30.7.21

storie olimpiche tokyo 2020\21

 lo so che ancora le  olimpiai non sono    finite  .  ma  poi  vai  e  ritrovale    le  storie





repubblica 29- 30\7\2021






Tokyo 2020, coming out Boari: "Grazie alla mia ragazza"
Il video messaggio della compagna in collegamento da Casa Italia: "Ti amo, orgogliosa di te"Afp


Coming out di Lucilla Boari dopo la conquista della medaglia di bronzo ai Giochi di Tokyo 2020. Nel collegamento da Casa Italia è arrivato un messaggio video all'azzurra. "Ti amo tanto, sono molto orgogliosa di quello che hai fatto, non vedo l'ora che ritorni, ti sto aspettando per darti un grande abbraccio", ha detto Sanne de Laat, arciera compoundista olandese, a Lucilla Boari, che ha poi commentato: "Grazie alla mia ragazza".




Simone Biles, i demoni in testa hanno un nome: sono i "twisties"

(reuters)


La campionessa aveva ammesso di aver avuto un crollo mentale. E ha spiegato di cosa soffre

Un blocco mentale, una perdita di spazio ed equilibrio. Simone Biles ha i demoni, ma i demoni hanno un nome, un effetto e una causa, anche se non si sa quale sia. Quando Simone Biles ha parlato di salute mentale per spiegare i ritiri dalle gare a squadre e dalla gara generale ha detto: "Ho i twisties". Cosa sono i "twisties"? Per le persone normali non sono nulla, per i ginnasti sono un incubo: una sorta di blocco mentale. Improvviso.
Un blocco che fa perdere il senso dello spazio e della dimensione quando è in aria, che fa perdere il controllo del corpo e che, durante un volteggio o una capriola, può far perdere il controllo del corpo e rende incapaci di atterrare in sicurezza. Anche se l'atleta ha fatto la stessa manovra per anni senza problemi. Anche se sei una leggenda. Anche se sei la migliore. Disorienta. Come se corpo e cervello si scollegassero. Il corpo semplicemente non collabora, il cervello perde traccia di dove è il fisico nell'aria. L'atleta scopre dov'è il terreno quando atterra. E la paura diventa paralizzante.
Ci sono atlete e atleti che hanno capito cosa stesse passando Simone Biles quando ha perso il senso dello spazio durante il volteggio della gara a squadre, quando si è ritirata. La ginnasta britannica Claudia Fragapane alla BBC ha raccontato di essere caduta dalle parallele asimmetriche e sulla trave nei turni di qualificazione e poi nell'aprile di quest'anno è caduta di nuovo a seguito di un blocco mentale e non è riuscita a qualificarsi per i Giochi di Tokyo. La ginnasta svizzera Giulia Steingruber in un documentario di qualche anno fa ha raccontato che durante un volteggio "non avevo più la sensazione di dove mi trovavo. Ruotare e capovolgere il corpo è disorientante".
Il talento di Simone Biles è proprio nel suo eccezionale "senso dell'aria" come lo chiamano gli atleti. Il controllo del corpo mentre è in volo. Se l'atleta lo perde non ha scelte: deve fermarsi.



Il caso del tiratore iraniano: l'oro nella pistola 10 m accusato di essere un terrorista

                             dal nostro inviato Fabio Tonacci


Javad Foroughi fa parte del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, inserito da Donald Trump nella lista dei gruppi terroristici




Infermiere di notte, terrorista di giorno, campione di tiro a segno nel weekend. L'iraniano Javad Foroughi avrebbe almeno tre vite, e una di queste non c'entra niente con le Olimpiadi. Chi è davvero il vincitore dell'oro nella disciplina pistola ad aria compressa 10 metri? E perché sempre più voci chiedono al Comitato olimpico internazionale di riprendersi la medaglia?
Un clamoroso caso internazionale scoppia a Tokyo 2020, quando il programma delle competizioni è arrivato alla seconda e ultima settimana. Protagonista è l'infermiere 41enne Foroughi. Lavora in Iran ma ha prestato servizio anche negli ospedali da campo in Siria, a Palmira, e in altre zone di guerra. È un operatore sanitario, e fin qui niente di male. È anche membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, milizia paramilitare composta da 125 mila uomini e istituita dall'ayatollah Khomeini nel 1979 poco dopo essere ritornato dall'esilio durato 15 anni. Ha giurato di difendere la Guida suprema dell'Iran. Jayad Foroughi è un fiero pasdaran.






Dice di aver cominciato a praticare il tiro a segno sportivo nel 2017. Dopo aver vinto l'oro a Tokyo, la televisione pubblica iraniana ha trasmesso un servizio in cui medici e infermieri del Baqiyatallah Hospital a Teheran, gestito dai pasdaran, esultavano per il successo del collega. Il leader del Corpo, Hossein Salami, ha celebrato Foroughi definendolo "un esuberante Guardiano della rivoluzione islamica".
La questione si complica definitivamente di fronte al fatto che la milizia, nel 2019, è stata inserita dall'amministrazione Trump nella lista delle organizzazioni terroristiche. Non era mai successo che gli Stati Uniti prendessero tale provvedimento nei confronti di una forza militare di un'altra nazione. Una mossa - sostengono gli analisti - servita a Trump per giustificare l'imposizione di nuove sanzioni contro l'Iran.
"Come può un terrorista salire sul podio?", si chiede il tiratore coreano Jin Jong-oh, sei volte medaglia olimpica. "È la cosa più assurda e ridicola che abbia mai sentito": Jin Jong-oh se la prende con il Comitato Olimpico Internazionale: "Come può permettere una cosa del genere?". Il suo rimprovero arriva dopo che United for Navid, l'associazione iraniana che tutela i diritti umani degli atleti, ha sollevato la questione, chiedendo ufficialmente al Cio di ritirare la medaglia a Foroughi. "Quel riconoscimento è una catastrofe per lo sport iraniano, per la comunità internazionale e specialmente per la reputazione del Cio. Foroughi è un membro di vecchia data di un'organizzazione terroristica", si legge nel comunicato di United for Navid.
Il Cio prova a spegnere l'incendio che sta divampando in seno a Tokyo 2020. "Se hanno delle prove di ciò che dicono, ce le facciano avere: noi siamo qui", dice il portavoce Mark Adams. Ma nel frattempo sui social sono partite petizioni per togliere l'oro al tiratore iraniano.









Il re di Wall Street aiuta l'atletica Usa: "Un assegno da 30mila dollari a 65 campioni per arrivare al podio"dal nostro inviato Ettore LiviniStephan Schwarzman con gli atleti di Team Usa

 
Stephen Schwarzman, ex-sprinter e numero uno del private equity Blackstone, è il primo donatore privato della Us Track & Field Foundation con 17 milioni di dollari. Per molti membri della spedizione statunitense i suoi soldi sono l'unica entrata certa del 2021


TOKYO -La corsa all’oro olimpico di 65 ragazzi della squadra Usa di atletica ha alle spalle il supporto economico di un ex-atleta d’eccezione: Stephen Schwarzman, numero uno e fondatore di Blackstone, il grande fondo di private equity di Wall Street. Uno degli uomini più ricchi del mondo che compra e vende aziende come figurine Panini guadagnando una fortuna (610 milioni nel 2020) ma anche un ex-sprinter di mediocri fortune all’epoca del college a Penn State diventato oggi per nostalgia dello sport il primo donatore privato degli olimpionici a stelle e strisce. Ultimo atto: l’assegno di 30mila dollari a testa girato a 65 membri della spedizione Usa per sostenere i costi dell’ultimo difficilissimo anno di costi e trasferte.
Il Babbo Natale di Wall Street ha girato l’assegno tra gli altri al martellista Alex Young, al campione dei 5mila Paul Chelimo, al triplista Donald Scott alla lunghista Britney Reese. Un elenco di campioni in discipline meno “visibili” di 100 metri o maratona che negli ultimi 12 mesi - causa il taglio al budget di molti sponsor di abbigliamento sportivo in difficoltà per la pandemia - hanno faticato a trovare risorse per allenarsi. “Sono ragazzi che anno dedicato anni e sacrifici per arrivare ai Giochi – ha detto Schwarzman -. Sono orgoglioso di loro, rappresentano gli Stati Uniti e il mio è solo un piccolo contributo per aiutarli a mostrare al mondo il loro talento”. Quest’ultima donazione porta a 17 milioni di dollari tra borse di studio e gratifiche personali dirette i fondi stanziati dal fondatore di Blackstone (e grande sostenitore di Donald Trump) all’atletica Usa.
Il finanziere ha deciso di dare una mano allo sport olimpico nazionale nel 2012. Stava guardando alla tv i 1500 femminili alle Olimpiadi di Londra. Al penultimo giro l’americana Morgan Uceny è inciampata nella gamba di una rivale, è caduta ed è stata costretta al ritiro. L’ex atleta Schwarzman ha intuito subito il dramma sportivo ma anche – da uomo di numeri – quello economico. “Quella caduta mandava in fumo anche i soldi di potenziali sponsor”. Da allora ogni anno gira il suo assegno alla Us Track & Field Foundation e invita in una sorta di mega pranzo sociale tutti i beneficiari nella sede della Blackstone a New York, solo per sentir parlare almeno per un giorno all’anno di sport e sogni olimpici e non di dollari.
“E’ l’uomo più generoso che abbia mai incontrato”, ha detto la Reese in gara domenica nel lungo femminile. Gli atleti delle leghe professionistiche Usa come Nba e Nfl hanno uno stipendio minimo garantito figlio di una contrattazione collettiva. Per lei invece l’unica entrata certa di quest’anno sono i 30mila dollari di Schwarzman. Reese ha firmato anche un accordo di sponsorship con la Nike. Ma viene pagata a performance. Un primo step è scattato con la qualificazione ai trials (altrimenti non avrebbe preso un centesimo), il secondo sarà proporzionale al risultato della gara. Il suo munifico donatore – come ogni Olimpiade – la guarderà in tv. ”L’atletica è stata una parte fondamentale della mia vita dalle medie al college – ha spiegato -. E’ un mondo da cui ho imparato l’importanza del lavoro di gruppo, degli allenamenti e la gioia quando tu o la tua squadra vince”. E se la Reese salirà sul podio festeggerà felice, sapendo che in fondo e anche un po’ merito suo.


Judo, un tatami di pace: lo storico abbraccio tra l'atleta saudita e israeliana


Raz Hershko (che ha vinto) e Tahani Alqahtani non hanno rinunciato al combattimento, tre giorni dopo i rifiuti di un judoka algerino e di uno sudanese di combattere contro l'israeliano Tohar Butbul. "Un passo avanti - ha scritto la federazione internazionale judo - a dimostrazione di come lo sport possa andare oltre".
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Jessica Rossi e Mauro De Filippis: "Separati nella vita, tiriamo insieme senza litigare"dal nostro inviato Fabio Tonacci

Jessica Rossi (reuters)


Gareggeranno insieme nel trap misto. La portabandiera azzurra: "Vogliamo il riscatto. Su di noi solo gossip e falsità: il privato resta tale". L'ex marito: "So comunque di avere al fianco la migliore tiratrice possibile"


TOKYO. Separati alla meta. I due cuori e una fossa (olimpica) non ci sono più. È stato bello finché è durato, grazie della favola ma adesso in pedana scendono Miss Rossi e Mister De Filippis. Uno accanto all'altro, la portabandiera azzurra e l'ex marito numero uno nel ranking mondiale. A sparare per l'Italia. A sperare per l'Italia del tiro a volo, il cui bottino al momento è sottile quanto un piattello. Jessica Rossi e Mauro De Filippis sono stati selezionati dal ct Pera per gareggiare nel misto questa notte. È l'ultima chiamata per andare a medaglia."Tutti e due abbiamo qualcosa da riscattare, in questa Olimpiade", esordisce Jessica, che incrocia per un attimo lo sguardo di Mauro. Parlano gli occhi, il volto è coperto dalle mascherine. Sono qui sotto gli spalti vuoti dell'Asaka Shooting Arena. Il sole sta tramontando, si è alzata finalmente una leggera brezza. È la prima volta che accettano un'intervista insieme. Un plauso per la disponibilità, non è una giornata facile: hanno entrambi mancato la finale del trap individuale, che a Londra aveva visto Jessica Rossi prendersi l'oro e portarsi a casa il record del mondo di 99 piattelli sbriciolati su 100. Jessica e Mauro, 29 anni lei e 40 lui, sono notoriamente riservati. Dopo la loro separazione, comunicata lo scorso maggio alla Federazione, lo sono ancora di più. Se gossip deve essere, non verrà da loro. Per dire i caratteri: dopo Londra Jessica era stata tempestata di richieste di partecipazioni e comparsate, ma le uniche che ha accettato coincidevano con due sogni: scendere la scala del Festival di Sanremo e scendere la scala di Miss Italia. Poi si è chiusa nella sua Crevalcore, con le piante, la natura e il suo dobermann che, per non sbagliarsi, ha chiamato Olimpia. Nel 2015 si sono sposati. Non è durata.

La gara è domani. Sensazioni?
Jessica: "Siamo carichi, vogliamo quella medaglia".
Mauro: "Sarà durissima, il livello tecnico degli avversari è alto. In qualifica nell'individuale avevamo fatto prestazioni buone, ma non è bastato per arrivare in finale. Nel misto sicuramente ce la giochiamo".

Vi ha disturbato il chiacchiericcio sulla fine del vostro matrimonio? Si è parlato quasi più di questo che delle vostre prestazioni sportive.
J: "Fa parte del gioco, lo sapevo. Non posso dire che mi dà fastidio, va così...quello che mi amareggia è quando vengono dette e scritte falsità sul nostro conto. Ho letto di tutto, che io non volevo sparare con Mauro, che mi rifiutavo di fare il misto con lui... Scemenze. Siamo due professionisti, il ct ci ha scelto e io gareggerò".
M: "Nel bene o nel male, purché se ne parli... No dai scherzo. Devo essere sincero, mi sono estraniato da tutto. Non ho ascoltato chi straparlava, ho mantenuto discrezione. Non voglio mettere la nostra storia sotto i riflettori. Come sono andate le cose tra me e Jessica, i motivi per cui ci siamo lasciati, le parole che ci siamo detti, lo sappiamo io e lei. Il gossip non mi interessa".

Il tiro è uno sport di testa. Per i piattelli che decidono una medaglia, capita che il vissuto personale venga fuori e renda il braccio meno sicuro. C'è questo rischio anche per voi?
J: "Assolutamente no".
M: "Ci conosciamo tanto, abbiamo percorso un tratto di vita insieme. So che accanto a me avrò la tiratrice più forte e la compagna di squadra più talentuosa che si possa avere. Farò il mio, lei farà il suo. Il nostro rapporto può essere soltanto una forza positiva".

Jessica, sinora in competizione ha sentito la pressione di essere la portabandiera dell'Italia?
J: "Non direi, anzi: è qualcosa in più, che mi lascerà un ricordo bellissimo di Tokyo, comunque vada".

Come si fa a evitare che il personale influenzi la preparazione e la prestazione?
J: "Non è che se abbiamo litigato cinque minuti prima faccio zero apposta, abbiamo un obiettivo comune. Anche quando eravamo sposati non ci siamo mai dati fastidio".
Avete trovato un vostro modo per separare le cose?
J: "Quando vado in pedana riesco a isolarmi e a chiudermi in me stessa. Spero di riuscirci anche nei prossimi giorni. Comunque se andrà bene o andrà male non dipenderà dalla nostra situazione".
M: "Da sposati, hai un'estrema fiducia nella persona che hai a fianco perché la conosci, sai cosa pensa, come reagisce, cosa prova. Da separati, conosci comunque il valore indiscutibile dell'atleta".

Ma vi capita di litigare?
J: "Stiamo andando un po' oltre il tiro secondo me (ride, ndr)... Prima litigavamo come tutte le coppie normali. Abbiamo fatto un patto: il nostro privato non uscirà mai. Né dalla mia né, penso, dalla sua bocca".

29.7.21

Bisturi, botulino e droga. I Narcos "investono" sulla chirurgia estetica I trafficanti pagano gli interventi delle amanti per trasformarle in bambole sex

 da  rerpuublica  23 LUGLIO 2021 
I trafficanti pagano gli interventi delle amanti per trasformarle in bambole sexBisturi, botulino e droga. I Narcos "investono" sulla chirurgia estetica
                                                             di Daniele Mastrogiacomo
I protagonisti di Narcos, la serie che racconta la vita dei trafficanti di droga messicani




23 LUGLIO 2021 


La terra del Chapo Guzmán è diventata il centro della chirurgia estetica. Non per boss e sicari che vogliono cambiare fisionomia e sfuggire così a nemici e giustizia. Per le donne. Giovani e giovanissime. Sinaloa, Stato simbolo del più potente Cartello in Messico, da sempre montagnoso, povero e abitato soprattutto da contadini, oggi è famoso per la "narcoestetica": una moda che fa tendenza e si è trasformata in una mania contagiosa. Lo racconta un'inchiesta della Bbc. Ma lo dicono anche i dati e le testimonianze dei medici che si sono ritrovati le scrivanie piene di richieste.
A Culiacán, città di origine dell'ex re della droga nel mondo, la dottoressa Rafaela Martinez Terrazas ha spiegato alla Bbc che esiste un modello fisico ricercato in maniera costante. Corrisponde al prototipo delle donne che amano i narcos, quelle che in Messico chiamano, in modo un po' dispregiativo, buchonas. Hanno un loro stile, siti sul web: vita stretta e definita, fianchi e glutei grandi, seni prosperosi. [... ] il  resto dell'artiucolo   è a pagamento e  qui    mi viene  in aiuto quest'articolo di https://www.iene.mediaset.it/2021/news/messico-chirurgia-estetica-donne-narcos_1079391.shtml

Messico, il boom della chirurgia estetica per avere il fisico delle “donne dei narcos” | VIDEO

Un’inchiesta della BBC mostra come a Sinaloa, stato del Messico dove opera l’omonimo cartello che è stato guidato da “El Chapo” Guzman, giovani ragazze si rivolgano sempre più spesso alla chirurgia estetica per assomigliare al prototipo di “donna dei narcos”. Ma più che una libera scelta, è un sintomo dell'estrema povertà della regione. Noi de Le Iene siamo stati ad Acapulco, per documentare la vita dove regnano i cartelli

(In foto, la moglie di “El Chapo” Guzman)

Vita stretta, fianchi larghi e un seno prosperoso”. E’ questo l’identikit tracciato alla BBC da una chirurga estetica di Sinaloa, in Messico, la regione del paese diventata tristemente famosa per essere il teatro delle operazioni del cartello di “El Chapo” Guzman. Il fenomeno raccontato dall’emittente pubblica inglese è questo: molte donne, sempre più giovani, si rivolgerebbero alla chirurgia estetica per assomigliare il più possibile al prototipo di “donna dei narcos”,

Quindi per evitare o ridurre ( facendolo diventare solo fisilogico per paio estinguersi ) l'abuso abiuso del proprio corpo e della chirurgia estetica dobbiamo educare le nuove generazioni alla vera bellezza non quella artificiale ed a coltivarla la bellezza non solo quella del paesaggio ma anche quella fisica perché anche l'occhio (e non solo😉😎😜 ) vuole la sua parte .

Capisco   le  donne  o  gli  uomini che ricorrono alla  chirurgia  plastica  per  corregge  dei  difffetti fisci     o  perchè    si vergognano  del  proprio  corpo che invecchia e      preferiscono volersi  vedere  giovani  .  Ma  a qui si esagera perché non è una  bellezza   naturale ma artificiale , di plastica , creata in laboratorio .   Inoltre   in questo  caso  si obbligano le donne ad essere più schiave   ed  asservite   all'uomo padrone   sfruttandone con la chirurgia estetica i loro corpo


Infatti «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È





per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». ( peppino impastato 1940-1978 )




Ora non essendo nè un filosofo d'accademia nè un antrropologo , ne uno studioso di tali fenomeni etici e morali consiglio alcuni libri per chi come me volesse approfondire le propie conoscenze in merito

Claudia Atimonelli e Valentino Susca
Un oscuro riflettere ( http://mimesisedizioni.it/un-oscuro-riflettere.html )
pornocultura  (   vedere  archivio  del blog    con  mia  intervista  a  gli autori  ) 
  Loredana  Zanardo 
il  corpo  delle  donne    video (   https://youtu.be/nPpIn0b6-x4  )  e  libro 
Cristian Porcino
Altro e  Altrove  ( https://www.amazon.it/Altro-altrove-Cristian-Porcino-Ferrara/dp/0244660042  )   pagina  113  e seguenti




28.7.21

"Non siamo no vax, maledetta quella crociera", parla la madre della bimba morta di Covid "Eravamo perplessi per AstraZeneca, abbiamo perso tempo. Poi la scuola ha proposto a sua sorella quel viaggio e lei ha contratto il virus"

    di cosa stiasmo parlando

https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2021/07/morta-di-covid-bambina-undicenne-era.html

leggo con ritardo  un  ulteriore  aggiornamento  del  caso ,  vedi  url sopra  ,  della  morte per  covid dell bambina   di  11  anni


repubblica  28\7\2021




"Non siamo no vax, maledetta quella crociera", parla la madre della bimba morta di Covid  "Eravamo perplessi per AstraZeneca, abbiamo perso tempo. Poi la scuola ha proposto a sua sorella quel viaggio e lei ha contratto il virus"


                                 di Giusi Spica

La piccola bara bianca è custodita dietro le porte dell'obitorio. Nessuno può entrare per le norme antivirus. Ariele, 11 anni non ancora compiuti e una rara malattia metabolica che la costringeva sulla sedia a rotelle, è morta di Covid. La mamma e il papà hanno fatto appena in tempo a darle l'ultimo saluto, un'ora prima che il suo cuore smettesse di battere. "Ha aspettato la fine della nostra quarantena per andarsene, ma non abbiamo nemmeno potuto accarezzarla", si disperano a bordo dell'auto parcheggiata nel piazzale dell'ospedale Civico. Nonostante il dolore, mamma Rosalinda tiene a respingere ogni accusa: "Basta strumentalizzazioni sulla morte di nostra figlia. Non siamo no vax".

Perché allora nessuno in famiglia si era vaccinato?

"Abbiamo perso tempo. Volevamo capire meglio, dopo le notizie contraddittorie su AstraZeneca. Poi Ariele era stata male, come accadeva ciclicamente, e avevamo posticipato per assisterla. Ma ci stavamo organizzando per vaccinarci tutti. Le altre mie figlie più grandi, del resto, hanno sempre fatto i vaccini pediatrici consigliati. Ariele non poteva a causa della sua patologia".

Il Covid però è arrivato prima. Cosa è accaduto?

"Per un anno e mezzo siamo stati barricati a casa, per salvaguardare Ariele. A giugno ci ha contattati la scuola di un'altra delle mie figlie, proponendo per lei una crociera d'istruzione nel Mediterraneo dal 30 giugno al 7 luglio. Eravamo perplessi, ma ci siamo lasciati convincere dal fatto che il governo aveva autorizzato i viaggi e riaperto tutte le attività. La compagnia di navigazione ci aveva assicurato che avrebbero fatto il tampone sia in partenza che all'arrivo. E invece allo sbarco nessuno screening è stato eseguito. Dopo due giorni dal rientro, mia figlia ha cominciato ad avere la febbre".

Cosa avete fatto?

"Abbiamo isolato Ariele in una stanza diversa e abbiamo sanificato gli ambienti, nonostante non sapessimo ancora che si trattava di Covid. Abbiamo ricevuto la chiamata dell'Usca che ci informava della presenza a bordo della nave di due contagiati. Sono venuti a fare il tampone: le mie figlie sono risultate tutte positive, io e mio marito siamo stati sempre negativi. L'11 luglio la saturazione di Ariele è crollata e abbiamo chiamato il 118. Ha resistito per sedici giorni, sedata e intubata. Ora ce l'hanno restituita dentro un sacco nero".

Cosa direbbe oggi a chi continua a rifiutare il vaccino?

"Dovete vaccinarvi per salvare i bambini e le persone fragili come Ariele che non possono farlo. Chi non si vaccina per ideologia, abbia almeno la decenza di chiudersi a casa e non mettere a rischio gli altri. Aspettare mi è costato caro. Ho già chiamato il medico di base per prenotare la prima dose. Non voglio rischiare che le mie figlie rimangano orfane. Il presidente Musumeci mi ha definita no vax, aggiungendo dolore a dolore. Sarebbe stato bello che si fosse esposto allo stesso modo quando con altre mamme lottavamo per avere un reparto di Malattie metaboliche o quando abbiamo chiesto la possibilità per Ariele e i bambini con diagnosi infausta di avere le cure compassionevoli con le cellule staminali".

Lei è finita sotto processo per la vicenda Stamina. Ci crede ancora?

"Nel 2015 Ariele è stata in Georgia per sottoporsi a cinque infusioni di cellule staminali, vietate in Italia. Poi abbiamo dovuto sospendere la terapia, perché sono stata indagata per truffa e altri reati. Mi accusano, assieme al compianto Stefano Vannoni, promotore del metodo, di avere reclutato pazienti per le cure all'estero. Ma non mi pento: l'unico beneficio che Ariele ha avuto è stata la cura con le staminali che ha ridotto le crisi epilettiche. Quando ci hanno costretti a interromperla, Ariele è peggiorata".

oltre a snellire i processi dei ricchi ci sarebbero da corregge alcuni distorsioni ed esempio quella che colpisce le madri togliendole i figli se denunciano le violenze del partner

 Un genitore che si macchia di violenza nei confronti della consorte, non e'un genitore attendibile e deve essere tenuto lontano dai figli. Non ha nulla da insegnare loro. 


Leggi anche:
 1. “Il mio ex compagno è stato condannato per violenze, ma ora vogliono togliermi mio figlio”, a TPI la denuncia di Sabrina                                        
2. “Vogliono strapparmi via mio figlio”: a TPI lo sfogo di Laura Massaro, una mamma accusata di ‘alienazione genitoriale’                                                         
3. “Ho picchiato la mia compagna per anni, ecco come ne sono uscito”

 

 da  https://www.tpi.it/cronaca/ 26 Lug. 2021 alle 17:03

                                             di Anna Ditta



“Ho denunciato il mio ex e rischio di perdere mio figlio”: la distorsione giudiziaria che colpisce le madri


In Italia ci sono casi di donne che denunciano le violenze e perdono l'affido dei figli o la potestà genitoriale: un magistrato e una psicologa spiegano come nasce questa distorsione del sistema giudiziario, tra ctu e tribunali (e quale può essere la soluzione)
“Come è possibile che nel procedimento per l’affido di mio figlio abbia maggior peso la relazione di un consulente tecnico d’ufficio, uno psicologo che ci ha incontrato al massimo per 4 o 5 volte, senza contraddittorio e senza che siano richiesti riferimenti concreti alla realtà, piuttosto che una sentenza di primo grado che condanna suo padre per le violenze che ho subito durante la gravidanza e proseguite dopo la nascita del bambino?”.
È questa la domanda che si pone Carla (il nome è di fantasia), una delle madri che rischiano di essere ritenute “alienanti” e di perdere l’affido del figlio minore o addirittura la potestà genitoriale dopo aver denunciato le violenze subite dal coniuge o dal compagno. Una distorsione del sistema giudiziario di cui si è parlato di recente, per il caso di Laura Massaro (qui la sua intervista a TPI nel 2019) colpita poche settimane fa da un provvedimento del tribunale dei Minori con cui il giudice ha disposto il prelievo forzato del figlio di 11 anni e la sua collocazione in casa famiglia per essere riavvicinato al padre, denunciato per molestie.
Sono molte le storie simili che abbiamo raccontato in questi anni, da quella di Ginevra Pantasilea Amerighi a quella di Sabrina e a quella di Giada Giunti. Ma perché il sistema che dovrebbe tutelare e aiutare le donne che denunciano finisce invece per penalizzarle? TPI lo ha chiesto al magistrato Fabio Roia, presidente della sezione autonoma delle misure di prevenzione del Tribunale di Milano, che si occupa da molti anni del tema della violenza contro le donne, e alla psicologa Elvira Reale, responsabile del Centro Daphne dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove si occupa di vittime di violenza in pronto soccorso.
“Innanzitutto c’è un problema di trasmissione degli atti tra i diversi uffici giudiziari”, spiega Roia. “La legge sul Codice Rosso ha imposto la trasmissione degli atti che riguardano la vicenda penale ai giudici civili che devono decidere in tema di affido dei minori. Il segnale normativo è molto chiaro: bisogna dare attuazione all’articolo 31 della Convenzione di Istanbul. Si tratta di una norma sovranazionale, ma che è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento per un principio di natura costituzionale”.
“Questo articolo impone al giudice chiamato a decidere sull’affidamento dei minori di tenere in considerazione la situazione pregressa di violenza posta in essere dall’uomo nei confronti della donna. Lo scopo è che l’uomo e padre violento, prima di ristabilire il rapporto col figlio, risolva il suo problema attraverso un riconoscimento e una presa di coscienza di ciò che ha fatto”, prosegue Roia. “Ma questo non avviene quasi mai, perché il primo problema degli uomini violenti è che non si rendono conto di commettere un crimine, per un discorso culturale e per l’assenza di una decisa condanna sociale”.
“Nella pratica, tuttavia, ci sono delle distorsioni del sistema, per cui molte volte i giudici civili non tengono in considerazione la situazione di violenza: la rifiutano, non la istruiscono, non l’approfondiscono o non la valutano”, spiega il magistrato, sottolineando che “molte volte entrano in gioco stereotipi per cui si pensa che se uno è stato violento con la partner non vuol dire che non sia un buon padre. Invece non è così”, chiarisce. “La convenzione di Istanbul dice proprio l’opposto: se io agisco violenza in una situazione in cui il minore assorbe o percepisce la violenza medesima, evidentemente non sono un buon padre, perché propongo al minore un modello di gestione del rapporto di relazione con la madre che è deviato, sbagliato, illecito. Questo è un problema culturale”.
“Un’altra distorsione di prassi, secondo me”, prosegue Roia, “è il fatto che i giudici molto spesso delegano la decisione sull’affido, in questi casi, a consulenti tecnici di ufficio (Ctu), che magari aderiscono a determinate scuole di pensiero, come la Pas (Parental Alienation Syndrome o “sindrome da alienazione parentale”, ndr) che ormai è stata rifiutata dalla comunità scientifica. Se la decisione del giudice viene affidata a un ctu che aderisce a questa scuola di pensiero, si verificherà che una donna che ha subito violenza – e che magari vive uno scompenso emotivo, è in situazione di fragilità o di sofferenza, o presenta traumi – viene considerata non idonea per la protezione del minore, o comunque le si impone, in nome di un principio di bigenitorialità di attivarsi per far sì che il minore incontri il padre”.
“Questa situazione”, aggiunge il giudice, “determina una forma di violenza secondaria sulla donna. Lei sicuramente non si sente serena a favorire questi incontri, e questo anche perché spesso il minore non vuole vedere il padre violento. Allora c’è questo ribaltamento per cui si dice: il minore rifiuta gli incontri col padre perché la madre agisce su di lui una sorta di lavaggio del cervello. Diventa una ‘madre manipolatoria‘ che utilizza il minore per interrompere il rapporto con il padre violento. Se le norme fossero applicate correttamente, invece, non arriveremmo mai a queste conclusioni aberranti“.
Come dovrebbe operare invece il giudice, per non commettere questi errori? “Il giudice civile dovrebbe fare un’attività istruttoria per accertare – ad esempio a mezzo testimoni, o sentendo il minore – se c’è stata una situazione di violenza”, risponde Roia. “Se questa c’è stata e lui la accerta, deve decidere a quale genitore attribuirla – e generalmente è il padre – e avviare il genitore a un percorso di riconoscimento della violenza e programmare la ripresa dei rapporti tra genitore e figlio solo quando il padre ha riconosciuto il problema e magari l’ha superato. E questo a prescindere da un’eventuale condanna dell’uomo in sede penale”.
Ma se il Ctu dice che la madre ha la pseudo-sindrome di ‘alienazione genitoriale’, chiediamo a Roja, il giudice può comunque decidere diversamente? “Assolutamente, deve farlo“, è la risposta. “Il consulente è un ausiliario del giudice, come l’assistente sociale che fa delle indagini socio-familiari sulla famiglia, ma il giudice può discostarsi: si deve riappropriare del potere-dovere di decidere. È sempre il giudice che deve decidere o meno l’idoneità dei singoli consulenti, che vengono scelti da un albo. Se un ctu non fa bene il suo lavoro, non lo si deve nominare più”.
Per evitare che queste distorsioni del sistema continuino a ripetersi, secondo il magistrato, bisogna “puntare sulla formazione“. “Le leggi oggi ci sono, bisogna applicarle bene e fare uno sforzo culturale e di formazione”. Roia spiega che il Consiglio superiore della magistratura (Csm) “sta già facendo molto bene perché continua a mandare risoluzioni di indirizzo. Se i capi degli uffici, e in particolar modo i presidenti dei tribunali, fossero più sensibili a queste tematiche sul piano organizzativo e del controllo, credo che risolveremmo a breve tutti i problemi”.
IL RUOLO DEL CONSULENTE TECNICO
La psicologa Elvira Reale è responsabile del Centro Daphne dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove si occupa di vittime di violenza in pronto soccorso. Inoltre, è autrice con altre psicologhe del “Protocollo Napoli“, col quale cinque professioniste impegnate da anni nel lavoro di prevenzione/contrasto alla violenza sulle donne, hanno individuato una serie di criteri per la Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari di separazione/divorzio.
“Quello della Ctu è un problema complesso, perché oggi abbiamo una scuola di psicologia giuridica e forense che ha sposato in pieno il criterio dell’alienazione parentale come costrutto che penalizza soprattutto le donne”, sottolinea l’esperta. “Le donne, in quanto più frequentemente in una prima fase dei procedimenti di affido genitori collocatari dei minori, secondo questa teoria, impedirebbero l’accesso del bambino al padre. Questa sorta di ostruzionismo viene qualificato come alienazione, indipendentemente dai motivi per cui una donna è ‘resistente’ al principio definito appunto da questi psicologici come criterio dell’accesso”.
“Ciò non è altro se non la trasposizione del principio della bigenitorialità”, prosegue Reale, “che prevede che un bambino mantenga relazioni con ambedue i genitori dopo la separazione. Si tratta di un principio sancito dalla legge 54 del 2006 e successive, ma non è valido nel caso in cui la bigenitorialità comporti dei pregiudizi per il minore (ex art. 155bis del codice civile). Uno dei pregiudizi fondamentali è la violenza contro le donne, che per il minore si traduce sempre in maltrattamento assistito, il che comporta danni alla salute di un bambino equivalenti agli esiti di un maltrattamento diretto, secondo anche quanto affermato dalla letteratura e dagli organismi internazionali”.
“Per questo, tutte le volte che ci sono evidenze o allegazioni di violenza, bisognerebbe presumere che il principio della bigenitorialità non valga, perché sarebbe un danno per il bambino”, spiega la psicologa. “Invece su questo c’è da un lato una grande ignoranza dei consulenti e anche dei giudici; dall’altra parte, nella peggiore delle ipotesi, si utilizza dolosamente questa teoria. Ormai, infatti, data la grande diffusione dell’argomento, non c’è secondo me solo la scarsa conoscenza, ma anche una mancata volontà di riconoscere questi temi, mantenendo un’interpretazione che vuole tenere separati la violenza sulle donne e l’affido dei minori“.
“Penso che gli psicologi siano sicuramente formati e informati sul tema, ma che parteggino per una teoria che non riconosca/neghi la violenza sulle donne, considerando come più importante per lo sviluppo del minore la presenza di un padre anche se maltrattante la madre. In questi casi, il danno maggiore per lo sviluppo di un minore è considerato l’assenza del padre, ritenuto persino peggiore del maltrattamento assistito. Questo”, aggiunge Reale, “fa parte del pregiudizio secondo il quale la donna ha un minor valore nel sociale. Ha più valore un padre. Ma queste ipotesi teoriche sulla supremazia paterna nello sviluppo di un bambino non sono suffragate dalla scienza e vorrei dire inoltre, che se si dovesse giungere ad una teoria suprematista, la donna ha certamente oggi maggiori atout da giocarsi come perno dello sviluppo di un bambino, come curante ed anche come genitore protettivo, visto che il fenomeno della violenza in famiglia ha al 90 per cento circa gli uomini come autori”.
Elvira Reale ricorda che le donne che subiscono violenza “sono più del 30 per cento della popolazione femminile nelle relazioni di coppia (dato Oms): quindi è un’epidemia vera e propria”. Questo, sottolinea, “deve avere risvolti notevoli anche sul tema dell’affido, tenendo presente l’articolo 31 della convenzione di Istanbul, che indica che le donne vanno protette insieme ai loro figli minori. Al contrario, noi abbiamo separazioni giudiziali che sono residue rispetto a quelle consensuali, l’Istat alcuni anni fa parlava del 14 per cento. L’affido esclusivo alle donne avviene poi nell’8 per cento dei casi: è chiaro che il dato non corrisponde all’epidemia della violenza contro le donne ed i bambini (vittime di maltrattamento assistito). Gli psicologi forensi non guardano nella direzione della violenza domestica e del maltrattamento assistito e la conseguenza è la distorsione delle decisioni giudiziarie sull’affido quando i giudici si allineano alle loro valutazioni tecniche (Ctu) incompetenti sul tema o addirittura negatorie del tema violenza”.
Ma quale può essere la soluzione? “Attualmente ci sono delle liste di psicologi ferme alla specializzazione forense, si dovrebbe invece pensare a degli specialisti sul tema della violenza domestica, con un curriculum adeguato, comprovante soprattutto l’esperienza sul campo e l’adesione alla convenzione di Istanbul”, spiega Reale. “A Napoli, col Protocollo Napoli, abbiamo cercato di stabilire i criteri con cui si devono affrontare ctu e ctp: cosa fare e cosa non fare, quando vi sono allegazioni di violenza”.
Un altro suggerimento è quello che riguarda i “bollini rosa” ai Tribunali. Reale spiega di cosa si tratta: “Sulla violenza contro le donne ci sono una serie di percorsi dedicati, ad esempio quello negli ospedali (codice rosa), e lo stesso percorso teorico-pratico di protocollo Napoli, il codice rosso nelle procure ha questo stesso intendimento. L’idea allora sarebbe quella di attribuire un ‘bollino rosa’, una sorta di marchio di qualità/competenza anche ai tribunali che praticano e riconoscono la convenzione di Istanbul e stabiliscono, come sta avvenendo per esempio a Terni col giudice Velletti, dei percorsi dedicati nei casi in cui emergono allegazioni varie di violenza, con un percorso personalizzato, specializzato che focalizza il problema della violenza contro le donne, da cui far derivare a cascata i vari atti e provvedimenti”.
In questo momento, racconta Reale, “l’Ordine degli psicologi non si sta attivando in prima persona sul tema”, anche se talvolta accoglie le iniziative di gruppi di psicologi. “A Napoli, per esempio, l’Ordine ha recepito il protocollo Napoli, ma poi cerca di non contrastare la psicologia forense, che è molto diffusa ed è composta da personaggi che hanno delle scuole private fiorenti, e dunque molteplici interessi economici in questo ambito”.
“Sinceramente per una ipotesi di cambiamento culturale ho più fiducia nel cambio della magistratura, piuttosto che nel cambiamento degli psicologi”, dice Reale. “I magistrati, per loro formazione, dovrebbero avere l’idea di non operare discriminazioni e disparità e dovrebbero essere più sensibili al rispetto di leggi e convenzioni. Quindi forse, se adeguatamente formati o richiamati al rispetto delle convenzioni internazionali, potrebbero operare un cambio di passo e smarcarsi dall’abbraccio mortale di questa psicologia forense”.
“Per quanto riguarda gli psicologi, quando si sono formate scuole che propugnano determinati costrutti, è più difficile ottenere da loro un cambiamento spontaneo o attraverso una formazione alternativa”, aggiunge. “Questo cambiamento in psicologia riguarderebbe non solo il superamento della pseudo-diagnostica dell’alienazione, ma anche il trattamento dei bambini. Il prelievo forzoso del minora, l’allontanamento dalla madre, l’assegnazione in struttura, l’esclusione degli incontri con la madre: sono tutti trattamenti sanitari occulti proposti da psicologi e in qualche modo avallati dall’autorità giudiziaria. Viene anche operato a valle del prelievo coercitivo un trattamento sotterraneo di condizionamento e ricondizionamento“.
“Ciò non è altro chela riproposizione del trattamento propugnato di Gardner, autore della Pas”, spiega la psicologa. “Anche se non si parla di alienazione genitoriale, se un bambino rifiuta il padre, magari solo perché è autoritario o ne ha paura, a quel punto si agisce comunque in maniera coercitiva sui bambini, in maniera traumatica, e questo è contrario a qualsiasi deontologia. Lo psicologo è un operatore sanitario, e il primo requisito di un trattamento sanitario deve essere Primum non nocere, ‘innanzitutto non nuocere’. Imporre un trauma a un bambino per poi fargli avere un presunto futuro beneficio, che deriva dall’essere riconciliato al padre tramite l’allontanamento dalla madre, è sbagliato, ascientifico e illegittimo“.
Per Reale, agire in questo modo “significa operare una sostituzione di genitore, come se il padre potesse garantire meglio lo sviluppo di un minore, rispetto alla madre, e ignorare i desideri del minore, quanto lui chiede o chiederebbe se fosse ascoltato dal giudice, come sarebbe suo diritto, ma cosa che raramente accade”.
“Se venisse propriamente definito come trattamento sanitario (quale esso è nei fatti) ciò sarebbe illegale”, prosegue Reale, “perché questi trattamenti coercitivi sono possibili solo in alcuni casi, disciplinati dalla legge 833 del 78. Al difuori da tale legge, i bambini possono essere prelevati in questo modo solo nei casi di emergenza e urgenza, quando sono in pericolo (art. 403 codice civile). Non è questo il caso quando si parla impropriamente di violazione della bigenitorialità e di ostacolo della madre all’accesso al padre. Qui si tratta di bambini integrati, che vanno a scuola, ben curati ed amati, non certo in pericolo. Solo che non vogliono vedere i padri, e questo non è un reato. Infatti gli psicologi, arrampicandosi sugli specchi, parlano di rischio evolutivo futuro”.
“Quindi la pratica del prelievo in questi casi è illegale da tanti punti di vista, sanitario e giudiziario”, sottolinea l’esperta. “Poi se questo riguarda le donne che denunciano violenza questo equivale ad avvertirle che non devono denunciare. Le donne nei casi di violenza sicuramente non hanno un buon rapporto col padre dei loro figli, tant’è che lo denunciano, e allora perché sono colpevolizzate per questo?”, si chiede. “Viene attribuita loro la responsabilità del fatto che il bambino non vuole vedere il padre, quando quel bambino ha assistito a scene di violenza ed ha paura del padre. Sarebbe tutelante allontanarlo da quel padre, fin quando questi non riconoscesse il danno e si sfilasse dalla guerra intrapresa contro la ex-partner per sottrarre il figlio alla sua tutela”.
“Questo andamento che vuole che le donne che subiscono violenza siano penalizzate nell’ambito dei procedimenti civili per l’affido (la c.d. vittimizzazione secondaria) dissuade le donne dalla denuncia, cosa che invece dovremmo incoraggiare, per evitare i femminicidi e le violenze gravi”, sostiene Reale. “L’80 per cento circa delle donne vittime di violenza che assistiamo in pronto soccorso al Cardarelli sono madri con figli minori, quindi sono estremamente sensibili al tema dell’affido. Se a queste donne non si garantisce l’affido dei minori noi le perdiamo, diventano invisibili. Non solo la violenza resta invisibile, ma le donne si invisibilizzano, smettono di chiedere aiuto, se non garantiamo loro un processo civile giusto per l’affido”.
“Tutto quello che sta succedendo”, ribadisce, “allontana le donne dalla denuncia e le mette in clandestinità, ma anche in pericolo insieme ai loro figli. Così si fa veramente un danno alla società. Ricordiamoci sempre, sull’importanza del contrasto alla violenza contro le donne, quanto ha affermato la banca mondiale nel 2015: per sconfiggere la povertà nel mondo bisogna sconfiggere la violenza contro le donne. Non combatterla sarebbe un danno incalcolabile per l’umanità”.



27.7.21

Morta di Covid bambina undicenne, era affetta da una malattia metabolica rara. Nessun vaccinato in famiglia

 Lo so   che  come   me   ne  avete    .....   di  vax  e  no  vax , green pass    e  non grenne pass   .  Ma a rompere   il mio tentativo  di non parlare    di questo argoento  e  d'ignorare   i variu  dibattiti  o  pseudo tali     che  ccircolano    in rete   è  l'apprendere  poco fa via radio della morte per covid dellla bimba di 11 anni ricoverata a Palermo: era affetta da malattia rara .  La  bambina   era stata ricoverata per Covid nelle scorse settimane. La piccola era risultata positiva alla variante Delta, poi era stata intubata a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni.   Non riuscendo   a  profferire  parole     come  è  avvenuto , chi  mi segue  su fb  lo sa ,   degli incendi   siccessi  in Sardegna  (  lontano da dove  abito  ed resiedo  ,  ma    nella  zona    dei miei  avi da parte  materna  )  la lascio che    a parlarne     sia   le   fonti   che  ho trovato    in   rete  .

 
N.b     

onde  evitare  ed  prevenire   accuse    ed  commenti   \  attacchi personali  del tipo     riporti   solo fonti comuniste     o   maiustream  o  menate   varie , riporto   diverse  testate  a    voi decidere   se  riempirmi di   💩🤮🗑☠🤬📞🔊👿 .

Il primo articolo    proviene  da   da   https://palermo.repubblica.it/cronaca/  27\7\2021





Morta di Covid bambina undicenne, era affetta da una malattia metabolica rara. Nessun vaccinato in famiglia.  
La piccola era stata contagiata dalla sorella di ritorno da un viaggio in Spagna

                     di Giusi Spica




E' morta la bambina di 11 anni ricoverata all'ospedale Di Cristina di Palermo che si trovava intubata dopo aver contratto la variante Delta del coronavirus. Alle 13 il cuore della piccola, affetta da una malattia metabolica rara, ha smesso di battere. Sta meglio invece il neonato di due mesi, anche lui positivo, ricoverato in Terapia intensiva neonatale all'ospedale Cervello.La bambina era stata contagiata dalla sorella maggiore di ritorno da un viaggio in Spagna. Tutti i componenti della famiglia non sono
vaccinati e sono risultati positivi al virus. "Sono no-vax", aveva dichiarato il presidente della Regione Nello Musumeci, sottolineando l'importanza delle vaccinazioni per prevenire le forme gravi della malattia."I bambini e i soggetti fragili saranno protetti solo quando si svilupperà l'immunità di comunità - aveva già dichiarato Desiree Farinella, referente sanitario dell'ospedale "Di Cristina"-  Ricordiamo che si possono vaccinare tutti i bambini dai 12 anni in su, sia presso la nostra struttura dedicata ai bambini che presso i centri vaccinali. In caso di soggetti fragili che non possono vaccinarsi è necessario che i nuclei familiari siano immunizzati a loro protezione".


il secondo    da  https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/

27 LUGLIO 2021 17:16
Covid, bimba di 11 anni con variante Delta morta in ospedale a Palermo | Infettata dalla sorella, tutta la famiglia è no-vax
Il presidente della Regione Musumeci: "E' fondamentale vaccinarsi". La ragazza era tornata da una vacanza in Spagna



Una bambina di 11 anni è morta all'ospedale Giovanni Di Cristina di Palermo dopo aver contratto la variante Delta del coronavirus. La piccola, che era affetta da una malattia metabolica rara, era ricoverata da diversi giorni nel reparto di terapia intensiva. Migliorano invece le condizioni di salute di un bimbo di due mesi, anche lui positivo al Covid, ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Cervello.
Il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci aveva parlato nei giorni scorsi dei due casi. Soprattutto di quello legato alla bimba poi deceduta: "E' stata infettata dalla sorella che era stata in Spagna, nessuno in famiglia era vaccinato perché no-vax". La 11enne era da circa dieci anni in cura presso il reparto pediatria del Giovanni Di Cristina proprio per la sua patologia. Due settimane fa il ricovero per le condizioni gravi di salute che erano repentinamente peggiorate dopo aver contratto il Covid-19.

26.7.21

ALPINISMO: La pioniera dell’arrampicata che sostiene i diritti delle donne in Iran. Nasim Eshqi: “Tolgo il velo e arrampico con grinta” L’unica climber iraniana professionista racconta la sua impresa in un Paese che discrimina il mondo femminile

   


Sesto Pusteria, 7 luglio 2021 – Nasim Eshqi è l’ospite d’onore della quinta edizione della Vertical Arena a Sesto Pusteria. Il rinomato forum specialistico sull’alpinismo, organizzato dall’Associazione turistica di Sesto Pusteria e dalla guida alpina Lisi Steurer, si svolgerà sabato 24 luglio a partire dalle ore 20. Dopo la proiezione del documentario “Climbing Iran”, che racconta la vita piena di ostacoli di Nasim Eshqi, l’unica climber professionista iraniana prenderà parte a una tavola rotonda sul tema “pioniere in montagna”I


In Europa e in molte altre parti del mondo è assolutamente naturale che delle giovani donne si aggrappino a una parete roccia e, con movimenti energici e allo stesso tempo eleganti, salgano verso l’alto, arrampicandosi per metri e metri. In Iran, però, le lancette degli orologi girano a un altro ritmo, anche nel XXI secolo. Lo sport femminile, quindi anche l’arrampicata, è malvisto nella società patriarcale. E quando possono, nella Repubblica Islamica – che conta più di 80 milioni di abitanti – a volte le atlete sono autorizzate a praticarlo, ma soltanto indossando rigorosamente il velo.Nasim Eshqi vive il suo sogno. Oltrepassa questi ostacoli. Nasim Eshqi compie un altro passo in avanti e stimola altre giovani donne in Iran ad arrampicare, per diventare forti e indipendenti, perché: “fa lo stesso se sei ricco o povero, nero o bianco, iraniano o italiano, uomo o donna: la forza di gravità riporta tutti per terra allo stesso modo e questo mi dà una sensazione di libertà e di uguaglianza”, è il credo di Nasim Eshqi.Un documentario premiatoLa vita di questa straordinaria persona è al centro dei 53 minuti del documentario “Climbing Iran” della regista Francesca Borghetti, che ha di recente vinto il premio del pubblico al Trento Film Festival. Questo ritratto di Nasim Eshqi sarà anche al centro della quinta Vertical Arena di sabato 24 luglio a Sesto e sarà proiettato alle ore 20. Al termine della proiezione la protagonista parteciperà a una tavola rotonda sul tema “pioniere in montagna”.Quest’anno la Vertical Arena si svolgerà in inglese (il documentario sarà sottotitolato in italiano) e si svolgerà all’aperto, davanti alla palestra d’arrampicata di Sesto. In caso di maltempo la manifestazione si sposterà nella Haus Sexten. I biglietti per il forum specialistico sono disponibili, al prezzo di 10 euro, fino a venerdì 23 luglio presso l’Associazione turistica di Sesto Pusteria (+39 0474 710310 o info@sexten.it). L’iscrizione è obbligatoria e l’accesso sarà consentito soltanto dietro esibizione del Green Pass (presso l’Associazione turistica è possibile informarsi a tal proposito).

Durante una serata del Trento Film Festival,  “Climbing in Iran e libertà. Come la gravità porti all’uguaglianza”, abbiamo potuto conoscere NASIM ESHQI, l’unica climber professionista


iraniana che pratica l’arrampicata all’aperto, un’alpinista capace di aprire vie su roccia con all’attivo già una settantina di ascese.Una pioniera dell’arrampicata sportiva outdoor. Le montagne da scalare però, come sapete, in Iran non sono solo fisiche ma anche barriere sociali culturali e religiose. Nasim, è l’unica donna in Iran a fare dell’arrampicata all’aperto la sua professione: su 80 milioni di abitanti sono solo 300 le donne che praticano l’arrampicata in palestra con orari separati dagli uomini e solo una decine quelle che lo praticano outdoor, ma nessuna è al livello di Nasim.
Nasim ha 36 anni, è cresciuta e nata a Teheran la capitale dell’Iran in un contesto popolare e tradizionalista. Ex atleta di kickboxing, scala da 13 anni, ha all’attivo diverse vie in Armenia, Georgia, Turchia ed è riuscita a raggiungere il livello di scalata 8b in parete.Facendo un passo indietro, già da piccolissima Nasim era una bambina ribelle, iperattiva, maestre e genitori non sapevano più come  fare a contenerla. Lei soffriva perchè la fecevano sentire una bambina “anormale”.  Crescendo non pensava certo al matrimonio, ma a praticare sport, prima il kickboxing, poi è stato amore a prima vosta con l’arrampicata. Uno sport che ha dovuto imparare praticamente da autodidatta, visto che in Iran è proibito per una donna scalare con un uomo, soprattutto se questo  è molto religioso o sposato.Una passione “folle” dicevamo per l’arrampicata. Ha rinunciato, infatti, a tutto: ha lasciato il lavoro, ha iniziato a studiare Scienze Motorie e ha cominciato a viaggiare per migliorarsi. Nessuno ha fatto tutto questo in Iran.La gravità per lei è una “sorta di divinità imparziale”, perchè non fa differenza tra uomini e donne. “Quando arrivi ai piedi di una parete, nessuno ti chiede il passaporto. Davanti alla montagna siamo tutti uguali”.

Nasim Eshqi ospite del Trento Film Festival

Per lei, dicevamo, perseguire questa sua passione in Iran, è pericoloso. Deve sempre stare attenta a quello che dice e alle interviste che rilascia. La società, infatti, la vorrebbe sposata, sempre con il capo coperto e un lavoro normale. I suoi genitori sperano che metta la testa a posto e metta da parte soldi per comprarsi una casa e un’auto.Ma lei va avanti per la sua strada, e lo fa in modo originale. Quando scala, infatti, mette lo smalto rosa shocking, anche se sa benissimo che arrampicando verrà via. “Se alla sera vedo che è rimasto poco smalto, sono contenta: vuol dire che ci ho dato dentro con l’arrampicata” scherza Nasim.Ha tanti sogni nel casetto, oltre che aprire una nuova via a cui dare il proprio nome sul monte Behistum, un enorme promontorio che si erge nel deserto, oggi patrimonio dell’Unesco, poco fuori Teheran, vorrebbe andare in Yosemite, anche se per il momento questo pare un obiettivo lontano.In Iran, in generale,  fare sport è difficile, è considerata una perdita di tempo. In Iran, nonostante il talento, nessuno ti prende sul serio. Soprattutto se sei una donna.La condizioni della donna è cambiata dopo la Rivoluzione islamica del 1979. Ci sono foto che ritraggono atlete negli anni Settanta indossare uniformi simili a quelle Occidentali e con il capo scoperto. Mentre alle Olimpiadi di Rio del 2016, le atlete iraniane avevano testa, braccia e gambe coperte con tessuti tecnici. È proprio notizia di pochi giorni fa, che 5 donne sono state costrette a travestirsi da uomini per poter andare allo stadio eludendo la sicurezza. È quindi per questo che parte del tempo Nasim lo dedichi ad insegnare alle bambine: vuole che diventino scalatrici indipendenti.


da  repubblica   del 25\7\2021




A chiederle cosa si senta, se un’eroina, un simbolo o che altro, Nasim Eshqi sorride: «Eroina suona come una droga, decisamente no. Simbolo non so di che cosa. Diciamo che sono una persona che ha aperto molte vie su roccia, ma non solo su roccia, mi piace aprire diversi modi di pensare». Doverosa precisazione, perché Nasim è una climber, in italiano si potrebbe tradurre arrampicatrice, ma la parola ha uno spiacevole retrogusto di opportunismo e rampantismo. Lei invece si arrampica sulle montagne, scala pareti anche verticali con chiodi, corda e trapano, arriva in cima e scavalca là dove sembrava impossibile. Ed è la più brava che c’è in Iran, anche perché nel suo Paese le alpiniste sono poche, anzi in generale sono pochi gli alpinisti. Tante di queste vie le ha aperte altrove, anche in Europa e in Italia. «Il mio meraviglioso Iran è pieno di montagne, sarebbe un paradiso per la gente come me, ma un paio di scarpe da arrampicata costano come un mese di stipendio, la gente se va in montagna preferisce fare passeggiate e godersi il paesaggio. Bellissimo, ma ci si perde parecchio se non si sale in quota».


Sulle corde
 Nasim Eshqi, 39 anni, durante una scalata.
In Iran sono pochissime le donne impegnate in questa
 disciplina

Lei non si è voluta perdere niente, e da 23 anni dei 39 che ha ora ha seguito le proprie passioni fino a farne un lavoro. Prima il kickboxing, di cui da ragazzina è stata per anni campionessa nazionale: «Questo sport mi ha dato una preparazione mentale importante, la determinazione ad andare avanti senza mollare fino alla fine anche quando tutto sembra perduto. Ma alla fine ho cambiato perché ho capito che il kickboxing è solamente una sfida con un’altra persona, l’arrampicata è una sfida con te stessa, contro i tuoi limiti, qualcosa di molto più difficile e appagante». E poi appunto le montagne, raggiungendo risultati così importanti, sia in assoluto sia per il fatto di essere donna, da meritarsi l’attenzione di Francesca Borghetti, regista italiana, che su di lei ha realizzato il documentario Climbing Iran prodotto da Nanof, premiato al Festival di Trento, stasera in onda a Speciale TG1 sulla Rai e a settembre finalmente in giro nelle sale. «Me l’avevano proposto altri, ma volevano solo fare soldi, mostrare il fenomeno, Francesca ha voluto mostrare la persona». E quando, giovedì, le due l’hanno visto per la prima volta assieme in un cinema, a Sondrio, invitate dalla Fondazione Bombardieri del Cai, hanno chiuso con la pelle d’oca: «Abbiamo ripensato anche alle difficoltà, ci sono voluti quattro anni». Anche per motivi che spiegano molto. I soldi sono stati raccorti col crowdfunding, ma quando la piattaforma — americana — ha visto la parola Iran nel titolo ha bloccato tutto, «e abbiamo dovuto ricominciare da capo». E poi certo, il fatto di essere donna che segue i propri sogni in Iran non è facile: «Certamente ci sono difficoltà sul mio percorso, limitazioni da parte della società e della cultura dominante che riguardano le donne. In città rispetto le regole, ma in montagna dobbiamo ascoltare la natura per vestirci nella maniera corretta».


D’altronde lei stessa, checché ne dica, sa di essere anche un esempio: ora è insegnante e ha pure allieve a cui prova a inculcare la voglia di dare il massimo, superare le paure e le convenzioni. «Ma soprattutto la libertà fisica e mentale. Quando scalo una roccia, mi sento bene, mi diverto, respiro profondamente, assaporo il contatto con la natura. Arrampicare apre la mente E quando poi giro l’Europa e il mondo — assai poco, nel periodo, e non solamente per il Covid: pensi che stavolta l’Italia mi ha dato un visto solamente di 120 ore — i timori sull’Iran svaniscono. Anzi, alla fine tutti sono interessati a conoscere meglio il mio Paese. Tra l’altro, se ha notato, si parla di "catene" montuose. Le vette sono legate tra loro, la natura non conosce confini. Esattamente come dovrebbe essere tra gli uomini. E le donne, ovviamente. Perché poi sa quali sono le lezioni più importanti dell’alpinismo, in fondo? Sono due. Primo, devi superare i tuoi stessi limiti, osare, prenderti qualche rischio, che fa parte dell’avventura, ma senza azzardi sciocchi perché la vita è solamente una. Secondo, che tu sia italiano, inglese, iraniano o tedesco la forza di gravità ci schiaccia tutti a terra nello stesso modo».
E ride felice, coprendosi poi la bocca con le mani dove spicca lo smalto rosa: «Oh certo, lo uso ogni giorno, mattina e sera, anche prima e dopo aver scalato una parete. Ma sono una donna, no?».
Ha toccato cime difficili e ha aperto nuove vie anche in Europa
Una regista italiana racconta la sua storia in un documentario "Rispetto l’Islam è la mia religione ma sulla roccia devi ascoltare la natura"
Facevo kickboxing ma è una sfida con un’altra persona, l’arrampicata è una sfida contro te stessa



La storia Samantha come Eluana “Il letto è la sua prigione Lasciatela andare via”

 


da  reubblica   del 26\7\2021

FELTRE — «Per nostra figlia vogliamo soltanto la pace. La sua vita non è più vita, è pura sofferenza. Samantha non avrebbe mai voluto un’esistenza così, in un letto di ospedale, senza più coscienza, alimentata con una sonda, tormentata dai dolori. Ha trent’anni e nessuna speranza di miglioramento. La nostra bambina non c’è più, lasciatela andare via». Giorgio D’Incà e Genzianella Dal Zot si tengono per mano. Trentasette anni di matrimonio, tre figli, un amore palpabile che non ha più bisogno di

 I genitori Giorgio D’Incà e Genzianella Dal Zot

parole. E una battaglia, enorme, che mai avrebbero pensato di dover combattere: ottenere che Samantha possa morire, interrompendo la nutrizione e l’idratazione. Come fu per Eluana Englaro. Ricostruendo le sue volontà. Ad oggi, finora, lo Stato ha risposto: “No”.Genzianella piange, parla e piange. «Quel giorno, era il 12 novembre del 2020, Samantha era uscita di corsa per andare al lavoro, era impiegata in una fabbrica di occhiali. È caduta qui davanti, nel vialetto. La fine è cominciata così», racconta Genzianella, accarezzando un foto in cui Samantha sorride insieme ai due fratelli. La vita di Samantha, detta Samy, oggi ridotta a uno stadio neonatale in un letto dell’ospedale di Vipiteno, cambia per sempre quella mattina, tra i fiori di questa villetta alle porte di Feltre, con il prato curatissimo e i nani nel giardino, orgoglio di una

esistenza di sacrifici, Giorgio fa il carrozziere, Genzianella lavora in una ditta di pulizie.«Sono stato io ad accompagnarla in ospedale, a Feltre. Cadendo si era rotta un femore. Il 12 novembre è entrata, il 13 è stata operata, dopo pochi giorni l’abbiamo riportata a casa ». Non è però l’inizio di una guarigione bensì l’inizio di un precipizio. Invece di recuperare, nonostante la fisioterapia, le gambe di Samantha iniziano a gonfiarsi. Al pronto soccorso, le dicono, semplicemente, di “tenere le gambe in alto”, ricorda Giorgio. Invece qualcosa di gravissimo è già accaduto a Samantha, quel “qualcosa” per cui Giorgio e Genzianella chiederanno giustizia. «Sarà il secondo obiettivo, adesso dobbiamo liberare nostra figlia dalla prigione in cui è costretta».Il 2 dicembre 2020 Samantha, che ormai ha molte parti del corpo sempre più gonfie, viene ricoverata con un’ambulanza all’ospedale di Feltre. Le riscontrano una polmonite bilaterale “non da Covid”. Giorgio scandisce lentamente le parole, trattiene la commozione, ma le lacrime scendono giù sui baffi folti di un uomo semplice che ormai conosce bioetica e sentenze della Consulta.«Il quattro dicembre alle 6,30 del mattino ci chiamano: stiamo portando Samantha a Treviso, i suoi polmoni sono collassati». I medici la salvano, ma la figlia che Giorgio e Graziella si ritrovano davanti è un corpo inerte, non parla più, non si regge più, non li sente più, non li vede più. «Il suo cervello per troppo tempo non aveva ricevuto ossigeno. La nostra Samy era entrata in ospedale per una frattura, ne è uscita come un vegetale. Intorno alla nostra famiglia è sceso il
buio».
Cosa è successo? Dove è successo? Chi ha sbagliato? «Hanno isolato un batterio che forse, dicono, potrebbe essere stato la causa della tragedia ». Chissà. Giorgio è cauto. Ma le sue parole sono acciaio fuso. «Dovrà sapere il mondo intero quello che ti hanno fatto figlia mia — dice — qualcuno pagherà».Genzianella sale al primo piano e mostra la cameretta di Samantha, l’unica dei tre figli che era ancora casa con loro. «L’azzurro era il suo colore preferito, adorava il mare, la musica e fare amicizia. 
Progettava di andare a vivere da sola. Era aperta, socievole, aiutava chiunque avesse un problema. Ogni cosa è rimasta come il giorno in cui l’hanno ricoverata, la borsa appesa alla sedia, il suo cellulare, mio marito gli fa la ricarica, è strano, sì, ma è un modo per sentirla vicina, ogni settimana invece io cambio le lenzuola anche se so che non tornerà». Sul letto un orso, i disegni per “zia Samantha” che le hanno dedicato i figli della sorella, due navi in bottiglia, per la sua passione del mare.  
È all’inizio del 2021, dopo un tristissimo Natale, che inizia la battaglia di Giorgio e Genzianella per “dare dignità a Samantha”. Perché c’è un punto nodale in questa storia che si intreccia pur con alcune differenze, con la battaglia per il fine vita e l’eutanasia legale. Oggi per Samantha, che respira da sola ma è nutrita con una “Peg”, ossia un sonda gastrostomica, sarebbe possibile smettere di soffrire se i medici interrompessero la nutrizione e l’idratazione, accompagnandola con una sedazione profonda. Lo prevede la legge 219 del 2017, ottenuta grazie alla durissima e tragica battaglia di Beppino Englaro padre di Eluana.Samantha però non ha lasciato scritto nulla, sono pochissimi finora gli italiani che hanno depositato un biotestamento. E forse anche perché a trent’anni chi ci pensa a una tragedia così grande? Questo è il punto di contatto con Eluana: Giorgio e Graziella D’Incà chiedono che sulla base di quello che era il pensiero di Samantha sul fine vita, Samy venga lasciata morire.Giorgio: «Spero che non ci vogliano diciassette anni di calvario come fu per Beppino. Samantha aveva seguito la vicenda di Eluana anche se era molto giovane, così come la storia di Dj Fabo. Ammirava la forza della madre e della fidanzata. Ci ha sempre detto di non voler dipendere da nessuno. È quello che ho fatto presente al comitato etico dell’ospedale quando mi hanno detto che volevano mettere la Peg a Samantha. Perché prolungare le sue sofferenze?».Giorgio e Genzianella, insieme agli altri due figli provano ad opporsi. Il tribunale però nomina un amministratore di sostegno (rifiutando di incaricare il papà di Samantha, perché “troppo coinvolto”) che firma e la sonda viene applicata nello stomaco di Samantha. Il tribunale infatti ha deciso che prima di prendere una decisione definitiva per Samantha debba tentarsi una riabilitazione in un reparto specializzato all’ospedale di Vipiteno.«Purtroppo noi abbiamo una perizia firmata dal prof Leopold Saltuari di Innsbruck, lo stesso che ha curato Schumacher e Zanardi, secondo il quale il massimo a cui Samy potrebbe arrivare, se mai la riabilitazione funzionasse, è la coscienza di un neonato di due mesi».Giorgio e Genzianella si abbracciano. «Nemmeno questo sta succedendo. Nessun progresso. Nostra figlia soffre ogni giorno di più. I medici, i giudici devono ascoltarci». Genzianella: «A volte mi sembra di picchiare la testa contro muri di cemento. Bum bum, nulla accade. Perà ho promesso a Samantha: il giorno in cui andrai via, il mio cuore si spezzerà, ma tu sarai libera».





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