28.6.14

[ le donne sono tute puttane ? reprise ] Sesso a 14 anni, le adolescenti raccontano: “Se non ti fai sverginare sei una sfigata”


 questo post  è la  risposta  a  chi mi dice  , ovviamente    leggendo  solo  il titolo  e   non l'ntero articolo o la premessa  , che son maschilista  e  sessista  oppure e  porco bavoso   dopo aver letto  il  mio  post.precedente


la  mia  sega   .. ehm... elucubrazione mentale è  nata  oltre  le  fonti citate   da  news   di questo  tipo sempre  più frequenti  . Chi  continua a credere   che  io  sia   quel  tipo li   , se  ne  può anche  .....  tamnto  



io continuò per  la mia strada  chi  mi  conosce realmente  sa  che   non lo sono  o  almeno  non a quel  livello  

da Il Fatto Quotidiano del 5 marzo 2014
  

Inchiesta 'Sex and teens' (1 - continua) - Chiara, quinta ginnasio a Milano, dà la sua versione: "Il primo anno di liceo comincia la conta: entro 12 mesi bisogna 'darla via' altrimenti vieni emarginata". E i maschi? "Non ci pressano perché non ce n'è bisogno". Nessuna cura della contraccezione: "Il lunedì in classe c'è il panico: non ci si ricorda se il sabato, ubriache o fumate in discoteca, si è usato o meno il preservativo"

Ragazze

La partita di pallavolo è appena cominciata e seduti per terra, in palestra, ci sono un po’ di ragazzi che usano “l’ora buca” per fare un tifo svogliato. C’è anche la professoressa di educazione fisica, che annota con una bic blu le assenze sul registro. A interrompere tutti è una ragazza di quinta ginnasio, che invade il campo: “Finalmente mi hanno stappata!”, urla, correndo attorno alla rete con le braccia alzate. “Sì, sì: mi hanno sturata ieri sera”. È settembre 2013. E Margherita (nome di fantasia) celebra così, davanti a compagni di scuola più e meno intimi, la perdita della sua verginità. A raccontare l’episodio è Chiara, che studia nello stesso liceo milanese e che quella mattina giocava nel ruolo di alzatrice. Reazioni? “Non molte. La prof l’ha guardata male, la maggioranza di noi l’ha ignorata e qualcuno le ha fatto i complimenti”. In fondo, Margherita ci ha messo un anno intero per riuscire nella missione. Chiara spiega come funziona: “All’inizio della quarta ginnasio si fa la conta. Di solito, solo tre o quattro ragazze arrivano al liceo già sverginate. La regola è che bisogna liberarsene entro l’anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa, giusto per non sforare i tempi. Perché a settembre si fa il bilancio”. Chiara, capelli biondi alle spalle, occhi castani col mascara nero sulle ciglia, stelline disegnate a penna sul polso, è una delle pochissime ragazze della sua classe a essere ancora vergine. “Se sei una persona sensibile, vivi molto male il fatto di non averla ancora data. È vero: se non sei carina, se non segui la moda, vieni un po’ emarginata. Ma è il sesso l’unico argomento che tiene banco, l’unica carta d’accesso per restare nel gruppo. O sai quello di cui parli, o ti escludono per davvero. Ti trattano come una bambina, ti lasciano fuori dal gruppo, ti prendono sempre per il culo, come fossi una sfigata”.
Illustrazione di Maurizio Ceccato
Illustrazione di Maurizio Ceccato
I PRELIMINARI
Le regole sono semplici e, anche se non valgono per tutti, finisce che tutti le rispettano. Ai preliminari, spiega Chiara, non si dà alcun peso: “Se esci con un ragazzo per un paio di settimane, è normale fargli almeno una sega. Sì, lo racconti in classe, ma non è una gran notizia: nessuno si stupisce”. Non si diventa popolari nemmeno per il sesso orale: “Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera. Poi ci ridono su: ‘Tanto ero ubriaca’, dicono. Anche perché, quando si esce, si parte subito con i vodka-pesca o gli shot di rum e pera, quindi non ci vuole molto per perdere il controllo.
L’altra scusa è che si erano fumate tre o quattro canne, che erano ‘fatte’. Ma nessuna si pente, e pochissime si ricordano anche solo il nome del ragazzo a cui hanno fatto un pompino”. Se si incontrano il weekend dopo, spiega, i due nemmeno si salutano. E ancora, a scuola l’argomento non esalta un granché: “Una di quinta ginnasio ha avuto un rapporto orale a tre prima di perdere la verginità, per prepararsi, e il racconto non ha creato grande scalpore”. Poi, i ragazzi sono gli unici a beneficiare dei preliminari: “Su di noi? Figurati, i maschi non sanno nemmeno da che parte cominciare. Non ho mai sentito parlare di sesso orale su una mia amica. Magari se esci con quelli più grandi, ma dubito”.
IL SESSO
Scopare è come fumare una sigaretta”. In che senso? “È una piccola trasgressione, nulla di più. Si fa per diventare grandi. Non che gli altri ti vedano poi diversamente, ma tu stessa proietti un’immagine più matura e di conseguenza entri nel gruppo più figo”. All’inizio c’è la spinta delle amiche: “Per chi te la stai tenendo? Guarda che se non la molli ti molla lui… E poi a qualcuno la dovrai pur dare, o no?”. Chiara è molto carina, ha ai piedi stivaletti di cuoio, e addosso una magliettina di Zara e una felpa blu col cappuccio. Potrebbe avere 14 anni come 18. Parla di sesso come se, appunto, l’avesse studiato meticolosamente a scuola, pur non avendolo ancora mai provato. E descrive un mondo capovolto: “I ragazzi non ci pressano mai per andare a letto. Anzi, sono terrorizzati dal fare figuracce, perché non sanno bene cosa devono fare. Anche perché noi siamo cattive, se uno se la cava male poi rischia che lo roviniamo. Sono le femmine – spiega Chiara – a sentirsi in dovere di sverginarsi in fretta. E poi gli uomini non hanno bisogno diinsistere, perché le ragazze sono indemoniate”.
Quando decidi di farlo, lo annunci alle amiche: “Questo weekend ho deciso che scopo”. Poi c’è l’immancabile resoconto del lunedì: “Di solito dicono ‘mi hanno sfondata’, oppure ‘mi hanno aperta’”. Da quel momento in poi perdi l’inibizione: “Una volta che l’hai data, la tua vita sessuale diventa super attiva. Se sei a casa di un’amica e c’è un tipo carino, non è che te la meni. Gliela daisenza fare troppe storie. Il ragazzo neanche se l’aspetta, così lo stupisci”.
L’ORGASMO
Il sesso e il piacere non hanno proprio nulla a che spartire, nelle storie che raccontano Chiara e le sue amiche. L’obiettivo non è quello, e i ragazzi sono troppo inesperti. “A nessuna è mai piaciuto scopare. La prima volta fa stra-male, e anche le volte dopo, comunque, tutto è tranne che piacevole. Ripeto: non lo fai per venire, ma per liberarti di un peso. È una questione d’immagine, di status. Anche perché i ragazzi durano pochissimo”. Per quelle che decidono di affidarsi al primo fidanzato, il momento prescelto è quello di una gita fuori città: “Stai con uno da un paio di settimane e ti invita a passare il weekend da qualche parte? Gliela dai. Matematico”.
PANICO DEL LUNEDI’
Le precauzioni più usate, racconta Chiara, sono il preservativo e la pillola anticoncezionale. Chi prende quest’ultima, di solito, ha già condiviso la propria vita sessuale con i genitori. E le altre? “Non sai quanti lunedì mattina vedo le mie amiche completamente in paranoia. Il sabato erano strafatte e non riescono a ricordarsi se hanno usato il preservativo o no. In più, non sanno chi è il ragazzo con cui hanno scopato, oppure si vergognano a chiamarlo per chiedere. Quindi le più furbe vanno in consultorio e prendono la pillola del giorno dopo – succede ogni due o tre mesi – e le altre aspettano e pregano che il ciclo arrivi”.
Chi vuole condividere storie ed esperienze su adolescenti e sesso può scrivere a sexandteens@gmail.com
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essere,pregare,tessere Chiara Vigo l'ultiuma tessitrice di bisso racconta- i segreti del mare



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La storia di Chiara Vigo la nuova Maria Lai . L'ultima donna in sardegna che tesse  ancora  il bisso ( I  II )   per  contattarla  : chiaravigo@hotmail.it o  bottega.bisso@tiscali.it Tel. 3473302237



Un arte molto  antica  . Infatti

  In Sardegna Fino ai primi decenni del secolo scorso piccole produzioni di bisso si avevano ancora ad Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e Sant'Antioco. Ci fu anche chi, preso dall'entusiasmo per le particolari proprietà del tessuto marino volle sperimentarne una produzione industriale. Giuseppe Basso Arnoux inviò dalla Sardegna decine di Kg di fibra alle filande del nord-Italia. Il risultato fu però fallimentare : le macchine non solo non riuscivano a filare quei fili ma ne venivano danneggiate.L'isola di S. Antioco è l'ultimo luogo della Sardegna e del Mediterraneo che ci trasmette ancora questo dono marino. Essa ha mantenuto - col favore di fondali bassi e incontaminati e di una importante tradizione tessile - una produzione di rilievo fino a portare ai nostri giorni con tenacia, passione e sacrificio, delle realizzazioni che hanno perduto e superato la loro precedente funzionalità per connotarsi come dei veri e propri lavori artistici (arazzi anziché guanti o cuffie) marcando così l'unicità e la preziosità di un prodotto sempre più raro.A S.Antioco la lavorazione del bisso è attecchita in epoche molto antiche da apporti mediorientali.Ciò si può sostenere senza difficoltà, considerando la sua funzione di crocevia nelle rotte dei popoli del mare. L'apporto di conoscenza e di tecnica che questi contatti determinavano e lo sfruttamento dei due protagonisti marini : la Pinna e il Murice non possono che suffragare questa ipotesi.Dopo i Fenici molto probabilmente furono gli ebrei a continuare la lavorazione dell'antico filato. E' attestata dale scoperte archeologiche la presenza di una consistente comunità ebraica a S.Antioco già dal I sec. a.C.E' certo che l'imperatore Tiberio Nerone nel 19 a.C. inviò un gran numero di ebrei per contrastare il brigantaggio sardo e sfruttarli per il lavoro nelle miniere metallifere, ma in realtà il vero fine dell'imperatore era di punirli per i disordini causati a Roma ed esiliarli in luoghi dove avrebbero con buone probabilità trovato la morte.Ciò che si presuppone invece è che la comunità ebraica non soltanto abbia trovato un luogo dove proliferare tranquilla ma anche di prosperare. Ciò si può dedurre dalle catacombe ebraiche con tombe ad arcosolio rinvenute non distanti dalle catacombe cristiane sul pendio del colle della Basilica. Sul fondo dell'arcosolio di una nicchia appare, scritto in rosso, il nome della defunta : Beronice.Con l'immaginazione questo nome ci fa pensare ad altre Berenice che, tra leggenda e storia, possono essere state protagoniste della tessitura del bisso
Berenice,
sorella di Marco Giulio Agrippa, re vassallo della Palestina. La storia, riportata da Seneca e poi ripresa nei secoli da drammaturghi e poeti, ci dice che A quel tempo Sant'Antioco si chiamava SLK o Solki, con il toponimo arcaico, oppure Insula Plumbea, con la traduzione latina del precedente appellativo greco di Molibodes Nesos -denominazioni che ben definiscono l'interesse di sfruttamento delle risorse metallifere della zona per i conquistatori-. 
l'imperatore Tito la conobbe durante il suo comando nella guerra Giudaica Tutto
per un Vestito
... Raffinato

Scuola Leumann
, se ne innamorò e la portò poi con sé a Roma. Ma lì la loro unione venne aspramente osteggiata, soprattutto dopo che divenne imperatore.
Così Berenice venne fatta ripartire.

Qui finisce la storia ma, facendoci guidare dalla fantasia, può esservi la lontana possibilità che la principessa non sia tornata alla sua patria ma si sia invece fermata nell'isola, ben considerando che avrebbe potuto avere un ruolo di rilievo nella cospicua comunità ebraica e che il porto non l'avrebbe tenuta distante da Roma. Così possiamo immaginarci come il suo atelier possa aver dato vigore alle lavorazioni tessili.
Rientrando nella realtà è certo che a quel tempo a Roma era di gran moda tra le matrone e le donne di rango il "vento tessuto", ma il bisso affascinava indubbiamente tutti se anche un oratore, narratore e filosofo come Apuleio nel suo libro delle Metamorfosi vede la Dea Osiride "con una tunica di bisso leggero e cangiante".

Ma torniamo alla nostra isola.
Per alterni periodi fu spopolata a causa della estrema insicurezza per le frequenti incursioni violente a scopo di razzie. Queste si verificavano puntualmente nei vuoti di potere -e perciò di controllo e difesa- determinati da un cambio di dominio, dopo i Romani, dopo i Vandali, dopo i Bizantini e così via. L'isola così perse per alcuni secoli l'importanza del suo centro urbano.
L'antica Solki che conobbero i Fenici e che per quei tempi fu una vera metropoli, finì per riconoscersi nel VII secolo solamente nella Basilica arroccata sul colle traforato di ipogei.
Fu forse proprio grazie all'autorità religiosa, espressa nella sua Basilica che, nonostante tutto, si poté mantenere quella tradizione di eccellente tessitura (il santuario di S.Antioco -è bene ricordare- aveva pertinenza su terre, selve, vigne, servi e ancelle -predestinate tessitrici-).
E poi il dedalo di ipogei punici, che sono stati sfruttati con funzione abitativa anche fino al pochi decenni fa, ben consentiva ad una piccola comunità di mantenere attività produttive essendo nascosta e potendo viceversa spiare ogni arrivo inopportuno dal mare.
Con il ripopolamento del periodo Sabaudo si riprende a lavorare la terra anche se con le armi vicine pronte all'occorrenza. Le temute, sanguinose, incursioni barbaresche cesseranno infatti solo dopo il 1815, dopo la pace firmata a seguito del bombardamento di Algeri da parte degli Inglesi.
Nel 1914 Vittorio Alinari, fotografo ed editore fiorentino, scrive nel rapporto del suo secondo viaggio in Sardegna che Sant'Antioco gli sembra un paese molto industrioso. Dice dei 200 telai che producono nel paese ogni tipo di tessuto, il più curioso dei quali è quello prodotto dai filamenti setosi della pinna nobilis. Ci parla del bel colore ramato del bisso con il quale si confezionarono sottovesti dal bellissimo effetto. Tra le suggestive fotografie scattate dai fratelli Alinari a S.Antioco vi sono anche quelle che ci mostrano delle ragazze intente alla filatura del bisso : una di esse ha il cestino con i bioccoli pronti e le altre hanno in mano un piccolo fuso e filano la bambagia. La famiglia Diana accompagna i fotografi in questa scoperta del mondo tessile di S.Antioco. Italo Diana, fotografato con mastruca mentre suona le launeddas, sarà uno degli ultimi maestri a tenere una scuola di bisso.
Molte famiglie sapevano filare e tessere la seta di mare ma si preferiva mandare le ragazze a scuola da un maestro quando si voleva far apprendere non solo la tecnica ma una particolare sensibilità artistica e una intelligente visione d'insieme nella realizzazione del prodotto finito.
Alla scuola di Italo Diana lavoravano 10 ragazze, tra loro Maria Maddalena Rosina Mereu. Quest'ultima, a cui la madrina di battesimo aveva dato il nome Leonilde al posto dei tre nomi d'anagrafe, sarà a tutti nota come Leonilde. Nota perché sarà poi lei a fare scuola e perché sarà lei la nonna e maestra di Chiara Vigo .  che   vedete  all'opera sia nel   video  sopra   che   in questo  sotto 













C'è qualcosa di magico nella stanza-museo di Chiara Vigo: lo si avverte subito, appena si entra.Il telaio imponente cattura l’attenzione, i tavoli di ginepro regalano eleganza. Davanti alle finestre una schiera di barattoli, in cui riposa il colore - per tingere il bisso - estratto da fiori e foglie: il laboratorio del Maestro è pieno di segreti. Ed è un mistero anche questa donna dallo sguardo profondo che, se non si fosse chiamata Chiara, sarebbe benissimo potuta essere Penelope, visto il tempo dedicato alla tessitura. Ha 59 anni ed è l’ultimo Maestro di bisso. Al mondo. È lei stessa ad andare a raccogliere la seta del mare. La bava della Pinna nobilis si solidifica al contatto con l’acqua: Chiara si immerge, la taglia, la porta in superficie, la dissala per 25 giorni poi comincia il procedimento di filatura. Canta mentre lavora, ininterrottamente: senza le canzoni, non si possono fare gli intrecci. «L’uomo di Sant’Antioco – spiega - non ha la giacca, ha su seraniccu, il cappotto di seta: la spinatura si fa con le unghie, ma senza la canzone non si hanno i riferimenti per muovere le mani ».Parla a ruota libera, provare a fare delle domande è quasi inutile. Sono troppe le cose da spiegare: le regole del telaio, le centinaia di modi per ricamare, imparati in una vita dedicata alla tessitura. Racconta un’arte antica, mentre mostra le foto di famiglia: la nonna in abiti di seta, la mamma ostetrica, il bisnonno Maestro di sartoria - del quale conserva gelosamente uno specchio, datato 1898. E poi il matrimonio e le sue belle figlie, Maddalena e Marianna, già depositarie della tecnica, ma non ancora pronte a giurare per il passaggio del testimone.
Chiara vive nella piccola Isola da quando era bambina: il mare è la sua seconda casa.
Insieme ad altre quattro donne (una brasiliana, una giapponese, una messicana, una norvegese di Capo Nord) compone il nucleo delleDonne acqua. L’anno venturo, il 2 giugno, si ricongiungeranno in Brasile per onorare il mare del suo Canto.«È un canto molto antico, intraducibile», sul quale Chiara non rivela molto. Cala il silenzio e l'aria si fa solenne.

«Ora però dovete spegnere il registratore», avverte. Il Maestro scioglie i capelli, toglie le scarpe, ci volta le spalle e si allontana. Imita il suono del vento del mare e poi canta e danza. Una sola delle 199 strofe che compongono il Canto: è un regalo, per la nostra visita.
Come ha imparato tutte queste cose?
Mia nonna era un Maestro, e prima di lei sua nonna, e la nonna di sua nonna e così via. Nel Canto dell’Acqua sono 29 i nomi prima del mio.Su Cantu Mannu, si canta solo all’alba e al tramonto: il Maestro, da solo, veste la tunica di preghiera: è un momento totalmente esoterico.
Quando ha iniziato a lavorare al telaio?
Da bambina, ma ci ho pensato bene prima di fare giuramento. Quando mia nonna mi ha trasferito il formulario ho capito cosa ero diventata: l’arazzo più bello che lei avesse mai potuto tessere.
Avevo 23 anni, è stato tanto tempo fa.
Ponente, Levante, Maestro e Grecale, prendete la mia anima e buttatela nel fondale, che sia la mia vita per Essere, Pregare e Tessere, per ogni gente che da me va e da me viene, senza tempo, senza nome, senza colore, senza confini, senza denaro. In nome del Leone dell’Anima mia e dello Spirito Eterno, così è stato, così è e così sarà: io giuro.
Contro questo, zia (Chiara chiama se stessa ‘zia’, ndr) non conosce niente e nessuno: il bisso è dei bambini del mondo, ciò vuol dire che non si vende e non si compra.
Ha una bella responsabilità…
Sì, zia ha queste responsabilità. Questo è il tessuto con cui vestiva Salomone: alla luce si illumina e diventa oro purissimo. Ci vogliono anni di lavoro per fare anche un piccolo quadrato di stoffa, filato con il fuso. Io lo dico sempre: una tessitrice può saper filare, ma non è me.
Sa trasferire un rosso porpora? Sa ricavare una bava, metterla a bagno con il melograno e trasformarla in rosso? Lo sa fare?
No, allora non è me. Io non sono qua per fare la bella statuina, ma non lo hanno ancora capito.
Non ha delle allieve a cui tramandare il suo sapere?
Nessuno vuole imparare davvero. C’è qualcuno che viene qua, ma l’ambizione è quella di diventare tessitrice. Io non sono un artigiano e non voglio insegnare le cose in maniera approssimativa. Sono unu maistru de pannu, la persona che deve tutelare e conservare per chi verrà, senza venderlo, quello che già era.
Ci sono delle ragazze che stanno con me: l’architetto Maria Pasqui, per esempio, ha deciso di trasferirsi a Sant’Antioco per fare la scuola di colore. Ci vuole almeno un anno per capire in quale tempo raccogliere l’erba, con quale luna, come metterla a bagno, quando aggiungere il sale, come farla ossidare, e poi tingere e tessere. Maria è anche perito tessile, ma ha imparato a filare con me. Nonostante le sue qualifiche, l’unica persona al mondo che le può insegnare quello che ha appreso qua sono io.
Mi avevano detto che aveva un caratteraccio, mi sembra, invece, semplicemente una persona schietta
Io non capisco quale sia il problema, con me: mi alzo alle tre del mattino, prego per la pace nel mondo fino alle sette. Ogni giorno dell’anno.
Entro nella mia stanza alle nove, ricevo il mondo, vivo solo di offerte. Quindi: cali esti su problema? Io non lo vedo.
Siamo nel 2014, non si può continuare a ragionare con i piedi: la notorietà non viene dal giocare a pincaro. Le onorificenze che ho ricevuto, non le ho certo avute perché sono carina. Sapete quanto tempo ci vuole per fare questo tanto di bambagia? - Smuove ciuffi di bisso, piccoli batuffoli apparentemente ispidi -
Io scendo sott’acqua, taglio la seta e la porto in superficie. Difendo il nostro patrimonio.
Per tessere una pavoncella* senza disegno ci vuole una vita; per filare una cosa che non si sente, non ha peso … dammi la mano e chiudi gli occhi: hai il bisso sul palmo, anche se non lo senti (è davvero impossibile avvertirlo al tatto, la sensazione è indescrivibile, ndr).
E adesso zia vi fa il filo…
Il filo?
Ogni donna che passa qua si porta via su lacciu, il filo dell’acqua. Va conservato, è un passaporto. Un mese prima delle nozze le donne tornano da me, con un metro di tela di lino bianco e io confeziono il cuscino di nozze, con le due pavoncelle ricamate, sul quale andranno le fedi (su pann’e coiai). Se invece la donna regala il filo al figlio che viene, zia preparerà su pann’e nasci, una vestina per il battesimo con due metri e mezzo di lino bianco.



Tutto parte dal filo, infatti ognuna porta via il proprio filo: senza il vostro filo io non potrei filare. Ogni donna che entra qua dentro è il filo che permette a me di collegarmi con l’acqua, di fare da ponte. Tu Martina devi sposarti?
Chiara mi coglie alla sprovvista, ero convinta di essere io a fare le domande, ma dirigere ’intervista non è facile. Le spiego che non ho progetti di matrimonio, non nell’immediato.
Io non farei così il conto, mi pare che è più immediato di quanto pensi tu. Il filo ha rotto il filo e in genere funziona: o arriva un bambino o si sposa una donna. Una delle due: quando si spezza il filo o devo fare un panno o devo fare un vestito.
È la cosa più bella per una donna, l’amore è una cosa infinita. Io ho sposato un uomo che mi ama da trent’anni. Mi porta il caffè al pomeriggio, cucina per me, mi aspetta quando parto, manda via la gente se sto dormendo. Ecco, guarda: ora il filo è diventato magico, brilla, ma senza la formula giusta non diventa oro.
E questo lo sa fare solo il Maestro…
Sì, ma non siamo più abituati ai Maestri, per questo spesso li confondiamo con gli artigiani.
Il Maestro ha tutto in testa e si occupa solo di trasmissione orale. Per questo leggere di lui non è mai come incontrarlo.
Tu non avevi mai sentito il Canto dell’acqua, fino ad oggi, e sai che cosa vuol dire questo? Che ti hanno tolto la possibilità di conoscere.
Io non andrò mai a insegnare in un corso, con 15 persone. Se un ragazzo viene qua, il segreto passa da me a lui e io sono ben lieta di tramandarlo.
Alla confusione chiudo le porte perché proteggo il sapere, in nome del giuramento.

Nel 2001 mi hanno offerto due miliardi e mezzo per il Leone delle Donne. Ma se è delle donne perché lo devo vendere?
Io l’ho costruito perché nel ’96 ho ricevuto l’"Asfodelo d’oro" per il premio Donna sarda che viene concesso a una donna ogni anno e io l’ho ricevuto dopo Maria Carta.
Però ho pensato che a tutte voi sarebbe spettata una medaglia d’oro per la vostra vita e non ve l’avrebbero data. Quindi ho costruito il Leone, di bisso, per tutte le donne del mondo.
È vostro, non è di zia.

Quanto tempo impiega per confezionare i suoi lavori?
Non si conta il tempo: quando è finito è pronto, non si può pensare al tempo. Quando il Maestro è stanco legge il suo diario di bordo (un quaderno carico di commenti dei visitatori di Chiara, circa 70mila all’anno, ndr) e ricomincia a lavorare.
Finché qua entrerà una donna, piccola o grande che sia, io non posso chiudere quest’affare.


* La pavoncella, antico simbolo ebraico, rappresenta il viaggio delle idee. È inciso sul telaio del Maestro e Chiara lo disegna perfettamente, oltre che sulla tela, anche a mano sulla bustina nella quale conserva il filo di bisso che porge in dono alle donne che le fanno visita, insieme a Tanit, la chiave della vita e al simbolo dell’acqua.


27.6.14

ALLA SCOPERTA DI ZERO... Non sono un "sorcino" o "zerofolle", mi definirei piuttosto un "curioso". mia intervista

Amo la musica d'ogni tipo, purché non esageratamente commerciale. Il fenomeno Zero mi ha affiancato (mi è passato accanto, se vogliamo adattare il titolo di un bel libro su di lui scritto da Massimo Del Papa)
da sempre, ma non mi ero mai soffermato sulla sua musica per varie ragioni. Alcuni amici mi hanno spinto a farlo. Tra questi, Daniela Tuscano e Cristian Porcino, autori di "Chiedi di lui" (ed. Lulu http://www.lulu.com/shop/daniela-tuscano-and-cristian-porcino/chiedi-di-lui-viaggio-nelluniverso-musicale-di-renato-zero/paperback/product-21430369.html ),



diario appassionante e documentato che si legge come un romanzo e abbraccia tutta la carriera del cantante romano, dagli esordi agli ultimi tempi, ricco di  testimonianze dirette di amici e fans.


 - Cara Daniela, cominciamo proprio da questi ultimi. Dalle tue righe sembra emergere una differenza tra sorcini e zerofolli, zeromatti ecc., quasi fossero entità distinte. Come mai?

 «Non è esattamente così. Un tempo, lo confesso, ero molto più draconiana. Nel libro ho voluto segnare uno spartiacque tra gli estimatori della prima fase, più eterogenei, e quelli arrivati dopo il 1980, quando appunto nacque il nomignolo tuttora in uso. In genere non amo le etichette e quindi nemmeno esordi».
questa, che tende ad "appiattire" tutto in una sorta di pensiero unico. Non si tratta di snobismo, ma voglio poi sentirmi  libera di esprimere le mie sensazioni, positive o negative che siano, senza essere considerata "traditrice della causa". Ma, ripeto, adesso è solo una puntualizzazione".

- Hai insistito molto sull'ultimo scorcio dei '70, sottolineandone il lato ludico e non soltanto drammatico...

 «I '70 furono effettivamente anni travagliati, sfregiati direi: terrorismo, strategia della tensione, droga, servizi deviati... Una slavina che aveva subito una violenta accelerazione dopo l'assassinio di Pasolini. Ma io li ricordo pure felici. Non solo per la giovane età, ma per quella ventata di novità portata proprio da Zero: una piccola "rivoluzione" dei costumi, colorata, pacifica, ma significativa e senza ritorno. Renato, col trucco provocatorio e le canzoni esplicite, mise definitivamente in crisi i ruoli ingessati della coppia e della famiglia (e la famiglia, non dimentichiamolo, è lo specchio della società), ancora fortemente arcaici, che il Sessantotto non era riuscito a scalzare, soprattutto dal sentimento comune. Rese, a suo modo, pubblico il privato. Non portò la fantasia al potere, ma in alcune case forse sì. E fu un periodo di audaci sperimentazioni in campo artistico. Ecco, di questo le cronache non raccontano nulla. La considero una mancanza piuttosto grave».

 - Aggiungi che hai amato pure il Renato anni '90, quelli della rinascita...

«...e dell'umiltà. Probabilmente pochi si accorsero che dietro quella nuova corsa verso il sole c'era un uomo mutato nel profondo, ammaccato, maturato ma inevitabilmente diverso pur nell'apparente continuità dei temi affrontati. La produzione si fece più barocca e tecnicamente impeccabile e al contempo, in particolare nella prima metà del decennio, segnata dai graffi e dalle mestizie degli anni precedenti. Ebbi l'impressione che Zero, ogni tanto, si voltasse indietro, con qualche sgomento, rammentando il recente passato. Questo me lo restituiva ancora molto umano, propositivo».

- Sembra infatti di capire tu preferisca questo suo lato umano, magari incompiuto, a quello di star inarrivabile e incontestabile.

 «Senza dubbio. Per me il ruolo dell'artista è quello di sentinella, di accompagnatore se vuoi. Deve cioè aiutarti a esprimere i tuoi personali talenti. Ma questi, li hai o non li hai; non te li possono infondere né lui né nessun altro. Se qualcuno, o anche se stesso, attribuisce all'artista un ruolo simile, si attua una sorta di strabismo psicologico che altera la realtà».

- Cristian, tu ti occupi della seconda parte della carriera di Zero. Come ti appaiono, oggi, quegli anni che anagraficamente non hai vissuto? 

«Gli anni che per ovvi motivi anagrafici non ho vissuto direttamente sono quelli più importanti per capire e amare la sua musica. Anni splendidi e carichi di significato. Anni in cui l’estetica del suo linguaggio prendeva corpo e si dipanava in tutto il suo splendore. Un periodo davvero irripetibile e unico. Però grazie ai suoi album e alle numerose testimonianze video, sono riuscito a recuperare quasi tutto e posso ancora oggi godermi quell’età zeriana ormai sparita».

- Fra Amo I e Amo II quale preferisci e perché? 

« Nel libro ho specificato che in un primo momento non mi aveva entusiasmato molto Amo capito I. Un disco senza alcun dubbio di qualità ma senza quell’anima zeriana che invece si riscontra, nel bene e nel male, nel II°capitolo. Il suo ultimo lavoro va inteso nel suo insieme e quindi direi di apprezzare alcune canzoni del I° e altre del II° Amo»

- E, in genere, quale preferisci dell'ultima produzione e quale ti sembra meno convincente. Spiegane le ragioni. 

« Dell’ultima produzione di Renato preferisco "Cattura". Album in cui Zero si rivela e fa intravedere la sua anima. Attraverso le sue 13 tracce sonore Renato scrive in un pentagramma la sua biografia. Mentre l’album che non mi ha convinto del tutto è "Il dono". Quest’ultimo è un lavoro troppo frettoloso e poco in linea con gli standard qualitativi della sua carriera. A parte alcuni brani direi che è un disco da dimenticare».

- Quanta "spiritualità" c'è ancora nei testi di Renato e quanto si è invece perso? 

« La spiritualità nei testi di Zero è stata sempre presente. Però adesso la sua fede si manifesta in un cattolicesimo fin troppo ostentato. Prima i suoi accorati appelli etici erano criticabili ma veri fino al midollo, mentre adesso in lui vedo tratti un po’ troppo conformisti nell’uniformarsi continuamente ai dogmi della Chiesa di Roma. Si sente la mancanza di quel Renato Zero smaliziato e talvolta ingenuo degli esordi».

questa, che tende ad "appiattire" tutto in una sorta di pensiero unico. Non si tratta di snobismo, ma voglio poi sentirmi libera di esprimere le mie sensazioni, positive o negative che siano, senza essere considerata "traditrice della causa". Ma, ripeto, adesso è solo una puntualizzazione».

25.6.14

MATRIMONI SIMBOLICI, UN ALTRO MODO PER DIRSI SÌ martina marras di http://www.ladonnasarda.it/

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In spiaggia al tramonto, con parenti, amici e damigelle. Oppure nella caletta più nascosta, durante una romantica fuga d’amore. La celebrante laica Claudia Murroni racconta i riti animisti.


Claudia Murroni  [  foto a destra ]  è una bella ragazza, capelli lisci in un caschetto lungo. Ha .39 anni, ma ne dimostra molti meno: un passato da sportiva alle spalle (è stata campionessa regionale nei 400 ostacoli, anche se sembra non ricordarsene più), una laurea in Scienze politiche. Ha vissuto a Barcellona e poi in Inghilterra dove ha lavorato nel campo degli eventi. Qualche anno fa è tornata in Sardegna e oggi si dedica all’attività di
I matrimoni di cui Claudia è celebrante sono promesse d’amore accorate, ma assolutamente simboliche: non hanno valore legale e non si ispirano al credo di nessuna chiesa. I matrimoni laico-umanisti, un’assoluta novità nell’Isola e in Italia, sono riconosciuti nei paesi anglofoni. La moda, manco a dirlo, parte dagli Stati Uniti. La filosofia è molto semplice: la celebrazione dell’amore non conosce credo e si può giurare fedeltà e sostegno al proprio partner senza bisogno di un dio garante.

Per Claudia fare da celebrante laica è una sorta di missione, animata dalla convinzione che la condivisione dei sentimenti tra due persone sia più forte di qualsiasi convenzione, legge, fede, opinione e genere. «Capita – spiega - che si decida di abbinare il matrimonio simbolico a quello civile, visto che il rito laico consente maggiore flessibilità: si può scegliere la location che si preferisce, mentre la cerimonia civile può avvenire solo nelle pertinenze comunali, a Cagliari esclusivamente in municipio».I passaggi obbligati sono quelli della tradizione: lettura delle promesse, scambio degli anelli, bacio alla sposa, firma della pergamena. «C’è chi opta per le promesse tradizionali e chi invece preferisce un testo personalizzato – racconta Claudia – non ci sono regole precise, ampio spazio è lasciato al volere degli sposi. In genere si tratta di cerimonie molto partecipate: intervengono gli ospiti, i parenti raccontano qualche aneddoto, gli amici recitano poesie. Tutti prendono parte al rito ed è molto emozionante. Ho cominciato a celebrare nel 2008, ma ancora devo fare forza su me stessa per trattenere le lacrime durante le promesse».

La celebrante costruisce il rito ad hoc di volta in volta per la coppia: «Mi faccio raccontare ogni cosa, dal primo bacio all’anello di fidanzamento e insieme a loro decido quali dettagli inserire: ci sono vari riti accessori, come quello della sabbia, delle candele o delle corde che simboleggiano l’unione in un corpo solo». Claudia è ministro della Universal Life Church e fa parte del circuito dei celebranti laici italiani.

Il servizio è richiesto anche dalle coppie omosessuali, dal momento che si tratta dell’unica possibilità per ufficializzare, sebbene in maniera simbolica, il patto di cuore. Eppure, in Sardegna, la prima unione simbolica fra persone dello stesso sesso non è stata ancora celebrata. 
«Il rito laico, per me, è la proclamazione assoluta dell’affetto fra due persone – precisa Claudia - Ogni matrimonio è diverso: ci sono le fughe d’amore, di turisti arrivati con un volo low-cost che decidono di giurarsi amore in una caletta al tramonto. Altri vengono appositamente in Sardegna, perché ci sono stati o semplicemente perché ne hanno sentito parlare, con parenti, amici, testimoni e damigelle».In media Claudia celebra 30 unioni simboliche all’anno prevalentemente in inglese o in spagnolo, perché a sposarsi in riva al mare sono soprattutto stranieri. 
«I sardi storcono un po’ il naso, vi è la convinzione che si tratti di matrimoni finti, anche se in tanti sono affascinati». Un buon compromesso, in realtà, per indossare l’abito bianco che quasi tutte sognano, senza imbrigliarsi nelle maglie di un credo che non sentiamo addosso e senza il peso di un freddo contratto. 
«È tutto più rilassato, più sentito, più bello – continua Claudia – per noi italiani il matrimonio è quasi una tappa obbligata, i nostri riti sono rigidi. Le coppie straniere sono coppie di fatto da anni, quando arrivano al matrimonio, civile o simbolico che sia, generalmente convivono da tempo». E allora cosa cambia? verrebbe spontaneo chiedersi. «Dopo il rito simbolico io annuncio il signore e la signora X e credo che si sentano realmente marito e moglie».

Il posto più romantico per sposarsi in Sardegna? Claudia non ha dubbi: le calette della Costa Smeralda o Costa Rei.

24.6.14

fiochi nella notte di san giovanni 2014

http://www.lagosereno.org/File_inserire/Seminario_Rito_del_fuoco.pdf
http://cedocsv.blogspot.it/2010/06/la-notte-di-san-giovanni-e-la-notte-dei.html

ieri sono andato  , era  da  una  ventina  (  e più ) d'anni che  non andavo  ai fuochi  di san giovanni   forse perchè  li consideravano  noiosi  e sempre  uguali  ma poi : riascoltandomi  e  cantando  stonando



 leggendo i link  sopra  ho cambiato idea  e mi sono ricreduto  (  ecco   perchè  ho scelto  le  tag  nostalgia , ritorno al passato  )   . Ieri  sono andato  con gli amici  del  gruppo di fotografia
 ecco le mie foto






















22.6.14

CORPUS DOMINAE di © Daniela Tuscano

musica  in sottofondo  Nothing man-Pearl Jam

Secondo lo psicoterapeuta Alberto Pellai ("Famiglia Cristiana", 19 giugno 2014) ad armare la mano assassina di Carlo Lissi è stata "la cultura dell'onnipotenza narcisista". 

da   Pagina di I libri di Daniela Tuscano

Quella per cui "io posso tutto e l'altro non vale niente, quello che sento io ha valore e quello che sentono gli altri non vale niente". Ma "onnipotenza narcisista" è un ossimoro. Il narciso è per sua natura un impotente, un incompiuto, uno che ha bisogno dell'altro pena la cancellazione della propria identità/umanità. E una società individualista, costituita da tanti Io che non diventano Noi, perde i connotati di societas per corrompersi in massa di singoli incapaci di comunicare fra loro. I desideri scadono a pretese, le volontà a velleità. Tutto diventa liquido: privo cioè di forma, centro, passato e futuro. Esiste solo un indeterminato presente, o meglio una contingenza, per la quale consumare le energie del momento; quella e null'altro. A Dio s'è sostituito l'Io: ne sono scaturiti miriadi di mondi acefali, aferesi di comunità mosse solo da un istintivo bisogno. Logico pertanto che il mancato soddisfacimento di tale bisogno porti molto spesso a reazioni distruttive, primordiali come la broda in cui bene e male si mescolano e confondono, sono anzi concetti senza senso nel magma pre- o subumano che tutto macina e inghiotte.
Tratto distintivo dei nostri tempi, si suole ripetere. Ma è del tutto vero? Non v'è nulla d'ancestrale, nulla del biblico serpente antico in questi epifenomeni?
Nella precedente riflessione abbiamo cercato di smentirlo. Carlo Lissi ha squartato la moglie e i bambini divenuti insopportabili pesi non perché pazzo, non perché capriccioso Peter Pan, non perché sadico assassino ma perché degno frutto d'una mentalità radicata nella notte dei tempi. Una perversione intellettuale talmente diffusa, persino in chi ne è vittima, che le discriminazioni, le violenze, persino i crimini commessi in suo nome non ci sembrano tali, ma li accettiamo come fenomeni di "natura": è "naturale" la donna sia debole, "naturale" le spettino minori diritti nel mondo della scuola e del lavoro, "naturale" sia meno tutelata dal punto di vista legislativo; "naturale" non possa (non debba) esser sacerdote, dirigere la preghiera, salire ai vertici della scala sociale; "naturale" sia considerata di fragile intelligenza, più dedita alla sensualità, complementare all'uomo (ma non viceversa). "Naturale" sia madre (e anatema a chi non manifesta questa sacrosanta propensione): perciò l'indegno ex-prefetto di Perugia invita cortesemente al suicidio le MADRI inette a gestire un figlio drogato, ma non fa motto alcuno sulle responsabilità dei PADRI, i quali pure, nella sua mentalità, sono i "capifamiglia".

Al disperato "perché?" urlato da Cristina Omes [nella foto con i genitori] mentre riceveva i fendenti del suo aguzzino tale mentalità non prevede risposta. La donna non può che esser muta, accettando in silenzio anche la propria eliminazione fisica. Non può, non deve capire. È una domanda, quella di Cristina, imprevista, atta solo a scatenare la furia di chi non la considera persona. E, con le coltellate, le replica nel solito, assurdo modo dei dittatori: "Perché sì!!!".
Il maschilismo è dunque fenomeno remoto; forse, addirittura, l'origine d'ogni violenza successiva. 
Tutto si spiega? Andiamoci piano.
La strage di Carlo Lissi ci pone di fronte ad altri inquietanti interrogativi e responsabilità. Lissi non è, come speravano leghisti e razzisti, un extracomunitario, magari "negro", non un talebano o musulmano (per i soggetti suindicati, i termini sono sinonimi), non un deviato sessuale ne' tantomeno una "mela da scarto" alla Stefano Cucchi, su cui poter riversare odio feroce ammantato da modi flautati. 
Carlo Lissi non era nulla di tutto ciò, bensì il figlio modello sognato dalle famiglie perbene, e anche da quelle per male: bianco, piacente, diplomato, salutista, col villino in Brianza (ah, la cara e vecchia siepe del campetto, umile e pia!), tutto casa e chiesa. Eccoci arrivati a un altro aspetto della questione: la chiesa.
Perché Lissi, fra gl'innumerevoli pregi della sua vita tutta in discesa, vantava quello di giovane devoto: oratorio, assistenza regolare alla Messa, altro che edonista perso nei suoi tatuaggi. Oddio, i tatuaggi li aveva pure lui, le sopracciglia non dimenticava di ritoccarle, l'abbronzatura alla moda non gli mancava mai, ma quella sua fede, i sani insegnamenti ricevuti, quelli l'avranno preservato dalle nefaste influenze dell'"air du temps", no?
Ebbene... no. Allora spingiamoci più in là: ferme restando le responsabilità personali, quale Vangelo è stato trasmesso a quest'anima smarrita? Interrogativo mai sollevato - e "pour cause" - da alcun giornale, osservatore più o meno accreditato, laico o cattolico che fosse.
Quale Bibbia, quale Vangelo ascoltiamo e assimiliamo la domenica? Il Vangelo delle brave persone? Il Vangelo della siepe? O quello dell'accoglienza del diverso, dell'estraneo, del perseguitato? Il Vangelo dei bianchi? Quello che si confonde con la tutela dell'ordine costituito? Quello devozionale dell'immobilismo? Che promuove non la famiglia ma il familismo, caricatura borghese contro cui lo stesso Cristo lancerebbe strali infuocati, e nasconde dietro vapori d'incenso l'ipocrisia dei rapporti interpersonali?
Quale Bibbia, quale Vangelo trasmettono i nostri pastori? Quello letterale e fondamentalista di certa gerarchia ecclesiastica, che pare talora dare avallo alla perversione intellettuale del sessismo? Quello per cui Dio è maschio? O una Bibbia e un Vangelo d'un Dio fatto carne, carne declinata nei due sessi, carne viva e benedetta e non materia da rinnegare?
È la Bibbia e il Vangelo della tradizione semitica o dell'astratto dualismo platonico? È, infine, la Bibbia e il Vangelo della differenza, dello Spirito che, lungi dall'annullare, arricchisce il corpo? Un corpo, anzi un corpus, non solo "domini", ma anche "dominae"?
"L'uomo non È Cristo e non ha il potere di distribuire i doni. [...] È una creatura con alcuni doni e molti difetti. Sarà sua somma saggezza cercare il rimedio ai propri difetti in quel membro [la donna] che lo completa", scrive Edith Stein - a lei, e non ad altre/i, si deve la prima formulazione sistematica del pensiero della differenza -. 
Amare e rispettare la donna (e, di conseguenza, ogni diversità) come corpo divino, è il cuore del Dio trinitario e relazionale, l'esatto contrario dell'onnipotenza narcisista fondata sull'idolatria dell'Io. Questo Vangelo scomodo e sovversivo, sappiamo ascoltarlo, comprenderlo, metterlo in pratica?
Se non rispondiamo a tali domande, continueremo a occuparci di questioni secondarie, a privilegiare l'ontico all'ontologico, a immergerci in rivoli di parole, perdendo di vista la Parola-carne. Ne abbiamo forse vergogna. Forse, ce ne scandalizziamo.

© Daniela Tuscano

«Sono l'ultima abitante del paese dove sono nata. Vivo all'antica, coi gatti, senza gas né elettrodomestici. Ma non mi sento sola»

Vive senza gas, elettrodomestici e soprattutto in  solitudine . È la storia di  Anna , ultima abitante del borgho di Mossale Superiore, in p...