23.7.14

rivoluzione nel mondo delle modelle ? nuovo calendario pirelli 2015


Segnatevi questo nome perché se ne parlerà per tutto il 2015. Con il suo sorriso dolce, gli occhi scuri e intensi e le sue gambe chilometriche è entrata di diritto tra le muse del Calendario Pirelli. E poco importa se la bilancia segna 90 kg.......
Grazie all'amico Dario  chicchero   che  sul suo facebook   ha  riprtato tale  news  .

The Cal dà il via a una nuova era: dopo aver visto modelle fin troppo magre avanzare a grandi falcate sulle passerelle, adesso la bellezza si libera di un fardello per esprimersi a modo suo. Non c'è taglia che regga e ogni donna diventa una possibile donna da copertina. A soli 29 anni, Candice Huffine rappresenta il punto di rottura con gli stereotipi ricercati dal fashion system: «Ieri sera, prima di venire qui sul set con le altre ragazze, pensavo a questa cosa di essere la novità. E mi sono venute le lacrime agli occhi. È davvero un cambiamento forte voler inserire nel cast una ragazza con la mia immagine» ha dichiarato la modella a Vanity Fair, dal backstage del set fotografico di New York. «Penso che oggi siamo in timing per lanciare un messaggio di bellezza più completo. C’è un’evoluzione nel nodo del costume e il pubblico desidera anche una femminilità più morbida. Sono un modella con qualcosa in più che la gente è pronta a vedere».

  per  sicurezza    mi lo  metto anche con il il codice  embed  
Il Calendario Pirelli è un passaggio obbligato per entrare nell'Olimbo dei “bellissimi”. Tantissime le protagoniste top model, tra cui Kate MossNaomi CampbellMilla JovovichGisele Bündchen,Isabeli FontanaBianca BaltiElisa Sednaoui; mese per mese, sono state ritratte anche bravissime attrici come Sofia LorenPenelope Cruz e Julianne Moore; e anche se non tutti se lo ricordano, è apparso anche qualche artista uomo, come Alessandro Gassman, John MalkovichEwan Mc Gregor e Bono

Ma mai, fino ad oggi, era entrata una modella curvy. Per lo shooting siglato 2015, è stato chiamato  Steven Meisel che sarà il testimone della rivoluzione in atto.  

rottura di un tabù e di un luogo comune anche i down si sposano la stria di Mauro& Marta i primi in Italia

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http://www.videomedica.org/videomedica/?p=11610
Consapevolezza senza pietismo per combattere la paura dell’handicap. Un messaggio importante ed ironico da parte di chi l’handicap lo vive dalla nascita. – intervista a DAVID “ZANZA” ANZALONE attore, autore, regista e, come recita la sua carta d’identità alla voce professione “Handicappato”


E'  proprio  vero  che in Italia  ( eccetto qualche malpancista )   è più  avanti  la  gente delle istituzioni Finalmente   si rompe  un tabù ed  una convenzione   consolidata  cioè che  per  sposarsi  si debba per  forza  di cose  essere  sani  . ma  purtroppo..... c'è  retrogusto amaro a  tutta  la  vicenda  ma  qualcuno gli aiuta  
Ma iniziamo  dal   lato bello  preso da  diverse pagine del web  ( non ricordo i  siti , ma come  già detto  nel  manifesti   e  faq  del  blog  ,  ripeto    se qualcuno\a   degli aventi diritto  o i loro rappresentanti legali  si  faccia avanti   e il post  sarà modificato  con le  aggiunte  o la cancellazione


L’amore non ha sesso, non ha età e nessun confine. La storia che nelle ultime ore sta appassionando tutta Italia ha come protagonisti Mauro e Marta, 40 anni lui, 30 anni lei, affetti dalla sindrome di Down che domenica 6 luglio nella chiesa di San Bonaventura al Palatino, a Roma, hanno coronato il loro sogno d’amore e si sono finalmente sposati ( scopri qui la proposta di matrimonio a una ragazza malata di tumore).A darne la notizia è stata L’AIPD Nazionale che si occupa persone affette da questa patologia aiutandole a vivere serenamente, conducendo una vita completamente normale e, tra le altre cose, segue i ragazzi nell’avventura della vita di coppia e della convivenza, aiutandole ad arrivare al fatidico “Sì”. Quello di Mauro e Marta è il primo caso assoluto di matrimonio tra persone Down in Italia all’interno dell’Associazione Italiana Persone Down, “ma non resterà l’unico: l’amore è democratico e sono molte le coppie che negli anni si sono formate” – ha dichiarato Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell’AIPD, al Corriere della Sera ( guarda qui la foto degli sposi con un ciclone alle spalle ). “Da noi l’indipendenza è una conquista recente. Questi ragazzi e le loro famiglie hanno cominciato soltanto da poco a sperimentare percorsi di autonomia” sottolineando con orgoglio il risultato ottenuto dai due giovani e del cammino di felicità che hanno iniziato a percorrere insieme.Insieme da 10 anni, conviventi da tempo Mauro e Marta hanno fatto il grande passo sposandosi stabilendo in Italia il primato di coppia down sposata che fa parte dell'Associazione Italiana Persone Down. I due lavorano e hanno vissuto insieme a Casa Petunia, una casa famiglia a bassa assistenza per le persone affette dalla sindrome di Down.Le foto delle loro nozze hanno conquistato il web che si è congratulato con la coppia e ha augurato loro tanta felicità. PROGETTO DI VITA – Marta e Mauro, lei receptionist per Adecco lui impiegato all’Asl, si sono scambiati le fedi nuziali  dopo 10 anni di fidanzamento e dopo 4 anni di convivenza passati nella casa famiglia Petunia, progetto della Fondazione Italiana verso il Futuro: “Ci siamo conosciuti ad una festa di compleanno: prima è nata un’amicizia, poi lui si è dichiarato…” confessa Marta, “La cosa che più ci trasporta è la fiducia. Ci sappiamo sopportare, e se litighiamo troviamo un punto d’incontro. Da quando l’ho conosciuta ho avuto subito la voglia di creare il mio nucleo familiare” spiega Mauro.La coppia, prima ancora di decidere per il grande passo, aveva già raccontato la propria storia a XLove, programma di Italia 1 spin-off de Le Iene. Sul tema suggerisce  http://www.giornalettismo.com/  (  mi sembra  di ricordare  )  anche l’ottimo Hotel 6 Stelle, docu-fiction di Rai3 prodotta da Magnolia cui l’AIPD ha collaborato.Questa coppia felice, come tante se ne vedono il giorno del matrimonio, ha però segnato la storia del nostro paese.


20140714 74104 10492155 10152539348029841 4407641787110 478x289 Mauro e Marta sposi: sono i primi in Italia… ecco perché





le foto sono prese da http://www.direttanews.it/2014/07/14/







il lato brutto della cosa è  che  Mauro e Marta non avevano programmato di vivere la loro nuova vita a “Casa Petunia”.

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Mauro e Marta non avevano programmato di vivere la loro nuova vita a “Casa Petunia”. La sua indisponibilità è diventata un problema perché fino a ora non sono riusciti a trovare un appartamento in affitto. “Molti proprietari - sottolinea l'Associazione persone Down - si rifiutano di affittare quando sanno che nella casa vivranno persone con disabilità”. La conferma viene dai genitori di Marta: “Non chiediamo un servizio gratuito da parte delle istituzioni – hanno dichiarato – ma ci piacerebbe che i nostri figli potessero trovare un'abitazione che abbia costi sostenibili per i loro stipendi e per il loro stile di vita”.Non esiste solo il “dopo di noi” (cioè il problema dell'organizzazione della vita dei disabili dopo la scomparsa dei genitori), ma esiste anche un “durante noi”, la possibilità di avere le stesse opportunità delle persone “normali”. Non è un problema da poco. In Italia, il 60 per cento delle persone Down ha superato i 18 anni di età e molte di loro, con qualche sostegno, sarebbero in grado di condurre una vita autonoma, in una casa.
Ma solo in pochissime realtà (a Pisa e a Venezia, per esempio) le Asl o gli istituti per le case popolari hanno reso disponibili delle abitazioni consentendo l'avvio di esperienze di preparazione alla vita indipendente. Casi isolati. “Il tema dell'abitare – commenta Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell'Aipd – ci interroga con urgenza e possiamo affrontarlo solo con creatività, individuando soluzioni con e per le persone Down, integrando professionisti e volontariato, valorizzando tutte le risorse possibili. Ci piacerebbe che qualche ente uscisse allo scoperto”.
Tanto più che in questi tempi di tagli al welfare, quando le risorse sono sempre più esigue, investire sull'autonomia significa dover ricorrere con meno intensità alle struttura assistenziali nel “dopo di noi” e, quindi, determinare risparmi notevoli per la collettività. Il lieto fine della storia di Mauro e Marta ci riguarda tutti.

ma  

A lanciare l'appello è stata Anna Contardi, la presidente dell'Aipd: “Il mercato pubblico e quello degli enti – ha detto – si attivino, per evitare di dover ricorrere ai privati. I quali in questi casi nutrono sempre molti dubbi perché recidere un contratto di affitto fatto a persone che presentano disabilità risulta più complesso. La storia di Mauro e Marta – ha continuato .- non è una storia eccezionale. E potrebbe spianare la strada a tante persone che un giorno si troveranno nella loro stessa situazione”.

L'Aipd propone una soluzione di buon senso: che gli enti proprietari di un patrimonio immobiliare ricavino dagli stabili in disuso soluzioni di 'sperimentazione abitativa'. Pieno il sostegno della trasmissione Baobab che ha messo a disposizione la propria mail (baobab@rai.it) per chiunque voglia offrire un contratto d'affitto ai due giovani.Ad aggravare il problema di Mauro e Marta, una delle tante conseguenze dei tagli al welfare. Infatti la casa-famiglia dove nel 2012 avevano cominciato a convivere, dopo un fidanzamento durato otto anni, non può garantire più il servizio. Non c'è quindi una soluzione-ponte in attesa dell'arrivo di un contratto d'affitto, a parte il ritorno nelle case di famiglia. Dove, ovviamente, sarebbero accolti a braccia aperte. Ma sono gli stessi genitori a sostenerli nel loro percorso di autonomia. “Ci piacerebbe – ha dichiarato la madre di Marta - che i nostri figli potessero trovare un'abitazione che abbia costi sostenibili per i loro stipendi e per il loro stile di vita”.

22.7.14

- le cose belle della vita le storie di Edinma tokodi e Ciro Sabatino

ecco due  storie  di (r)esistenza  culturale  \  guerriglia contro culturale  .La prima  viene  ( non  sono riuscito a trovarlo , salvo le  foto  prese  con il mio cellulare  dalla versione cartacea  ,  evidentemente  non lo mettono sul sito  , l'intervista  fatta  sempre  da taddia  , per  il settimanale  topolino   )  da la stampa   del 13\4\2014  a  cura  di F. Taddia 

Non la mia personale “guerriglia” voglio usare il verde urbano per ribaltare il rapporto tra uomo e natura: se tutti avessimo un giardino personale da coltivare avremmo un rapporto molto più equilibrio con ciò che ci circonda”. Ispirazione artistica e vocazione ecologica: è dal virtuoso incontro di queste due istanze vitali che Edina Tokodi, in arte Mosstika, ungherese di nascita e newyorchese di adozione, ha abbracciato e fatto sua la forma espressiva dei “Moss graffiti”, ovvero la “street art” realizzata con il muschio. “L’idea iniziale era quella di creare dei veri e propri   
giardini prefabbricati da apprendere alle pareti, per arredare artisticamente gli spazi pubblici. Ora invece i miei “disegni” di muschio hanno l’ambizione di richiamare l’attenzione sulla carenza nella nostra quotidianità di momenti di riflessione sul rapporto con l’ambiente: sono punti esclamativi diffusi in tutta la città”.  Ed ecco allora spuntare sulle pareti di case, palazzi ed edifici abbandonati, divertenti animali e giocose sagome umane, dai verdi più variegati, soffici e invitanti da accarezzare. La tecnica assomiglia a quella dello stencil, con le figure che vengono ritagliate in laboratorio e poi applicate sulle varie superfici verticali, creando stupore e rivitalizzando strade e quartieri che necessitano di boccate d’ossigeno.




“Voglio portare al passante il senso della terra, l’emozione dell’arte, la gioia dell’inatteso. E diventa quindi per me fondamentale la reazione dei pedoni: vedere se si fermano a guardare, a giocare, a toccare. Verificare incuriosita se lasciano i miei lavori intatti, se scelgono di prendersene cura o, al contrario, di deturparli. A volte i graffiti rimangono

per settimane, altre volte per poche ore: ma non importa, quel che conta è contribuire, in modo ecologico e sorprendente, alla metamorfosi visiva delle nostre metropoli”.


La  seconda è una come la prima una sorta di reazione \ guerriglia contro culturale alla crisi economico e sociale

 DA  http://www.huffingtonpost.it/titti-marrone/  del 18\7\2014

"Iocisto", prima libreria d'Italia ad azionariato popolare. Metodo SuperSantos come antidoto agli sfracelli e alle "lacrime napulitane "

  


Scrivere un blog su Napoli e da Napoli può essere cosa che sgomenta, perché ci si sente Cassandre costrette a raccontare solo di cornicioni che uccidono, alberi e lampioni che si schiantano sulle persone, affreschi e tesori antichi sbriciolati, manti stradali spalancati in voragini, pentiti che svelano decenni di sversamenti di veleni. È questa la fine che ha fatto la famosa, usuratissima porosità indicata da Benjamin come tratto distintivo della città, suo segno di vitalità, di non omologazione. Come non bastasse la tragedia di Salvatore Giordano, il ragazzino schiacciato dal crollo del fregio alla Galleria Umberto, a Napoli collassano - per incuria, indifferenza politica, forzata rimozione - anche iniziative culturali, idee originali, comparti produttivi, mentre i bouquiniste di Port'Alba sono allontanati da un blitz da contrasto al crimine. E mentre anche oggi s'inanella la consueta sfilza di notizie nefaste, i politici sono indaffarati a litigarsi i posti nelle liste di elezioni regionali cui sempre meno i cittadini avranno voglia di partecipare, mentre l'amministrazione pubblica sembra vivere su Marte, lontana com'è dai problemi reali.
Allora, vista l'inefficacia di tante denunce, la sordità e l'inettitudine delle istituzioni, la ripetitività di una cronaca quotidiana che sembra inchiodarti sempre allo stesso spartito, due sono le alternative: o annichilirsi e tacere, oppure cercare altrove. Scardinare la gerarchia delle notizie abituali e tentare di raccontare le buone pratiche, i fatti positivi, i segnali di riscossa.
Eccone uno, piccolo ma importante. Quartiere Vomero, 120 mila abitanti, il più densamente popolato della città, la zona residenziale egemonizzata dal commercio. Tra tanti negozi di abbigliamento, ristoranti, pizzerie, snack bar, nemmeno una libreria: l'ultima, Loffredo, ha chiuso poche settimane fa. La penultima era Fnac, dove già i libri erano oscurati dai mega-schermi al plasma e dai cellulari in tutte le salse: sparita anche quella, al suo posto solo tv e telefonini. Succede che un poliedrico operatore culturale, Ciro Sabatino, posti un suo sfogo su Facebook: Le librerie chiudono? Vabbe', allora la libreria ce la facciamo noi. 
Il post di Ciro Sabatino che ha dato inizio alla vicenda 
E in pochi giorni, circa seimila persone dicono "io ci sto", si attivano, danno corpo e gambe a un progetto che sembrava impossibile. Ci si divide in tre gruppi: chi cerca la sede, chi prepara un piano finanziario, chi raccoglie suggerimenti per riempire di contenuti l'idea iniziale. Ci si autotassa, si decide di lanciare una campagna di raccolta di fondi. Senza tanti clamori sulla cosiddetta "società civile", categoria usurata e spesso equivoca, senza aspettarsi interventi dall'alto, stanziamenti di fondi pubblici, tavoli istituzionali, partendo semplicemente da un bisogno reale, individuando una priorità cui dare spazio, alcune persone che non si conoscevano tra loro hanno pensato di provare a non dare per persa la città ma di partire in proprio, con una piccola idea da trasformare in realtà.
E' nata così la prima libreria ad azionariato popolare d'Italia. Per ora c'è un'associazione, una pagina su Facebook - "Iocisto" - c'è la sede, un bellissimo spazio in via Cimarosa, angolo dell'oasi pedonale facilmente raggiungibile perché accanto alla funicolare centrale. Il primo passo dell'inaugurazione è per il prossimo lunedì, 21 luglio, quando si lancerà il crowdfunding, cioè la sottoscrizione, ma ai soci piace di più parlare di "metodo Supersantos": come quando, da ragazzi, prima della partitella di calcio si faceva la colletta tra gli interessati per comprare il pallone. Però qui non si gioca: il 21 a Napoli sono attesi i maggiori esperti di crowdfunding, in una serata in cui si terrà un'asta di oggetti insoliti, libri autografati o rari, servizi offerti dai soci. Si potranno comprare giornate in libreria, "pezzi" dello spazio e raccogliere fondi, puntando a un certo tetto per allargare l'associazione e garantire il lancio delle attività vere e proprie. Poi partirà la "fase due" con la trasformazione dell'associazione in spa, il via all'azionariato popolare ma senza la possibilità di fare scalate: a nessuno sarà permesso di superare la quota massima consentita, di cinque azioni.
La libreria, che per ottobre sarà fornita di libri, arredi e tutto quanto è utile a dare sostanza ai bellissimi spazi per ora vuoti, sarà aperta fino a tarda sera. Avrà una sezione speciale dedicata ai piccoli editori ma allo stesso tempo ospiterà tutti i titoli più richiesti, assicurerà servizi a domicilio, un'area multimediale, uno spazio ragazzi, uno musicale, un settore dedicato alla degustazione di prodotti tipici.
Certo, nessuno s'illude che il "nuovo inizio" di Napoli possa venire da una libreria. 

il logo della libreria da http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/07/16/foto/

Né si è così ingenui dal pensare che tutto sia facile com'è sembrato fin qui, che non sorgano contrasti, divergenze, interessi contrapposti. Però, una volta tanto, può servire fermarsi a riflettere sul metodo che quest'iniziativa adombra. Nessuno ha voglia di cedere alla retorica delle cose nate "dal basso", all'idea di svolgere funzioni supplenti rispetto a quelle da pretendere come doveroso appannaggio della dimensione pubblica. Ma se si vuole cercare un antidoto allo sfracello, è ora di uscire dalla logica delle "lacrime napulitane", di sperimentare anche qui pratiche di cittadinanza diretta diffusissime in altre città europee e statunitensi. "Iocisto" è per ora solo una goccia nell'oceano dell'incuria e dei disastri partenopei, ma chissà che non dilaghi. Già crescono, sulla pagina Facebook, le richieste di adesione da varie parti d'Italia, e non solo. Per iscriversi, basta versare la quota di 50 euro all'Associazione Iocisto, Iban IT08E0326803403052816901630.



IL Vomero è una zona di Napoli con scuole, cinema, qual­che tea­tro e libre­rie. Cinema e libre­rie però stanno spa­rendo. Nel giro di poche mesi, hanno abbas­sato la sara­ci­ne­sca nel quar­tiere ben due editori-librai par­te­no­pei e la Fnac è diven­tata Trony. I libri ci sono ancora, ma sono cir­con­dati da tele­vi­sori dalle dimen­sioni sem­pre mag­giori. Non se la pas­sano benis­simo nep­pure i punti ven­dita che fanno capo a edi­tori famosi, sparsi tra il cen­tro sto­rico e Chiaia. A Port’Alba, sto­rica zona della città dove si tro­vano per­sino i testi fuori com­mer­cio, i vigili hanno fatto sgom­brare le ban­ca­relle. Al posto dei volumi e dei negozi di stru­menti musi­cali spun­tano le riven­dite di pata­tine fritte. Per rea­gire allo scon­forto, il gior­na­li­sta Ciro Saba­tino ha aperto il gruppo face­book «Io ci sto», dando il via alla prima libre­ria ad azio­na­riato popo­lare.


In pochi mesi tre­cento soci con un inve­sti­mento minimo di cin­quanta euro hanno per­messo di rac­co­gliere circa tren­ta­mila euro. «Con­ti­nue­remo con la ricerca di nuovi sot­to­scrit­tori – ha spie­gato — abbiamo orga­niz­zato uno spet­ta­colo e messo all’asta cimeli per rac­co­gliere altri fondi. A set­tem­bre avvie­remo il cro­w­d­foun­ding in inter­net. Dob­biamo rag­giun­gere i set­tan­ta­sei­mila euro per par­tire in autunno». Per ora c’è la sede, in via Cima­rosa 20, e l’associazione: ad acco­gliere i futuri let­tori, L’amico ritro­vato di Fred Uhl­man su un espo­si­tore al cen­tro del cor­ri­doio, sem­bra quasi il primo cent di Pape­ron de’ Pape­roni.
«I circa tre­cento metri qua­drati della libre­ria — ha con­ti­nuato Saba­tino — sono vuoti per­ché vogliamo che tutti i soci e coloro che (dalle 10 alle 22 ogni giorno) ver­ranno qui a cono­scerci o asso­ciarsi pos­sano vedere cre­scere la libre­ria volume dopo volume, scaf­fale dopo scaf­fale. Con­di­vi­de­remo le scelte e anche le deci­sioni sugli eventi da ospi­tare. Per ora abbiamo coin­volto let­tori tra i trenta e i cinquant’anni. Ci aspet­tiamo anche i ven­tenni e gli scrit­tori».
A orga­niz­zare il lavoro pensa Alberto Della Sala, ex libraio di volumi anti­chi: «Non ci siamo chie­sti per­ché le libre­rie chiu­dano, lo sap­piamo già, ma piut­to­sto per­ché alcune sono aperte. Per que­sto offri­remo ai clienti ser­vizi a valore aggiunto, il rela­tivo gua­da­gno ci per­met­terà il lusso di ven­dere libri. Qui non avremo libri sco­la­stici, ma chiun­que potrà por­tarci la sua lista e glieli con­se­gne­remo a casa il giorno dopo: non ci gua­da­gne­remo niente ma fide­liz­ze­remo i clienti, facendo la dif­fe­renza con i siti online».
Tra i ser­vizi in pro­gramma, la ricerca di libri fuori cata­logo e la ven­dita di volumi usati. «Guar­de­remo
da http://www.vesuviolive.it   e da http://www.insorgenza.it/
anche ai tanti migranti che ven­gono al Vomero per lavo­rare e che non tro­vano niente da leg­gere a Napoli. Avremo una parte di libre­ria mul­tiet­nica con testi in diverse lin­gue ma anche scrit­tori napo­le­tani tra­dotti, sia clas­sici che con­tem­po­ra­nei». Fino a otto­bre sarà uno spa­zio aperto per discu­tere di let­te­ra­tura o suo­nare. L’azionariato dif­fuso ser­virà anche a met­tere in cir­colo idee. «Magari un giorno potrebbe esserci una libre­ria Io ci sto anche a Scam­pia — ha con­cluso Della Sala -, a Fuo­ri­grotta e in ogni città in cui le per­sone vogliano fare la pro­pria libreria».



Parità scolastica, il paradosso italiano La nostra Repubblica continua a riconoscere e finanziare istituti di istruzione che fanno della discriminazione sessuale un valore fondante. Il caso di Trento.

La cosiddetta "parità scolastica", con lo stato che foraggia scuole confessionali che hanno un indirizzo ideologico discriminatorio e non garantiscono piene tutele ai lavoratori potendo esercitare una larga discrezionalità, mostra tutte le sue contraddizioni con l'ultimo caso di Trento. I clericali --  sempre  secondo l'account  facebook  di  UAAR Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti --rivendicano la "libertà" del proprio indirizzo formativo, pretendendo che gli insegnanti si adeguino ai principi professati. 
Infatti  Lo scandalo non è di certo questo, quanto il fatto che lo stato continui a spendere centinaia di milioni di euro l'anno (http://www.icostidellachiesa.it/),  violando  l'articolo 33  della  costituzione 


L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
in particolare la frase  : 

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. legittimando di fatto discriminazioni e parzialità e sottraendo risorse alla scuola pubblica ( pseudo laica corsivo mio ) laica

Infatti 






Cecilia M. Calamani
lunedì 21 luglio 2014 16:29

Parità scolastica, il paradosso italiano

La nostra Repubblica continua a riconoscere e finanziare istituti di istruzione che fanno della discriminazione sessuale un valore fondante. Il caso di Trento.


















La vicenda dell'insegnante trentina alla quale una scuola cattolica non ha rinnovato l'incarico perché lesbica apre scenari che vanno al di là del semplice principio di non discriminazione sancito dalla nostra Costituzione.
Il fatto: a contratto in scadenza, la docente viene convocata dalla madre superiora e direttrice dell'istituto parificato, il Sacro Cuore di Trento. Nel colloquio, le viene chiesto di smentire la sua vociferata omosessualità pena il mancato rinnovo. «Chiaramente - commenta l'insegnante al Fatto quotidiano - mi sono rifiutata di rispondere: mi sono sentita offesa, per quella domanda che entra a gamba tesa dentro la vita privata di una persona. Lei però non ha desistito: sembrava che le bastasse una mia smentita in quella sede, ma alla fine ha detto che se non rispondevo era perché evidentemente le voci erano vere e se non dimostravo il desiderio di risolvere quel problema non c'erano possibilità d'intesa». E quindi contratto addio.
Nel putiferio di reazioni che l'episodio ha scatenato, il fronte cattolico difende la legittimità dell'operato della direttrice sostenendo che gli insegnanti di un istituto privato devono rispettare i valori professati dall'istituto stesso. Una persona omosessuale, in sintesi, non può insegnare in una scuola cattolica perché i suoi comportamenti privati ledono i principi del cattolicesimo sulla famiglia. Questa, almeno, la versione ufficiale, a cui però sarebbe bene aggiungere, almeno per onestà intellettuale, che il cattolicesimo continua a considerare l'omoaffettività un «disordine morale» e a condannarla in tutti i documenti dottrinali, Catechismo compreso.
Ora, non basta appellarsi alla nostra carta costituzionale, che sancisce la piena uguaglianza sociale di tutti i cittadini «davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Questo è solo l'aspetto più evidente della faccenda e potrà essere impugnato, se la docente lo riterrà opportuno, in sede giudiziaria. La riflessione che il mero fatto di cronaca dovrebbe aprire ha un respiro un po' più ampio. Le scuole cattoliche, se paritarie come quella di Trento, sono equiparate a tutti gli effetti a quelle pubbliche pur rispondendo a principi completamente diversi. E infatti educano gli studenti a una visione religiosa del mondo con tutto ciò che questa comporta, dall'insegnamento del creazionismo - per i più evoluti "disegno intelligente" - al "peccato" derivante dall'esercizio, in ambito sessuale, riproduttivo e affettivo della libertà personale. In più lo Stato italiano finanzia questi istituti per un totale annuo di circa 325 milioni, ai quali si aggiungono gli almeno 500 milioni di contributi che a vario titolo Comuni, Province e Regioni erogano in modo autonomo (inchiesta Uaar "I costi della Chiesa"). Tutti fondi sottratti all'istruzione pubblica, quella aperta a tutti e che non ammette discriminazioni ideologiche sia verso gli studenti sia verso i docenti perché, per principio costituzionale, laica.
In quest'ottica, la vicenda di Trento mette il dito in una piaga dolente comunque vada a finire. La discriminazione operata dalle scuole cattoliche non avviene solo ex post, come in questo caso, ma ancheex ante senza che ciò costituisca una violazione ai principi di uguaglianza fondanti del nostro ordinamento giuridico e scolastico. E, ciò che è ancor più grave, con il beneplacito e il sostegno economico dello Stato.
Il quadro è a dir poco schizofrenico: un Paese che si proclama laico e condanna per bocca dei suoi rappresentanti la violenza di stampo omofobico, non lesina nel riconoscere e per giunta finanziare chi semina discriminazione - ossia il germe di quella stessa violenza - nei cittadini di domani. Su queste basi, ogni istanza di progresso civile sui temi legati all'autodeterminazione della persona ha il sapore amaro dell'ipocrisia.

                                                  Cecilia M. Calamani 

21.7.14

Marcelo Burlon: un successo da studiare



In due anni, è passato da zero a 16 milioni di euro. Grazie a una linea di T-shirt, ad accordi intelligenti e a una capacità mediatica esemplare. Storia di County of Milan, una nuova linea di abbigliamento che ha conquistato il mondo. E che va studiata con attenzione e senza snobismo


DI SIMONE MARCHETTI


                                        Un ritratto di Marcelo Burlon



Da zero a 16 milioni di euro. In due anni, lavorando coi propri amici e facendo a pezzi le regole di un intero sistema. È la storia di Marcelo Burlon, creativo originario dell'Argentina con base in Italia, uno degli ultimi casi a far discutere animatamente il mondo della moda. In poche stagioni, con una linea di T-shirt ha raggiunto 420 punti vendita nel mondo, stringendo alleanze con i negozi più importanti di New York, Tokyo, Londra e Parigi. Non veste blogger, non fa pubblicità e si è affidato soltanto alle proprie conoscenze. Da solo, ha più successo di tutta la generazione di nuovi talenti italiani che si stanno affacciando sul mercato internazionale. Qualcuno gli rimprovera di essere troppo simile all'estetica dark e contemporanea di Riccardo Tisci per Givenchy. Lui non commenta, si appella ai simboli e ai colori della sua amata Patagonia e continua il suo percorso inarrestabile. D.it lo incontra a pochi minuti dalla sfilata che Pitti Immagine Uomo gli ha dedicato: è la prima collezione di total look, non più solo T-shirt, quindi, ma un intero guardaroba firmato Marcelo Burlon County of Milano.


"Sono emozionato e felice. Soprattutto, sono contento di avere portato qui tutte le persone che hanno creduto in me", racconta Burlon. "Da sempre guardo a loro come fonte d'ispirazione. Per la sfilata di Pitti Immagine ho voluto persone normali, non solo modelli: le persone comuni, quelle che appartengono al mio mondo sono il dna del marchio. Come deejay e come organizzatore di eventi, mi sono accorto viaggiando della necessità di identificazione e di riconoscimento attraverso simboli condivisibili e rappresentativi. Le mie T-shirt e il loro immaginario estetico sono stati come un collante che è cresciuto, poco alla volta, aggregando e insieme vestendo personalità lontane e diverse, dalla realtà ai social network". Il capolavoro mediatico di County of Milan, infatti, deve molto a Instagram e Facebook, ma anche al momento storico: con la recessione economica, le nuove generazioni chiedono alla moda prodotti più facile e meno cari in grado di vestire e di creare un look con pochi dettagli, proprio come fa un T-shirt di County of Milan.
"Ora è arrivato il momento di fare un salto in avanti. Oltre al total look, abbiamo lanciato una linea per bambino, presto sigleremo un accordo di licenza con Marcolin per gli occhiali da sole. I progetti sono tanti e in continua evoluzione. La mia parabola, però, non deve restare un unicum, io credo molto nella nuova generazione di talenti della moda. C'è solo una cosa che raccomando a chi vuole intraprendere una strada seria in questo settore: trovate i partner giusti, è impossibile fare tutto da soli. Tanti, troppi stilisti indipendenti non hanno supporto morale e non riescono a trovare fondi per autofinanziarsi. È un vero peccato: oggi occorre essere creativi ma anche e soprattutto imprenditori e comunicatori mediatici".
È infatti questo il tasto che ha permesso a Marcelo e al suo business di decollare con un'accelerazione davvero potente: la capacità di essere un imprenditore e un esperto di comunicazione e non solo un creativo con buone idee. "Lo ripeto sempre: la creatività da sola non basta mai", commenta Roberto d'Incau, managing partner di Lang&Partners, società internazionale di consulenza nelle risorse umane operante anche nel mondo della moda. "Il caso Burlon va analizzato e deve diventare un esempio da seguire. Ai nuovi designer ripeto sempre le stesse regole: innanzitutto la creatività, le idee sono alla base ma non sono tutto. Oggi si deve puntare al prodotto e alle esigenze pratiche dei consumatori più che alla creazione pura. Poi occorre quella che io chiamo mediaticità, ovvero la capacità di intercettare le figure chiave di chi oggi fa informazione, dai canali classici a quelli nuovi. Quindi, ci vogliono qualità manageriali, un supporto finanziario e l'appoggio di un'azienda di confezione per la produzione delle collezioni. Soprattutto, però, raccomando un consiglio che penso Burlon abbia seguito alla lettera: nuovi stilisti e giovani creativi, uscite dalle vostre torri d'avorio, lasciate i vostri atelier e immergetevi nelle strade, nei locali e nei ritrovi delle nuove generazioni. Lì si annidano le migliori intuizioni e lì la vostra creatività può trovare il trampolino capace di farla volare".


I libri di © Daniela Tuscano LA LETTERA BLU Cristiani d’Iraq, ecumenismo, pace: che fare?

Si sono estinti. Come i dinosauri, no, come i moa, o i dodo. Perché i primi avevano terminato il loro ciclo su questa terra. Gli altri, invece, sono periti per mano di qualcun altro. Dell'uomo, come sempre. 
E però non sono animali, ma uomini anch'essi. E donne e bambini. Estirpati da una millenaria perennità di roccia. 
Sono i cristiani iracheni. Le loro case, le stesse di duemila anni fa, le hanno sfregiate col marchio della vergogna i jihadisti dell'Isis, nuovi padroni del paese.
Non v'è sangue sugli stipiti, non ancora. Non il segno del pesce, consegnato ai libri di storia europei (nemmeno tutti, temiamo). Vi compare una "N", una enorme "N" blu, iniziale di "nassar" (nazareni). Così li chiamano, da quelle parti. Con disprezzo e odio. I "nazareni" sono gl’"infedeli" che non vogliono convertirsi all'Islam fondamentalista, alla legge della Sharia. Sono cristiani e intendono restar tali.
Per loro, nel nuovo Iraq, non c'è più posto. Da quelle case, adesso, soffia un silenzio di vuoto. Chi le abitava è protagonista d'un nuovo Esodo, d'una moderna deportazione. Gli sguardi, inghiottiti dal deserto, si rivolgono costantemente alle rade suppellettili, ai mobili, ai segni lasciati laggiù, in quei dintorni dai nomi remoti e per noi - smarrito il vocabolario del sacro - fiabeschi: Ninive, Assiria... e che non esistono più: gli hanno bruciato l'episcopio, il monastero. I segni sono la prima cosa da abbattere quando si vuol annientare un popolo, la sua cultura, la sua religione. Mosul e Ninive sono diventate città decristianizzate, esattamente come le spiagge "ripulite" dagli ebrei al tempo del nazismo. Antico e nuovo s'intrecciano in un'agghiacciante concretezza. Nessuna concessione all’esegesi, da quelle parti. Non si tratta d’interpretare, ma di vedere. È una persecuzione vera, biblica, letterale.
                            da "Sono irachena e sono cristiana", © Famiglia Cristiana 2014

In quel piccolo, smarrito gregge tra le dune, si perde il ramo d’oro della nostra storia. Ma nessun Gilgamesh vi spende una lacrima. I jihadisti non sono invincibili, ma a nessuno importa fermarli. Molti, al contrario, li armano. I paesi fondamentalisti del Golfo, naturalmente, ma pure – come denuncia il patriarca siro-cattolico Joseph III Younan – quei “politici occidentali che hanno bisogno del loro petrolio”.
Di qui l’afasia, anzi, la vera e propria mutria d’Europa e Stati Uniti di fronte a ciò che il patriarca definisce, correttamente, “disastro umanitario” e “tragedia storica”. Le analisi storiche, economiche e sociali non servono. Il dramma, direbbe David Maria Turoldo, è Dio. Smarrito, poi occultato, poi negato, alla fine semplicemente ignorato dalla vicenda umana, Dio è stato sostituito da una pletora di pallidi surrogati, tutti destinati al fallimento.
In Occidente, questo è chiaro: l’ateismo militante, che dalla Rivoluzione francese si era spinto fino alla creazione di regimi comunisti e alla diffusione dell’ideologia marxista, è stato scalzato dalla miscredenza post-capitalista. Mentre il comunismo pretendeva d’instaurare in terra un paradiso d’eguaglianza fondato sui principi della solidarietà umana, la seconda non è fondata su nulla; né lo vuole; e la “filosofia” che lo sottende – il consumismo – è pigra; strutturalmente, ontologicamente, mentalmente pigra. Ne deriva un esasperato individualismo, che trasforma ogni singola pretesa in diritto, col risultato che la democrazia, invece di progredire, arretra, poiché, malgrado i massicci tentativi d’omologazione, il cuore umano resta un percorso d’esperienze diverse e irripetibili, di piccole e molteplici lampade che nessun moggio potrà mai oscurare del tutto.
I politici occidentali che stringono affari col nazismo jihadista sono gli stessi che in pubblico tuonano contro l’”invasione islamica” e s’accorano pei crocifissi di legno, ma non esitano a lasciar crocifiggere dai “nemici” uomini, donne e bambini in carne ed ossa, dei quali pur asseriscono di condividerne il credo. Mentre il vero oggetto del desiderio è un’altra divinità sostitutiva, il Petrolio, e in nome di quell’idolo nero, che pascerà un immanente, materialissimo benessere, tutto può e dev’esser sacrificato. Là dov’è il loro tesoro, è anche il loro cuore.
Ma – si obietterà – l’Occidente è pur sempre la culla dei diritti umani, della libertà religiosa e di coscienza. Del rispetto delle donne. Ciò nondimeno, nemmeno da questi attori s’è ancor levata una voce sdegnata, forte, unanime e chiara contro il genocidio iracheno. Come mai?
Il motivo risiede, ancora una volta, nell’eclissi di Dio e, quindi, nello smarrimento della percezione del bene e del male. I perseguitati dell’Iraq sono cristiani. E i professionisti dei diritti umani hanno nella lotta alla religione, in particolare a quella cristiana, uno dei loro capisaldi. A difendere dei cristiani, oggi, ci sì vergogna. Si teme di passare per clericali, dopo aver ripetuto per decenni che la Chiesa va abbattuta come relitto del Medioevo e insieme di precetti moralistici e patriarcali. L’obiettivo di costoro è instaurare un mondo nuovo, liberale e libertario, dove tutti avranno ogni diritto e nessun dovere. I fatti d’Iraq li lasciano indifferenti perché ancora non ne intuiscono la portata. Non è infatti previsto, nel loro habitus mentale, che la fede in Dio - e, ripetiamo, nel Dio cristiano - non coincida con arretratezza, miseria e oppressione, ma sia anzi sinonimo di speranza, resistenza, valorizzazione piena della dignità umana. Dio non riduce l’uomo, ma al contrario lo potenzia. E potenzia anche la donna: la vicenda di Meriam ha rappresentato infatti un altro fattore destabilizzante per l’industria dei diritti umani. L’odissea (il calvario, cioè) della giovane sposa sudanese ha dimostrato l’infondatezza della tesi secondo cui la religione umilia la femminilità. Per Meriam è vero il contrario e, se qualcosa si è mosso per scongiurarne la macabra sorte, il merito va ascritto solo ad alcune testate cattoliche, non certo ai gruppi femministi, che della questione, fin quando non è assurta alla ribalta mondiale, si sono semplicemente disinteressati; allo stesso modo persiste l’assordante, vergognoso silenzio su Asia Bibi. Ma se Meriam, Asia e altre donne sconosciute avessero rinnegato la loro fede, magari “postando” su qualche social network una foto a seno nudo, la propaganda Femen-ista le avrebbe subito additate a fulgidi esempi da seguire e imitare.
Il balbettio occidentale nei confronti della strage dei cristiani iracheni ha un’altra motivazione ancora: il “politically correct”, figlio degenere del senso di colpa il quale, a sua volta, rappresenta una stortura del senso di peccato. Aver coscienza del peccato, cioè della mancanza, significa riconoscere il proprio limite e confessarlo davanti a Qualcuno in grado di rimetterlo e di dar la forza di proseguire, non malgrado, ma anche con esso. Il senso di colpa è invece un giudice implacabile perché prende come unico metro di giudizio l’Io derelitto e autoreferenziale che si addossa, illimitatamente, tutte le colpe del mondo; un’altra forma di narcisismo.
Il “politically correct”, che da esso deriva, ragiona dunque così: se protesto, rischio di offendere i musulmani e la loro cultura, mentre io, che sono buono, civile e aperto, devo accettare le culture diverse (il discorso però, se ci si fa caso, non vale mai per gli ebrei – tutti indistintamente, non i governanti israeliani – , verso i quali questi fautori del retto pensiero sono spesso astiosi, truci, talvolta, come nel caso di filosofi nostalgici dei Grand Tour, apertamente e volgarmente antisemiti). Quando, poi, quest’ipocrisia diventa oggettivamente insostenibile – non si può sperar di venire a patti con lo pseudo-califfo di Bagdad – il “politically correct” si tramuta non di rado nel suo contrario e i suoi (im)pavidi sostenitori in tante isteriche Fallaci.
Opposto al “politically correct” è il rispetto; il dialogo; religiosamente, l’ecumenismo. Tutti e tre si fondano sulla cultura e la conoscenza, di sé e dell’altro. L’ecumenismo, in particolare, non elimina le differenze, è cosciente delle sue pecche, ma la sua visione dell’uomo rimane fortemente realistica. L’altro non è “buono” solo perché diverso; è uno come me, con pregi e difetti. L’Occidente deve liberarsi dai cascami dell’orientalismo per impostare, finalmente, un dialogo maturo e paritario con una controparte che oggi gli sfugge. Consapevole delle comuni radici ma anche delle rispettive differenze, non temerà più di offendere, ma saprà distinguere tra fondamentalismo e autentica fede, e in virtù di questo sceglierà i giusti interlocutori e avanzerà legittime richieste, anche con fermezza se del caso.
Ma il problema è solo l’Occidente con tanto Io e senza più Dio? No, il problema è anche l'Oriente, il Sud. Perché il fondamentalismo, in religione, è l’altro volto dell’individualismo sfrenato. Anch’esso si fonda su una lettura deviata del testo sacro e si affida a esaltati e criminali che antepongono il loro Io al vero Dio. Già diversi anni fa lo studioso algerino Khaled Fouad Allam denunciava la sclerotizzazione dell’esegesi coranica, ferma praticamente al XIII secolo, e caldeggiava la ripresa degli studi in tal senso, la storicizzazione della Scrittura, ecc. Insomma auspicava un Vaticano II anche per la religione di Mohammed. Il problema, a nostro modesto avviso, è che l'Islam, a differenza del cristianesimo cattolico e ortodosso, non ha un'autorità centrale che pronunci una parola autorevole e definitiva, di approvazione o condanna, su determinate questioni. Tutto quanto, assieme ad altri complessi motivi impossibili da sviscerare nella presente trattazione, può costituire una delle cause della diffusione del fondamentalismo jihadista in talune regioni. Si può però ipotizzare un concilio di personalità illustri, p. es. l'Università di Al Azhar in Egitto, e ad altri tavoli con rappresentanti autorevoli - e rispettati - della religione islamica, da cui non dovrebbero mancare le donne. Ma, più di tutto, conta il sentire della popolazione comune, dei tanti musulmani pacifici e anche di quelli che non lo sono; cosa non ha funzionato? Dove il dialogo ha trovato un incaglio? Si vuole davvero confrontarsi e convivere pacificamente, oppure no? La responsabilità, oggi, è più che mai nelle nostre mani. Nemmeno il Papa può farcela da solo e del resto, come abbiamo visto, se si rende necessario il pronunciamento di musulmani autorevoli, non è possibile limitarsi a questo. Solo riprendendo la grammatica del sacro ci si potrà liberare dalle pastoie della violenza e dell’incomprensione.

                                                    © Daniela Tuscano

19.7.14

La Via Francigena percorsa in 20 anni con 250 acquerelli.


FEDERICO TADDIA
Ogni luogo è fonte di gioia e di sofferenza: per indole metto immediatamente le radici ovunque, e quando il mio cavalletto mi porta altrove sono costretta a doverle strappare». Ha l’eleganza dell’artista e la pazienza di chi sa attendere la sfumatura giusta Jannina Veit Teuten, 75 anni, pittrice inglese che ha scelto di vivere in Toscana dal 1970, e da due decenni vaga con i suoi acquerelli sulle orme di Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury che con il viaggio a piedi verso Roma attorno all’anno 900 disegnò la Via Francigena.   
«Quando nel 1993 ho dato il via al progetto pochissime persone avevano le idee chiare su quale fosse l’itinerario
dalla bacheca  dell'autore  https://www.facebook.com/pages/Federico-Taddia/40510898249
dell’Arcivescovo: è stato faticoso trovare le informazioni corrette. Ora non saprei più contare le volte in cui sono andata avanti e indietro in treno, bus, aereo, a piedi, in bicicletta e in camper: io, i miei pennelli e i miei colori». Nato in occasione del Giubileo del 2000 il «Via Francigena project» prevedeva di raccontare per immagini chiese, borghi, case, vedute, squarci catturati dallo sguardo di Jannina. Con la realizzazione di 144 acquerelli esposti in 23 mostre organizzate lungo l’itinerario dei pellegrini. Ma l’ispirazione della ritrattista inglese che ha fatto dell’Italia la sua
sempre  dalla stessa  fonte  
prima casa, di chilometro in chilometro si è alimentata, nel desiderio continuo di mostrare, con leggerezza e sapore antico, questo cammino storico e spirituale, tanto da aggiungere altre 100 opere alla collezione. «In tanti si fermano quando mi vedono mentre ritraggo il paesaggio. Altri mi vengono a dire che i genitori, o loro stessi, sono nati dentro una certa porta o una finestra che ho dipinto. In un’epoca dove tutti con gli smartphone scattano centinaia di foto, colpisce che un acquerello, nel suo essere lento, imperfetto e bisognoso di fatica e concentrazione, sappia ancora suscitare immedesimazione. E io felice di essere la viandante di queste emozioni». 

Luigi, che cerca e raccoglie la poesia nei sassi di fiume

ecco perchè  raccolgo e mi faccio portare  sassi  e pietre 

la stampa 27/08/2013 L’ULTIMA STORIA
ZEVIO (VERONA)
«Ecco, questa è la mia Ricerca». Ha gli occhi illuminati dalla gioia e dall'emozione Luigi mentre entra nel suo vecchio fienile come se stesse varcando la soglia di un antico e solenne tempio. Un fienile diroccato, incastonato tra moderne case, dove nel tempo ha raccolto, catalogato e classificato decine di migliaia di sassi. Scelti, uno a uno, nel fiume Adige. Un antro magico e suggestivo, che ti toglie il fiato, dove tutto sembra pericolante e lasciato al caso.   
E invece segue una logica. O meglio, come ti illustra, segue una poesia. Da cogliere senza pregiudizi o la presunzione di trovare significati. Luigi Lineri oggi ha 76 anni, vive a Zevio in provincia di Verona, e ricorda come se fosse ieri quel primo maggio del 1963 in cui, accompagnando un amico a cercare delle selci nel fiume, raccolse un sasso con un buco in mezzo. «Poteva essere un’arma primitiva o un vecchio ciondolo – ricorda – ma mi spinse a guardarmi intorno e ad accorgermi come d’incanto che c’erano forme che si ripetevano ritmicamente: sassi che andavano letti ed interpretati, che comunicavano messaggi».  


Per Luigi tradurre quel linguaggio diventa una sorta di missione a cui dedicare il resto dell’esistenza. Abbandona il lavoro di commerciante e sceglie quello part time da inserviente ospedaliero per avere più tempo libero, e appena i contributi versati glielo permettono opta per il prepensionamento. Il fiume diventa la sua seconda casa, mentre la sua prima casa si trasforma nel deposito di quei sassi in cui lui  
  sempre  dalla  galleria  fotografica  della stampa   
intravede teste di pecora, teste di pesce, bovini, profili di donna, falli maschili e becchi d’uccello.  
«In tanti mi davano, e mi danno ancora, del matto: ma sono io a sorprendermi ogni volta in cui una persona non riesce a scorgere queste figure levigate nella pietra, che sono sicuramente il frutto di mani antiche e sapienti. Simboli ancestrali, segnali di passaggio o forme rituali che hanno preceduto l’avvento dell’alfabeto: nel fiume è nascosto il mistero della natura e della vita».   
L’incredibile fienile di Luigi è meta di curiosi e appassionati, che non credono ai loro occhi nello scorgere la quantità di sassi accatastati, rigorosamente suddivisi per somiglianza, senza lasciare un centimetro libero nelle pareti e con la sensazione costante che tutto possa crollare da un momento all’altro. «C’è finalmente un interesse nuovo verso la mia Ricerca, ed è per questo che mi sto concentrando nell’impaginazione: è ora di fare pulizia e sintesi. Questo è un grande poema, ogni pietra è una lettera: ora vanno costruire le parole e le frasi. Poi chi vorrà potrà leggere e capire».   
L’attenzione al lavoro del pescatore di sassi è testimoniato anche da alcune mostre organizzate in passato, da una tesi di laurea a lui dedicata e ora da un prestigioso riconoscimento. Il radicamento al territorio, insieme alla dedizione, allo scrupolo e la perseveranza nel realizzare il proprio personale museo sono infatti le motivazioni alla base del Premio europeo alle passioni «La seconda luna», che Luigi riceverà sabato prossimo a Laives, in provincia di Bolzano.   
Un traguardo importante, che ripaga anni di sacrifici, silenzio e ostinazione, accompagnati dagli ironici commenti dei vicini e dalla pazienza infinita della moglie. «È stata una vita difficile e totalmente influenzata dal richiamo del fiume e di questi manufatti del passato – racconta sorridente la moglie Tosca, 70 anni –. Sono una donna con i piedi per terra: mi ero innamorata di un commerciante che mi garantiva uno stipendio e invece mi sono trovata a dividere il tetto con un visionario collezionista di sassi. Nel 1988, come regalo di compleanno, gli avevo fatto firmare un foglio, che ancora conservo, in cui mi prometteva solennemente di non perdere più tempo nell’Adige: ma il giorno dopo era già con i piedi a bagno. Anche ora, dopo cinquant’anni di vita insieme, mi racconta bugie per andare al fiume, e io per non arrabbiarmi preferisco uscire di casa quando lui torna con i ciottoli nascosti nella borsa della spesa. Ma che dire: meglio un uomo così di uno che va a buttare via il suo tempo al bar».   
Per Luigi il lavoro va avanti. Insieme alla classificazione, puntuale e maniacale, di quanto stipato nel fienile, ora la ricerca è concentrata sui pezzi più piccoli, che racchiudono una perfezione e una manualità più evoluta. Tentando di rendere comprensibile, anche ai più scettici, il suo operato. «Non essere capito è il suo vero cruccio – commenta la moglie – ma forse non è ancora arrivato il tempo».   
Ma lui non sta più ascoltando, perché l’attenzione è già stata calamitata da una pietra. Una normale pietra apparentemente identica ad altre mille, ma guai a farglielo notare: «Come fai a non vedere l’amore che è nascosto qui dentro?», mi sussurra con sguardo avvolgente. E poi mi spiega: «Questa è una donna che abbraccia un uomo: l’emblema dell’amore e della procreazione. Questo è l’inizio di tutto».  


voleva rapire gianfranco zola ora la sua stria è un film . dal calcio alla mala la stroia spericolata del criminale redento fabrizio maiello

   chiedo scusa se   è in foto  non   ho     troppi impegni  e    non ho tempo  per  estrapolarne il testo  dal pdf