21.12.14

perchè si parla solo di violenza sulle donne e non di violenza delle donne su gli uomini ?




Lo so che perderò contatti , ma la verità e la corretta informazione sta nel mezzo .  Io  sono , meglio specificarlo   onde  evitare  che  le  lettrici   di questo blog  e   quelle  che sono   fra i  miei contatti  o mi seguono sui social mi  rimuovano  o    fraintendano  , contro qualunque   tipo di violenza  venga  essa  commessa   su una persona   e su  un animale  Coso come sono contro i  tabù   come quello   di cui parla   l'articolo sotto  preso da  da  http://www.sardegnablogger.it/perche-la-violenza-femminile-e-un-tabu/

[...]
Ci impegnamo a favore degli uomini che sono diventati vittime di violenze domestiche, con o senza figli. Questo può comprendere casi di violenza da parte del partner (tanto maschile, quanto femminile), ma anche in senso più ampio la violenza all’interno della famiglia.E intendiamo dire che si tratta di più che un ceffone. Con “violenza” si intendono tanto i maltrattamenti fisici quanto quelli psichici.
Penso che la maggior parte di quelli che leggono queste parole reagiranno con incredulità.Ad altri forse verrà da ridere.
Io una volta mi son trovato costretto a chiedere aiuto, urlando nella tromba delle scale.La mia partner di allora mi stava picchiando e io avevo paura di non riuscire a controllarmi più.
I vicini hanno chiamato la polizia ed è stata una delle esperienze più umilianti della mia vita, anche se i poliziotti non si sono mostrati per niente stupiti.
Mi è venuto da piangere e uno dei poliziotti mi ha detto: “Succede nelle migliori famiglie.”
Ho chiuso la storia con quella donna e non ho più pensato a quell’esperienza.L’ho raccontata forse a due persone in tutto e sono passati quasi 25 anni.
Non è facile parlarne.
La violenza femminile esiste e non c’è motivo per cui non dovrebbe esistere.
L’emancipazione e la liberazione femminili hanno liberato tutte le donne da molti degli schemi sociali che le ingabbiavano nel passato.
Tutte.
Non solo quelle buone e giuste, ma anche le altre, quelle che non sono meglio degli uomini peggiori.
Questo è uno dei prezzi da pagare per essere tutti più liberi, uomini e donne.In una società più libera c’è–e ci deve essere–più libertà per tutti, anche per i “brutti, sporchi e cattivi”.
Almeno fino a quando non passano i limiti del codice penale.
E allora perché far finta che non esistano donne guaste, così come esistono gli uomini guasti?
E, se state pensando che, comunque sia, le donne violente siano numericamente inferiori agli uomini, questo è in generale anche vero, ma non all’interno della coppia: “A Chicago, tra il 1965 e il 1993 ci sono stati 2556 omicidi compiuti all’interno di una coppia e di queste 2556 vittime 1271 erano di sesso femminile, uccise dal partner maschile, e 1227 di sesso maschile, uccise dal partner di sesso femminile”. (MANUALE di CRIMINOLOGIA CLINICA – Pagina 357 – Resultaten voor Z)
Certo, questi dati possono riferirsi solo a un paese in cui la vendita delle armi è libera: ammazzare il marito con una pistola è molto più facile che farlo a mani nude o con un ferro da stiro.
Ma–a meno di non voler finire a pensare che le donne americane siano intrinsicamente più feroci di quelle italiane–mi chiedo perché la violenza femminile in Italia non faccia notizia.
Visto che è impossibile che non esista, penso che questo silenzio sia il risultato di una “congiura” tra femministe assatanate e maschi retrogradi: a nessuno dei due gruppi fa comodo parlarne.
Alle femministe, per ovvi motivi–“Le donne sono tutte buone e sempre vittime dei maschi”–mentre ai maschi retrogradi, perché non ci fanno una bella figura a far sapere in giro che esistono anche donne che menano i partner.
Secondo me, invece, la violenza femminile è soltanto un’inevitabile sottoprodotto della liberazione femminile e in questo senso un segnale positivo, per quanto “sgradevole”, soprattutto per le vittime.
La violenza femminile esiste ed è inevitabile.Negarne l’esistenza serve soltanto a incoraggiarla.

P.S
 ebbeh; e io mica dico che la violenza femminile sia sempre una cosa brutta: http://goo.gl/S9oS6X


A  chi leggendo quiesto  post  mi  accuserà   di sesssimo  lo invito  oltre  a rileggersi  il manifesto e le  faq   ma  soprattutto  questa discussione (   che  riporto sotto  )  fatta    su questo argomento   e presa  dal mio  facebook


20.12.14

meglio parlare di mafia ed antimafia fino a creare assuefazione che lasciare che prosperi in silenzio \ Il caso di maria Stefanelli la prima testimone di di 'andrangheta al nord e il suo rqpporto con i giudici

Lo   so che  v'annoierete   nel  leggere  storie  di mafie a  cosi breve distanza     ( vedere il precedente post  :  " la  storia  della  giornalista  Ester   "  di qualche  giorno fa  )   , ma come ho  già detto   nel titolo meglio un assuefazione   che  il silenzio   , o peggio   se  ne parli male  o  a  ....   come evidenzia lo stesso  Saviano


Roberto Saviano.15 dicembre alle ore 12.12

In questi giorni, dopo l'inchiesta “Mafia Capitale”, sono diventati tutti conoscitori di mafia. Ne scrivo qui: bit.ly/LaMafiaDiSempre
Non ho mai temuto i professionisti dell'antimafia, ma i dilettanti sì, e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma forse nemmeno il Paese. D'improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? (....) 


Ma  soprattutto per  far  si che storie  come questa   non siano  casi isolati  c' cioè   : <<(...) Storia diversa per gente normale \storia comune per gente speciale  (...) >> (  per citare una famosa   canzone poesia  de  andreiana    ) e che   non diventino   solo  : <<  storie che restano sepolte nei faldoni delle procure, dimenticate negli archivi dei giornali, ma ancora vive e sanguinanti nell’animo di chi le ha vissute>>  e  condivise  e  da esempio  a   chi vuole uscirtne  o  cis ta  cadendo   . Ma  soprattutto  non ci  cada 

Ecco la  sua storia 

da  narco mafie    piu' precisamente  qui 

E’ una di queste la vita di Maria Stefanelli, classe 1965, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta in Piemonte dal 1998, costretta tutt’oggi a vivere sotto protezione per la ferocia della famiglia dei Marando che di lei, invece, non si è dimenticata.
Una vita spezzata dalle assurde regole dell’organizzazione, dalla rigidità dei protocolli dell’onorata società, dalla violenza del vivere mafioso. Vita raccontata, in ore di dolorosa deposizione, proprio in questi giorni a Torino nell’ambito del processo Minotauro scaturito dall’operazione che l’8 giugno del 2011, sotto il coordinamento della procura di Torino guidata da Gian Carlo Caselli, ha sgominato 9 locali di ‘ndrangheta nel capoluogo e in provincia.
Non piace che racconti, Maria. In alcuni momenti della deposizione, gli imputati dietro le sbarre si innervosiscono e il giudice Paola Trovati è costretta a richiamarli al silenzio. Un avvocato si lamenta con i giornali: “La Stefanelli non ha più nessun contatto con le persone di cui parla dal 1998, perché chiamarla a testimoniare in un processo le cui indagini sono state condotte dal 2007?”.
Le ragioni, invece, ci sono eccome. Foss’anche per portare davanti alla corte una testimonianza che faccia capire che cos’è e come opera la ‘ndrangheta, visto che troppi processi nelle regioni settentrionali stanno registrando preoccupanti assoluzioni da parte di una magistratura giudicante che, dopo sessant’anni di mafie al nord, appare ancora titubante di fronte alla natura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Ma quello che racconta Maria riguarda invece da vicino la storia di molti di coloro che si trovano imputati nel maxiprocesso. E la sentenza sull’omicidio di suo fratello e del suo patrigno, per cui nel 2000 sono stati condannati Domenico Marando e Giuseppe Leuzzi, è agli atti del dibattimento in corso.
Maria Stefanelli è la sorella di Antonino Stefanelli, e figliastra dell’omonimo Antonio, i due esponenti della cosca ‘ndranghetista di Varazze (Sv) che con Francesco Mancuso il 1° giugno 1997 caddero in una trappola a Volpiano (To) a casa di Domenico Marando, che voleva vendicare la morte del fratello Francesco avvenuta nel 1996 di cui i tre erano supposti responsabili: l’ipotesi è che non avrebbero saldato con lui un debito per una partita di droga e, consapevoli dei rischi che quella mancanza comportava, lo avrebbero preceduto nell’eliminarlo. Si salvò, quella sera, solo Roberto Romeo, rimasto di guardia, che sull’alta scalinata di un noto centro commerciale dell’hinterland torinese raccontò alla stessa Stefanelli le dinamiche della scomparsa. Romeo nel 1998 sarebbe poi caduto a Rivalta (To) in un’imboscata di Antonio Spagnolo, con la collaborazione di Rocco Varacalli, uomo di fiducia dei Marando, con un ruolo chiave nell’attuale processo dell’aula bunker delle Vallette perché è stato proprio il suo pentimento nel 2006 a togliere il coperchio sugli affari delle cosche in Piemonte e a rendere così possibile l’operazione Minotauro.
Ma, soprattutto, Maria Stefanelli è la moglie di quel Francesco Marando vendicato nell’agguato di Volpiano, ucciso nel 1996.­ Il cadavere carbonizzato fu ritrovato nei boschi di Chianocco (To).
Della morte del marito Maria venne a sapere dal telegiornale: “E’ stato ritrovato il corpo carbonizzato di un uomo di origine marocchina. Portava al dito una fede nuziale con inciso “Maria 9 giugno 1990””. La donna, all’epoca trentunenne e con una bambina piccola, si stupì della coincidenza con il nome e la data delle sue nozze, ma solo quando alla porta si presentò la lunga processione per le condoglianze capì che l’anello era il suo.
“Mi crollò il mondo addosso, ma non posso negare che quella notizia fu per me una liberazione”.
Quando Maria Stefanelli pronuncia queste parole, chi il 16 gennaio 2013 era in aula comprende le ragioni dello sfogo di cui la donna sente ancora di doversi giustificare, perché ha già ascoltato la sua storia, che il pubblico ministero Monica Abbatecola le aveva chiesto di raccontare. Maria Stefanelli parla del fidanzamento combinato dalle famiglie, a cui lei aveva ceduto per la necessità di lasciare la casa materna (fidanzamento avvenuto al carcere delle Vallette, dove Francesco Marando si trovava recluso, e matrimonio in Comune a Torino, con il promesso sposo che arriva in blindato e firma gli atti con le manette ai polsi); della vita da reclusa a cui suocera e cognati la costringono, in un appartamento senza acqua, luce e riscaldamento, il cibo contato, uniche uscite ­- sempre sotto sorveglianza – le visite quotidiane al marito e la spesa per la necessità della famiglia da cui era trattata come una serva; dei pizzini che deve portare fuori dal carcere per la prosecuzione dei traffici dei Marando; delle riunioni al giardino dei Perre (un’altra famiglia affiliata) a Volpiano, dove ha assistito a riunioni di affari e a ingressi nell’“onorata società” suggellati da brindisi e grandi mangiate, da cui le donne erano escluse, buone solo per servire al tavolo. Racconta della paura quotidiana, delle corse dagli avvocati per trovare il modo di fare uscire dal carcere il marito, dell’organizzazione della rocambolesca fuga dall’ospedale psichiatrico di Genova dove Francesco Marando riuscì a farsi ricoverare fingendosi depresso.
Da quella fuga l’inizio della latitanza, il periodo più duro per lei, costretta a trasferirsi a Platì (Rc), in una casa in cui subiva continue incursioni nel cuore della notte da parte delle teste di cuoio, che entravano sfondando porte e finestre che lei aveva smesso di riparare, tanto nessuno a Platì l’avrebbe mai toccata, lei, moglie del super ricercato Francesco Marando. Che infatti si trovava ospite a poca distanza, e con cui riusciva ad avere fugaci incontri, prelevata dagli uomini che ne supportavano la latitanza, che la conducevano nelle case in cui si nascondeva, o nei bunker nel bosco, in cui lui era “attrezzato e armato di tutto punto tanto da sembrare Rambo. A volte sentivamo i cani e i passi di chi lo cercava proprio sopra le nostre teste. Ma io non ero complice, non potevo che fare così, mi avrebbero ammazzata”.
L’ultima volta che lo vede è il 6 aprile 1996, compleanno di Marando: erano stati insieme nascosti una settimana, e proprio quell’ultimo giorno lui l’aveva massacrata di botte, perché dovendo andare a portare le condoglianze per una morte si era permessa di lasciare la bambina a una vicina di casa anziché alla suocera. Botte da sanguinare, senza potersi curare da nessuna parte. Lei, che doveva anche sopportare che lui avesse un’amante.
Dopo la morte di Francesco Marando, Maria Stefanelli torna a casa dalla sua famiglia, a Varazze, in Liguria. Sola con la sua bambina, piena di debiti lasciatigli dal marito che trafficava droga per centinaia di milioni di lire. Non un soldo, costretta a lavorare nei cantieri edili per tirare avanti: “Ma volevo che mia figlia crescesse con dignità”.
L’anno dopo avviene l’omicidio di suo fratello Antonino e dello zio Antonio Stefanelli, fratello del padre morto di infarto con cui la madre si era risposata in seconde nozze.
Poi l’incontro con Roberto Romeo, che le rivela i retroscena del delitto.
Lei, intanto, continua a subire le pressioni della famiglia acquisita: “Vogliamo vedere la bambina, è nostro diritto. Devi scendere in Calabria per la messa di ricordo di tuo marito”.
Quando viene a sapere che anche Romeo è stato ucciso, si decide per la scelta più difficile. Lo dice ancora piangendo: “Ho fatto la scelta della mia vita, quella più giusta, anche se ho perso tutto, la mia famiglia che mi ha chiamata infame, mia madre che ho potuto rivedere solo quando era già morta in una cella di frigorifero. Ho scelto di dire quello che sapevo, perché altrimenti sarei stata assassina anch’io”. Preparerà di corsa una valigia con poche cose lasciandosi tutto alle spalle. Il giudice Marcello Tatangelo raccoglierà la sua testimonianza.
Ma la sua storia non è ancora finita: “Loro mi danno la caccia tuttora. Coi Marando non si scherza”.


 

Essa     ha deciso di  parlare     e rompere il muro di silenzio    ed  è spiegato benissimo in quest'altri due   articoli

 il  primo preso  da   http://www.ioacquaesapone.it/canale.php?id=39

Maria Stefanelli: la prima testimone di ’ndrangheta al nord

Il coraggio di dire no, di denunciare i familiari, di inseguire il sogno di una vita normale

Ven 28 Nov 2014 | di Angela Iantosca


Ha deciso di parlare, perché denunciare nelle aule di tribunale non è sufficiente. Ha deciso che la sua storia la doveva mettere nero su bianco, far sapere a tutti ciò che accade e continua ad accadere. E lo doveva fare soprattutto per lei, sua figlia, per la quale un giorno ha voluto lasciare il suo passato e avventurarsi in un nuovo futuro, fatto di speranza e amore.
Maria Stefanelli è la prima testimone di ’ndrangheta del Nord Italia, una donna nata e cresciuta in una famiglia di ’ndrangheta e poi diventata moglie di un uomo di ’ndrangheta. Una vita segnata, fatta di violenze, abbrutimento, illegalità, dalla quale ha trovato il coraggio di fuggire.
La incontro a Milano, in un luogo che abbiamo concordato la sera prima. So che lei arriverà in auto da una località che ignoro. So solo che ha viaggiato a lungo. Eppure la gioia di essere lì e di trascorrere una giornata diversa non le fa sentire minimamente la stanchezza.
Ci fermiamo in un bar a chiacchierare. Con noi Manuela Mareso, la giornalista che l’ha aiutata nella stesura del libro “Loro mi cercano ancora”, nel quale racconta la sua storia. 
«Sono nata in Calabria, ad Oppido Mamertina, il paese che tutti conoscono per gli inchini delle statue delle Madonne davanti alle case dei boss. Lì avevamo un esercizio commerciale che un giorno, non so ancora perché, o forse sì, ci viene bruciato. È così che perdiamo tutto e quando ho 9 anni, con i miei fratelli e mia madre, vado via da lì, per ricominciare in Liguria, dove i miei fratelli “lavorano”. Non saprei dire cosa fanno, so solo che la nostra è una vita da indigenti e che da quel momento per me è cominciato l’inferno: le botte, le violenze di mio zio, l’assenza dell’amore di mia madre, la scuola che non riesco a finire, i doveri di “femmina” e quella famiglia che non comprendo, alla quale sento di non appartenere».
Cosa significa crescere in una famiglia di ’ndrangheta?
«Non ne hai consapevolezza vivendola dall’interno. Ma vedi cose, vivi situazioni, senti discorsi che un bambino non dovrebbe mai sentire. Sei obbligato a vedere cose che ti bruciano l’infanzia, sentendo il dovere poi di obbedire. Perché chi cresce in una famiglia di ’ndrangheta sa e vede tutto. Quante donne potrebbero parlare, potrebbero ribellarsi, gridare e dire basta. Le più forti siamo noi, noi donne, che dobbiamo prendere i nostri figli e denunciare. La ’ndrangheta è come un cancro, una metastasi, ti uccide, ma si può curare. Ti uccide lentamente. Ma noi donne siamo una risorsa, siamo più forti. Noi possiamo salvare i figli, salvando noi stesse e ritrovando quella infanzia che ci hanno rubato».
La tua infanzia è stata durissima. Poi è arrivato il matrimonio.
«Quando ho conosciuto Ciccio (Marando – ndr) pensavo di poter coronare il sogno del principe azzurro che ti libera dal dolore. Non sapevo di finire dalla padella alla brace. Ciccio era in affari con i miei fratelli, che per questo vollero la nostra unione. Quando ci siamo sposati, lui era in carcere: ci siamo sposati con la polizia e lui era in manette. E dal primo giorno del matrimonio ho capito che nella mia vita non sarebbe cambiato niente, anzi. Ho cominciato a fare su e giù tra le carceri. Ero solo uno strumento per i suoi porci comodi. Poi, per fortuna, sono rimasta incinta di una bambina e lì ho creduto che qualcosa cambiasse. Invece no: usava la mia gravidanza per nascondere sotto la mia pancia quello che non voleva venisse trovato dalla polizia ai posti di blocco…». 
Un incubo che diventa un inferno, quando Ciccio la picchia con tale violenza da farle perdere il secondo bambino che aspettava, al quarto mese di gravidanza.
«Non si fidava di me, mi teneva sotto controllo. E un giorno, per farmi capire chi comandava, mi ha dato una bella lezione. Mi ha portato in montagna, vicino Platì (in provincia di Reggio Calabria – ndr), dove abitavamo in quel momento, e mi ha massacrata di botte. Aspettavo un bambino. Un maschio. Quando mi ha fatto lasciare inerme davanti alla porta di casa, ho sentito qualcosa tra le gambe. Era sangue. Era mio figlio. Credo di essere morta in quel momento. La forza, da allora, me l’ha data solo la presenza di mia figlia. Da quel momento ho solo pensato che dovevo salvarla da tutto questo».
Ma per fare quei nomi, per denunciare padre, madre, fratelli, quanta forza ci vuole? Quella della disperazione. Perché Maria, come tutte le donne, lo sa che non si può parlare. Che non è permesso sottrarsi, neanche immaginare di farlo, dalla famiglia alla quale si appartiene.
«La forza ti viene quando ti aggrappi, capisci le cose, capisci che sei in pericolo. Che non è giusta quella vita. Mi sono trovata ad un bivio: o la morte o la vita. Io ho scelto la vita. E questo l’ho fatto dopo la morte di mio fratello e mio zio, quando ho dovuto prendere una decisione definitiva, anche per salvare la vita di mia figlia, per darle un futuro, una dignità. Dopo la morte di Ciccio, che per me è stata liberatoria, ho trovato il coraggio. Con la scusa di dover denunciare i soprusi del mio datore di lavoro, sono entrata dai Carabinieri. Credo che il maresciallo mi stesse aspettando. La mia famiglia e quella di Ciccio da anni riempiva le pagine dei giornali. Tutti sapevano. Dietro di noi avevamo una striscia continua di sangue. Quando mi dicono che io sarei stata la prossima, decido che è ora di cominciare a testimoniare. Era il 5 febbraio del 1998. Di fatto si trattava di scegliere se vivere o morire. Semplicemente. Da mesi ormai mi trascinavo logorata dal pensiero di essere uccisa. È così che ho cominciato a parlare. Sono diventata una teste importante all’interno di un procedimento penale che ha portato in carcere molte persone, il processo Minotauro, che si è svolto a Torino, perché la mia famiglia operava nel territorio piemontese e ligure». 
Maria ha scelto da che parte stare e ne ha pagato le conseguenze, perché da allora vive in località protetta con il timore di essere raggiunta e uccisa, ma ora, nonostante tutto è libera.
«Ho deciso di dire basta, come vorrei lo facessero tutte le donne di ’ndrangheta, che sanno, sono complici. Devono trovare la forza e farlo per i loro figli. Non è semplice vivere in un non luogo con una falsa identità. Ma ora sono libera, libera, libera di camminare senza dover sottostare ai loro ordini. E ogni giorno posso scegliere in che direzione andare».   

il secondo preso   sempre  dal sito   da   narcomafie
di Manuela Mareso 2 lug 2013 

Io, tradita dai giudici


Quindici anni di solitudine. Di fuga, di isolamento. Per lei e sua figlia. Nessun contatto con la famiglia, nessun amico. Per loro ormai è un’“infame”, e l’hanno cancellata dalle loro vite. Nessuno a cui poter raccontare il suo passato. Un nuovo nome, una nuova identità. È la storia di Maria Stefanelli, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta dal 1998, dopo una vita di violenze e brutalità. Una voce che fuori dai tribunali nessuno ha mai sentito, e oggi, per la prima volta, decide di spezzare il silenzio. Il motivo è la decisione dei giudici di Torino – chiamati a emettere il verdetto di primo grado nel maxi processo sulla ‘ndrangheta in Piemonte ora alle battute finali – di revocare l’ordinanza di custodia cautelare per Rosario Marando, elemento di spicco della famiglia di Platì (Rc) che da 30 anni comanda a Volpiano, nell’hinterland torinese. “Sono molto preoccupata per l’incolumità della mia cliente”, dice l’avvocato Cosima Marocco. “Rosario Marando ha più volte espresso un fortissimo livore nei suoi confronti, sia al processo Minotauro, dove è imputato per associazione mafiosa, sia al processo Stefanelli, in cui è accusato di omicidio. Era detenuto per narcotraffico, sarebbe dovuto uscire nell’aprile del 2014, invece con un cumulo di pena è riuscito a estinguere i mesi residui e dunque ora è fuori”. Nel processo riaperto per la morte di Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso – per il quale nel 2000 era già stata pronunciata una condanna per il fratello Domenico Marando e per Giuseppe Leuzzi, condannati all’ergastolo –, Rosario Marando è stato protagonista di un colpo di scena: “So dove sono sepolti i tre cadaveri, ce li ho messi io”, ha affermato lo scorso aprile, interrompendo l’udienza e portando giudici, pm e avvocati nel boschi della Vauda, a Volpiano. Ad oggi le ricerche non hanno portato risultati.
Signora Stefanelli, come ha reagito alla notizia della liberazione di Marando?
Sono terrorizzata. Non dormo e non mangio da giorni, sono ripiombata nell’incubo di anni fa. Rosario Marando appartiene a una famiglia potente di ‘ndrangheta, una famiglia di assassini oltre che di grandi trafficanti di droga. E lo so perché sono sua cognata. Ne ho sposato il fratello, il boss Francesco Marando, di cui sono rimasta vedova nel 1996, quando è stato ammazzato e bruciato nei boschi di Chianocco (To) dai miei familiari, con cui era finita l’intesa negli affari. Il nostro era stato un matrimonio combinato, come avviene nelle famiglie mafiose calabresi. Non ho mai pensato che i Marando dal carcere si fossero dimenticati di me, ma ora mi preoccupa il fatto che Rosario e Domenico si siano palesemente riavvicinati dopo la grossa rottura dovuta alla spartizione del tesoro del loro mitico – in ambienti criminali – fratello Pasqualino. Dalle sue deposizioni ai processi Rosario ha lanciato palesi messaggi, l’ultimo interrogatorio con il pm Roberto Sparagna sembrava un duello. Bisogna interpretarlo il linguaggio della ‘ndrangheta. Sapere che i fratelli Marando sono tornati in sintonia per me è una notizia angosciante. Eppure non è neanche questa la cosa che mi deprime maggiormente.
Che cosa allora?
Ancor più del fatto che sia libero, mi inquietano le motivazioni addotte. Suonano chiaramente come un’anticipazione di una sentenza di assoluzione, e temo non solo per Rosario. Si trattasse di un processo a Reggio Calabria penserei male. Siamo a Torino, voglio credere che semplicemente le tre giudici non sappiano che cos’è la ‘ndrangheta. Mi sembra che non colgano la caratura criminale di questi imputati, che li considerino solo dei bifolchi, dei cafoni, non delle menti più evolute come la guida di un’associazione di stampo mafioso impone. Del resto è un atteggiamento ricorrente nella magistratura giudicante di molti processi al nord. La mia era una sensazione maturata seguendo le udienze a distanza, e questo provvedimento sembra darmi ragione.
Perché è così severa nel suo giudizio?
In quella revoca si mettono in discussione le dichiarazioni mie, di Rocco Marando – il fratello pentito – e di Rocco Varacalli, il collaboratore che ha fatto scoppiare Minotauro. Il punto è questo: io, forse ingenuamente, ho sempre detto la verità. E la verità è che nessuno di loro, non Rosario e neanche mio marito, mi ha mai confessato “sono un affiliato”. Ma io ho assistito a molti rituali, ai “battesimi”, ai brindisi per i nuovi membri. Certo, non ho assistito a quelli dei Marando, anche perché loro erano già dentro l’organizzazione quando sono entrata nella famiglia. E sulla contestazione che non me ne abbiano mai fatto esplicito cenno, bisogna chiarire che nella ‘ndrangheta non funziona così, dell’appartenenza non si parla apertamente, figuriamoci alle donne poi, che sono bistrattate, sottomesse, umiliate, picchiate. Moltissime vanno avanti a psicofarmaci, per sopportare la morte di figli e mariti, o anche solo la prigionia in cui di fatto vivono. Io ero costretta a portare i pizzini fuori dal carcere per conto di mio marito, raggiungerlo nei suoi bunker sull’Aspromonte mentre era latitante. Perché ero la moglie di un mafioso. Se un giudice non capisce questo, non può capire la ‘ndrangheta.
Lei ha scelto di abbandonare quel mondo.
Sì, e l’ho pagato caro. Ma da quel momento nella giustizia ho sempre creduto, per questo quando mi hanno richiamata per i processi Stefanelli e Minotauro, dopo anni in cui mi ero rifatta una vita, benché misera come può essere quella di una fuggiasca sotto protezione, non ho avuto dubbi sull’accettare di testimoniare. E mi sono seduta su quella sedia da cui le giudici hanno visto uomini tremare di paura, imprenditori vessati sconfessare quello che avevano denunciato, addirittura persone rinnegare la propria identità e dire: “Non sono io, è un caso di omonimia”. Si è visto di tutto in quel processo. Purtroppo capita spesso che i giudici dei tribunali del nord sottovalutino la pericolosità e il livello di infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale ed economico, vanificando il lavoro dei magistrati inquirenti.
Che cosa pensa di fare ora?
Non lo so. Volevo essere dimenticata e dimenticare tutto. E’ stato impossibile. Quello che ho detto nelle aule di tribunale, e che già mi sembrava molto, è un centesimo di quello che ho vissuto. Capisco solo ora come una mancanza di conoscenza delle dinamiche dell’organizzazione possa influenzare le decisioni giudiziarie. Forse è il momento di raccontare come vive una donna di ‘ndrangheta e pubblicare il libro sulla mia vita che da tempo penso di scrivere. Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e tante altre donne uccise per aver parlato non hanno fatto in tempo. Lo devo anche a loro.

  Ma  sopratutto lo  ha  fatto    con  questo libro


 

 Titolo    Loro mi cercano ancora. Il coraggio di dire no alla 'ndrangheta e il prezzo che ho dovuto pagare
Autore    Stefanelli Maria; Mareso Manuela
Prezzo Sconto -15%     € 14,45
(Prezzo di copertina € 17,00)
Dati    2014, 204 p., brossura
Editore    Mondadori  (collana Strade blu. Non Fiction)
     Disponibile in eBook a € 9,99

  scheda presa  da  su http://www.ibs.it

Loro mi cercano ancora” è il libro scritto da Maria Stefanelli, con Manuela Mareso, direttore di “Narcomafie”. Pubblicato da Mondadori a settembre, racconta la storia della prima donna testimone di giustizia contro la ’ndrangheta al Nord. Originaria di Oppido Mamertina (Rc), Maria Stefanelli all’età di 9 anni emigra in condizioni di povertà drammatiche dalla Calabria alla Liguria, dove la sua famiglia controllerà il narcotraffico e sarà protagonista di illeciti di varia natura. Morto il padre, la madre si risposa con il fratello di questi, Antonino, zio dal quale verrà abusata sessualmente. Conosce e sposa Francesco Marando, del quale crede di innamorarsi per liberarsi dalla sua famiglia, ma al fianco di quest’uomo condurrà una vita infernale. Quando Ciccio viene ucciso, braccata dai Marando, che ritengono gli Stefanelli autori dell’omicidio del loro familiare, decide di denunciare, cominciando una vita sotto protezione.Ancora oggi vive nella paura e nella solitudine a cui la vita sotto protezione la costringe.

18.12.14

Mi chiamo Ester, scrivo di 'ndrangheta (a Milano), guadagno 3 euro


Ricolegandomi a quanto già detto nei post precedenti : 1) per il coraggio delle donne , 2) ne vale la pena ?
Eccovi una storia che dimostra come le nuove generazioni non sonomsolo bimbiminkia e basate solo sull'edonismo.  Ma  prima di raccontare  la  storia    vorrei   esprimere  un mio  dubbio  (  poi   sopito  leggendo i  suoi scritti  su fb e  tw   , vedere  i link sotto  )  : se  lei  fosse  al sud   avrebbe lo stesso lo coraggio  come al nord  ?  a  me   sembra  di  si .  Un ultima cosa  prima  d'incominciare



Storie Correlate
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i suoi articoli

i  suoi contatti
 https://twitter.com/Ester_Castano
https://www.facebook.com/EstelleEstella

   Ma  ora  veniamo  alla   storia  della   coraggiosa    Ester Castano, collaboratrice di Altomilanese e redattrice di stampoantimafioso.it

  da   http://www.leiweb.it/a/2012/


foto da http://www.leiweb.it/a/2012/
Da bambina Ester Castano voleva fare la giornalista. Sognava i reportage dal fronte. Ma all'inizio si è dovuta adattare: mascotte di Pro Loco, portavoce di sagre della cassoeula...
Nata il 2 luglio del 1990, segni particolari “rompiscatole”, frequenta lettere all'università Statale di Milano e parla 4 lingue, inglese, francese, tedesco e un po' di ebraico, ama la letteratura (“quindi se non riesco a fare la giornalista mi aspetta un futuro precario nel mondo della scuola o sotto un ponte”). Qualcosina ha già fatto. Pubblicista a 20 anni, a 17 ha iniziato a collaborare con il settimanale Altomilanese, scrivendo di cronaca, eventi e «polemiche politiche dei “miei paeselli”, che mi entusiasmano un sacco”».
In uno dei suoi “paeselli” però ultimamente Ester ha avuto un sacco di guai.A Sedriano, vicino a Magenta, dove vive, il sindaco Alfredo Celeste (Pdl) accusato di avere preso voti in cambio di favori a uomini della 'ndrangheta, e per questo arrestato qualche giorno fa (ora è ai domiciliari) le ha fatto passare un brutto momento. Stanco di vedersi assediato da questa giovane cronista un po' ostinata, sempre lì “a occuparsi dei fatti degli altri” è andato a lamentarsi con i carabinieri.
«I carabinieri mi hanno convocata più volte per comunicarmi che il sindaco mi diffidava dal molestarlo ancora». Ma in che cosa consistevano queste molestie? «Spesso ho chiesto al sindaco di essere ricevuta per intervistarlo sulle cose che fa - o non fa - il Comune». Sedriano è il suo paese, Ester è curiosa e fa la giornalista. Tutto qui. «Il sindaco si è sempre rifiutato di vedermi e di rispondere alle mie domande. Così, un giorno, l'ho visto in piazza e sono andata a fargli qualche domanda anche lì». E lui ha risposto? «No. Si è infilato in un bar e ha chiamato i vigili urbani, per farmi allontanare...». Insomma: queste interviste non s'hanno da fare. Ora che il sindaco è stato arrestato per i suoi presunti rapporti con Eugenio Costantino, uno degli uomini in odore di 'ndrangheta (l'inchiesta è la stessa che ha portato in carcere l'assessore alla Casa della regione Lombardia Domenico Zambetti), Ester vive un momento di inattesa celebrità.
Aveva ragione: in quel Comune c'era davvero qualcosa di poco chiaro. Tra parentesi: Ester è una freelance precaria pagata da 3 a 10 Euro lordi a pezzo. Forse schierarsi contro la 'ndrangheta non è un affare.
 

Essa è una ragazza coraggiosa .Infatti http://www.today.it/media/ di Chiara Cecchini 22 settembre 2014

Ester, giornalista "antimafia" che si guadagna da vivere in un fast food Ester Castano ha 24 anni. Ha svelato i legami con la mafia del suo comune nel milanese. Ha vinto premi e riconoscimenti per le sue inchieste. Però nessuna redazione vuole investire su di lei, che adesso ha trovato lavoro come cameriera




                              Ester Castano con il direttore del Corsera, Ferruccio De Bortoli

 
Ester Castano è una giovane giornalista, si occupa di cronaca locale, soprattutto di infiltrazioni mafiose al Nord. Il suo impegno, la sua tenacia nel denunciare la collusione con l’ndrangheta del comune di Sedriano, primo comune lombardo sciolto per mafia, il cui sindaco le ha fatto la guerra con intimidazioni e querele, le sono valsi sia l’attenzione mediatica sia numerosi premi e riconoscimenti.
Eppure l’unica proposta di lavoro che le è arrivata è quella di una grande catena di fast food, che le darà 650 euro netti al mese per servire patatine e hamburger. È lo scotto da pagare per poter continuare a fare il lavoro che le piace.
“Fare cronaca locale è difficile, il prezzo è insostenibile. Riesco a piazzare pochissimi articoli in giro e ho bisogno non tanto di uno stipendio fisso, ma almeno di poter andare in pareggio con le spese sostenute per cercare le notizie e scrivere. Non ho mai potuto vivere di giornalismo e quindi ora devo integrare. Un problema diffuso e generalizzato di un’intera classe di giornalisti precari”, racconta Ester Castano a Today.
Ho mandato curriculum per qualsiasi lavoro, anche per fare la donna delle pulizie, perché credo che il lavoro è sempre dignità, purché venga pagato. Ma mi fa rabbia sapere di essere una risorsa, una che il lavoro lo sa fare, e che su di me investa un fast food, non il giornale X. Sembra una grande buffonata.
Perché non vai all’estero? “Bella domanda. Ho provato ad andare a Londra, mi è piaciuta l’atmosfera che si respira lì, amo viaggiare e il mio sogno è fare il corrispondente dall’estero. Però adesso ho questa volontà masochista di rimanere e di voler fare qualcosa di più qui perché è qui che al momento ci sono argomenti, vicende e tematiche che mi interessano e che voglio contribuire a migliorare. Perché dovrei lavorare per un altro Paese?”.
Intanto però c’è questo Paese, l’Italia. “Uscire, andare in giro a cercare le notizie richiede tempo e indipendenza economica. Si parla tanto di libera informazione. Ad essere liberi sono gli editorialisti dei grandi giornali, non chi prende dai 5 ai 30 euro a pezzo, perché chi lavora così si trova a dover fare delle scelte, a chiedersi se oggi si può permettere di prendere la macchina per raggiungere il tribunale e assistere a un’udienza, per andare a cercare una storia, delle fonti”.
Il riferimento nemmeno tanto velato è a Curzio Maltese, editorialista di Repubblica e da poco europarlamentare europeo, che proprio in questi giorni ha annunciato che non andrà in aspettativa e continuerà a percepire il doppio stipendio da giornalista e da politico, perché la legge glielo consente.
“Siamo colleghi. Io però non posso più permettermi di fare la giornalista e lavorerò in un fast food. Tu oggi come ti senti?”, ha twittato ieri Ester proprio a Curzio Maltese. Da lui nessuna risposta. “Dov’è la coerenza qui? Come fa uno che dovrebbe rappresentare un’idea di sinistra e poi accetta di prendere soldi da una parte e dall’altra?”, si chiede la giornalista.
Ester scrive da quando aveva 17 anni, parla inglese, francese, un po' di tedesco ed ebraico, a luglio ha finito gli studi e ha pensato, lei come tanti, alla scuole di giornalismo ma alla fine la risposta è una sola: "Per fare questo lavoro bisogna venire da famiglie benestanti”. Da quando sono iniziate le sue inchieste da Sedriano, la qualità del lavoro di Ester è stata riconosciuta da più parti. La lista di premi che questa cronista di 24 anni ha vinto include quello intitolato a Pippo Fava, il premio Mario Francese, il Premiolino, il Biagio Agnese per l’impegno civile. Tanta roba per una giornalista così giovane ma a lei non basta: “Non tengo ai premi, so come funziona e quello che c’è dietro. Non voglio farmi bella dietro a questi riconoscimenti, non è per quello che so di essere una risorsa. Però così non riesco a vivere”.
Ma dai direttori dei grandi giornali, quegli stessi in prima fila alle premiazioni e pronti a stringerle la mano, non è mai arrivata una proposta? “Zero”, è la risposta secca di Ester. “Con alcuni ci sono stati degli scambi di email ma nulla di più, tutto è rimasto sulla carta. Tante parole e poco coraggio”.
Il suo caso è stato sollevato anche da Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, che in un post su Facebook ha scritto: “Ma uno di quei direttoroni che la premiano, uno dei bigs politici che la lodano, una di quelle primedonne della tv che usano il suo lavoro senza mai citarla, un angolino per consentirle di continuare a fare il mestiere che ama e che adora non riescono davvero a trovarlo?”.







La voce di Ester tradisce la delusione e l’insofferenza. “Non abbandono il mio sogno, che poi ora non è più nemmeno tanto un sogno perché questo lavoro lo faccio tutti i giorni ormai. Ma è paradossale che l’unico disposto a investire su di me sia un fast food”.


Biblioteca dei Girolamini di Napoli, i precari che la salvarono rischiano il licenziamento. Denunciarono il saccheggio di libri


Leggendo questo articolo de  L'Huffington Post del  17/12/2014 10:33


I precari che salvarono la più antica biblioteca di Napoli, aperta nel 1586, dove si ritirava per i suoi studi anche Giovan Battista Vico, rischiano il licenziamento. Come scrive Tomaso Montanari su Repubblica, la direttrice generale per le Biblioteche del Mibact Rosanna Rummo ha chiesto alla direzione dei Beni culturali della Campania se sia davvero "necessaria la prosecuzione della collaborazione dei signori Berardi e Caracciolo". O comunque se "non si possibile una riduzione dell'orario". 

la biblioteca  in questione
Le persone che rischiano di perdere il loro posto di lavoro sono Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo, i tre bibliotecari custodi [ come riassunto nella vicenda ] di quel tesoro della cultura italiana che è la Biblioteca dei Girolamini, di cui si è parlato molto nel 2012 non tanto per i volumi che ospita, ma per quelli che sono stati trafugati. Repubblica ricostruisce la storia della Biblioteca. I tre bibliotecari nel marzo 2012 denunciano il direttore Massimo Marino De Caro per aver portato via, con traslochi notturni, duemila preziosi volumi. "De Caro, che si spacciava per laureato e docente universitario, (entrambi due falsi), viene arrestato nel maggio 2013 e condannato a 7 anni (pena confermata in appello nel maggio 2014).
Tuttavia, ricorda Montanari, il più grande traffico illecito di beni culturali nella storia della Repubblica" veniva a galla, "la stessa Direzione generale (sebbene guidata da un altro direttore) si "dimenticava" di costituirsi parte civile al primo processo". Ora, i tre bibliotecari, insigniti dell'onorificenza di Cavalieri al merito della Repubblica dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rischiano di perdere il posto di lavoro.


Mi  chiedo   Perche in questo paese se fai una cosa degna di merito poi la paghi? Perche deve valere il detto "fatti i cazzi tuoi".Perché questo paese e così vigliacco.  Ma  soprattutto  perchè  , mi sa  che dovrò rilegerlo il libro ,
presentato da  Maurizio Donati, Editor della Casa Editrice Chiarelettere presenta il nuovo Instant Book: "A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca" - Don Milani







17.12.14

15 fumetti da regalare a Natale 2014

  da   gli Audaci


In pieno clima natalizio, ecco i nostri consigli per i regali fumettistici più straordinari. Quindici fumetti, per tutte le tasche e per tutti i gusti, ben differenziati in base alle persone a cui vorrete donarli. Forza, *è quasi Natale*! *Per l'amico che non legge più Dylan Dog da anni:* *Cronache dal pianeta dei morti* (Bao Publishing, testi di Alessandro Bilotta, disegni di Carmine Di Giandomenico, Paolo Martinello e Daniela Vetro). Semplicemente, la sequenza di storie dell'Old Boy più interessante pubblicata negli ultimi anni, partorita dall'eccellente penna di Alessandro Bilo... continua sul blog

16.12.14

MONIKA ERTL la ragazza che vendico il Che e i fuggitivi di Alcatraz

  Musica  consigliata  il  cd    cent'anni  di  solitudine   dei  Modena city ramblers  1998 in particolare    questa



Qualcuno\a  di voi  si  chiedera  ma   che  cos'hanno in comune queste due  storie   ?  ribellione   e libertà  oltre il suo fascino e la   loro Utopia  . Infatti   la vendetta  per  quanto comprensibile possa essere   non è mai legale   anche  quando avviene  nella legalità . Idem per la  fuga  da  un  carcere , a 
meno che la condanna  non sia ingiusta   o ci sia  rinchiuso da  una dittatura  . Tali elementi   li sto    ritrovando  sia  nella   I  serie  di Orfani  nella  II   serie     Orfani - Ringo  della Bonelli .
Ma  basta  con le spiegazioni   e veniamo  alle storie  vere  e proprie 
La  prima  è  quella  di  Monika Ertl passata  ala  storia  per  aver  vendicato  Ernesto che  Guevara  . Oltre  i link  e  l'articolo  sotto     trovate  uan suia  biografia   in La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl   di   Schreiber Jürgen .
La  seconda  è la   famosa  Fuga da Alcatraz  . Inizialmente   credevo  fosse solo   un film  più precisamente  Il film, girato proprio nella stessa prigione di Alcatraz 16 anni dopo la sua chiusura permanente .  Poi  ho scoperto   che  esso si basa sul libro omonimo di J. Campbell Bruce, e descrive la vera storia dell'evasione di tre detenuti: Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin, avvenuta nella notte dell'11 giugno 1962. Fuga  fallita per   morte  dei protagonisti   ma  poi  .....  lo  leggerete  sotto  .
Ma  ora bado alle ciancie   e veniamo al post  vero e proprio  .

PRIMA
 da   

Monika aveva 34 anni quel primo aprile 1971, quando si presentò al consolato boliviano ad Amburgo, dicendo di vole...r chiedere un visto e parlare col console. Entrò nel suo ufficio, gli puntò contro la pistola, sparò tre volte. Quintanilla cadde ucciso sul colpo. Sul petto, tre fori a forma di V, forse per dire "Vittoria". Sulla scrivania, Monika lasciò un biglietto con scritto "Vittoria o morte", lo slogan dell' Eln, l'Esercito di liberazione nazionale dei guerriglieri boliviani.
Monika era nata nell'Alta Baviera ma cresciuta in Bolivia, figlia di Hans Ertl, tedesco emigrato compromesso con il nazismo. Fin da giovane, era scossa dalle spaventose ingiustizie sociali in
Bolivia; il padre, che pure la adorava "come fosse un figlio maschio, lei che sa sparare come un uomo", la invitava a lasciar perdere. Monika sposò un ricco boliviano-tedesco, ma nel 1969 divorziò e lasciò la famiglia. Divenne l'amante di Inti Peredo, l'erede del Che. "E' un Cristo con la pistola", diceva innamorata. Anche Inti cadde, ucciso dal torturatore Quintanilla, che si fece fotografare fiero accanto al suo cadavere.
Monika giurò a se stessa di vendicare il Che e Inti. Fuggì in Germania, ebbe alloggio in una comune dell' ultrasinistra in un appartamento nello stesso palazzo del consolato boliviano. Laggiù la dittatura militare aveva messo al sicuro Quintanilla come console. I generali temevano la maledizione di Fidel Castro, che aveva detto "gli assassini del Che, li voglio tutti morti". Temevano i commandos del Ministerio de la Seguridad cubano, non una giovane bavarese. Sparò con una pistola procuratagli da Giangiacomo Feltrinelli attraverso la rete internazionale dell' ultrasinistra, poi fuggì in Bolivia e fu tradita e uccisa nel 1973 in un' imboscata organizzata dal criminale nazista Klaus Altmann Barbie.

Invano il padre, informato della morte di lei, chiese la consegna della salma. Gliela negarono, forse per non mostrare se era stata torturata prima dell' uccisione. Monika rimase una combattente senza tomba caduta nella giungla. Si dice che i suoi resti riposino “simbolicamente” in un cimitero di La Paz; in realtà si trovano in qualche luogo sconosciuto della Bolivia, in una fossa comune senza croce ne nome.
Così è stata la vita di questa donna che, secondo la destra fascista di quegli anni, ha militato combattendo “nel comunismo” e pertanto “nel terrorismo” in Europa; per alcuni il suo nome è rimasto inciso nei giardini della memoria come guerrigliera, assassina o forse terrorista, per altri come donna coraggiosa che ha compiuto una missione e vissuto una vita all'insegna dell'obiettivo rivoluzionario. Noi siamo tra questi ultimi e per questo le rendiamo il più alto onore.

A mio parere, concordando con http://www.lotta-continua.it/,  la  siua vicenda << (...)   è la costola femminile di una rivoluzione che ha lottato per le utopie della sua epoca e che, vista con i nostri occhi, ci obbliga a riflettere ancora una volta su questa frase:.“Mai sottovalutare il coraggio di una donna” >>


La  Seconda

Fuggire da Alcatraz è impossibile"
Il computer dimostra che non è vero

 

Uno studio riscrive la storia della più celebre evasione dalla prigione di San Francisco, quella che ispirò il film con Clint Eastwood. I tre evasi, dati per dispersi, potrebbero avercela fatta.
Solo due detenuti (nel 1937) sono riusciti a fuggire da Alcatraz e ad arrivare vivi a San Francisco. Gli altri 34 che ci hanno provato sono tutti morti nella traversata della Baia, annegati o vittime di ipotermia, uccisi dalle guardie oppure riacciuffati. Un nuovo studio, però, realizzato con le più moderne tecnologie, potrebbe riscrivere la storia delle evasioni dal carcere più famoso del mondo, portando a cinque il numero di prigionieri riusciti nell'impresa, quasi impossibile, di lasciare l'isola e di arrivare sulla terraferma, superando le insidiose, gelide e mortifere acque dell'Oceano Pacifico. Il
l'isola di  Alcatraz
caso in oggetto è quello dei fratelli Clarence e John Anglin e del loro compare Frank Morris. Evasi nel giugno 1962, in un modo tanto incredibile da aver dato ispirazione al film "Fuga da Alcatraz" con Clint Eastwood: dopo aver scavato con i cucchiai un buco dietro al wc delle loro celle, hanno atteso la notte. Quindi hanno infilato sotto le coperte dei fantocci, con tanto di testa realizzata con scarti di gomma e capelli veri, per poi infilarsi nel tunnel e darsi appuntamento in un ambiente inutilizzato dietro alle pareti perimetrali, da dove era possibile aggirare le mura. Una volta fuori hanno raggiunto la spiaggia e con impermeabili e materiale di fortuna hanno messo insieme una zattera. Poi si sono
I fratelli Anglin e Franck Morris negli anni Sessanta e con l'aspetto che avrebbero oggi
messi in mare.
CHE FINE HANNO FATTO? - Le autorità non hanno mai certificato che fine abbiano fatto, tanto che a tutt'oggi vengono dati ufficialmente per "dispersi", anche se per esperti e storiografi non ci sarebbero dubbi: sono annegati durante la traversata. Il nuovo studio, realizzato in Olanda, dà invece un'altra versione. E' stato calcolato al computer che quel giorno, tra le 23.30 e mezzanotte, ora della fuga, maree e correnti avrebbero non solo consentito, ma addirittura agevolato la traversata dei tre fuggitivi. Che sarebbero dunque riusciti ad arrivare a San Francisco, e precisamente nella parte nord del Golden Gate Bridge. Riconquistando di fatto la libertà.
CACCIA RIAPERTA - Alla luce dello studio, dunque, le stesse autorità hanno deciso di non archiviare il caso, ma di mantenere aperto sui tre un mandato di cattura. E addirittura sono state diramate foto dei tre evasi invecchiate grazie al computer, per consentire a chiunque li riconosca di denunciarli alla polizia. Se così fosse, la conclusione del caso sarebbe ancora più rocambolesca della fuga.

.Massa carrara ( ma potrebbe essere ovunque in Italia ) la madre non ha i soldi per il ticket Niente analisi al bimbo di 9 anni

Lo so  che raccontare   certe  storie   è come  sparare  ovvietà  ,e che l'indignignazione  senza  azione    è come la teoria  senza  la pratica  .Ma  non  riesco a stare  zitto   ed  a  chiuddere  gli occhi davanti a simili cose  . Specie  quando  i   giornalisti     si comncentrano solo sul gossip o   sui fatti di cronaca nera   , facendo passare in secondo piano  o   non parlandone  affatto  ( almeno che non ci scappi il morto o   un tentato  lingiaggio o   omicidio dei vertici  della asl  )   fatt come questi , se n
 L'unico  commento che  mi sento di fare   è questo    : dal ministero   della salute  \  sanità  forse aspettano che qualcuno uccida un medico o il direttore dela Asl omeglio qualche politico prima di mandare gli ispettori o cacciare gli incompetenti a calci nel culo [  scusate  ma  quando ci vuole ci vuole   ] ?.  condivido quanto ha  scritto un mio amico su fb Nel frattempo quei rinnegati che sono stati nominati a ricoprire le più alte figure di responsabilità al servizio del Paese rubano tutto quello che gli è possibile. Maledetti, possiate voi avere bisogno un giorno e ritrovarvi nella stessa situazione :-(

La madre non ha i soldi per il ticket
Niente analisi al bimbo di 9 anni

.

E' successo a Massa Carrara, dove al centro prenotazioni non risultava che la donna fosse esente dal pagamento di 38 euro.
Niente analisi del sangue a un bimbo di 9 anni alla Asl di Massa Carrara. Il motivo? La madre non aveva i soldi per pagare il ticket da 38 euro. E' stata proprio la donna a denunciare l'accaduto. "Volevo firmare un'autocertificazione - racconta la mamma - con la quale mi impegnavo al pagamento del ticket al ritiro delle analisi, ma mi è stato detto che non era possibile". La donna pensava di non dover pagare nessun ticket avendo un Isee inferiore a 36mila euro l'anno, ma al Centro prenotazioni della città toscana non risultava. E così le è stato richiesto il pagamento. Non avendo soldi con sé, però, le analisi al figlio, prescritte da un pediatra, le sono state negate
foto simbolo




favole da raccontare ai propri bambini o nipoti

musica  in sottofondo  


La  prima   è presa  da lla  bache  ca  di fb Gianluca Bottaro

Un commerciante aveva appeso un cartello sulla sua porta, "cuccioli di cane in vendita". Questo messaggio attraeva i bambini. Ben presto un ragazzino apparve e ...gli chiese: "A quanto li vendi i cuccioli?" Il proprietario rispose "tra 30 e 50 euro." Il ragazzino mise le mano in tasca e tirò fuori qualche moneta. "Ho solo 2,37 €, posso vederli ?"
Il proprietario sorrise e fischiò. Dalla cuccia apparve la sua cagna di nome Lady seguita dai suoi cinque piccoli cuccioli. Uno di loro era solo e molto indietro rispetto
agli altri. Immediatamente il ragazzo fu colpito da questo cagnolino che zoppicava vistosamente. Egli chiese all'uomo "cosa ha quel cane?" L'uomo spiegò che quando nacque il veterinario riscontrò che aveva un' articolazione rotta e che quindi avrebbe zoppicato per il resto della sua vita. Il ragazzino,

molto eccitato, replicò, "è lui il cagnolino che voglio comprare!"
L'uomo rispose: " Tu non puoi volerlo comprare... lui non potrà mai nè correre nè saltellare, ma se proprio lo vuoi te lo regalerò!"
Di rimando il bambino: "Io non voglio che tu me lo regali perchè lui ha lo stesso valore degli altri ed io voglio pagare per lui lo stesso prezzo. Adesso ti do 2,37 € e
poi 50 centesimi al mese finchè non te l'ho pagato tutto."
Il ragazzo si chinò e tirò su la gamba dei pantaloni, scoprendo un arto steccato con una bacchetta di metallo di spessore. Alzò lo sguardo verso l'uomo e disse: "beh, non posso correre così bene neanche io e il cagnolino ha bisogno di qualcuno che lo capisce."
L'uomo si morse il labbro inferiore. I suoi occhi si riempirono di lacrime, sorrise e disse: "Figlio mio, spero e prego che ognuno di questi piccoli cuccioli avranno un  proprietario come te."
(Autore sconosciuto, purtroppo)


Che la storia sia vera o no non importa l'importante è quello che ha trasmesso dentro di chi lo legge

Infatti    sempre  secondo   Gianluica 

Se questa meravigliosa storia apre gli occhi sul fatto che molte persone si sentono piccole e senza valore. Non credono di essere abbastanza valide e pensano che non sono brave persone. E nel caso anche tu la pensi così, allora ti prego di prendere a cuore questo:
Il valore di una persona non si misura da quanto perfetto tu sei, bensì da quanti cuori riesci a toccare e da quante persone fai sorridere o piangere perché nella vita,
non importa quello che sembri, o chi sei, ma il fatto che qualcuno ti apprezzi per quello che sei. Devi liberarti da tali pensieri : tali limiti esistono solo nella tua testa. Sappi che nessuno è perfetto e quindi vai a testa alta !
Tutti noi postiamo cose banali su Facebook senza pensarci. Ma quando si tratta di diffondere contributi per qualcosa di buono, allora molti esitano.
Se non condividete questa storia, non succederà nulla, tutto sarà come prima. Se lo fai, forse potrai ridare fiducia a chi oramai da tempo ha perso la fede in se stesso e contribuire a fargli ritrovare un pò di dignità.



la seconda  è una poesia  presa  da  http://www.scrivere.info/openThis.php?poesia=371033  di Anna  Maria  Chjerchi 



  

A VOLTE PER RIFLETTERE SUI FEMMINICIDI MEGLIO IL RUMORE CHE L'IPOCRITA MINUTO DI SILENZIO . LA BELLISSIMA INIZATIVA PER GIULIA CECCHETTIN

I movimenti studenteschi, compatti, avevano chiesto di organizzare un minuto di rumore in occasione dell’anniversario della morte di Giulia ...