6.7.21

uniti nella vita e nella morte ed altre storie

 

repubblica 5\7\2021

Carla Medina e Luciano Borrè hanno vissuto insieme una vita intera, hanno trascorso legati più anni di quelli che hanno passato senza conoscersi. Lei aveva 89 anni, lui 94, sono stati sposati per 69 anni dopo un anno di fidanzamento. Sono morti a poche ore di distanza l'uno dall'altra nella loro casa di Maggiora, nel Novarese. Erano i genitori del dottor Silvio Borrè, primario del reparto di malattie Infettive dell'Asl di Vercelli.

 


Carla è mancata sabato sera, Luciano si è spento otto ore dopo, domenica mattina. Entrambi sono rimasti a casa fino all'ultimo, nonostante la lunga malattia che li aveva colpiti. "Le loro condizioni nell'ultimo anno erano diventate problematiche - racconta il figlio - erano entrambi in sedia a rotelle ma questo non impediva loro di tenersi compagnia. Seduti vicini discutevano ed era bello sentirli. 'Guai se osi farmi lo scherzo di andartene via prima tu', si dicevano a vicenda".A metà della scorsa settimana le condizioni di Carla sono peggiorate e la donna è andata in coma. "Papà si è reso conto di tutto perché nonostante l'età e la malattia era lucidissimo, e da quel momento non ha più voluto farsi alzare dal letto". Non ha voluto proseguire senza la donna con cui ha condiviso tutta la sua vita. Il cuore di Carla e quello di Luciano si sono fermati a poche ore di distanza dopo aver battuto insieme tutta la vita.Erano entrambi originari del piccolo comune del Novarese dove hanno vissuto fino alla fine, assistiti dai loro quattro figli e da una badante. Lui era stato un dipendente della Bemberg di Gozzano, l'azienda tessile con il marchio tedesco che si era insediata agli inizi del '900 nell'area del lago D'Orta. Carla aveva fatto la casalinga fino a quando i figli non erano diventati grandicelli poi aveva trovato lavoro in un negozio, a Maggiora, per contribuire alle spese per far studiare i quattro figli."Li si potrebbe definire una coppia di altri tempi - continua Silvio Borrè - e un po' lo erano perché si erano fidanzati 70 anni fa, poi si erano sposati dopo un anno di fidanzamento come si usava una volta. Ma erano anche genitori che sapevano stare al passo con i tempi". Erano molto credenti e la fede era un altro aspetto che li aveva tenuti uniti. "Da quando avevano smesso di uscire la domenica per la messa, potevi trovarli in casa nel massimo silenzio a seguire la celebrazione in televisione. E poi tutte le sere dicevano il rosario prima di dormire".Anche l'Asl di Vercelli ha voluto  porgere le condoglianze di tutta la direzione generale al medico "colpito in queste ore dal grave lutto di entrambi i genitori - si legge nella nota dell'azienda sanitaria - La direzione e i colleghi esprimono le più sentite condoglianze".

il fatto quotidiano    del  5\7\2021



5.7.21

Malika, la lezione per non buttare via i soldi e la vita


canzone  consigliata 
 Zucchero - Rispetto

lo so  che    vi sarete  , come il sottoscritto  rotti  gli zebedei  stufati diu sentire  parlare  di  marika     e  della sua  vicenda  e  di come ha  spesso i   suoi soldi   e della sua arrampicata  sugli specchi per  giustificarsi  , ma stavolta  (giurò che sarà  l'ultimo post  che dedicherò  a  tali vicende    salvi  chje  che  non s'avverera   la profezia  che  ho  fato    nel  post  precedente , cioè quella  di vederla  ospite  dala de 

filippi ed  affini  )   c'è  una ragazza  omossessuale  o  lgbt   per  usare  il politicamente  corretto    che   hja  avuto  una  situazione   come  qiella  di marika  ma   è  rimasta  fuori  ed  lontrano  dai media   e che  ha   una dignità  perchè non ha  chiesto  niente  a  nesuno  er  si  fa ed  si fattas un mazzo scosi  per  andare  a vanti  . Ma  ora  basta    parlare  lascio la parola   alla Lucarelli  

Malika, la lezione per non buttare via i soldi e la vita


Buongiorno signora Lucarelli, ho 22 anni, lavoro come babysitter, vivo in un appartamento in affitto a Milano, ho un cane e un gatto che non ho potuto portare con me, sono zia di quattro bambini stupendi (due in realtà devono nascere ma so già che saranno meravigliosi), convivo con la mia spettacolare fidanzata, sono un’ex ginnasta e ballerina, mi sono diplomata l’anno scorso dopo due anni di interruzione della scuola per poter lavorare, canto stonata sotto la doccia, ho le lenzuola di Harry Potter, amo la pizza e la tartare di salmone e mi piace tanto l’azzurro. A 18 anni e un mese sono scappata di casa perché la mia vita era diventata insostenibile: giusto un mesetto e mezzo prima mia mamma aveva scoperto nel peggiore dei modi la mia neonata relazione con una ragazza, naturalmente non l’ha accettata. Ho subito violenza verbale e fisica a casa mia, “alzi la voce” era la scusa, ma io la voce la alzavo per essere ascoltata, perché in tutto quel tempo nessuno si era fermato a chiedermi come stessi io che, da studentessa adolescente e povera di una scuola gesuita circondata da spocchiosi ragazzini con la puzza sotto il naso i cui genitori pagavano la mia borsa di studio, mi sono scoperta lesbica e sono stata la prima a non accettarmi.

Mi sono rimboccata le maniche, ho lasciato la scuola, ho lavorato e mi sono potuta addirittura permettere di andare in vacanza con i MIEI soldi sudati con il MIO lavoro.

A maggio di due anni fa sono tornata a casa con mia mamma, ci siamo più o meno riappacificate nonostante lei continuasse a non accettare la mia sessualità. Ho lavorato e nel mentre a settembre sono tornata a scuola. Poi un infortunio, ho lasciato il lavoro per riuscire bene a scuola, ho chiesto la disoccupazione per avere un aiuto perché comunque a casa di mia mamma pagavo l’affitto della mia stanza. Avevo circa, tra tutto, 450 euro di spese al mese escluso il cibo. Di disoccupazione ne prendevo 670,40. O sarebbe dovuto essere così. Ho chiesto la disoccupazione a metà gennaio, con i tempi dell’inps sarebbe dovuta arrivare a febbraio, ma è iniziata la pandemia. Ho visto la mia disoccupazione a maggio. Nel frattempo pagavo a rate la macchinina di mia nonna che intendeva poi regalarmi all’ottenimento della patente di guida (che non potevo, e non posso tuttora, permettermi). Ho arrancato per mesi. Mi sono arrangiata. Mi sono diplomata, ho subito iniziato a lavorare e a settembre ho preso casa con la mia fidanzata. Tutto da sola. Con grandi difficoltà. E non cerco compassione o pacche sulla spalla, sono fiera di ciò che ho fatto e so di non essere l’unica ad averlo fatto.

Mia mamma non mi ha cacciata di casa, ma mi ha reso la vita talmente invivibile per la seconda volta che sono dovuta scappare, di nuovo, definitivamente. Ho preso la decisione di andare via dopo il mio primo stipendio: mi sono presentata al lavoro con un occhio nero e dopo mille domande ho deciso che era ora di finirla.

Da sola con la mia compagna abbiamo affrontato un isolamento, poi la quarantena, gli stipendi quasi dimezzati per sei mesi perché lavoravamo entrambe in un locale nell’ambito della ristorazione. Ho lasciato l’università a cui mi ero iscritta perché la retta non potevo permettermela. Ho rinunciato al mio sogno di studiare e me ne sono costruita un altro: vivere.

Ho deciso di scriverle perché ho sempre pensato che ci fosse qualcosa che non andava nella storia di Malika. Ci sono centinaia di ragazzi come me e come Malika che si ritrovano senza famiglia, ma nessuno riceve 150mila euro da persone che donano loro i soldi per ripartire. E soprattutto nessuno li sputtana in una Mercedes che non serve per ripartire, basta una Twingo usata del 2012 come la mia, che è già un lusso. Sa cosa avrei fatto io con tutti quei soldi? Per prima cosa avrei prenotato privatamente la risonanza magnetica al cervello che aspetto da mesi. Poi avrei fatto la patente. Avrei pagato la retta dell’università. Mi sarei messa una piccola cifra da parte per coprirmi le spalle MENTRE LAVORO. E il resto lo avrei dato a tutte le altre persone che hanno bisogno.

Sono arrabbiata. Perché tutti meritano di ricostituirsi una vita dopo che la propria viene distrutta. Farlo è difficile, io ci sto provando ma a volte sembra davvero impossibile. Malika nella sfortuna (perché ciò che è successo a lei non dovrebbe succedere a nessuno) ha avuto la fortuna di avere un paese che le è stato accanto e un aiuto economico a ripartire. Eppure non se lo meritava. Sa cosa penso? Che chi sta male e davvero ha bisogno, non chiede aiuto. Io non ho mai chiesto aiuto perché mi sento debole, perché non voglio attirare attenzioni su di me. E quando sono andata via di casa con 100 euro in tasca e nemmeno le mie mutande che mia mamma non mi ha mai dato, la prima cosa che mi sono chiesta non è stata “come farò senza soldi e senza vestiti?”, il primo pensiero è stato “e ora come cazzo faccio senza l’abbraccio di mia mamma? Senza sapere che è dalla mia parte? Senza una famiglia? ”. Ce l’ho fatta signora Lucarelli, da sola. Ce la sto facendo. Ho ancora strada da fare ma ce la sto facendo. E sono indignata per come Malika si è comportata


                                    ******


Grazie per questa lettera onesta, forte e priva di retorica, cara A. Io credo che la ricostruzione di una vita debba passare anche attraverso gli sfizi, specie a 22 anni, ma bisogna essere trasparenti fin dall’inizio. Malika ha peccato in questo. Non doveva avventurarsi in promesse di beneficenza e psicologo, era sufficiente un più asciutto “i soldi mi serviranno a vivere con leggerezza i miei 22 anni, ne ho bisogno” e le avremmo perdonato tutto.

4.7.21

dobbiamo accettare il fatto che le donne a volte ed in certe situazioni sono meglio degli uomini . il caso del'agente Sara che convince un assasinio barricato in casa a consegnarsi ed evitare il peggio



di cosa stiamo parlando

repubblica   4\7\2021

"Quei 13 minuti al telefono con l'uomo che ha sparato al padre". Il racconto dell'agente Sara: "Così l'ho convinto a consegnarsi" Venerdì pomeriggio, un tentato omicidio nel quartiere Cep dopo l'ennesimo litigio. Il genitore voleva indietro la casa. Dopo il colpo di pistola, l'uomo si è barricato in casa

                                           di Salvo Palazzolo

«Al telefono urlava: “Ho sparato a mio padre. Ho ancora la pistola in mano”. E in sottofondo sentivo i pianti di una donna e di un bambino. In una manciata di secondi, ho dovuto trovare il modo per entrare in relazione con quell'uomo. Intanto, facendolo calmare». Sara è abituata a conoscere le persone dalla loro voce, è una delle poliziotte della centrale operativa della questura. Venerdì pomeriggio, è stata lei a rispondere a Emanuele Presti, il ventinovenne che ha telefonato al 112 subito dopo avere sparato al padre dal balcone, al termine dell’ennesima lite.



«Era parecchio agitato — racconta la poliziotta — mentre i miei colleghi e l’ambulanza correvano verso via Barisano da Trani, al Cep, io dovevo cercare di fargli posare quell’arma».Questa è la storia di un uomo disperato. E della donna che l’ha tirato fuori dal baratro in cui era finito. Una storia racchiusa in una telefonata durata 13 minuti. «Interminabili», dice Sara. E il finale non era affatto scontato. «Perché l’uomo continuava a tenere in mano quella pistola, mentre dalla finestra guardava il padre riverso in una pozza di sangue, gravemente ferito». Emanuele Presti, disoccupato con precedenti penali per porto abusivo d’arma e resistenza a pubblico ufficiale, ha sparato al padre Giuseppe che continuava a insistere per riavere indietro l’appartamento del Cep. «Al telefono urlava ancora: “Vuole buttare fuori di casa me e la mia famiglia. E io cosa farò?”».
Sara ha iniziato a dare del “tu” ad Emanuele. «A quel punto era necessario stabilire un rapporto di fiducia con questa persona esasperata — spiega — gli ho detto: “Ascoltami, seguimi, io sono qui per aiutarti. Innanzitutto, pensa a un posto sicuro dove puoi conservare la pistola, in modo che nessuno si faccia male”. Per un attimo non ha detto più nulla, poi mi ha risposto: “L’ho messa in un cassetto”. E ha rilanciato: “Ora, cosa faccio?”».Sara, assistente capo dell’Ufficio prevenzione generale della questura, racconta che le parole degli uomini che si sono persi nelle strade di Palermo sono un filo sottilissimo, può rompersi da un momento all’altro. «Durante i giorni del lockdown, arrivò al 112 la telefonata di un uomo che annunciava il suicidio. Ma non voleva dire dove si trovava. Poco a poco, ho conquistato la sua fiducia». Come ha fatto? «Ascoltando la sua storia». E poi le ha detto dove si trovava? «Sì, ma per fermare il gesto estremo voleva che andassi io incontro a lui. Gli ho spiegato che stava arrivando una mia collega bravissima. E si è convinto».Cosa è accaduto, invece, ad Emanuele Presti? «Continuava ad essere barricato in casa. Anche lui voleva che andassi io. Perché avevo ascoltato con pazienza la sua storia e si fidava di me».
Intanto, mentre Sara è al telefono, in via Barisano da Trani, la polizia si prepara al peggio. Una decina di volanti schierate, agenti con i giubbotti antiproiettili e pistole a tiro. Ma anche una telefonata dietro l’altra al 112: le voci del Cep, tutto schierato con il padre. «Quello è un uomo violento — dicevano — quello ammazza qualcun altro». La centrale decide di mandare altri rinforzi. Ma, al momento, nessuno si deve muovere. Tutto è nelle mani di Sara. «Ho continuato a rasserenare Emanuele — racconta lei — ma insisteva: “Non voglio scendere”. Gli ho detto: “Adesso, dobbiamo pensare a tua moglie e ai bambini. Sono spaventati. Io e i miei colleghi ci prenderemo cura di loro”». Ed è stata la frase determinante. Ascoltando il racconto di Sara si capisce perché. La donna che dal 2011 raccoglie le voci di Palermo non è solo una poliziotta di 42 anni che ha lavorato a lungo nelle strade di questa città, è anche la mamma di un bambino. «Io cerco sempre di ascoltare le persone che incontro — sussurra lei — per il resto, faccio parte di una squadra che lavora per la propria comunità».Emanuele ha aperto la porta di casa. «Aveva sempre il telefono in mano e continuava a dirmi di avere paura di uscire. Ma passo dopo passo si è convinto». Forse, temeva una reazione del quartiere. Poco fuori l’androne, i poliziotti l’hanno fermato e velocemente sono andati via.Ora, Presti è accusato di tentato omicidio. Suo padre è ricoverato in gravissime condizioni a Villa Sofia. I poliziotti delle Volanti e i colleghi della sezione Omicidi della squadra mobile hanno trovato non solo la pistola che il giovane aveva sistemato nel cassetto, ma anche un altro revolver, risultato rubato nel 2011. Sara, invece, si sta preparando per un altro turno in centrale, alla caserma Lungaro. Con i suoi colleghi della Prima squadra delle Volanti.

Insegnando impariamo!


 «I giovani non sono abituati ad essere realmente ascoltati in classe, e quando provano ad esprimere liberamente un loro pensiero vengono zittiti da un sistema gerarchico che pone al di sopra di tutto l’autorità degli insegnanti considerati custodi del sapere acquisito e quindi dato. Io non agisco così. Insegnare per me è condivisione e fascinazione. Non impongo nulla ai miei allievi e cerco sempre di stimolare il loro spirito critico attraverso il dialogo. Jean-Jacques Rousseau sosteneva che: “Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino”. Nessuna preparazione, per quanto ottima, ci esonera dal conoscere i nostri allievi. Ascoltarli è un dovere e un’occasione per crescere umanamente e professionalmente» 

                                  Cristian A. Porcino Ferrara ©️

il caso di Malika Chalhy L'ALTRO LATO DELLE RACCOLTE DI FONDO ONLINE

visto che l'astruso blocco di fb , eppure andando sul profilo dove di solito vengono elencate le restrizioni
è pulito non c'è scritto niente,  pubblico qui  il post    che  volevo pubblicare  su  fb  . La  toria    dimostra    effetto collaterale  dei social   e della rapidità  dell'informazione online  che fa    prendere  lucciole  per  lanterne  .  Infatti 

da repubblica del 2 .7.2021

Malika Ayane insulti e solidarietà social: "Ma quella Malika non sono io"La cantante ha postato un messaggio in cui ha chiarito (evidentemente ce n'era bisogno) di non essere la ragazza cacciata di casa dai genitori perché lesbica





Il nome è lo stesso ma l'equivoco è pressoché inspiegabile. La cantante Malika Ayane ha chiarito sul suo profilo Twitter di non essere la ragazza di vent'anni, Malika Chalhy, cacciata di casa per aver rivelato di essere lesbica. Nel messaggio sui social infatti scrive: "Cari #fulminidiguerra che mi intasate la mail e i social con insulti o espressioni di solidarietà, ho una notizia per voi: la Malika che cercate NON SONO IO. Incredibile che nel 2021 ci siano più donne con lo stesso nome, eh? Che poi, se volete mandare messaggi d’amore siete i benvenuti -se d’odio un po’ meno ma avrete le vostre ragioni- purché siano per me stessa medesima. #sipuofare".

Ddl Zan, Malika Chalhy alla manifestazione di Firenze: "La famiglia non ha colori"


La giovane toscana è al centro di polemiche per aver lanciato una raccolta fondi dopo aver detto di essere stata cacciata di casa in quanto omosessuale, ed aver invece speso i soldi ricevuti per acquistare una Mercedes e altri beni non di prima necessità. La spiegazione del suo gesto in un lungo post:  "non ho comprato auto di lusso a vostre spese, sono arrivata a Milano per ricostruire la mia vita al sicuro e lontano da chi mi ha messo paura e non avendo l'auto di cui necessitavo per tutti gli impegni sociali e ormai lavorativi che hanno riempito le mie giornate e che soprattutto mi hanno portato a viaggiare in auto per ore, ne ho presa una dando in permuta la mia (che oramai camminava a fatica), prendendone una di seconda mano. Sì, è una Mercedes, un'auto che mi permetta di non restare a piedi in questi lunghi viaggi e che mi accompagni il più a lungo possibile. Considerando che non so cosa ci sarà nel mio domani, sto cercando di trovare la stabilità in un momento in cui la terra trema sotto i piedi".

Concordo in parte  con 

Quello che si rimprovera a Malika, non è tanto di averci preso in giro (gli italiani lo fanno), o di averci fatto sentire stupidi (gli italiani lo sono), ma di avere messo in crisi il buonismo che ormai traccia la divisione fra destra e sinistra. Il caso, infatti, è tutto politico: è politico nelle sue premesse (la ragazza gay discriminata dalla famiglia retrograda immigrata); è politico nel suo sviluppo (la solidarietà della Comunità progressista che si stringe intorno alla vittima innocente della cattiveria altrui); è politico nella sua conclusione (grandi risate a destra).Fino a qualche giorno fa, chi avesse osato dire che una ragazza di 22 anni con un lavoro può benissimo andarsene di casa - anzi che è normale che se ne vada, e quindi ci restava per libera scelta; che "rifarsi" una vita a 22 anni fa sorridere - casomai la vita deve incominciare - ; che non si capisce in cosa l'essere lesbica le impediva di farsela, e dove e come la sua sessualità avrebbe causato opportunità perdute, che andavano compensate in denaro; che era un po' spregiudicato, e molto furbo, rivolgersi ai social per raccontare il suo dolore e che il dolore vero, in genere, non si banalizza in quel modo, sarebbe stato azzannato alla gola.Perché il problema è sempre quello: la presunta superiorità morale della sinistra, che non tollera dissenso e che cerca disperatamente un modo per manifestarsi. Spesso, a casaccio.Malika, diventata idolo della "battaglia" per il DDL Zan, o meglio della discussione , tutta emozionale e per niente tecnica , di un argomento che sarebbe tecnicissimo; diventata il volto nuovo di una battaglia vecchia, e cioè la ribellione alla violenza patriarcale; diventata simbolo dei millennials che intendono prendere in mano il loro futuro, ha dimostrato che OPS! anche i gay (e gli immigrati, e gli zingari, eccetera) possono essere disonesti; che spesse volte la vittima concorre nella violenza, almeno nella misura in cui la tollera volontariamente, e quindi si deve fare attenzione col giudizio; che i ventenni possono veramente essere dei bamboccioni col culo pensante, convinti che tutto gli sia dovuto e che sia lecito realizzare i sogni con gli imbroglietti, anziché con la fatica. Perché, attenzione, Malika è stata disonesta: in parte ha mentito (i famosi soldi in carità, la ONG della Boldrini, eccetera), e in parte ha giocato sul non detto.E' chiaro che chi ha donato per farle "rifare una vita", intendeva con quel gesto darle una possibilità di investimento in qualcosa di utile: l'università? l'apertura di una attività economica? andare all'estero?, ed è stato deluso.Non si tratta di mancanza di chiarezza, ma di una cosa più sottile, in cui concorrono le colpe. Chi ha donato ha proiettato su di lei una visione della "vittima" (che deve essere onesta, leale, riconoscente) tutta sua e lo ha fatto per ragioni di ego.Lei, che ha ricevuto, però ha giocato su questa dispercezione: altrimenti, avrebbe serenamente chiesto dei soldi per togliersi gli sfizi e divertirsi.ll problema perciò non è che si sia comprata la Mercedes, vestiti firmati, un canetto da 2500 euro (anche se questo riflette, siamo seri, pochezza di spirito), ma che ancora non abbia esplicitato nessun progetto per il suo futuro.In che modo i soldi raccolti le serviranno?Malika non lo sa, se no l'avrebbe detto.Ecco perché sono stati buttati. Per il resto, ormai i soldi sono suoi e ci faccia quel che vuole.Se per "rifarsi una vita". intende spenderseli in aragoste e champagne, buon per lei. Nessuno glieli tocca.Per la lezione che ha inflitto ai buonisti, se li è anche meritati. [...]


perchè oviio che Se metti in mano 120mila euro a una ragazza di vent'anni ( ovviamente senza generalizzare ) poi non ti puoi lamentare più di tanto se se li spende in cazzate.anch'io nelle sue stesse condizioni e  alo  sua stessa  età  mi sarei tolto più d'uno sfizio.
Ci fanno ridere quelli che quando danno due euro al punkabbestia, gli raccomandano di non berseli !

Come ho scritto no ricordo dove , aspettiamo (cosa che farà anche lei ipotizzo ) e la vedremo con la famiglia a c'è posta per te della de filippi o altrer trasmissioni raimediaset simili . Perchè secondo me è tutto organizzato per farsi pubblicità e fare soldi oltre che a cercare visibilità mediatica e sfondare nello showbiz , vedere il caso la hit  buongiorno da mondello di Angela Chianello, in arte Angela da Mondello, sembra la fine di un percorso dove la fama non voluta all’Oscar Wilde (parlane bene, parlane male, purché se ne parli) dopo l’ormai famosa e iconica intervista dell’inviata di Barbara D’Urso nella spiaggia palermitana nel  giugno del  2020  

3.7.21

Dalle ginestre la fibra più verde UNA FIBRA SIMILE AL LINO SI ESTRAE DALL’ARBUSTO. E CON GLI SCARTI? SI PRODUCONO BANCHI PER LE SCUOLE ALTRI PREGI: CRESCE CON POCA ACQUA E SENZA BISOGNO DI PESTICIDI

   da  gente   di questra  settimana 

ALLO STUDIO A sinistra, i rami della ginestra dai quali si estrae la fibra. Sotto, il professor Amerigo Beneduci dell’Università della Calabria (sotto) nel suo laboratorio, che ha studiato il tessuto ottenuto dall’arbusto. DAI CAMPI ALL’ATELIER A sinistra, la stilista Flavia Amato lavora su uno scampolo di tessuto sotto l’occhio della sua modella (anche nella pagina a fianco, in un ginestreto) che indossa la prima tuta prodotta con questa stoffa. Sotto, il materiale. (Foto Fotogramma/IPA).

Avolte per andare avanti bisogna tornare indietro, guardare al passato, ripescare vecchie idee. Come quella di ricavare fibre tessili dalle ginestre, trasformando una pianta spontanea in una risorsa per la moda, l’arredo e molto altro. Gli antichi romani lo facevano già, prima di loro i greci; resti di questo tipo di filato sono stati trovati durante gli scavi di Pompei. Oggi la palla è passata al Dipartimento di tecnologie chimiche dell’Università della Calabria, dove il professor Giuseppe Chidichimo e il suo team fanno ricerca in questo senso da almeno dieci anni.

«È iniziato tutto grazie a una collaborazione con il gruppo Fiat, che voleva usare stoffe alla ginestra per i sedili delle auto», racconta il docente. «A noi è stato chiesto di modernizzare l’antico processo di estrazione della fibra dall’arbusto e di renderlo industrializzabile». Più facile a dirsi che a farsi: mentre con il lino basta seccare i rametti e scuoterli per far staccare la parte fibrosa, la ginestra, dove la fibra è presente nelle cuticole delle vermene, cioè dei rami, è cespugliosa e più resistente, e richiede uno sforzo maggiore. «In passato la si metteva in ammollo nell’acqua per quindici giorni per provocare lo sfaldamento della parte interna, poi la si batteva con strumenti di legno: un metodo efficace, ma lento. Così come quello usato negli Anni 40 quando, in pieno regime fascista, smise di arrivare il cotone dall’America e si fece nuovamente ricorso all’arbusto locale, diffusissimo nelle regioni del Sud Italia: all’epoca si scoprì che per sciogliere le sostanze collanti che trattengono la fibra era utile immergere le piante in una soluzione sodata, la stessa dove si mettono le olive per renderle più dolci. Ma anche se la fase di macerazione si era evoluta, non così quella successiva, nella quale la fibra veniva strappata a mano dalle donne». Niente di replicabile su larga scala, insomma. «Con i nostri studi abbiamo fatto molti progressi, persino reso più ecologico il processo eliminando il bagno nel

la soluzione sodata, che abbiamo sostituito con un ciclo di disidratazione e reidratazione suggeritoci dai contadini. È ancora un work in progress, ma abbiamo già iniziato a coinvolgere le aziende».

Le prime a dimostrare interesse sono state quelle della filiera tessile: la Sunfil di Castrovillari, in provincia di Cosenza, ha messo a punto un macchinario apposito per la cardatura (la ginestra ha fibre lunghe, diverse da quelle di lino e canapa), il Linificio Canapificio Nazionale del gruppo Marzotto si è occupato dei filati, il tessuto finito è stato realizzato dalla Tessitura Enrico Sironi di Gallarate, infine l’atelier Malia Lab della stilista calabrese Flavia Amato ha cucito i primi capi, un trench e una tuta palazzo. «Temevamo che il tessuto risultasse ruvido al tatto, irritante per la pelle», ammette il professor Amerigo Beneduci, che con Chidichimo è tra i responsabili dell progetto. «Al contrario, quello che abbiamo ottenuto è morbido, fresco, estremamente versatile. Ricorda il lino ed è perfetto per la bella stagione».

Ma la ginestra ha anche altri vantaggi. «È una pianta che cresce spontaneamente e in maniera molto rapida», riprende Chidichimo. «Non ha bisogno di molta acqua e attecchisce sui terreni collinari, anche aridi, inservibili o quasi per l’agricoltura. Non ruba quindi spazio ad altre coltivazioni, anzi è utile contro gli incendi e, con le sue lunghe radici di 3-4 metri, previene le frane. Ed è pure bella da vedere: quando è in fiore crea una distesa gialla molto gradevole. Inoltre, a differenza del cotone, non ha bisogno di pesticidi inquinanti perché non viene attaccata dai parassiti». Ma quanta ne serve per fare un abito? «Se ipotizziamo di usare circa due chili di tessuto per capo, avremo bisogno di due chili e mezzo di fibra, che si estraggono da 25 chili di ginestra verde. Sembra tanto, ma un ettaro di ginestreto produce 25 tonnellate di arbusti, quindi mille vestiti».

Unico neo, sul vegetale appena tagliato la resa in fibra è piuttosto bassa, del 10-12 per cento. Ma anche in questo caso il problema è presto risolto: gli scarti, cioè la parte legnosa inadatta al tessile, non vengono buttati, ma trovano impiego nei settori più disparati, dalla bioedilizia all’arredo: «Noi li abbiamo forniti alla Sirianni, un’azienda di mobili per le scuole, che ne ha fatto banchi, cattedre e armadi», racconta Beneduci. Ma è anche possibile macinarli e ridurli a polveri vegetali, per integrarli in composti plastici e ridurre l’uso di derivati dal petrolio. Meglio di così!

2.7.21

DNA never lies (Il DNA non mente mai)



che storie interessanti si trovano leggendo i contatti di un tuo contatto . Una storia commovente Questa storia è commovente! Ed è bellissimo il fatto che l'anziana signora, dopo tanto tempo finalmente possa conoscere le sue origini e incontrare i suoi parenti... È una cosa meravigliosa!  
margine mi rassicura sull'attendibilità di questi test, ero piuttosto perplesso, dopo  gli errori   vedi il caso Omicidio di Meredith Kercher   e  forse  anche  quello  di  Yara Gambirasio  ora lo farò anch'io!!

 da 

È cominciato tutto per curiosità, con un kit per un esame del DNA acquistato su internet come regalo natalizio nel 2019. La nostra curiosità principale era scoprire l’origine etnica, se sarda, ispanica, nordafricana, o altro. Per vari contrattempi, i risultati giunsero solo a luglio 2020. Una volta tolta la curiosità sulla stima di etnia, guardammo le corrispondenze di DNA (sta a dire tutte quelle persone che condividono tra loro una o più porzioni di corredo genetico e per tale ragione possono definirsi parenti più o meno lontani) e lì ci fu una sorpresa: F.D., età compresa tra 80 e 90 anni, cugina di secondo grado.
A questo punto, non conoscendo nessun parente con quel cognome, feci l’unica cosa logica in questi casi, scrissi a colui che gestisce il profilo di DNA di questa signora su quel sito, C.S. E fu così che scoprii quanto segue: “Buongiorno Giacomo, la storia di mia madre è particolare, anche se comune a tante persone, ed è per questo che ci siamo rivolti a MyHeritage.
Mia madre è nata a Roma nel 1934, nell’ospedale San Giovanni, e appena nata da lì fu affidata ad un orfanotrofio. Non ha mai conosciuto i suoi genitori, ha vissuto la sua vita pienamente e con tante soddisfazioni, si è sposata, ha cresciuto noi figli. Una vita felice, convivendo con l’idea di non poter mai abbracciare i suoi genitori. Ora, negli ultimi anni della sua pur felice vita, a 86 anni, si sta tormentando: vorrebbe sapere, terminare la sua esistenza avendo anche solo un'idea approssimativa delle sue origini. L’analisi del DNA di mia madre evidenzia un 60% di etnia sarda, quindi con tutta probabilità sua mamma o suo papà erano di origini sarde, ma crediamo si possa trattare più della madre. Non abbiamo altri dati, nonostante le ricerche, la nascita di mia madre è avvolta nel mistero, non è stato possibile reperire nessun documento relativo alla nascita di mia madre, tantomeno relativo ai suoi genitori. Quindi Giacomo forse lei potrebbe aiutarci nell’esaudire il desiderio di mia mamma di sapere […] un cordiale saluto, C.S.”.
Da quel momento decidemmo di fare il possibile per aiutare questa nuova zia a scoprire i suoi genitori. Dissi a C. di acquistare un kit per il DNA da un altro sito che dà maggiori informazioni (23andMe), mentre io ne acquistai 3, uno per mia madre, uno per mio padre e uno per me. Ad agosto scoprimmo quindi che F.D. è cugina di primo grado di mio padre. Andando per passi, dovevamo scoprire se la parentela fosse dal lato Calvia-Casu oppure Gaias-Fresu. E così è cominciata la parte più bella di tutta questa storia, fatta di solidarietà, disponibilità, di persone che si sono prestate, spesso volontariamente
dopo il semplice racconto di questa vicenda, in una sequela di test del DNA che ci hanno portato a scoprire tutto.
Una cugina di mio padre si è offerta per fare il test e ai primi di dicembre stabilimmo a quale ramo familiare appartenesse la parentela e che il genitore in questione era il padre. A fine gennaio, grazie a un cugino che a sua volta si era reso disponibile, sapevamo il nome del padre di F.
Nel frattempo, però, erano già avviate le ricerche della madre, grazie a una stretta parentela con una famiglia originaria anch'essa di Berchidda, ma che oggi vive negli Stati Uniti d’America. E così, dopo aver ricostruito un ricco albero genealogico in pochissimo tempo (grazie a numerosi collaboratori), siamo stati in grado di selezionare alcune famiglie berchiddesi potenziali e la fortuna ci ha sorriso. A febbraio abbiamo fatto altri due test del DNA e al primo colpo abbiamo scoperto la madre di F.D. con una precisione del 50%. Infine, ai primi di giugno, la nostra ricerca si è conclusa dopo che un ultimo test ci ha confermato che la madre era una donna nubile, morta all’età di soli 45 anni nel 1942.
Così, un segreto durato per oltre 86 anni è stato svelato grazie al DNA che, come dicono negli USA, non mente mai. E tale verità svelata ha restituito un'identità a una donna, ma anche una cugina, una zia, una sorella per varie altre persone.
Tra poche settimane, F.D. verrà a Berchidda per conoscere i parenti, i luoghi che avrebbero potuto essere la sua casa e visitare le tombe dei suoi genitori. Non le restituiremo ciò che all’epoca le fu tolto dalla mentalità di quei tempi, ma la potremo accogliere con l’affetto che merita una berchiddese d.o.c. che solo un infausto destino ha portato lontano dal nostro paese.

 Pubblichero'  sempre  con il consenso  di Giacomo gli ulteriori  aggiornamenti  di questa  vicenda 

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata IX SE NON POTETE SCAPPARE USATE I GOMITI E LE GINOCCHIA

 puntate  precedenti  puntata  I  e II  puntata  III  Puntata  IV Puntata  V Puntata VI Puntata VII Puntata VIII  Se vi trovate in una situa...