Cinque anni di allenamenti, la gara negata dalla positività, come è successo al canottiere Bruno Rosetti, si finisce a Koto city. E gli atleti protestano per le pessime condizioni in cui sono costretti durante l'isolamento
TOKYO - Una macchia arancione appare dietro l'unica finestra semi-aperta. A occhio, è uno del team olandese. Il ragazzo si sporge per respirare la brezza di Tokyo, e non si può dire che sia una boccata di aria fresca: già a metà mattina in città si superano i 33 gradi. La finestra è al terzo di dodici piani di cemento, vetro e piastrelle. Un parallelepipedo rovente e sigillato che affaccia sul canale del Sumida, uno dei tre fiumi che sfociano nella baia. Sulla facciata, in alto, l'insegna recita: "Day Nice Hotel". Siamo a Koto City, a venti minuti di macchina dal Villaggio Olimpico. Qui vengono rinchiusi gli atleti trovati positivi al tampone, come il canottiere italiano Bruno Rosetti. Soggiorno gratis e forzato al Covid hotel. Su ordine delle autorità sanitarie giapponesi, devono rimanere in quarantena una decina di giorni, anche di più se non si negativizzano. Sono arrivati fino a Tokyo dopo cinque anni di allenamenti, ma le Olimpiadi le guardano sul tablet.
La macchia arancione sta parlando al telefono. Ci vede e ne approfittiamo. "Come stiamo?", risponde con quel poco di inglese che mastica. "Male. Stanze piccole, le finestre sono bloccate, il cibo fa schifo e ci sentiamo abbandonati". Un mezzo sorriso di sarcasmo. Poi con le braccia mima il gesto delle manette. "Tra poco esco, sono stanco di sentire l'altoparlante che alle sette di mattina ci sveglia per ricordarci di sputare nella provetta". Il Nice Day hotel è un albergo a tre stelle chiuso da settimane. Il Cio e il Comitato Tokyo 2020 non forniscono dettagli sulla sua ubicazione, e adesso si capisce perché. All'ingresso un poliziotto controlla che nessuno esca e nessuno entri. La porta girevole non gira. All'esterno ci sono tavolini messi uno sopra l'altro. In fondo al marciapiede che conduce sul retro, una tenda bianca per la raccolta dei campioni salivari e due giapponesi che siedono in silenzio.
Cronache dalla quarantena. Il ciclista tedesco Simon Geschke su Instagram ha documentato la sua settimana e mezzo dentro. Giorno 3: "Ci è proibito far arrivare cibo da fuori chiamando i rider. Per colazione mi hanno dato pane secco, devo ringraziare un egiziano che mi ha portato della marmellata". Giorno 4: "Non esiste servizio lavanderia, lavo la biancheria nel lavandino. La finestra non si apre, asciugherò magliette e mutande col phon". Giorno 5: "Buongiorno dall'atrio, l'unico posto che posso vedere oltre la mia stanza. Preleviamo qui il cibo in tre momenti della giornata. Dietro una vetrata c'è un'infermiera con cui possiamo parlare". Giorno 7: "E' la prima volta che perdo peso dopo il Tour the France". Mostra il vassoio del pasto: due cartoni di riso appiccicaticcio e delle verdure lesse. Giorno 8: "La colazione sta migliorando, c'è più frutta oggi. Ma non abbiamo coltelli. Taglierò il pompelmo con la limetta per le unghie". Unico sollievo all'inerzia: nella camera, dove sono sistemati il letto e la scrivania, ha potuto mettere la bicicletta e può allenarsi pedalando a vuoto.
Athleten Deutschland, la federazione tedesca, attacca duramente il Cio. "I nostri atleti denunciano la mancanza di un ricircolo sufficiente d'aria, descrivono condizioni da prigione e si lamentano che il cibo non offre gli apporti nutrizionali necessari per chi gareggia". I medici interni, stando ai loro racconti, non parlano l'inglese. Lo skateboarder olandese Randy Jacobs è arrivato ad usare il termine "inumane" per descrivere le condizioni vissute al Covid hotel.
Il Nice Day è stato scelto per l'isolamento di atleti e allenatori ed è gestito dal Comitato Tokyo 2020. Sono una trentina quelli fermati prima di competere, su un totale di 358 positività riscontrate all'interno del perimetro olimpico: oltre a Jacobs e Geschke, la pallavolista ceca Marketa Nausch-Slukova, due tennisti olandesi, la karateka russa Anna Chernysheva, la cilena del Taekwondo Fernanda Aguirre, mezza squadra greca del nuoto sincronizzato e altri. Il Cio, per i contagio del team greco, è stato costretto ad uscire allo scoperto e a chiamare le cose per quello che sono. "E' il primo cluster dei Giochi". Non si sa dietro quale finestra chiusa sia la stanza di Rosetti, che ha saputo di essere positivo la mattina del 28 luglio nell'imminenza della finale del quattro senza. Il Coni e la Federazione di canottaggio si limitano a riferire che il 33 enne sta bene e non ha sintomi. Dovrebbe uscire tra qualche giorno.
Questo non è l'unico Covid hotel olimpico. Ce n'è un altro a Chuo City, molto più lontano e piccolo. E' riservato al personale delle federazioni internazionali. E' gestito direttamente dal governo giapponese. Le condizioni, dicono, sono anche peggiori
L'azzurro sale sul podio nella libera, categoria fino a 97 kg. Battuto in finale il turco Karadeniz per 6-2. "Questa medaglia è la vita per me, ha vinto chi lo desiderava di più"
TOKYO. Arriva dalla lotta libera la 39ª medaglia azzurra ai Giochi di Tokyo. Abraham Conyedo ha avuto la meglio sul turco Karadeniz nella finale per il bronzo nei 97 kg. L'italo-cubano, 27 anni, si è imposto con il punteggio di 6-2: dopo essere stato a lungo in svantaggio, Conyedo ha trovato nei 30" finali la forza per capovolgere il risultato. Decisiva anche la chiamata di un challenge dalla squadra turca, rifiutato però dal collegio arbitrale, con conseguente punto della sicurezza per l'azzurro. La lotta è il 16° sport a salire sul podio ai Tokyo per la spedizione italiana. E per la libera si tratta del terza medaglia di sempre dopo l'oro di Claudio Pollio a Mosca 1980 e il bronzo di Frank Chamizo a Rio 2016. Conyedo proveniva dal tabellone dei ripescati e oggi aveva battuto, prima del turco, anche il canadese Steen. "Questa medaglia significa tutto per me, è la mia vita, ciò per cui ho lavorato negli ultimi cinque anni": è il commento dell'azzurro, "la prima dedica che voglio fare è per il mio allenatore, che per me è come un padre. Il turco Karadeniz lo avevo già affron.tato e per batterlo ho dovuto cambiare strategia e fare un lavoro molto intenso. Alla fine ha vinto chi lo desiderava di più".
Nato a Santa Clara, giunto nel nostro paese nel 2017 con un buon curriculum alle spalle (argento ai Giochi olimpici giovanili nel 2010 e ai Panamericani nel 2015), Conyedo ha ricevuto la cittadinanza italiana "per meriti speciali" nel 2019 dal Ministero dell'Interno grazie ai risultati sportivi ottenuti. In azzurro ha vinto un un bronzo mondiale (2018) e uno europeo (2019). Solo il 6 maggio scorso aveva ottenuto la qualificazione per i Giochi attraverso il torneo Preolimpico di Sofia. Diplomato in educazione fisica presso l'Università dello sport dell'Avana, ha una compagna italiana, Tiziana, è inserito nel gruppo sportivo dell'Esercito, si allena nel centro federale Fijlkam di Ostia con il coach Pietro Piscitelli. La sua medaglia compensa la delusione per il mancato podio di Frank Chamizo, del quale è amico fraterno, nei 74 kg.
Giappone, scuse pubbliche per chi arriva secondo. Ma cresce il fronte del no: "Troppo stress"dal nostro inviato Giampaolo Visetti
Kiyou Shimizu, argento nel karate (afp)
È tradizione culturale nel paese del Sol Levante scusarsi per aver fallito. Ogni giorno Tokyo si sveglia con trionfi e ammissioni di colpa. Ora c'è chi dice stop: "Ci siamo allenati duramente, non ci si può accusare di tradimento della patria"
TOKYO - "Non sono riuscita a rispondere alle attese del mio Paese e a ripagare i tanti connazionali che hanno fatto sacrifici per organizzare questi Giochi in un momento così difficile. Per questo chiedo scusa a tutti". Kiyou Shimizu aveva ancora la medaglia d'argento al collo quando in diretta tivù ha pregato i giapponesi di perdonarla per non aver trionfato nel
karate kata, perdendo l'ultima sfida per l'oro contro la spagnola Sanchez. Tokyo 2020 ha segnato il debutto del karate alle Olimpiadi, proprio nella culla di una tra le più antiche arti marziali, nata sull'isola di Okinawa quasi otto secoli fa. Fuori dal Giappone l'incrocio di opportunità non basta però a spiegare l'urgenza di comprensione collettiva e la sistematicità dei mea culpa pubblici che accomuna gli atleti di casa che non salgono sul gradino più alto del podio.
Per gli stranieri vincere una medaglia alle Olimpiadi è comunque un sogno. Già qualificarsi per la finale, o conseguire un buon risultato, sono gli obbiettivi di una carriera sportiva. Per i giapponesi no: se vinci devi ringraziare, se non ci riesci ti devi scusare. Mai come in questa edizione. "Non ho il coraggio di prendere in mano il telefono - ha detto Kenichiro Fumita, argento nella lotta greco-romana - non so cosa dire a mio padre. Spero solo che lui e la nazione accettino le mie scuse". Il paradosso è che mai nella storia delle Olimpiadi il Giappone ha vinto tante medaglie come quest'anno. Alla vigilia della cerimonia conclusiva, la nazionale ospitante ne ha già conquistate 52: 24 d'oro, 12 d'argento e 16 di bronzo. Battuto il record di 38 medaglie, di cui solo 7 d'oro, stabilito nel 2016 a Rio de Janeiro.
Nel medagliere il Giappone è terzo alle spalle di Cina e Usa, le due superpotenze sia dello sport e che del pianeta. I successi hanno via via ridotto l'ostilità popolare contro i Giochi: rinviati di un anno, tenuti nonostante il riesplodere della pandemia nel Paese e svolti infine a porte chiuse. Non bastano però per sollevare gli atleti giapponesi dall'obbligo di pubbliche scuse, spesso in lacrime, ogni volta che mancano la vittoria assoluta. "Per rendere orgogliosa la gente - ha detto piangendo il climber Tomoa Narasaki, rimasto ai piedi del podio finale - ho rinunciato a tutto, ma non è bastato. Conquistare una medaglia d'oro era un mio dovere: chiedo scusa per questo fallimento".
La cultura occidentale tende a trovare anche nella sconfitta le ragioni di una grandezza. Quella dell'Estremo Oriente insegna invece che perdere significa non aver fatto il necessario per vincere e che tale mancanza impone una piena assunzione di responsabilità. Scusarsi davanti a tutti in Giappone fa parte di educazione e convenzione sociale. Lo fa chi entra in casa d'altri, il taxista che resta imbottigliato nel traffico, il manager che non soddisfa le attese degli azionisti, il politico travolto da uno scandalo, il dipendente che va in ferie, il conducente del treno che arriva con pochi secondi di ritardo. "La richiesta del perdono - spiega la psicologa Shirobu Kitayama - è prevista anche dal cristianesimo, ma in Giappone è rivolta alla società, non alla divinità. Mira ad attenuare le conseguenze di un errore, a dimostrare umiltà e rispetto nei confronti di chi si ritiene di aver deluso, o fatto soffrire".
Alle Olimpiadi di Tokyo per gli atleti di casa tale dovere è moltiplicato dalla pressione popolare che circonda l'evento, dai costi pubblici sostenuti per svolgerlo, dalla depressione indotta dal Covid e dal bisogno politico del governo di trionfi sportivi per risalire nei sondaggi in vista delle elezioni di fine settembre. Perfino la campionessa-star del tennis Naomi Osaka, a cui è stato riservato l'onore di accendere il braciere olimpico nel Nuovo stadio nazionale, non avendo centrato la finale è stata costretta a scuse social "per non essere riuscita a soddisfare le attese di tutti". Proprio i social sono tra le cause dell'escalation di richieste di comprensione che partono dal Villaggio olimpico. Decine di atleti, dopo aver mancato la vittoria, hanno denunciato minacce, insulti e aggressioni in Rete. Chi non ha provveduto a postare subito le proprie scuse sul web è stato subissato dalle accuse di "egoismo, menefreghismo e superbia". Tra questi anche Shochiro Mukai, argento nel judo a squadre. "Sì - ha dovuto infine ammettere - potevo resistere di più e non deludere i miei compagni, privandoli della gioia di vincere". Il capo dell'Unione degli atleti giapponesi, Takuya Yamazaki, ha spiegato che nel Paese "non si compete per se stessi, ma per rendere onore alla nazione". Da bambini si comincia a fare sport a livello agonistico non per divertimento, ma per essere all'altezza delle attese dei genitori, degli adulti, di insegnati e allenatori. L'obbiettivo, come nella vita di ogni giorno è "non perdere la faccia" risultando sconfitti. Scuse pubbliche esprimono allo stesso tempo rimpianto, umiltà, paura, riconoscenza, responsabilità, dispiacere e gratitudine per la comprensione altrui.
"Volevamo vincere a tutti i costi - ha detto il calciatore Yuki Soma dopo la sconfitta ai supplementari contro la Spagna - per rendere felici i giapponesi che causa Covid non hanno potuto sostenerci dal vivo nello stadio. Chiediamo scusa per non aver contribuito a dare forza ed energia al Paese". Mai come oggi il Giappone olimpico si sveglia ogni mattina carico di trionfi e allo stesso tempi di ammissioni di colpa. Il contrasto tra realtà sportiva e convenzioni sociali è tale che i media cominciano a chiedersi se non sia arrivato il momento di "attenuare lo stress che nella nazione pesa su ogni individuo dal giorno della nascita", considerato tra le cause del primato mondiale di suicidi. "Giusto aprire un dibattito sincero - ha detto al New York Times l'ex maratoneta Yoko Arimori, argento e bronzo ai Giochi di Atlanta e di Barcellona, processato pubblicamente per essersi dichiarato fiero di sé - sull'enigma della nostra identità. Ma restando allo sport e alle Olimpiadi, se un atleta si è allenamento duramente e in gara ha dato tutto, oggi non può più essere moralmente obbligato a scusarsi di un secondo posto per sottrarsi all'accusa ipocrita di tradimento della patria".
In questa edizione delle Olimpiadi sono stati riscritti primati di precocità e anzianità che resistevano da decenni.
A 12 anni la giapponese Kokona Hiraki ha vinto la medaglia d’argento nello skateboard, sport al debutto assoluto ai Giochi, diventando la più giovane a vincere una medaglia da 73 anni. Il più anziano è invece il cavaliere australiano Andrew James Hoy, che a 62 anni si toglie la soddisfazione di vincere un argento e un bronzo alla sua ottava Olimpiade. Per quanto riguarda l’Italia, invece, tra il più giovane e il più anziano ci sono 23 anni di differenza. Ecco chi sono.
Naifonov, il bronzo del bambino di Beslan
Artur Naifonov (reuters)
Il ventiquattrenne russo, terzo nella lotta libera 86 kg, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l'assedio della scuola nell'Ossezia Settentrionale, la repubblica autonoma nella regione del Caucaso
Il ventiquattrenne russo Artur Naifonov, tre volte campione europeo e bronzo nella lotta libera 86 kg ai Giochi di Tokyo, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l’assedio della scuola numero 1 di Beslan, nell’Ossezia Settentrionale, repubblica autonoma nella regione del Caucaso. Lo riferisce il sito della Bild.
Tra il 1° e il 3 settembre 2004, 36 fondamentalisti islamici e separatisti ceceni occuparono l’edificio, sequestrando oltre 1200 persone. Quando intervennero le forze speciali russe, i terroristi uccisero 331 ostaggi, compresi 186 bambini, e ne ferirono 750.
In quell’occasione la mamma di Naifonov perse la vita per cercare di salvare il figlio. La vicenda coinvolge anche un altro lottatore presente ai Giochi: il connazionale Zaurbek Sidakov, oro nella categoria 74 kg ed ex compagno di classe di Naifonov, che per sua fortuna quel giorno non era a scuola. “In quel momento mi sono detto: se mai dovessi ottenere una grande vittoria, la dedicherò a tutti coloro che hanno sofferto a Beslan”, ha dichiarato alla testata Meduza il neocampione olimpico.