20.6.21

Ci sono Eroi ed eroi. Miti e leggende. Storie e storie. storie importanti ma poco note come quella di TERRY FOX perchè ignorate da media di massa

 Come dicevo  dal titolo   ecco la storia di  oggi . Inizialmente leggendo    il post Facebook     che trovaste  sotto   credevo fosse  un post   letterario     cinematografico  . 


Era il 21 Maggio del 1976. In seguito ad un incidente stradale la diagnosi riportava un semplice trauma al ginocchio destro, niente di grave in relazione alla portata dell'impatto avuto in quella sfortunata giornata autunnale. Tuttavia nei mesi seguenti il dolore aumentava e il fastidio divenne insopportabile. Sebbene i medici tendevano a sminuire arrivò, feroce e spietato, il risultato delle indagini diagnostiche: osteosarcoma (tumore maligno del tessuto osseo che colpisce in particolare le ossa lunghe quali femore, tibia e omero con la vigliacca predisposizione ad estendersi ai polmoni e al midollo osseo).
A poco meno di 20 anni dovette subire l'amputazione della gamba destra, sostituita da una protesi meccanica (non certo quelle dinamiche che fortunatamente si applicano oggigiorno).
Tutti a questo punto si sarebbero lasciati andare, ma non lui, non così.
A soli 3 anni dall'amputazione, il 12 Aprile del 1980, intraprese la più grande e memorabile impresa sportiva che l'umanità possa raccontare.
Partì dalla costa atlantica del Canada per raggiungere quella del pacifico. A piedi.
(non è un errore di battitura, avete letto bene.. a piedi, senza una gamba!).
L'idea era quella di raccogliere 1 dollaro per ogni cittadino canadese incontrato per strada con l'obiettivo di devolvere tutto il ricavato per la lotta contro il cancro.
Percorse ogni giorno 42 chilometri (e neanche questo è un errore) attraversando Terranova, la Nuova Scozia, l'Isola del Principe Edoardo, il Nuovo Brunswick, il Québec e l'Ontario.
Ogni giorno una maratona. Con una gamba sola!
La sua corsa infinita fu battezzata la "maratona della speranza" e purtroppo non riuscì mai a portarla a termine.
Dopo aver percorso 5373 km in 143 giorni dovette smettere di correre. Non aveva più fiato. E non perché non era più in grado di combattere, ma perché gli furono diagnosticate diverse metastasi polmonari che lo costrinsero ad arrendersi.
La sua corsa finì il 1 Settembre del 1980 nei pressi di Thunder Bay. Fino a quel momento riuscì a raccogliere 24 milioni di dollari!
L'anno successivo alla sua impresa entrò in coma e dopo qualche settimana, il 28 Giugno del 1981, morì.
Non aveva ancora compiuto 23 anni!
La sua corsa fu completata anni dopo da Steve Fonyo, sopravvissuto al cancro (che gli ha portato via la gamba sinistra) con mille difficoltà. Così la "maratona della speranza" vide il traguardo. Scriviamo questo post per devota ammirazione e per rabbia. Oggi milioni di ragazzini (e non) si affannano a fare file per comprare magliette e gadget dei loro idoli (Messi, Cristiano Ronaldo, LeBron James e così via). Nessuno ha mai indossato una t-shirt con l'immagine che proponiamo di seguito. Nessuno probabilmente conosce la storia di questo ragazzo canadese che ha cambiato per sempre la vita di milioni di persone in difficoltà. Ci sono Eroi ed eroi. Miti e leggende. Storie e storie. Poi c'è TERRY FOX ! Terrance Stanley Fox, detto Terry (Winnipeg, 28 Luglio 1958 - Port Coquitlam, 28 Giugno 1981)

Ma poi cercando a quale film o romanzo la pagina fb citata facesse riferimento ho trovato su Wikipedia, l'enciclopedia libera  che  tale   vicenda   è realmente  avvenuta  . 

Terry Fox

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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Terrance Stanley Fox

Terrance Stanley Fox, detto Terry (Winnipeg28 luglio 1958 – Port Coquitlam28 giugno 1981), è stato un maratoneta e attivista canadese, attivo nella lotta contro il cancro.

Divenne famoso per la "Maratona della speranza", una corsa effettuata nel 1980 da una costa oceanica all'altra del Canada con una protesi alla gamba destra, che aveva l'obiettivo di raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nacque a Winnipeg in Canada da Betty e Rolly Fox. Aveva due fratelli, Fred e Darrell, e una sorella, Judith.

Fin da ragazzo ebbe una predisposizione per gli sport, ma soprattutto mostrò grande determinazione e forza di volontà. Praticò la pallacanestro, divenendo la guardia titolare per la squadra della sua scuola secondaria, il Port Coquitlam Ravens, e il nuoto. Desiderava diventare insegnante di educazione fisica: preso il diploma presso la Port Coquitlam Senior Secondary School (ribattezzata in seguito, in suo onore, "Terry Fox Secondary School"), intraprese lo studio della chinesiologia all'università.

Il 12 novembre 1976, Terry subì un incidente stradale riportando un trauma al ginocchio destro. Nel 1977, continuando a manifestare dolore al ginocchio, fece una visita specialistica, e gli fu diagnosticato un osteosarcoma (un tumore maligno del tessuto osseo che colpisce principalmente le ossa lunghe, quali femore, tibia ed omero, e che ha la tendenza a metastatizzare ai polmoni e al midollo osseo), a causa del quale dovette subire l'amputazione della gamba destra, sostituita da una protesi.

Nel 1980, a tre anni dall'amputazione, si cimentò in un'impresa che resterà nella storia del Canada e non solo. Il 12 aprile 1980 partì dalla costa atlantica del Canada per raggiungere a piedi quella dell'oceano Pacifico, con l'obiettivo di raccogliere un dollaro per ogni cittadino canadese da devolvere alla lotta contro il cancro. Come nella classica maratona, corse ogni giorno per 42 chilometri, attraversando Terranova, la Nuova Scozia, l'Isola del Principe Edoardo, il Nuovo Brunswick, il Québec e l'Ontario. L'impresa fu nominata "Maratona della speranza" e purtroppo non si completò mai perché, dopo 143 giorni e 5373 chilometri, il primo settembre 1980, presso Thunder Bay, dovette interrompere la sua impresa perché gli furono diagnosticate varie metastasi ad entrambi i polmoni.

Sebbene la corsa non fosse stata terminata, la CTV organizzò una raccolta di fondi a suo nome che riscosse un notevole successo. Un anno dopo la sua impresa entrò in coma. Morì il 28 giugno 1981, esattamente un mese prima di compiere 23 anni. I suoi funerali furono trasmessi in diretta televisiva e fu seppellito al Port Coquitlam Cemetery.

Un sondaggio nazionale del 1999 lo nominò il più grande eroe del Canada[1] e nel 2004 fu secondo dietro a Tommy Douglas nel programma The Greatest Canadian della CBC.[2]

Dopo la sua morte fu istituita la "Terry Fox Run", una corsa non competitiva che nel settembre di ogni anno si svolge in varie località con lo scopo di tenere viva la memoria di Terry Fox raccogliendo fondi per la ricerca oncologica. In seguito Steve Fonyo, sopravvissuto al cancro, percorse con la gamba sinistra amputata la distanza che mancava a Terry per finire la sua "Maratona della speranza".

Fondazione[modifica | modifica wikitesto]

Oltre a scuole, statue, vie e manifestazioni benefiche in varie città, il lascito più importante dell'esperienza di Terry Fox è la fondazione che prosegue il suo obiettivo nella lotta contro il cancro.

La Fondazione Terry Fox fino al 2018 ha raccolto oltre 750 milioni di dollari devoluti in progetti di ogni tipo.

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Compagno dell'Ordine del Canada - nastrino per uniforme ordinariaCompagno dell'Ordine del Canada
«Il coraggio di Terry Fox di imbarcarsi nella maratona della speranza a beneficio della Canadian Cancer Society, gli ha fatto guadagnare l'ammirazione e l'affetto dei canadesi da una costa all'altra. L'interesse pubblico nella sua corsa transcontinentale, intrapresa nonostante un grave handicap, era molto diffuso fin dall'inizio; ma quando fu colpito da un'ulteriore malattia a metà percorso, suscitò forti emozioni. Il risultato è stato un contributo alla ricerca sul cancro che ammonta a oltre tredici milioni di dollari fino ad oggi. L'esempio di Terry ha, a sua volta, dato un nuovo coraggio a quelli che in tutta la terra lottano contro malattie e infermità. Con il suo disprezzo per il proprio dolore e con la sua devozione per una grande causa, Terry incarna il motto dell'Ordine del Canada, "Desiderano un paese migliore".»
— nominato il 14 settembre 1980, investito il 19 settembre 1980[3]
Membro dell'Ordine del corniolo - nastrino per uniforme ordinariaMembro dell'Ordine del corniolo
— 1980[4]


Era il 21 Maggio del 1976. In seguito ad un incidente stradale la diagnosi riportava un semplice trauma al ginocchio destro, niente di grave in relazione alla portata dell'impatto avuto in quella sfortunata giornata autunnale. Tuttavia nei mesi seguenti il dolore aumentava e il fastidio divenne insopportabile. Sebbene i medici tendevano a sminuire arrivò, feroce e spietato, il risultato delle indagini diagnostiche: osteosarcoma (tumore maligno del tessuto osseo che colpisce in particolare le ossa lunghe quali femore, tibia e omero con la vigliacca predisposizione ad estendersi ai polmoni e al midollo osseo).
A poco meno di 20 anni dovette subire l'amputazione della gamba destra, sostituita da una protesi meccanica (non certo quelle dinamiche che fortunatamente si applicano oggigiorno).
Tutti a questo punto si sarebbero lasciati andare, ma non lui, non così.
A soli 3 anni dall'amputazione, il 12 Aprile del 1980, intraprese la più grande e memorabile impresa sportiva che l'umanità possa raccontare.
Partì dalla costa atlantica del Canada per raggiungere quella del pacifico. A piedi.
(non è un errore di battitura, avete letto bene.. a piedi, senza una gamba!).
L'idea era quella di raccogliere 1 dollaro per ogni cittadino canadese incontrato per strada con l'obiettivo di devolvere tutto il ricavato per la lotta contro il cancro.
Percorse ogni giorno 42 chilometri (e neanche questo è un errore) attraversando Terranova, la Nuova Scozia, l'Isola del Principe Edoardo, il Nuovo Brunswick, il Québec e l'Ontario.
Ogni giorno una maratona. Con una gamba sola!
La sua corsa infinita fu battezzata la "maratona della speranza" e purtroppo non riuscì mai a portarla a termine.
Dopo aver percorso 5373 km in 143 giorni dovette smettere di correre. Non aveva più fiato. E non perché non era più in grado di combattere, ma perché gli furono diagnosticate diverse metastasi polmonari che lo costrinsero ad arrendersi.
La sua corsa finì il 1 Settembre del 1980 nei pressi di Thunder Bay. Fino a quel momento riuscì a raccogliere 24 milioni di dollari!
L'anno successivo alla sua impresa entrò in coma e dopo qualche settimana, il 28 Giugno del 1981, morì.
Non aveva ancora compiuto 23 anni!
La sua corsa fu completata anni dopo da Steve Fonyo, sopravvissuto al cancro (che gli ha portato via la gamba sinistra) con mille difficoltà. Così la "maratona della speranza" vide il traguardo. Scriviamo questo post per devota ammirazione e per rabbia. Oggi milioni di ragazzini (e non) si affannano a fare file per comprare magliette e gadget dei loro idoli (Messi, Cristiano Ronaldo, LeBron James e così via). Nessuno ha mai indossato una t-shirt con l'immagine che proponiamo di seguito. Nessuno probabilmente conosce la storia di questo ragazzo canadese che ha cambiato per sempre la vita di milioni di persone in difficoltà. Ci sono Eroi ed eroi. Miti e leggende. Storie e storie. Poi c'è TERRY FOX !
Terrance Stanley Fox, detto Terry (Winnipeg, 28 Luglio 1958 - Port Coquitlam, 28 Giugno 1981)

Massacrata dal vicino di casa perché lesbica: «Ho denunciato ma non è cambiato nulla. Ora vivo l’inferno»

In ripota a chi come 
 
Carlo Serra
Sei fuori dall’Italia da tanti anni vero?

riporto tale articolo a voi ogni commento

  l'espresso  online 15\6\2021 

Simone Alliva


L’indifferenza delle forze dell’ordine e della comunità. «Il carabiniere rideva. E dal paese nessun aiuto, nonostante le minacce continue». Le vittime di aggressioni omotransfobiche sono già 55 dall’inizio dell’anno
«Lui abita ancora al primo piano. Quando scendo le scale apre la porta e dice: un giorno arriverà la tua morte». “Lui” è l’aggressore di Silvana Caruso, 44 anni di Vallefiorita, un paesino di poco più di mille abitanti in provincia di Catanzaro. Lesbica, Silvana è stata picchiata senza pietà, una testata in pieno volto, colpi sui reni, alla testa e ancora in volto con oggetti lanciati a caso. Incassa mentre la moglie del vicino di casa e un’altra coppia la tengono ferma: «mi hanno usata come un punching ball».
Silvana racconta quel 20 maggio 2021 con la voce che trema e le parole che scappano. «Ero con la mia compagna al telefono sul balcone, fumavo una sigaretta. A un certo punto sento aprire la finestra del primo piano, io abito al quarto, e qualcuno urla: “Lesbica schifosa ti dovrebbero ammazzare”. La mia compagna dall’altro lato del telefono chiedeva spiegazioni. Non so, non capivo. Poi ancora: “Lesbica di merda quando ti prendo ti sparo in fronte». Silvana vive a Vallefiorita da sei anni dopo essersi trasferita dalla Svizzera. Ha una compagna che vive a Pisa. E non ha mai avuto problemi. «Mai un insulto, mai uno sguardo cattivo. Così mi sono affacciata e ho chiesto a chi si riferisse e mi ha risposto: “A te lesbica schifosa ti sparo in fronte”».
Dopo le minacce, decide di raggiungere il vicino. Scende le scale e bussa alla porta: «Non voglio froci e lesbiche a casa mia» si sente rispondere. Insiste. Bussa ancora, chiede spiegazioni e la porta viene aperta dalla moglie del vicino. «Entro, lo raggiungo. Chiedo spiegazioni e ricevo una testata in faccia». Cade a terra Silvana e capisce di non essere sola con i vicini. Nascosti dietro la porta ci sono altre due persone, un uomo e una donna. «Me ne accorgo tardi. La moglie chiude la porta di casa a chiave. Mi raggiungono, mi bloccano la schiena, il braccio, la moglie cerca di togliermi il cellulare dalla mano e dall’altra parte Marzia, la mia fidanzata sente tutto. Così inizio a urlare: “Chiama i carabinieri perché mi stanno ammazzando”».
Il vicino è una furia, le rovescia addosso qualsiasi tipo di oggetto, il joystick della playstation le frattura un dente. Riesce a liberarsi e chiama i carabinieri: «Aiuto mi stanno ammazzando». Dall’altra parte del telefono il carabiniere le ordina di uscire subito da quella casa ma la porta è chiusa a chiave. Si fa mettere in vivavoce: «Fate uscire subito la signora» urla. La porta si apre e lei scappa. Il vero incubo inizia qui ed è quello che getta Silvana in un mare di disperazione.
Mentre i vicini negano ogni cosa. “Il carabiniere non mi prende sul serio”, ricorda e piange. «Dopo essere stata dalla guardia medica ho fatto la denuncia e il carabiniere rideva. Mi diceva: “ma dai sembra un film, sono cose da vicini che possono succedere”. Sono esplosa. Con tutte le botte che ho preso. La frattura del setto nasale, un trauma cranico. Che poi non sono state solo quelle ma le parole, quelle mi hanno distrutto». Di fronte a questa indifferenza Silvana decide di rivolgersi al comandante della stazione dei Carabinieri. «Sì, lui mi ha creduto. Mi ha dato il suo numero personale ma cosa è cambiato?”» Piange ancora. «Ho paura. Panico da morire. Se devo uscire con i miei cani devo stare per forza al telefono con mia sorella o con Marzia. Piango ogni giorno. Nel cuore della notte vengo risvegliata dalla musica a tutto volume. Il giorno dopo l’aggressione mi hanno tagliato i tubi dell’acqua della macchina».
In Italia soltanto nel 2021 sono stati registrati 55 aggressioni omotransfobiche, secondo un monitoraggio delle denunce emerse dai media. È la punta dell’iceberg. Nella stragrande maggioranza dei casi i reati non vengono denunciati: manca la fiducia nelle forze dell’ordine; spesso la vittima non ha il coraggio di denunciare per via del forte stigma sociale cui è sottoposta a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere; o “semplicemente” perché la vittima non è visibile, e cioè le persone con cui si relaziona di consueto non conoscono il suo orientamento sessuale e quindi ha paura che la denuncia possa palesarlo.
Silvana ha trovato il coraggio di denunciare invece: «L’ho fatto per dare un messaggio alle ragazze lesbiche che vivono su questo territorio. Eppure da quel 20 maggio sto passando l’inferno. Qui nessuno passa per controllare, non c’è vigilanza. Dal paese nessuno mi aiuta. Psicologicamente questa cosa ti ammazza. Le mie giornate non sono più come prima. Lui è sempre lì che mi sussurra: un giorno arriverà la tua morte. L’ho detto ai carabinieri ma non hanno fatto nulla».

19.6.21

Genova vent'anni dopo . IL g8 del 2001 storia di un fallimento . mia recensione - intervista all'autore Giovanni Mari




canzoni consigliate
PIAZZA ALIMONDA - Francesco Guccini
Sidùn - Fabrizio De André


Tra un mese  e  qualche  giorno saranno  20 anni   (  come passa in fretta  il  tempo 😥)   dal G8  di Genova  2001    e  già  iniziano  ad essere pubblicati libri   , speciali giornalistici -televisivi , ecc    su tali avvenimenti .
IL primo   o  almeno uno  dei  primi   ad essere usciti  é GENOVA, VENTI ANNI DOPO. IL G8 DEL 2001, STORIA DI UN FALLIMENTO (People editore, 180 pagine, 15 euro).  di  Giovanni Mari , giornalista, per quasi vent’anni si è occupato dello scontro tra i partiti italiani. Lavora per "Il Secolo XIX".
Appena ho letto il libro sono ritornato ali quei giorni e alla collaborazione  con il libro suo fatto del G8 Genova nome per nome   di Carlo Gubitosa e con il forum  poi culminato  in un intervista a uno della contro inchiesta pillolarossa sulla vicenda di piazza Alimonda . Collaborazione  derivata da un processo di trasformazione della frustrazione  e senso di colpa per non essere andato ma ero fisicamente impedito ero fratturato al ginocchio  e poi miei reduci soprattutto mio padre dai movimenti del 68\77 non volevano che andassi per paura ,poi confermata dagli eventi ,  di quello che sarebbe successo. un libro a 360 gradi quello di Giovanni Mari .
Esso mi ha confermato  alcune mie ipotesi in particolare quella del perché  alcuni giornalisti  che fecero delle contro inchieste come  sul  link  caso di Carlo Giuliani  hanno scelto  di farlo e le hanno pubblicate online in anonimato. un libro  che non risparmia  nessuno . infatti  
A distanza di 20 anni il G8 di Genova ci si   chiede se  si può storicizzare, quanto accadde in quel luglio 2001 si può dare un giudizio. Secondo   quanto sostiene il giornalista e scrittore genovese   la  risposta  è Si . Egli   In quei giorni era in piazza come tutti i giornalisti  per raccontare tali eventi, oggi ha voluto emettere una sentenza sull'operato dei protagonisti. Sentenza che è indicata nel titolo el titolo  del libro  : "Fallirono tutti - spiega Mari all'ANSA -. Anche noi giornalisti". "Cosa è accaduto si sa - spiega l'autore -, a me interessava giudicare. Alla fine ho raccontato 8 fallimenti": i capi di stato e i manifestanti, i governi, la politica, l'intelligence, le forze dell'ordine, la magistratura, i media.

Per ciascuno Mari ha emesso la sentenza dopo avere ricordato la morte di Giuliani, i disordini, le cariche della polizia, la 'macelleria messicana'. Bush, Prodi e gli altri "passarono come fantasmi a Genova senza toccare temi fondamentali dell'agenda come acqua e ambiente", fallirono D'Alema e Berlusconi. "Fallì l'intelligence che non si accorse dei segnali o non fu in grado di farsi ascoltare", le forze dell'ordine "sbagliarono strategie e tattiche". Mentre il centrodestra dava la caccia "alle zecche comuniste" e "Fassino toglieva dal corteo il simbolo". Fallì la magistratura "che alzò un polverone sulle forze dell'ordine e poi lasciò correre le prescrizioni, non toccò la catena di comando e i Black Block. E si fece scavalcare dalla Ue sulle torture". "Fallimmo noi giornalisti - dice ancora Mari -, troppo prudenti sulla sospensione della democrazia e incapaci di distinguere tra violenze di manifestanti e forze dell'ordine".    Fallì il movimento "che aveva ragione ma ha regalato la lotta per i beni comuni a Grillo e la lotta progressista al multi nazionalismo al sovranismo incattivito". Il libro dice chi sbagliò strategie , chi guidò i reparti e chi raccontò bugie. A vent'anni dal G8 di Genova, dai gravi fatti che hanno offuscato il summit e che lo hanno reso - questi sì - una svolta definitiva nella Storia d'Italia, Giovanni Mari, giornalista genovese e testimone, ripercorre i vari fallimenti che hanno connotato quell'esperienza, rendendola unica e irreversibile: il fallimento degli otto Grandi, del governo italiano, dell'intelligence, delle forze dell'ordine, della politica italiana tutta, e poi ancora della magistratura, dei mass media e, infine, anche del movimento noglobal. Una sconfitta che pesa su tutti. Questo libro è un sincero e amaro giudizio di valore che, a distanza, parla del bisogno di una dolorosa rielaborazione che conduca passo passo a una verità difficile. Il contributo di Mari getta una luce diversa sulla lettura di quel terribile snodo che ha verosimilmente segnato la rappresentanza politica e le dinamiche di piazza di questo Paese nel nuovo Millennio.    "E' una analisi amara - dice Mari -. Le forze dell'ordine fallirono in modo eclatante, non per colpa dei singoli. Dispiace per la gente per bene che voleva manifestare e per gli agenti per bene che furono infangati per colpe non loro". a vent’anni dal G8 di Genova, dai gravi fatti che hanno offuscato il summit e che lo hanno reso – questi sì – una svolta definitiva nella Storia d’Italia .Egli nella duplice veste di giornalista genovese e testimone, ripercorre i vari fallimenti che hanno connotato quell’esperienza, rendendola unica e irreversibile: il fallimento degli otto Grandi, del governo italiano, dell’intelligence, delle forze dell’ordine, della politica italiana tutta, e poi ancora della magistratura, dei mass media e, infine, anche del movimento noglobal. Una sconfitta che pesa su tutti.  Ma  fu realmente cosi  ?    solo un fallimento  Vediamo di capire  il perchè    chiedendolo all'autore. 


C’è chi è stato picchiato, chi continua a sognare quei giorni, chi ha deciso di non avere figli, chi ha cambiato completamente vita e chi ha perso di vista il “movimento” ma spesso, in modo sotterraneo, ha continuato ad andare in direzione ostinata e contraria, perpetuando quello spirito. eppure a Genova ne usci sconfitto, secondo te, perchè? 

Certamente i giorni di Genova rappresentano una ferita aperta per un’intera generazione fatta di semplici cittadini che volevano manifestare per un mondo migliore, per i giornalisti che sono stati imprevisti testimoni e persino per gli uomini delle forze dell’ordine. Una ferita che non si rimargina e che ha un sapore eterno di sconfitta. Ma, chi per non dimenticare, chi per redimersi, chi perché è convinto che quelle istanze fossero giusto – come del resto lo erano, oggi possiamo dirlo – non rinuncia a ricordare e a parlare. Manifestare in piazza non è un mestiere, manifestare un pensiero è un dovere. Per questo quella destinazione ostinata e contraria resta un binario per molti irrinunciabile.

A 20 anni dai giorni del G8 di Genova quindi molte domande sono ancora aperte. quindi Perché è importante raccontare Genova a chi per anagrafe, per distrazione o per scelta non c’era ? 

Il G8 di Genova è stato uno scempio assoluto, in cui lo Stato ha toccato un punto bassissimo. Chi c’era, chi non c’era e poi ha saputo, chi c’era e ha sbagliato: tutti dovrebbero sentire il bisogno di parlare e raccontare, di spiegare come è stato possibile arrivare a una sospensione così plateale della democrazia, come è stato possibile consentire una repressione illegittima e immotivata, come è stato possibile abbandonare una città. Perché mai migliaia di poliziotti e carabinieri siano stati mandati allo sbaraglio, infarciti di false notizie e di ordini sgangherati.

Che cosa n'è stato del “movimento”, di quell’afflato collettivo massacrato dai manganelli e dai media? In quali rivoli si è disperso il fiume di persone che ha manifestato? 

Il movimento si è disperso più perché non ha saputo aggiornarsi che per le botte subite. Ha lasciato che la sua istanza fortemente progressista fosse presa in ostaggio da sovranisti e populisti. Da un lato c’è stato quell’endemico fenomeno di sclerotizzazione che ha generato un’involuzione del movimento, dopo che per anni si era esteso: prima aveva trovato una forte risposta a una forte domanda, poi non seppe più rispondere. Dall’altro lato, la stretta securitaria post-11 settembre fece il resto. E la politica non offrì una sponda credibile.

Qual è infine l’eredità, di Genova e chi ha raccolto e perpetuato questo capitale di idee ? 

L’eredità di Genova è nascosta. Nel ventennale vedo che molto si sta muovendo per recuperarla. Un sistema intero voleva seppellire le idee di giustizia sociale, c’era quasi riuscito. Adesso, vent’anni dopo, parlandone, tornando sui contenuti, finalmente senza la trappola delle minacce e delle veline, si può riaprire il discorso.

Un racconto collettivo (senza reducismo) per spiegare Genova a “chi non c’era” e per raccogliere quello che Alessandro Leogrande chiamava “il seme sotto la neve” e che ha germogliato tanti altri mondi possibili, dall’economia solidale all’informazione indipendente e il cui lascito è stato raccolto da Fridays for future e da altri movimenti, come quello dei referendum per l’acqua pubblica o Occupy Wall Street. Scrive Angelo Miotto, giornalista, documentarista radiofonico e comunicatore che nel 2001 ha seguito in diretta le vicende del G8 per Radio Popolare è possibile ?

Sì, il seme sotto la neve può germogliare. Ma deve trovare una strada nuova, non necessariamente di piazza. Guardiamo la campagna trasversale e innovativa che ha portato alla Tobin tax: ecco, quella può essere una strada. L’altra è quella di smascherare, con i fatti, le fake news che troppi spacciano sui social. Lì si annidano i migliori nemici del cambiamento.

18.6.21

Vaccini, parla il medico che converte i no-vax: "Io e la mia moto abbiamo fatto più dosi di un hub

 da repubblica  18\65\2021

Marcello Pili ha già vaccinato 1300 dei suoi 1600 pazienti, in un giorno ha stracciato i dati dell'hub di riferimento per la sua zona (Ostia) 185 dosi contro 170. "Il segreto? Le parole giuste"



Un giorno, all'inizio della campagna vaccinale – quando di dosi ce n'erano ancora poche - ha fatto più iniezioni lui, nel suo studio, rispetto all'hub di riferimento della sua zona, Ostia, il quartiere-città sul mare di Roma: 185 contro 170. Il dottor Marcello Pili, medico di famiglia romano, è inarrestabile. Ha vaccinato oltre 1300 pazienti su 1600 assistiti, più di ogni altro tra i suoi colleghi nel Lazio. E' motivato: “Ho un modo per intervenire per cambiare la storia di questa pandemia. Vaccinando il più possibile”. Con la sua moto, una Bmw Gs, si è ritrovato a girare la sera tra centri vaccinali per recuperare le dosi avanzate, a correre tra una casa all'altra a scovare gli allettati. Ha telefonato a tutti i suoi pazienti, convincendo gli scettici e rassicurando i timorosi.

Il risultato? “Su 600 pazienti over 60 che assisto, solo in 3 non si sono voluti vaccinare – spiega – e sono dei convinti no vax”. Il nodo sugli ultrasessantenni che ancora sfuggono all'immunizzazione - 2,8 milioni in Italia - preoccupa il commissario straordinario per l'emergenza Francesco Paolo Figliuolo. Ma quella che Pili racconta è un'altra storia, un'altra realtà. “Se avessi avuto dosi a sufficienza, avrei già finito”.

Dottore, chi sono questi over 60 che ancora oggi mancano all'appello?

"Tante di queste persone non si fidano ad andare nei centri vaccinali. Se i miei hanno detto sì all'iniezione, è perché a farla sono stato io. Ho avuto pazienti che sono andati via dagli hub, o non si sono presentati all'ultimo momento: ecco, se non li avessi cercati, e convinti, oggi allagherebbero le fila dei presunti no-vax. Passare attraverso il medico di famiglia funziona, gli hub sono spersonalizzati, viene meno il rapporto fiduciario medico-paziente, e spesso ci si trova davanti a medici giovanissimi, con poca esperienza. Io conosco la storia clinica di ogni paziente, so quale vaccino è meglio per la sua età e per la sua condizione. E lo conferma il fatto che non ho visto nemmeno un effetto collaterale serio tra le persone che ho vaccinato".

Quali vaccini ha scelto, per i diversi pazienti?

"Mi sono attenuto alle indicazioni nazionali. AstraZeneca per gli over 60, con poche eccezioni attentamente valutate".

Quante persone vaccina in media ogni giorno?

"L'altroieri ne ho vaccinati 57, ieri ho iniziato con i 12-16enni, ne ho fatti 25, ed è stato bellissimo vedere quanto sono motivati e consapevoli, più degli adulti. Ho seguito le fasce d'età, ma con una minima flessibilità, ad esempio, se ho una coppia di 72 e 68 anni, preferisco farli entrambi nello stesso momento. Si tratta di piccoli aggiustamenti, una 'personalizzazione' che semplifica la vita di tutti, che solo la medicina territoriale può fare".

E se sono scettici, cosa dice loro?

Dipende dall'età e dallo stato di salute. Per i più anziani vaccinarsi equivale a non rischiare una malattia grave, per i più giovani è una questione di diffusione del virus e di protezione del nucleo famigliare. Se il messaggio parte dal medico di famiglia, di cui i pazienti si fidano, ha una valenza diversa dai quelli, spesso contraddittori, che si sentono in Tv. Avevo una coppia, moglie e marito, lui 87 lei 82 anni, in contrasto. Lei si voleva vaccinare, il marito no. Le ho parlato, spiegandole che il suo gesto avrebbe beneficiato, di riflesso, anche lui. Ma tre giorni dopo mi ha chiamato il marito: 'Dotto' ci ho pensato, voglio vaccinarmi pure io'. Le parole contano, ma conta chi le dice".

Molti medici di medicina generale hanno lamentato scarse forniture. Come ha fatto a vaccinare così tante persone?

"Sono riconoscente alla farmacia della mia Asl di appartenenza, la Roma3, nell'ospedale Grassi di Ostia, che ha constatato il mio impegno e mi ha aiutato. La sera, mi avvisavano se avanzavano dosi negli hub del territorio, così che io potessi andarle a prendere".

Come si è organizzato con le vaccinazioni domiciliari?

"La moto mi è stata molto utile. Ho vaccinato oltre 200 persone, tutti non trasportabili, anche pazienti di altri colleghi. Casi di ogni tipo: ricordo una suorina 99enne, chiusa nella sua stanzetta, allettata, all'interno di una scuola privata con alcuni ambienti destinati agli alloggi. Ecco, una come lei sarebbe rimasta fuori dai radar. Oppure avrebbe aspettato tantissimo: le vaccinazioni domiciliari gestite direttamente dalle Asl sono andate più a rilento".

Perché continuano a mancare 2,8 milioni di over 60 all'appello?

"Credo che il problema vada ricercato nello scarso coinvolgimento che c'è stato, da parte dei vertici sanitari e politici, nei confronti dei medici di famiglia. Le regioni sono andate avanti ognuna in modo diverso, e si è creato un vuoto, sia in termini organizzativi che di formazione, colmato solo buona volontà individuale. Io mi sono 'auto-sensibilizzato': ho vaccinato il sabato e la domenica, oppure fuori orario, per garantire il lavoro ambulatoriale di tutti i giorni. Di fatto, ho annullato la mia vita privata. Tutto quello che ho imparato, l'ho studiato per conto mio. C'è anche un tema di incentivazione. I medici che lavorano negli hub prendono 60 euro ora, io lo faccio per meno di 3 euro netti a vaccino, e in più devo andare a prendermi le dosi, nella farmacia ospedaliera, da solo. Per me è facile, la farmacia è vicino allo studio, ma per chi sta lontano, anche quello è un problema".

Crede che la campagna si sia troppo concentrata sugli hub?

"Certamente i grandi hub hanno funzionato benissimo e sono una bella idea, anche a livello d'immagine. Ma bisogna dirlo, quello che faccio io da solo, in un hub lo fanno in 5, con un costo molto maggiore, e hanno un limite, anzi due: penalizzano chi abita in zone più rurali o ha difficoltà a muoversi, e hanno lasciato, pensiamo agli open day AstraZeneca e alla loro tragica conseguenza, che fosse il paziente a scegliere il vaccino, non il medico".

Il futuro della campagna vaccinale è nelle mani dei medici di medicina generale. Come renderla più efficiente?

"I medici ci sono, servono solo regole chiare, precise, e soprattutto uguali per tutti. In questo modo gli scansafatiche verranno a galla naturalmente. In un momento di grande confusione nei cittadini, il ruolo del medico di famiglia deve ritrovare centralità

stato ateo o stato laico quale soluzione contro i femminicidi etnici ?

 

di cosa  stiamo parlando 

Il femminicidio di Saman rende facile scagliarsi contro l’islam da parte delle destre ( e  dei loro 
simpatizzanti  )   xenofobe. Ma fanno finta di dimenticare,  oppure   peggio ancora   non lo sanno  che il delitto d’onore nell’Italia cattolica è stato abrogato solamente nel 1981

N.b

DA LAICO   CREDENTE   NON CONDIVIDO    COMPLETAMENTE    QUESTO ARTICOLO   CHE  IVI  RIPORTO  MA   PER LA LIBERTA'   D'ESPRESSIONE  E  COERENZA   CON QUANTO  SI PREFISSA    QUESTO  BLOG  DI DARE  VOCE  A  TUTTI\E     LO RIPORTO  .


da   https://left.it/2021/06/17/lo-stato-ateo/


                       Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea

Il femminicidio di Saman è diventato una occasione imperdibile per le destre fasciste, è perfetto per una strumentalizzazione contro gli stranieri, tanto più che sono islamici.
Nessun partito neofascista e di destra ha mai sostenuto sino ad ora, la lotta contro il patriarcato, né ha mai sostenuto la necessità di affermare la separazione delle istituzioni civili dalle religioni monoteiste intese come brodo di cultura delle intromissioni di matrice patriarcale nella negazione dei diritti.
A ben vedere i partiti di destra e neofascisti condividono, anzi, ostentano l’adesione cattolica per avere legittimazione etica agli identici modelli di oppressione (aborto, gpa, matrimoni gay…).
I partiti fascisti di destra, dunque, non hanno mai messo in discussione le strutture simboliche oppressive della religione cattolica, che con l’islam e l’ebraismo attinge alle medesime aberrazioni della Bibbia, e poiché sovente gli estremi si sovrappongono, neanche certi cattocomunisti hanno mai messo seriamente in discussione il patriarcato di matrice cattolica.
L’islam, l’ebraismo e il cattolicesimo sono le tre religioni monoteiste di derivazione abramitica, che richiamano la stessa cultura figlicida e la stessa oppressione del genere femminile.
Le tre religioni abramitiche, e dunque anche il cattolicesimo, non solo l’islam, hanno ossessivamente costruito l’oppressione sul corpo delle donne, dalla testa coperta con il velo, alla sessualità mutilata, all’autodeterminazione negata.
Il femminicidio di Saman rende facile scagliarsi contro l’islam da parte delle destre xenofobe, perché si ottengono due risultati contemporaneamente: accusare una religione di oppressione patriarcale ha l’effetto suggestivo di sottendere che la propria religione sia migliore della loro, ma anche di sottendere che la propria non abbia le stesse devianze criminali, dimenticando, ad esempio, che il delitto d’onore nell’Italia cattolica è stato abrogato solamente nel 1981.
Sicché i cattolici di destra nostrani sono pronti a condannare la madre islamica di Saman ma non vanno nelle arene televisive a scagliarsi contro le madri cattoliche che lasciano i figli nelle grinfie degli orchi clericali durante il catechismo, o contro le madri cattoliche che fanno prostituire le figlie bambine con clienti, cattolici, senza scrupoli, oppure contro le madri cattoliche che tacciono quando le figlie sono stuprate dai padri e dai fratelli.
La destra italiana non si scaglia contro il cattolicesimo, anzi, lo rivendica come cultura identitaria.
E quando la struttura patriarcale della società cattolica esprime violenze figlicide e uxoricide da parte di uomini incapaci di accettare che né le compagne né i figli sono di loro proprietà, la destra fascista e clericale italiana non si scaglia contro il cattolicesimo che quella idea di proprietà l’ha disegnata nelle proprie encicliche.
La destra clericale e fascista non vi si scaglia contro nemmeno quando il cattolicesimo si esprime in applicazione delle direttive del Lexicon, il dizionario vaticano che condanna le identità sessuali non binarie e i diritti sessuali e riproduttivi e che rivendica il diritto di oltraggiare, liberamente, chi non è eterosessuale, opponendosi violentemente ad ogni legge del nostro Stato che si pone in contrasto con quel dizionario, dalla contraccezione alla omofobia.
La destra italiana ha fatto proprie le aberrazioni del Lexicon vaticano e le ha tradotte in identità politica, e ora dal basso di questa deriva teocratica si permette di condannare altre forme di teocrazia.
La destra clericale e fascista, di fronte alle aberrazioni del cattolicesimo, è pronta a dire che “quello non è cattolicesimo perché Gesù non ha mai detto quelle cose”.
Proprio come gli islamici che di fronte alle aberrazioni dell’islam, è pronta a dire che “quello non è islam perché Maometto non ha mai detto quelle cose”.
Fingono di non sapere che le religioni abramitiche hanno una impronta di facciata che però cela un nucleo antiumanitario.
Ogni religione se viene imposta nelle sue regole e nelle sue devianze, è un crimine contro l’umanità.
Anche l’ateismo se è istituzionalmente imposto diventa una religione negativa e come tale è un crimine contro l’umanità.
Lo Stato che impone una religione o che impone l’ateismo, è uno Stato criminale.
Si deve pretendere che la società civile abbia regole condivise senza che nessuna religione (positiva o negativa) possa travalicare gli ambiti privati e inquinare gli spazi pubblici.
L’unica aspirazione democraticamente possibile, resta uno Stato che non imponga nessuna religione, ovvero lo Stato ateo.





Il calvario di Daniela, morta a 37 anni e con tre tumori dopo aver chiesto senza ottenerlo il suicidio assistito

 

lo  so ci  sarebbero  cose  più allegre  di cui parlare   e  polemizzare 🤣😁  . Ma  : << È inaccettabile che chi è nelle condizioni di Daniela sia costretta a un simile calvario. I malati non possono aspettare i tempi della burocrazia  >> L’Associazione Luca Coscioni .

Infatti    secondo    https://www.fanpage.it  , Daniela37enne foggiana malata di tumore al  :  pacreas, al fegato e al sistema neuroendocrino, aveva chiesto di poter ricorrere al suicidio assistito ma è morta prima di un pronunciamento del Tribunale di Roma Aveva un tumore al sistema neuroendocrino, al pancreas e al fegato Daniela, 37enne foggiana residente a Roma che, alla luce delle sue condizioni di salute e di una malattia ormai allo stato terminale, aveva scelto di morire per porre fine alle sue sofferenze. 

Purtroppo, però, non ha fatto in tempo a esaudire il suo desiderio perché si è spenta lo scorso 5 giugno, poche settimane prima che il Tribunale di Roma potesse esprimersi sulla sua richiesta di ricorrere, in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale, al suicidio assistito. La sua storia, contenuta in un video appello, è stata resa nota oggi dall'Associazione Luca Coscioni nel corso di una conferenza stampa alla Camera per dare inizio alla raccolta firme sul referendum per l'eutanasia. "Ho vissuto una vita da persona libera. Vorrei essere libera di morire nel migliore dei modi", aveva auspicato Daniela che, senza più alcuna speranza di guarigione, aveva chiesto di poter essere ‘libera di morire' accanto ai suoi cari. ....  continua su: https://www.fanpage.it/attualita/il-calvario-di-daniela-morta-a-37-anni-e-con-tre-tumori-dopo-aver-chiesto-il-suicidio-assistito/

 P.s.
scusate  se non riporto  come sono solito  le  lacrime  agli occhi   oltre  a farmi .... 🤬

17.6.21

I Briganti tornano in campo: donato un pulmino alla squadra di rugby attaccata dalla mafia

 


p.s    i se  il video  non si dovesse  vedere   lo  trovate  qui   non dipende  da me   ma  da  BLOGSPOT  infatti   nonostante  abbia copiato regolarmente il codice   embed  dal sito di repubblicavideo     non  c'è  stato niente  da fare   . Io  ho segnalato  un anno  fa   nel forum  do blogger  il problema   ma  non  ho ma i  ricevuto  riposta  

Rubgy Briganti A.S.D. è una società sportiva nata nel 2006 a Catania, nel difficile quartiere periferico di Librino, per offrire un'alternativa alla strada ai giovani e giovanissimi della zona. Negli anni centinaia di ragazzi si sono alternati nei campi da gioco, passandosi la palla ovale. E questa attività sociale è stata vittima di intimidazioni, atti vandalici o incendiari. L'ultimo, il pulmino che la società utilizzava per portare i propri rugbisti in trasferta per la Sicilia dato alle

fiamme. E' per questo che l'Ance, l'associazione dei costruttori edili italiana, ha deciso di donare un furgone nuovo di zecca ai volontari dell'associazione. "Ci siamo subito messi in contatto con loro  perché la loro iniziativa va sostenuta e noi siamo i primi ad essere al loro fianco", ha spiegato il presidente di Ance Gabriele Buia. "Noi non ci sentiamo in pericolo perché siamo una squadra e non molliamo - ha detto Giusi Sipala, vicepresidente della squadra - e tornare in Sicilia con questo nuovo pulmino vuol dire fare una smorfia a chi ha dato fuoco a quello vecchio".

Ci vuole un piano che salvaguardi tutti: la natura selvaggia e noi uomini In memoria di Uno, il cane ucciso dai lupi per salvare il gregge

da www.repubblica.it/cronaca  del  16\6\2021

 Era del mio vicino. Vi parlo di lui perché le autorità ascoltino pastori ed esperti. 

 


Uno è morto sul lavoro. Gli sono stati fatali la notte, la solitudine e il suo coraggio. Aveva sette anni e Uno era il suo nome. Lavorava in team con altri due pastori maremmani (Due e Serse), custodi di un gregge nella montagna di Piacenza, che è grande, selvatica e abbastanza sconosciuta, come quasi tutto l'Appennino. L'Italia, della lunga spina dorsale che la regge, la nutre e la irriga con l'acqua di cento fiumi, sa veramente molto poco.



Uno, Due e Serse nel pomeriggio avevano messo in fuga tre lupi, a pochi metri dalla fattoria e dal gregge. Tre contro tre, un combattimento breve e dall'esito quasi scontato, l'etica territoriale del cane lo rende, a parità di peso e di numero, praticamente invincibile, se poi deve proteggere il suo gregge le forze raddoppiano. Il lupo rinfodera le zanne, ammaina il pelo ispido sul groppone, abbassa la coda e si allontana, lasciando il campo al suo fratello domesticato, che l'uomo ha trasformato in cane più o meno trentamila anni fa, e torna alla macchia. Ma quei tre lupi sono rimasti nei dintorni, affamati. Di notte Uno ne ha avvertito la presenza. È riuscito a uscire dal recinto, forse da una porta chiusa male, e non è più tornato. Il suo destino era già nel suo nome: uno contro tre, anche se il cane è forte e combattivo, è una partita persa. Le ossa spolpate di Uno saranno in qualche forra, o nel greto di un torrente. La cornacchia grigia le avrà ripulite con cura. La natura non è un pranzo di gala. Racconto questa piccola storia perché conosco bene Uno, Due e Serse, e il loro capobranco umano. Sono miei vicini di casa. E perché ogni occasione per parlare dell'Italia non urbana, quella agricola e quella selvatica (la pastorizia è una sintesi mirabile delle due condizioni), della sua sontuosa bellezza, dei suoi problemi, del suo enorme potenziale e della sua fragilità strutturale, può aiutare la politica, che vive in città, a capirla un poco meglio, o almeno a ricordarsi che esiste. I lupi, in Italia, sono ormai molte migliaia, grazie a un lungo e prezioso lavoro di protezione che ha visto lavorare fianco a fianco, per decenni, istituzioni e volontari, Parchi e naturalisti, scienziati e sottosegretari. Salvare il lupo e rimetterlo al suo posto (in cima alla catena alimentare europea, come l'orso e la lince) è stata, anche, una scelta politica. Meritoria. Confortante. Chi crede nelle regole della natura è sempre felice di riscoprirla intatta, o almeno meno lesa di quanto crediamo. Ma fratello lupo è un predatore. Lo è per ruolo, perché così funziona la natura, una catena di sopraffazione che risplende di vita e anche di morte: se vi fa paura la morte, state lontani dalla natura. Lasciatela perdere, non è per voi. Caprioli e cinghiali, in Italia, ormai sono tantissimi, floride specie, proteine in enorme quantità. Ma sono proteine veloci. Scappano. Meno faticoso, per i branchi di lupi, e ancora di più per i lupi solitari, vecchi corsari ormai fuori allenamento, predare capre, pecore, vitelli. Tacchini, galline, oche. E mangiare i cani. Per i cani alla catena, usanza barbarica che ancora sopravvive nell'Italia rurale, la fine è certa: sono un pasto immobilizzato. Rimane solo la catena. Ma anche altri cani, parecchi, sono finiti male, nella montagna di Piacenza e immagino anche altrove. La notte li si tiene ben chiusi, i cani. È in corso un censimento nazionale dei lupi. Secondo me, a spanne, e a giudicare dal grande numero di branchi nella sola provincia di Piacenza, sono molte migliaia. E il lupo dietro casa, anzi ormai davanti a casa, quando cominciano a sparire i cani, gli asini, i puledri, produce reazioni abbastanza primordiali. Reazioni incattivite ("bisogna farli fuori tutti") che sono antiche come l'uomo, poco incline a lasciar vivere quello che non gli serve, quello che lo disturba. Nessuna notizia di aggressioni del lupo all'uomo, è un animale antropofobo, la nostra puzza gli fa orrore. Ma il cane, sapete, è in molte case una persona di famiglia, e saperlo scannato dal lupo non induce a riflessioni ragionevoli sul grande cerchio della vita. Poi c'è l'opposto estremismo: il lupo non si tocca. C'è un animalismo (non tutto, per fortuna) che non ha capito bene come funzione la natura. Diciamo, anzi, che tende a prescindere dalla natura. "Limitazione del numero" è un concetto inconcepibile, da quelle parti. Anche se provi a spiegare che i grandi predatori, quando in eccesso, sono un elemento di squilibrio: anche per loro stessi. La specie si indebolisce. Dunque bisogna, prima che il lupo diventi una star mediatica per qualche fattaccio, come l'orso del Trentino, che le autorità facciano un passo avanti. I Parchi, le Regioni, il ministero dell'Agricoltura. Serve un Piano Lupo, e serve presto, anzi prestissimo. Noi che viviamo quassù, nei tanti quassù italiani, siamo un avamposto. Ci stanno portando la fibra ottica, abbiamo tutti il Pc e lo smartphone, siamo gente informata e cittadini attivi, mica rudi villici. E anche i pastori, dovreste sentirli parlare, i pastori italiani, giovani e con lo smartphone in tasca, per capire che sono un'avanguardia. Date ascolto alle avanguardie, vedono in anticipo quello che sta arrivando. Non sono un lupologo, ma i lupologhi esistono, e sono bravi, e al Ministero li conoscono. Fateli lavorare, chiedete consiglio, date informazioni e cultura naturalistica a chi vive in mezzo ai lupi, si tratta di milioni di italiani. Tra di loro, Uno non era un accessorio, era un valoroso cane ed è morto sul lavoro, e come lui tanti altri, anche l'asino di Pier, a pochi chilometri, che era un bravissimo asino. Prima che i media facciano un titolo sulla "emergenza lupo", aiutate gli uomini e i lupi a convivere.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata IX SE NON POTETE SCAPPARE USATE I GOMITI E LE GINOCCHIA

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