimaneggiati, compressi - arrivano agli smartphone dei ragazzi ugandesi, che se venissero scoperti a ripetere quegli atti rischierebbero addirittura l’ergastolo. «Fino all’università non immaginavo nemmeno esistessero porno gay», racconta uno studente di 30 anni di Kampala, da tre anni in Italia, che preferisce mantenere l’anonimato. Poiché il costo della connessione a Internet in Uganda è elevato, per molti l’unico modo per accedere a questi contenuti è lo scambio su chat a basso consumo di dati: «C’erano diversi gruppi WhatsApp in cui si condividevano immagini e video porno. Un amico mi ha fatto entrare in un gruppo di cinquanta persone: non ci conoscevamo, si parlava di tutto ma in maniera superficiale. Poi, un giorno alla settimana (il porn Tuesday), era dedicato alla condivisione di video da parte di chi poteva scaricarli, magari dall’ufficio. I video erano di pochi minuti, di bassa qualità, ma bastavano». Più che un piacere superfluo, quello era il loro unico spazio di libertà: «Il sesso gay era considerato una deviazione innaturale e immorale, con quei video ho scoperto che due uomini potevano divertirsi facendo sesso, che questo poteva essere una gioia e che l’omosessualità non c’entrava nulla con la pedofilia, al contrario di quanto volevano farci credere».

da d   di repubblica  

di Nicola Baroni


L’Uganda è il Paese con il maggior numero di ricerche su Google per “gay sex pics”. Al secondo posto la Nigeria, dove gli atti omosessuali sono puniti con la pena di morte. Il costo della connessione e la scarsità dei mezzi tecnologici per ora consentono a entrambi gli Stati africani di non preoccuparsi di bloccare l’accesso alla pornografia online. Cosa che invece la Cina fa sistematicamente da 12 anni: nel solo 2010, 60mila siti web sono stati chiusi e migliaia di cyber cinesi puniti per diffusione di pornografia online. Nonostante la censura, la Cina è il terzo Paese per numero di accessi a Pornhub Gay, sottosezione della più grande piattaforma di pornografia online, che nel 2019 ha avuto 42 miliardi di visite, circa 115 milioni al giorno (il 6% del traffico del sito riguarda la sezione gay). «I giovani sono sempre riusciti ad aggirare la censura in vari modi», spiega Runze Ding, 31 anni, originario di Shenzhen e dottorando in Media e Comunicazione all’Università di Leeds. «I più tecnologici oggi usano VPN, cioè una rete di telecomunicazioni privata che permette di cambiare la posizione virtuale del proprio IP, per accedere a piattaforme occidentali, da OnlyFans a Twitter, che è sempre più utilizzato per diffondere pornografia. Molti utiizzano i gruppi di WeChat -il WhatsApp cinese - per vendere e acquistare video, poi ci sono le chat online, i social come Weibo, le app di live-streaming, insomma ogni piattaforma è buona». Ding ha passato quasi un anno, tra il 2016 e il 2017, con alcune comunità di giovani omosessuali di Guangzhou e Pechino, e ha intervistato 82 ragazzi nati tra gli anni ’80 e ’90. Uno degli obiettivi era capire il loro rapporto con la pornografia per uno studio pubblicato lo scorso giugno sul Porn Studies Journal. «Tutte le persone che ho incontrato hanno consumato pornografia fin da giovani: hanno imparato tutto lì, perché l’educazione sessuale nel Paese non include ovviamente i rapporti omosessuali».
Con la diffusione di Internet, quei ragazzi hanno avuto libero accesso alla pornografia occidentale e giapponese, fino a quando il governo non se ne è accorto. Tra il 2010 e il 2013, all’apice della censura online, hanno cominciato a comparire alcuni video della serie Chitu, una misteriosa casa di produzione locale. «Gli attori erano cinesi, forse prostituti, i video non di buona qualità se confrontati con quelli occidentali e giapponesi, e molto focalizzati sull’atto sessuale, senza contesto», spiega Ding. Prodotti scadenti, ma in cui per la prima volta compariva il corpo cinese sessualizzato e quei ragazzi scoprivano di essere non solo voyeur ma chiamati direttamente in causa: «A sorpresa, nonostante la scarsa qualità, tutti i miei intervistati apprezzavano quei video perché li sentivano più autentici. Per loro era più facile immedesimarsi».
La produzione locale negli ultimi anni era riemersa attraverso alcune app di live-streaming, ma il Governo nel 2018 ha attribuito la responsabilità dei contenuti trasmessi dagli utenti alle società proprietarie delle app, incoraggiandole a spiarsi e denunciarsi a vicenda. Nello stesso anno due donne sono state condannate a 10 anni di prigione per aver diffuso racconti a tema omosessuale. Il gruppo Lesbian Database ha sfidato la censura pubblicando video porno con attrici vestite: sono stati rimossi. «Ora i creatori cinesi di contenuti pornografici, piccole compagnie o individui, si stanno spostando su piattaforme occidentali come Twitter e OnlyFans», spiega Ding. «Rischiano, ma sono più determinati della censura». Con oltre 100 miliardi di dollari di fatturato annuale, stigmatizzata dai moralisti, disapprovata dalle religioni, snobbata dall’intellighenzia, trascurata dagli economisti, ostacolata dalla politica, l’industria del porno sarà anche solo un business, ma in alcuni casi è l’unica che racconti a molti ragazzi quanto sia eccitante la libertà.  

La mindfulness dei sopravvissuti al coronavirus, cronache da 20 esperienze faccia a faccia con la morte

invece di andare a Rroma se avete ..... gli attributi andate a manifestare o fare i vostri comizi del ..... davanti a coloro che hanno perso i familiari o sono sopravvissuti vedere articolo sotto preso da https://gazzettadimantova.gelocal.it del 28\5\2020 va bene avere una teoria diversa da quella ufficiale , ma continuare a negarlo è da criminali . pensate che anche un medico negazionista ( o classificato come tale ) come zangrillo ha cambiato idea



Hanno provato gli spaventosi sintomi del Covid-19 sulla propria pelle. Sono stati in terapia intensiva, intubati o sotto il casco dell'ossigeno ad alta pressione dove la sensazione è quella di morire soffocati. Spesso, in effetti, sono stati a un passo dalla morte e consapevoli di esserlo, in una situazione di straziante isolamento dai propri cari, e non di rado costretti ad assistere alla morte dei loro vicini di letto. Alcuni, a causa della sedazione, non ricordano quasi nulla. Altri hanno ricordi molto vivi, ma che talvolta assomigliano più ad allucinazioni incongruenti. La maggior parte dei sopravvissuti al coronavirus descrive l'esperienza della malattia come una discesa agli inferi. Un percorso traumatico dal quale, come Dante, si esce provati, ma anche più consapevoli di se stessi e forse migliori. C'è chi ha scritto il testamento sulle pagine di un libro. Chi si è ripromesso di cambiare radicalmente la propria esistenza, chi ha scoperto la fede in un dio diverso e chi, a 102 anni, ha capito di avere ancora voglia di vivere. Molti sentono di essere tornati a una nuova vita, ma c’è chi è convinto che, una volta passata l'emergenza, il mondo li costringerà a viverla esattamente come prima.

Sergio Ramazzotti – https://parallelozero.com





© Sergio Ramazzotti/Parallelozero



Igor Prussiani, 48, imprenditore, Curno (BG)
«Ricordo immagini terribili. Persone attorno a me che non riuscivano a respirare. Le vedevi alzare le mani per chiedere aiuto, perché stavano soffocando, e l’infermiera lì vicino non poteva fare nulla. La gente continuava a morire. Era come un incubo, a un certo punto ho pensato: che diavolo ci faccio qui dentro?
Mi dicevano di non preoccuparmi, ma come fai a non preoccuparti quando continui a veder morire la gente intorno a te? A un certo momento, quando ho cominciato a stare meglio, mi hanno detto di mettermi seduto per mangiare qualcosa, ma ho risposto che referivo restare sdraiato, così non avrei dovuto guardarmi ancora attorno. E in tutto questo, non so perché, ho continuato ad avere il desiderio spasmodico di bere un’aranciata»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Italica Grondona, 102, Genova

«Non avrei mai immaginato di trovarmi in questa condizione a 102 anni. Questa malattia mi sembra ancora quasi un sogno, non mi sembra realtà. E mi pare così strano che sia capitata a me. Avevo già fatto l’influenza spagnola, che scoppiò al termine della guerra mondiale, e ricordo che mi sentivo più o meno come ora. Ma il dolore che ho provato stavolta, non l’avevo mai provato prima in vita mia. Mi hanno fatto così tanti esami, uno dopo l’altro, entrando con l’ago. In alcuni momenti ho pensato che se fossi morta sarebbe stata la mia liberazione. Era dolorosissimo: un’immagine che associo a quel dolore sono i fuochi d’artificio. Non ho il coraggio di buttarmi giù dalla finestra: l’avessi avuto, probabilmente l’avrei fatto. Chissà, forse ho ancora voglia di vivere»





© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Carlo Giussani, 60, tecnico radiologo, Cremona
«Non ci rendiamo conto di respirare. Lo capisci solo quando ti manca l’aria, come mancava a me quand’ero sotto il casco a ossigeno. Lì capisci che potresti morire, e ogni volta che cerchi di inspirare senti come un orologio che ti batte dentro. E proprio quando vorresti il conforto della tua compagna, poter parlare con lei, ti mancano le forze per farlo: ascoltavo i suoi messaggi vocali, ma non potevo rispondere. C’è stato un momento in cui ho creduto che non ce l’avrei fatta. Ho rivisto la mia vita, mi sono chiesto se avevo fatto tutto bene, se avevo amato come avrei dovuto amare. E con fatica ho scritto anche un testamento: purtroppo l’unico libro che mi ero portato era un volume comico, di Cochi e Renato. È lì che ho scritto le mie ultime volontà. Ho pensato a molte cose, e molte me ne sono ripromesse. Cercherò di metterle in pratica. Ma se devo pensare alla collettività, non credo che quest’esperienza in generale ci renderà migliori: se eravamo stronzi prima, lo rimarremo anche dopo»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Giorgio Seminati, 78, Gorle (BG)
«Sono stato ricoverato in ospedale a Ponte San Pietro per 20 giorni, sotto ossigeno, è stata una sofferenza indicibile. Ho assistito alla morte di tre miei compagni di stanza. E in quello stesso periodo è mancato anche mio fratello, che non era un semplice congiunto ma un amico e un compagno di vita: siamo rimasti orfani in tenera età, io avevo due anni e lui cinque, e dall’orfanotrofio fino al collegio e all’età adulta eravamo sempre stati insieme. E mi sento in colpa, perché io ce l’ho fatta e lui no. L’esperienza mi ha segnato profondamente e mi ha reso fragile. La mia salvezza è stata mia figlia, che lavora come infermiera in quello stesso ospedale. Ogni volta che terminava il turno, veniva da me per assistermi e curarmi. Tutte le infermiere sono state straordinarie, in quelle loro tute da astronauti dove soffrivano, avevano la forza di chiamarmi cucciolo, ragazzo, amore, e io che sono nonno. Avevo paura di perdere la vita, gli affetti familiari, l’unica cosa che dà un senso alla nostra esistenza. E oggi sono consapevole di averne avuta una nuova in dono. Durante questa esperienza ho riscoperto la fede: tutti siamo cattolici all’acqua di rose, ma in quei momenti duri mi sono sorpreso a pregare con un fervore nuovo. Oggi che sono ospitato ormai da un mese in un Covid hotel a Bergamo, assisto sempre alla messa del Papa in televisione. So che la mia scala di valori è cambiata: prima che mi accadesse questo volevo sostituire la macchina, adesso non me ne importa più nulla. Devo godermi i miei affetti».



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Franco Pugliese, 67, medico, San Polo di Podenzano (PC)
«In ospedale mi hanno messo il casco a ossigeno quasi subito, i colleghi mi hanno detto senza mezzi termini che altrimenti correvo il rischio di essere intubato. Ho avuto una crisi di panico dopo un’ora. Ho cercato di calmarmi per sopportare quella che era una vera tortura. Non sapevo che avrei dovuto farlo per 18 giorni. A un certo punto ho provato la sensazione nettissima che la mia testa si fosse separata dal corpo, che non sentivo più. Mi sono convinto di essere diventato solo una testa. Non avevo più la cognizione del tempo, e mi sentivo in un’altra dimensione. Il mio pensiero fisso era il terrore di morire, ed ero molto consapevole di essere su un crinale dal quale avrei potuto scivolare in ogni istante giù, verso la morte. I momenti della mia vita mi passavano davanti in modo disordinato, galleggiando come pezzi di sughero. A darmi coraggio erano le albe, che vedevo dalla finestra vicino al mio letto: ogni volta che vedevo spuntare il sole, sentivo di aver vinto una piccola battaglia. L’attimo di disperazione più terribile è stato quando ho visto entrare mio figlio, anche lui medico, con indosso la tuta. Mi ha stretto la mano e non riusciva a parlare. Entrambi avevamo le lacrime agli occhi, e finalmente lui mi ha detto: ‘Sai che ti ho sempre voluto bene’. In quei momenti ho fatto un bilancio della mia vita, dicendo a me stesso che era ingiusto che dovessi morire, dopo aver dedicato una vita ad aiutare gli altri, ma ho fatto anche un lungo elenco dei rimpianti e dei rimorsi. Un’esperienza di incredibile potenza: ti fa capire come niente altro il significato della parola vita. Ho immaginato di aver provato ciò che provano coloro ai quali viene detto che l’indomani verrà eseguita la loro condanna a morte»



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Ida Cappa, 56, artigiana, San Vittore Olona (MI)
«Sono stata ricoverata a Castellanza. I sintomi si sono aggravati rapidamente, fino al giorno in cui mi hanno annunciato che avrebbero dovuto intubarmi d’urgenza. Era notte, mi hanno detto che non c’era più molto tempo e avrei dovuto chiamare in fretta un familiare. Ho telefonato a mia sorella, dicendole fra le lacrime che forse non ci saremmo riviste più. In quel momento ero sicura che sarei morta. Giù in terapia intensiva i medici mi hanno circondata e mi hanno detto che mi avrebbero addormentata, ma di non preoccuparmi perché ero in buone mani. Mi sono risvegliata dopo due settimane. Mentre dormivo sognavo di essere in un prato verde pieno di luce e di animali, e sentivo tutto ciò che i medici dicevano: temevano di non riuscire a salvarmi. Ero incosciente, ma mi sono resa perfettamente conto che a un tratto, disperati, i medici hanno deciso di mettermi in posizione prona. Ricordo che volevo protestare, ma non potevo parlare. In seguito ho saputo che uno di loro aveva telefonato a mia sorella, comunicandole che per me non c’erano quasi più speranze. Percepivo accanto a me la presenza di mio padre, morto da tempo: mi teneva una mano sulla gamba e continuava a ripetermi: ‘Devi lottare, devi farcela’, mentre io gli rispondevo che non ce la facevo più e volevo morire. Poi mi sono svegliata. Le due settimane successive le ho passate sotto ossigeno, e ho continuato con le allucinazioni, ero certo di avere tutta la mia famiglia attorno a me. La gente moriva attorno a me, chiudevano i corpi nei sacchi. Pregavo gli infermieri di mettere un paravento affinché non fossi costretta a vedere, loro si scusavano dicendo che non ce n’erano. Ricordo un medico reduce da due giorni consecutivi di turno in ospedale: è venuto a farmi un prelievo, ed è collassato ai piedi del mio letto per la stanchezza. Prima di questa malattia non credevo più nell’amore o nell’amicizia, mi ero isolata: mi sono stupita di scoprire quante di quelle persone che credevo perdute hanno pianto e pregato per me».



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Angelo Cortinovis, 48, sacerdote, Bergamo
«Sono stato per una settimana in rianimazione in coma farmacologico, in posizione prona. Secondo i medici la mia guarigione è stata un miracolo, visto che sono stato letteralmente a un passo dalla morte. Di quella settimana non ricordo quasi nulla. L’unico ricordo che ho è che a un tratto mi sono convinto di essere finito dentro un videogioco, un gioco stupido, nel quale ero io il giocatore. Un’immagine del tutto incongruente, visto che non ho mai giocato a un videogame in vita mia. E avevo un pensiero ricorrente: dato che avevo una sete tremenda, desideravo in modo ossessivo bere una Pepsi. Anche quello non so che senso abbia, visto che non mi piace la Pepsi: eppure è la prima cosa che ho fatto dopo essere tornato a casa»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Yaoling Zhu, 43, imprenditrice, Milano
«Mentre ero ricoverata, il mio pensiero era concentrato su mio fratello, che era anche lui in ospedale a
Bergamo, in attesa di un letto in terapia intensiva, che non riuscivano a trovare. Mi svegliavo di notte piena di angoscia e pensavo a lui, pensavo che sarebbe morto lontano da me, o che io sarei morta lontano da lui, e che non l’avrei mai più rivisto. Poi un giorno ho visto sul cellulare quella tremenda immagine dei camion dell’esercito che portavano via le bare da Bergamo, e ho pianto tutte le mie lacrime. In quei momenti il mio credo buddista mi ha aiutata a rinconciliarmi con l’idea della morte, ma ero disperata perché pensavo che avrei lasciato soli i miei figli. Mentre ero in ospedale, ho promesso a me stessa che se ne fossi uscita viva avrei fatto molte cose, ma mi rendo conto che non sto mantenendo quelle promesse. Sono una milanese imbruttita, e sono tornata alla solita frenesia della vita di prima, dove tu non sei un individuo, sei soltanto un ingranaggio»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero



Marco Cavalli, 52, artigiano, Curno (BG)
«Sono arrivato in ospedale il 12 marzo, al Giovanni XXIII di Bergamo. Nei giorni della degenza, sotto ossigeno, ho visto sfilare davanti a me molte barelle con su chi non ce l’aveva fatta. Io sono fortunato, sono qui, da un mese nel Covid hotel di Bergamo. Anche se sono al quarto tampone positivo consecutivo. Nei primi giorni ho temuto di non farcela, soprattutto perché vedevo le notizie alla televisione, sembrava che noi pazienti fossimo destinati a morire tutti, e gli ospedali non erano in condizioni di salvarci. Pensavo alla mia famiglia, purtroppo avevo tutto il tempo per pensare a loro e a immaginarmi come sarebbero potuti andare avanti senza di me, se fossi morto. Adesso che ne sono quasi fuori penso al mio lavoro, ho paura di come sarà il futuro, di come potrò ripartire, sempre che ci siano le condizioni per farlo. Nei momenti più bui ho pensato di dover sistemare la mia vita, soprattutto trovare un alloggio adeguato per la mia famiglia. Quello attuale è troppo piccolo per cinque persone, abbiamo un solo bagno, e anche per questo non posso tornare a casa. E poi voglio dimenticare tutto: ripartire da zero».





© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Gian Luca Rota, 88, sacerdote, Bergamo
«Sono stato in pronto soccorso un’intera giornata prima che mi trovassero un letto al Gavazzeni. Poi mi hanno messo subito sotto ossigeno ad alta pressione. Mi sentivo mancare l’aria, era una sensazione tremenda. Sono morti due miei vicini di letto, uno dopo l’altro. Un giorno mi hanno comunicato che era morto di Covid-19 anche mio fratello, più giovane di me di quattro anni, ricoverato in un altro ospedale, a Como. C’è stato un momento in cui mi sono consegnato al Signore e gli ho detto: fa’ di me ciò che vuoi. Da quel momento ho cominciato a stare meglio. Allora sognavo una stanza mia, una piccola stanza con un letto, un bagno, soltanto mia. Sognavo l’intimità. Qualche volta la notte mi sveglio e sento ancora il rumore delle barelle che portavano via i morti».





© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Sergio Picchio, 75, progettista edile, Genova
«Sono entrato in ospedale il 12 marzo. Dopo pochi giorni mi hanno messo sotto il casco con l’ossigeno a
pressione. Ma non funzionava, così mi hanno indotto il coma farmacologico e mi hanno intubato. In quelle condizioni ho trascorso una settimana, prima di risvegliarmi e rendermi conto della situazione: mi hanno raccontato che mi sono così spaventato da arrivare a strapparmi il tubo da solo. Nei miei incubi, ricordo di aver sviluppato la certezza lucidissima e totale di essere stato sequestrato da una clinica privata che voleva estorcermi 200 mila euro per le cure, mentre anche i carabinieri erano in combutta con la clinica. E questa certezza ha continuato a perseguitarmi anche dopo essere uscito dal coma. Tanto che appena ho potuto fare la prima telefonata a mia moglie, le ho raccontato questa storia e le ho chiesto di chiamare la guardia di finanza perché venissero a salvarmi. A un certo punto mi sono anche convinto che i medici volessero uccidermi iniettandomi dei farmaci: infatti avevo cercato di confezionare delle armi di difesa modificando le posate che mi portavano per mangiare. Mi hanno raccontato che addirittura una volta ho aggredito una dottoressa. E me ne dispiace, perché il personale sanitario è stato assolutamente
straordinario e nutro verso di loro una riconoscenza infinita».





© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Silvio Caligaris, 65, medico infettivologo, Brescia
«Durante le prime tre settimane dell’epidemia, ho lavorato con turni massacranti in ospedale senza sosta, per fare fronte all’enorme numero di pazienti. Molti di questi morivano, qualcuno anche perché avevamo dovuto fare delle scelte durissime, visto che i posti erano limitati, e credo che tutto ciò mi abbia causato uno stress che ha indebolito le mie difese immunitarie, facendo sì che alla fine anch’io contraessi il Covid-19. In terapia intensiva ho avuto paura, ho temuto di morire, e ho pianto molto vedendo pazienti che morivano attorno a me. La cosa che più mi ha spaventato sono stati gli occhi dei miei colleghi, quelli con cui lavoro ogni giorno: al di sopra della mascherina li vedevo sempre più preoccupati per me, e da medico mi sono reso conto che la mia situazione stava precipitando. Mia moglie lavora come caposala nello stesso ospedale, ogni tanto veniva a guardarmi al di là del vetro, e la vedevo piangere. Era devastante».



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Gianmario Della Giovanna, 51, sacerdote, Bergamo
«Appena ricoverato mi hanno messo subito il casco, e mi hanno lasciato in pronto soccorso all’ospedale di Seriate. Il mattino dopo mi hanno portato in reparto. Il ricordo più intenso è quello del dolore: non avevo mai sofferto di un male così atroce in tutta la mia vita. In particolare quello causato dai prelievi arteriosi, che era spaventoso. A sopportarlo mi ha aiutato il pensiero che, se un ago era in grado di provocarmi un tale dolore, che cosa doveva significare aver avuto un chiodo piantato a martellate nel polso, e lasciato lì per ore, fino alla fine dell’agonia della croce. Questo mi ha aiutato a congiungermi in modo potente, prima impensabile, con la mia fede, a sentirne su di me l’incarnazione. Sono entrato in ospedale con un Dio, e ne sono uscito con uno completamente diverso. Ho ancora bisogno di elaborare quest’esperienza»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Cristina Marenzi, 56, Cremona
«Mio marito è stato ricoverato per il Covid-19, ed è stato in terapia sub-intensiva. Al tempo stesso, anch’io e mia figlia siamo risultate positive, e l’esperienza di avere un proprio caro all’ospedale, lontano, mentre io mi trovavo in quelle condizioni e in isolamento in casa, è stata psicologicamente devastante, in una situazione di guerra. Quando mio marito ha cominciato a stare molto male e a non respirare, abbiamo chiamato il 118, ma l’ambulanza non è mai arrivata. Lo abbiamo portato in ospedale io e mia figlia. Ricordo questa luce intensissima, bianca, che illuminava il parcheggio dell’ospedale deserto, una visione spettrale. E il silenzio fra di noi. Quella è stata l’ultima volta che ho visto mio marito, prima che tornasse a casa»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





«Alberto Matteelli, 60, medico infettivologo, Passirano (BS)
«Una volta in ospedale, il decorso è stato rapido, in pochi giorni mi hanno portato in terapia intensiva. È un
periodo di cui ho pochi ricordi, quando sono arrivati al punto di dovermi intubare non ho più alcun ricordo. Ho avuto l’opportunità di leggere il mio diario clinico, da cui si capisce che le mie condizioni era estremamente gravi. Quella lettura mi ha causato uno shock. Solo allora ho capito di aver rischiato di morire. La solitudine nella stanza dove mi hanno portato una volta uscito dalla rianimazione, e dove ho trascorso 12 giorni, è stata durissima. Ma quei giorni mi sono stati utili per capire l’enorme valore delle piccole cose della vita: quelle che consideriamo sciocchezze, e che invece sono in grado di darti la vera felicità»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Roberto Timpano, 50, impiegato postale, Lecco
«Il 5 marzo, dopo molti giorni a casa con la febbre alta, ho avuto un improvviso e notevole calo dell’ossigenazione e sono stato ricoverato in terapia intensiva. Ho passato parecchi giorni sotto il casco
a ossigeno. Quando non era appannato, riuscivo a guardare fuori dalla finestra che avevo di fronte, e vedevo arrivare ambulanze in continuazione. Una sera mi sono tolto il casco, non ce la facevo più, e un’infermiera si è precipitata, e ho avuto addirittura la sensazione che si fosse tolta la mascherina per urlarmi: ‘Se vuoi vivere, devi rimettertelo subito’. Me l’ha detto con un’enfasi tale che mi sono spaventato. Non ho mai avuto un vero terrore di morire, ma oggi mi domando come cambieranno le mie relazioni sociali: la gente avrà paura di me, perché potrei essere ancora infetto? O sarò io ad avere paura degli altri, perché temo che possano infettarmi di nuovo e farmi precipitare ancora in quell’inferno? Oggi mi ritengo fortunato per non aver visto nessuno morire accanto a me. Certo è che nella mia azienda, dove in tutta la provincia siamo in circa 300, ad ammalarci siamo stati in tre. Un collega è morto, e un altro – con cui ho lavorato fianco a fianco per 15 anni – è ancora ricoverato in condizioni molto critiche. E nei loro confronti mi sento in colpa, per avercela fatta»



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Angelo Vavassori, 53, medico rianimatore, Treviolo (BG)
«Quando mi hanno messo il casco, ho temuto di soffocare. È una sensazione orrenda. Da medico, sapevo che fisiologicamente accadeva il contrario, che la pressione forzata stava aprendo maggiormente i miei alveoli polmonari. Ma il mio corpo e la mia mente mi dicevano che stavo morendo soffocato. Soltanto in quel momento ho capito davvero cosa provavano i miei pazienti, che spesso avevo visto andare in panico e strapparsi via il casco. L’avrei fatto anch’io. Quando mi hanno portato in ospedale, lo stesso dove lavoro, ho salutato i miei figli come fosse l’ultima volta. Sotto il casco mi rendevo conto che non stavo migliorando, e già pensavo a cosa mi aspettava dopo: intubazione, ventilatore polmonare. Ero certo che non ne sarei
uscito e pregavo Dio di darmi almeno la possibilità di veder crescere i miei figli. Un giorno, un mio collega è venuto a scuotermi con forza e mi ha gridato: Angelo, devi farcela. Quello scossone è la cosa che mi ha dato più coraggio, proprio ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Un’altra immagine che mi ha aiutato è stata quella del crocifisso di Telgate: me l’ha mandata mia madre sul telefono. Non so come ci sia riuscita, non ha mai saputo usare uno smartphone»



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Fabio Chiodelli, 56, insegnante, Cremona
«Mi hanno ricoverato in un reparto di ortopedia convertito a reparto Covid. Ho visto molti pazienti passare più di una notte dormendo sulle sedie, perché mancavano le barelle. Sono stato fra i primi ricoverati, quando non c’era ancora la percezione della forte letalità del virus. Ho cominciato a preoccuparmi quando ho visto il personale con le tute, e il primario di infettivologia che istruiva gli infermieri, che venivano da reparti che non c’entravano nulla, sulle disposizioni di sicurezza tipiche di un reparto ad alto rischio di contagio»



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





Daniele Silvani, 65, impiegato comunale, Crema
«Gli emogas, i prelievi arteriosi, erano dolorosissimi. L’immagine più vivida che ho di quel periodo sono gli
occhi dell’infermiera, che più volte al giorno veniva a farmi il prelievo. Erano occhi che dicevano scusa, sono costretto a farlo. Non mi capacito del fatto che una persona che mi curava, e che facendolo stava rischiando la propria vita, trovasse la forza di chiedermi scusa. Così come fatico ad accettare che qualcuno, fra i miei vicini di letto, non sia sopravvissuto, mentre io ce l’ho fatta. Vedevi quelle barelle d’acciaio andarsene con sopra una salma, e sentivi il cigolio delle ruote, e pensavi: ecco un altro che non c’è riuscito. Quando ho temuto sul serio di morire, mi sono aggrappato al pensiero della mia famiglia, a casa. Volevo disperatamente tornare a casa. Ora che ci sono, sento di essere rinato. La mia nuova vita è cominciata il 7 aprile 2020. Ci sono molte persone a cui debbo chiedere scusa: è uno dei propositi che ho fatto in punto di morte. E devo rivedere il rapporto con mia figlia: parlare, parlare, raccontarci tutto».



© Sergio Ramazzotti/Parallelozero





ISerajul Islam, 47, operaio, Gallarate (VA)
«Quando mi hanno detto che avevo il coronavirus, sono quasi impazzito. Ho dovuto lasciare mio figlio a casa a Gallarate, mentre mia moglie e il resto della mia famiglia sono in Bangladesh. Ho avuto paura di morire, e al telefono abbiamo pianto moltissimo insieme. Temevo che non avrei più potuto rivederli. Da quando sono guarito, per me questa è una nuova vita. E voglio viverla aiutando gli altri, come prescrive il Corano. Questo è stato il proposito che mi sono dato mentre temevo di morire: vivere secondo i principi del Corano»

non esistono notizie belle o brutte ma solo notizie ed la realtà non dovrebbe essere censurata o edulcorata .

 Come promesso ,  nel precedente  post ,  ecco  la  risposta  ed  la  discussione  d'essa  scaturita ( ovviamente  rielaborato   ma  tendente al  reale  )   all'email  ricevuta    qualche  tempo   fa poi e  poi l'approfondimento    attraverso  la  video chiamata  .


Utopia89 temi più allegri non ne hai   ? 
IO qui non si tratta    d'allegria  o tristezza   , ma  di  realtà fatta   di fatti  allegri  come  di fatti tristi  .  

La realtà è meravigliosa, distorcerla serve solo a crearsene una immaginaria
da http://www.sapereinnato.it/

Non possiamo nasconderla  o  edulcorarla cioè nasconderla  sotto  il tappetto e  far sempre  finita  che  tutto  vada bene   a meno che  non se n  voglia  crearsene una immaginaria  o   evadere  d'essa   proprio come 

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Utopia89   In effetti ... ma parlandone  o  scrivendone   cioè  dando  spazio alle  cose  negative  c'è  il rischio   d'emulazione    delle menti  deboli  ed  sensibili    ed  disturbate  .

IO  << le  persone  (  compreso il  sottoscritto e tu   )    ---   come   ha  risposto  Armine Harutyunyan ( modella  di gucci  al centro  di polemiche   nei giorni scorsi  =  a  repubblica  del  1  \89\2020  ----  siano  spaventate da tutto quello che è  diverso. A parole è facile essere aperti al nuovo ma poi, quando si trovano davanti a qualcosa che non capiscono, non sanno come  reagire, e allora attaccano >> [riversando  contro   chi  non la  pensa  come  loro   il  loro astio ed  odio   o  si chiudono  a  riccio  invocando censure  ]  << . Per questo dico che non vale la pena di preoccuparsi di loro  >>  [  e di quel che fanno  finché  non  danneggia  anche te  o  la  collettività  ]<< hanno solo paura . I social media  [e non solo   ] possono creare  un’immagine distorta della realtà >>
E questo avere pessimi effetti sui più giovani.specie  quelli in formazione   e con poco spirito critico .  Ma  questo non è un buon motivo  per   censurare  o proibire      di  parlare  \  scrivere  di fatti negativi come   si  faceva  un tempo    .  Perchè cosi   si alimenta   ulteriormente  , come  parlarne  molto    ed  esagerandone  certi aspetti  , la  morbosità  ed  il fascino   del proibito  . 

Utopia89 quindi  parlarne  in modo critico   e  il meno morboso   possibile                                            IO  esatto


Utopia89 grazie della proficua     chiacchierata  , spero di  poterne  farne  altre
IO quando   vuoi alla  prossima 


   fine   video  chiaccherata 





3.9.20

Capri revolution di Mario Mautone SPOILER

 N.B   
   adesso  dopo i post  di prova  ho imparato l'uso del codice    da mettere  per  fare  spoiler  Lo so  che   potrei anche non farlo in quanto il  film  che  vado a  commentare   è del 2018   , ma  qualcuno\a potrebbe non averlo visto ieri  sulla  Rrai .  Ed  ecco  che per  educazione  ed   rispetto ,  lo  faccio  . 


 

Per chi volesse leggere la parte spoilerata dove cliccare spoiler per chi volesse saperne di più sotto trova alcuni url per approfondire le tematiche e la storia reale da cui il film è tratto Capri-Revolution è un film del 2018 diretto e co-sceneggiato da Mario Martone. Una trama particolare
Il regista ha preso l'ispirazione per il film dalla vicenda storica della comune realizzata a Capri del pittore tedesco Karl Wilhelm Diefenbach, dopo averne casualmente scoperto le opere esposte alla Certosa di San Giacomo. Il titolo originario del film era Capri-Batterie, ispirato all'omonima opera d'arte concettuale di Joseph Beuys, che è stata anche una delle fonti di ispirazione della pellicola, per via della sua "idea dell'arte non come ricerca estetica ma come il tentativo di trovare un diverso modo di creare una relazione tra le persone". Così come nel precedente Il giovane favoloso, Martone si è occupato della sceneggiatura assieme alla moglie Ippolita Di Majo. Un bravissimo Mautone che ha sapito mettere su pellicola questo capolavoro de andreiano

Peccato per la .... di programmazione Rai che mette fil belli tardi immaginando che tutti siano in vacanza perenne e per giunta gli interromope con la pubblicità come se fosse una rete commerciale che non ha canone con cui finanziarsi . Belle le musiche , anche se a tratti angoscianti a tratti . Un grido di libertà contro i fondamentalismi e le chiusure e le catene familiari ( non tutta la famiglia vedere spoiler ) sopratutto in un periodo in cui erano ancora forti : la cultura cattolica pre conciliare e la paura \ diffidenza del diverso ed s'era ancora più chiusi , vedere il dialogo fra il dotttore e il pittore . Un esempio in cui la cultura può essere appres a anche attraverso vie che non siano quelle canoniche "istituzionali " o familiari come appunti è avvenuto vedere sempre lo spolier con la protagonista . U film lento ed a tratti pesante \ noioso ma allo stesso affascinante specialmente per chi : 1) è a dentro \ appassionato di materie umanistiche letterarie ., 2) ha una visione aperta del mondo . voto 7
1)https://movieplayer.it/news/capri-revolution-cosa-vero-nella-comune-proto-hippie-del-fi_86029/ la vera storia della comunità di capri
2 )https://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Wilhelm_Diefenbach i pittoere capo comunity del film
3)https://www.spettacolo.eu/venezia-75-capri-revolution-conferenza-stampa/ il regista patrla del film presentandolo a venezia nel 2018

2.9.20

uccisa da uomo perchè lesbica e non disponibile , ma per la legge Il suo omicidio non verrà giudicato come un femminicidio. il caso di Elisa Pomarelli

  

  di cosa  stiamo parlando
La ragazza era stata uccisa il 24 agosto 2019 da Massimo Sebastiani dopo che la ragazza, che era lesbica, lo aveva rifiutato. L’uomo ha scelto il rito abbreviato che dà uno sconto di pena ed è inapplicabile ai femminicidi



Elisa Pomarelli, oggi i funerali della ragazza lesbica uccisa nel 2019: «Il suo omicidio non verrà giudicato come un femminicidio»


<<Secondo il codice penale italiano >>-- come   riporta  quest  articolo  de il corriere   della sera      del  24\8\2020   --- <<  sono aggravati gli omicidi «contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva». A Sebastiani però sono stati contestati l’omicidio volontario e la distruzione di cadavere, ma non l’omicidio aggravato. «L’Italia non riesce a tutelare adeguatamente le donne lesbiche, anche al momento di scrivere le leggi» commenta ora Coffin, consigliera municipale a Parigi, nota in Francia per aver guidato la campagna che ha costretto alle dimissioni Christophe Girard, ex assessore alla cultura della capitale francese, criticato per aver sostenuto lo scrittore pedofilo Gabriel Matzneff e adesso sotto inchiesta per stupro.>>Ora in  casi simili all’omicidio Pomarelli, in cui l’accusato è il marito o il compagno della vittima, il rito abbreviato è escluso completamente. Eppure il femminicidio non è l’omicidio della moglie o della compagna in quanto tale, ma l’omicidio di una donna in quanto donna, e questo deve includere le donne lesbiche ammazzate perché “non disponibili” alle attenzioni di un uomo — spiega Ilaria Todde esperta giuridica di EL*C che lavora a Bruxelles —. Il fatto che l’ordinamento italiano compia questa differenziazione è esemplificativo di due cose: una comprensione parziale del fenomeno del femminicidio e l’invisibilità delle lesbiche quando si scrivono le leggi. Dipende dal fatto che si formulano avendo uno “standard” in testa. Ecco, bisogna smettere di supporre che una donna sia automaticamente eterosessuale o che possa subire violenza solo dall’uomo con cui è sposata .
Infatti     all’inizio anche di Pomarelli e Sebastiani si era parlato come di una coppia. Poi Andrea Pasqualetto sul Corriere aveva rivelato che la giovane era stata uccisa dopo aver detto al suo assassino di non volere una relazione perché «preferiva le donne». Ed era emerso, come sottolineato da un commento sul  quotidiano, che l’impossibilità di comprendere questo rifiuto era un elemento della violenza di genere di cui era stata vittima. Non è un caso però che allora improvvisamente la reazione di molti  ipocriti ed  politicamente  corretti  sia stata quella di voler “tutelare” la vita privata della vittima e non voler fare supposizioni sul suo orientamento sessuale. Ora Se queste narrazioni non cambiano  non è difficile  e  non si pèecca  di qualunquismo \ populismo   che le leggi vengano scritte tenendo in testa uno standard che non sia, appunto, quello eterosessuale. È importante intervenire anche sul piano formale, per esempio approvando il progetto di legge Zan sui crimini d’odio aggravati dal pregiudizio contro gay, lesbiche bisessuali e trans, discusso in questo momento in Parlamento.«In Francia, -- sempre  secondo  il  corriere    della sera--- il sessismo è stato riconosciuto dal gennaio 2017 come circostanza aggravante di un reato, allo stesso modo dell’omofobia o del razzismo. Nonostante ciò, in generale, nei processi è molto difficile stabilire che i fatti siano stati commessi contro la vittima per uno di questi motivi» dice Coffin. C’è un precedente recente, nel marzo 2020, quando in un processo per lo stupro di una donna lesbica è stato chiesto di considerare l’aggravante lesbofobica (il pregiudizio contro le lesbiche). «Anche se il tribunale non lo ha fatto, la dichiarazione della procuratrice generale segna un momento storico per il riconoscimento dello stupro punitivo contro le lesbiche — spiega Coffin —: l’accusa ha sottolineato che l’aggressore non avrebbe stuprato una donna etero per un rifiuto. “È perché rifiuta il suo sesso maschile che lui l’ha violentata”, ha spiegato la procuratrice “per questo ha fatto ricorso alla violenza”, e ha invitato il tribunale a mantenere l’aggravante dello “stupro per motivi di orientamento sessuale”. Il caso Pomarelli — conclude — è molto simile, ma invece di un’aggravante il suo assassino otterrà uno sconto di pena purtroppo  corsivo mio  ) ».

P.s
proprio mentre  concludo  , preso dal sonno  ,  queesto post  , mi  arriva  via  email  riferito (  ma  può esserlo anche  a questo )  una battuta  \  sfotto' , a  cui   risponderò  prossimamente   del tipo : <<   notizie  più allegre  ne  hai ?  >>   

31.8.20

la grande rimozione della pandemia da covid

Lo so che basterebbe solo la copertina o l'articolo con le immagini senza commenti e le immagini dell'articolo riportato nel post e che due parole sono poche ed una è troppo . Ma non ho resistito ad indignarmi contro i negazionisti ed il loro vittimismo \ e piagnisteo .



In essa  c’è un rasoio a mano libera  esso  apparteneva a Ernesto Paganini, barbiere siciliano emigrato da ragazzo a Dalmine, in provincia di Bergamo, morto di Covid lo scorso 15 marzo. Una delle oltre 35mila vittime del virus che l’Italia pare aver dimenticato insieme al pericolo ancora costituito dal virus: la grande rimozione appunto  . Oltre a quella sanitaria, c'è poi all’orizzonte l’emergenza sociale, economica e istituzionale. Intanto il Paese avanza nell’illusione che nulla sia cambiato, chiudendo gli occhi dietro la mascherina  con on il viaggio di Linda Caglioni e Paolo Arnoldi tra gli oggetti lasciati dai morti del Covid nella provincia di Bergamo, la più colpita sei mesi fa. Cappelli, zaini, magliette, occhiali, una macchina da cucire: per non dimenticare le persone che si identificavano con quegli oggetti e che ora non ci sono più.  trovate  sotto l'articolo  .
Non c’è più neppure la ferita, già rimossa,  addirittura negata dal popolo no-mask, che sembra ignorare le tante vite umane perdute. on c’è più neppure la ferita, già rimossa, di cui parla Donatella Di Cesare, addirittura negata dal popolo no-mask, che sembra ignorare le tante vite umane perdute. E poi l’emergenza sociale, con il pericolo che ai focolai di epidemia si aggiungano quelli di malcontento con tutte le conseguenze sulla gestione dell’ordine pubblico (ne scrive Fabrizio Gatti), l’emergenza economica, con il piano per il Recovery Fund imminente e i dubbi in aumento, spiegati da Eugenio Occorsio.
Ma anche l’emergenza lavoro: Maurizio Di Fazio denuncia l’impennata di incidenti mortali dalla fine del lockdown e il provvedimento di regolarizzazione dei migranti non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva, anzi ha alimentato un traffico di contratti falsi (lo racconta il collettivo Lorem Ipsum), mentre aumenta ogni giorno la fascia di popolazione sotto la soglia di povertà costretta ad affidarsi al sostegno del mondo dell’associazionismo e delle organizzazioni del terzo settore, come scrive Emanuele Coen. E ancora gli effetti della pandemia sulle città: il virus ne ha mostrato la forza solidale ma anche le vulnerabilità e la violenza di cui parla la sociologa Saskia Sassen, intervistata da Giuliano Battiston, e l’esempio della città di New York, raccontata da Davide Mamone, che sta vivendo un incubo, con il boom di sparatorie, omicidi e aggressioni.
Ma  prima di lasciarvi   all'articolo   in questione   vorrei definire   a  tutti quelli    che   negano la pandemia  e  non usano le misure  di sicurezza minime   che oltre    a  infettare  gli altri   cosi  offendono la memoria  di cloro  che   sono morti  o coloro  che  per  curarli   si  ammalati    e  sono sopravvissuti  .  ma  ora basta    con i pistolotti e  palliatone  .  buona  lettura  


LA GRANDE RIMOZIONE
Questi oggetti appartenevano alle vittime del Covid. Immortalarli serve a non dimenticare
Occhiali. Zaini. rasoi. Cappelli. E altre cose appartenute ai bergamaschi uccisi dal coronavirus. Un progetto per non fare finta che nulla sia successo. Ma soprattutto perché la tragedia non si ripeta in autunno

DI LINDA CAGLIONI - FOTO DI PAOLO ARNOLDI 26 agosto 2020


Nel vecchio armadio di una casa di Brembate è piegata con cura una maglia dell’Atalanta. Battista Villa la metteva quando andava allo stadio - e quante soddisfazioni quest’anno, col “Papu” Gomez a far impazzire le difese avversarie. Ma Battista quella maglietta la indossava anche quando andava in ferie con la moglie, la sua Nicoletta, per sfoggiarla nei posti più lontani, dalla Giamaica al Brasile, dal Messico alle Maldive. Sì, perché il Villa viaggiava, anche adesso che ormai aveva superato i settanta, e si sentiva forte come sempre. Quando lo hanno portato via in ambulanza si è quasi arrabbiato con gli infermieri, «guardate che a me mica riuscite a trattenermi in ospedale». Il coronavirus lo ha portato via per sempre lo scorso 15 marzo.

Come Battista, circa seimila bergamaschi sono rimasti finora vittime del Covid-19. Come Battista, se ne sono andati soli, senza poter dire addio ai loro cari. Il primo, giusto sei mesi fa, il 24 febbraio. Si chiamava Franco Orlandi, era un ex camionista di 83 anni, il fiato gli è mancato all’ospedale di Alzano. Da tre giorni il governo aveva imposto la zona rossa di Codogno e Vo’ Euganeo, ma di Bergamo e della Val Seriana si iniziava a parlare appena. E nessuno aveva capito la valanga che stava per precipitare.
Di certo non poteva capirlo Giuseppa Nembrini, “la Rina”, 83 anni, costretta sulla sedia a rotelle da quando ne aveva 69. Obbligata ad affidarsi al marito Giovanni per compiere anche il più semplice dei gesti, l’unico strumento che per anni le aveva restituito un frammento dell’indipendenza perduta era la sua macchina da cucire, una Singer del 1994. Ricurva sulle spoline e sugli aghi, nei pomeriggi d’inverno Rina intrecciava in decorazioni di cotone i fili attraverso cui manifestava il suo talento. Fili con cui, al contempo, si teneva legata stretta alla sua libertà. È morta il 16 marzo, una settimana dopo il marito.

Rina è una delle 188 vittime di Nembro, comune tra i più colpiti del mondo. E le case di quel paese oggi rigurgitano di oggetti da conservare, come gesto di rispetto per chi se n’è andato ma anche come monito per noi che siamo rimasti. Tra questi c’è anche il basco di Ilario Lazzaroni, storico presidente degli artiglieri locali. Aveva ricoperto quel ruolo per quasi 30 anni, andava a tutti i raduni, a tutti i pranzi e le cene, sempre indossando quel morbido cappello nero che, prima di uscire di casa, si sistemava sulla testa di sbieco, come da tradizione. Aveva lasciato il ruolo di presidente solo qualche mese prima di andarsene, spinto dalla moglie e dalla figlia, che premevano affinché si arrendesse all’idea di essere ormai vecchio per ricoprire ruoli organizzativi. Ma lui aveva continuato a dare una mano dove serviva. E quando si presentava l’occasione, indossava la divisa completa. Si infilava i pantaloni, la camicia verde. E, da ultimo, quel basco.

Nella Bergamasca il tributo di morti più alto è stato pagato dalla Val Seriana, ma il dolore è profondo anche nel resto della provincia. A Boltiere, una manciata di chilometri dal confine milanese, esiste una casa in cui è conservata una collezione di modellini d’auto che conta circa una ventina di pezzi invidiabili. Sono quelli che il camionista 57enne Gianbattista Federici, “il Giamba”, aveva raccolto in anni di passione. A volte quella dedizione si esprimeva attraverso la pulizia di ogni modellino gelosamente custodito, tanto che nemmeno all’adorato nipotino Christian - nato da meno di un anno - era consentito giocarci.

Altre volte, invece, assumeva la dimensione caotica dei motoraduni a cui andava insieme alla figlia più grande. Il 2020 doveva essere l’anno in cui “il Giamba” sarebbe andato in pensione. E anche se lui non lo ha mai saputo, la moglie e i figli stavano mettendo da parte i soldi per celebrare il traguardo regalandogli una Cinquecento. Volevano trasformare uno dei modellini che tanto amava in una macchina vera, da poter guidare e non più solo guardare. «Stavi per raggiungere il traguardo che desideravi da tempo, fare il nonno a tempo pieno, dicevi sempre che smettevi di guidare il camion e iniziavi col passeggino. Quel bastardo di Covid ti ha strappato via in una settimana da noi, senza più vederti e senza più darti un bacio, un abbraccio, in modo crudele», ha scritto nel suo necrologio on line la figlia Sara.
Anche Ernesto Paganini, 81 anni, amava la cura dei dettagli. Il suo interesse, però, era rivolto a baffi e capelli. Siciliano di origine, a soli 11 anni aveva cominciato a usare il rasoio a mano libera, come garzone di barberia. Poi, come molti in quegli anni, è emigrato al nord, a Dalmine, cittadina a pochi chilometri da Bergamo, dove ha aperto un negozio di barbiere tutto suo. Presto, però, sono arrivati i figli, e con loro la necessità di uno stipendio più stabile. Così l’Ernesto ha preso la decisione di abbassare per sempre la saracinesca per il posto sicuro nella grande azienda di tubi d’acciaio che da più di un secolo sta proprio lì, a Dalmine. Per tutta la vita, però, ogni volta che aveva le mani libere dai macchinari di fabbrica, le ha usate per tornare al suo vero strumento di lavoro: il rasoio a mano libera con cui, a domicilio, ha sfoltito centinaia di barbe ad amici e anziani di paese.
Da quando tutto è cominciato, il conteggio dei morti nella bergamasca (come altrove) si è scontrato con la difficoltà di raccogliere un dato oggettivo, fedele alla realtà. Molte persone nei centri per anziani, oggi si sa, se ne sono andate senza che venisse attestata la vera causa del loro decesso. Tra loro c’è Severina Mariani, una mamma e una nonna di Madone, 90 anni che avrebbe festeggiato il prossimo 12 settembre. Prima che si trasferisse in una Rsa - proprio in quei primi giorni di marzo - la si poteva scorgere nel giardino di casa con le esili spalle avvolte in uno dei suoi tanti scialli. Quei pezzi di stoffa, in cui i fili di lana intrecciati gli uni agli altri parevano comporre mosaici di fiori, erano creazioni che la sorella imbastiva per lei. Nell’armadio, ne conservava di diversi colori, da scegliere a seconda delle sfumature del giorno. Poco importava che facesse caldo o freddo: Severina ci teneva ad averne sempre uno indosso, per difendersi dai possibili soffi di vento. Anche quando il termometro segnava 30 gradi all’ombra.
A Osio Sopra, paesone di cinquemila abitanti a una decina di chilometri da Bergamo, viveva Emilio Cadei, 77 anni, ex operaio della Tenaris - sempre i tubi Dalmine, ma oggi la fabbrica si chiama così. Emilio era, come tanti bergamaschi, un burbero dal cuore buono, un uomo poco avvezzo ai grandi giri di parole e molto più a suo agio quando si trattava di affari pratici. Come quello di accendere la stufa a legna su cui scaldava le patate e preparava le caldarroste per la sua famiglia. E quando a settembre arrivava il momento di uccidere il maiale grasso, Emilio si alzava con i primi raggi di sole, raccoglieva nel silenzio del cortile ceppi e tronchetti, per stiparli in quella vecchissima stufa. Con pazienza, aspettava il momento in cui avrebbe udito la legna cominciare a scoppiettare. Lui se n’è andato il 28 marzo, la sua vecchia stufa è ancora lì a Osio, ma nessuno la farà più funzionare.

Ogni luogo ha i personaggi che tutti conoscono. A Bergamo, il 67enne Giuseppe Rota “il Bepi”, era uno di quelli. Per chi bazzicasse a Monterosso, quartiere in cui viveva, era probabile vederlo camminare a passo spedito col suo zainetto sulle spalle. Quello era l’accessorio che, con i portachiavi che vi aveva appeso e i drappi di stoffa che vi aveva cucito, testimoniava i ricordi dei viaggi che più aveva amato. Lo portava con sé anche per le brevi passeggiate, quando non ci metteva dentro che poche cose, una copia di Repubblica, le caramelle alla frutta. Ma non se ne separava nemmeno per i viaggi più importanti. Era in quello stesso zainetto che l’anno scorso aveva stipato l’indispensabile per affrontare, insieme alla moglie, i 50 giorni di viaggio lungo il cammino di Santiago. Del resto lui era stato un alpino, e come tutti gli alpini lo era ancora. È morto il 30 marzo. «Ciao papo, avevamo ancora troppe cose da dirci e da fare insieme, poche persone hanno avuto la fortuna di aver un papà così speciale», ha scritto il figlio nel necrolgoio sull’Eco di Bergamo.

Sandro Gamba, 73 anni, era il vicepresidente del circolo fotografico di Dalmine. L’espressione assorta che assumeva prima dello scatto era nota a tutti, nella sua cittadina, anche se nessuno ne conosceva le increspature meglio di sua moglie e dei suoi figli. Perché loro vi erano stati abituati da sempre, in occasioni di vita quotidiana come di vita vacanziera. Ed erano abituati al fatto che, al ritorno dalle ferie tutti insieme, Sandro si sarebbe chiuso nel laboratorio fotografico che si era arrangiato a costruire in cantina. Avrebbe passato ore a sviluppare gli scatti fatti alla sua famiglia. Poi avrebbe steso un telo bianco in salotto. Li avrebbe chiamati a raccolta. E avrebbe proiettato davanti ai loro occhi le diapositive di momenti insieme che, con la sua macchina fotografica, era riuscito a fermare nel tempo. Volontario di Anteas, distribuiva i pasti agli anziani e per anni è stato una delle figure di riferimento della parrocchia di San Giuseppe. Amava la luce della primavera - e se n’è andato nell’ultimo giorno dell’inverno più buio di sempre

prova spoiler 4

l'ultimo numero di dylan dog
Infatti
il prossimo sara meglio