11.8.21

perchè dire si allo ius soli sportivo


 rileggendo   quanto      scritto in  <<  La nazione multietnica è già una vibrante realtà,e le  olimpiadi  di  tokyo lo  dimostrano   >> e   leggendo le storie    che  troverete  sotto  mi    venuta    di getto   questa  breve lettera     a  sovranisti  

Cari sovranisti  e salvinisti
voi  e la vostra cloche mediatica che  siete  contro lo ius solis  non lamentatevi se l'Italia  non dovesse vincere  medaglie perché atleti che ne hanno la possibilità  non ci posso andare perché  pur presenti d'anni su suolo italiano  non hanno la cittadinanza  o devono aspettare le calende greche per averla . non lamentatevi se l'italia sarà  come l'Africa saccheggiata dei suoi talenti  e quell'atleta sarà reclutato  da uno stato straniero e vincerà  per lui un olimpiade e quello stato sfrutterà la sua vittoria ed il suo talento politicamente .infatti sembra,  mi auguro come tutti voi , che  Jacobs ,( Oro nei 100 m e nella 4×100 ) voglia lasciare l'italia ed andarsene negli Usa

Il suo nome è Hakim Elliasmine, è un ragazzo 22enne di Bergamo nato da genitori marocchini, da 15 anni vive in Italia, dove ha vinto la bellezza di 10 titoli nazionali nel mezzofondo (tra cross e pista).È uno dei più forti atleti europei in attività, con un personale sugli 800 metri da finale olimpica.Eppure a Tokyo nessuno lo ha visto, perché Hakim per lo Stato non è italiano, non può correre per gli azzurri né iscriversi a un “gruppo militare”, che per lui rappresenterebbe la svolta.Corre da anni come “italiano equiparato”, una definizione che fa venire i brividi.Al compimento dei 18 anni, suo padre ha richiesto la cittadinanza, ma la domanda è stata respinta perché - sentite qui - al reddito familiare mancavano 300 euro. Hakim Elliasmine non può dirsi cittadino italiano per 300 euro!Dietro le imprese di Jacobs e la favola di Desalu, c’è un pezzo di Italia invisibile che lotta, corre, sacrifica tutto per lo sport, che parla italiano, pensa in italiano e si sente italiana, costretta a vivere nell’ombra di un Paese che gli nega un semplice pezzo di carta.E lo stesso vale anche per le migliaia di ragazzi che magari non sono e non saranno mai campioni, ma che hanno lo stesso identico diritto di essere cittadini del Paese in cui sono nati o cresciuti, l’unico che hanno mai conosciuto davvero.Non abbiamo bisogno dello Ius soli sportivo. Abbiamo bisogno dello Ius soli e basta, dello Ius culturae e di ogni diritto di cittadinanza oggi negato. Solo allora potremmo dirci davvero, una volta per tutte, un Paese civile.
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Great Nnachi, italiana per l’atletica ma non per lo Stato: ecco perché lo ius soli è necessario non solo per lo sport Open 10 AGOSTO 2021 - 05:31

Grana/FIDAL

di Alessandro D’Amato

Non ha ancora 17 anni, è una baby campionessa di salto in alto e non può vestire l’azzurro fino al compimento della maggior età. Ma nella sua condizione ci sono più di un milione di minorenni italiani di fatto ma non di diritto. Per questo ci vuole una legge per tutti, non solo per gli atleti

Si chiama Great NNachi, compirà 17 anni il 15 settembre, è nata a Torino ed è una baby campionessa di salto in alto, speranza italiana nell’atletica. Ma per ora non può vestire l’azzurro perché pur essendo italiana per la Iaaf grazie a un cambio di regolamento della Fidal non lo è per lo Stato. E quindi finché non compirà 18 anni non potrà gareggiare con i pari età di tutto il mondo. E questo nonostante il presidente Sergio Mattarella l’abbia nominata Alfiere della Repubblica. Great Nnachi per due volte ha conquistato il tricolore cadette di salto con l’asta, nel 2018 e anche nel 2019. Ma non potrà partecipare né agli Europei né ai mondiali giovanili. Proprio perché, come spiega in un’intervista a La Stampa, non ha la cittadinanza.
Great Nnachi, italiana per l’atletica ma non per lo Stato
Eppure Mattarella le ha dato l’attestato d’onore per i giovani che si sono distinti per il loro impegno e le loro azioni coraggiose e solidali «per le sue qualità di atleta, affinate pur tra difficoltà, e per la disponibilità che mostra nell’aiutare i compagni e nel collaborare alla formazione e all’allenamento dei più piccoli». Nel 2019 ha conseguito la migliore prestazione nazionale under 16 all’aperto superando la quota di 3,80. Ma è riuscita a farlo solo grazie a una norma deliberata dal Consiglio Federale in base alla quale «gli atleti stranieri cadetti e allievi possono concorrere all’ottenimento delle migliori prestazioni italiane di categoria, ove siano tesserati per una società affiliata, siano residenti in Italia e nel nostro Paese frequentino gli istituti scolastici». L’anno scorso si è aggiudicata anche il titolo italiano allieve nei 60 metri indoor.
Ma oggi è esclusa dalle competizioni internazionali mentre quelle nazionali sono troppo “facili” per lei: «In Italia, quando gareggio con le mie coetanee entro dopo, perché come misura valgo di più. Il problema è che a volte faccio un solo salto e la gara è finita, mentre nelle competizioni internazionali potrei fare di più. Basti pensare che in gara ho un personale di 4,07, mentre in allenamento salto 4,40». Lo ius soli sportivo sbloccherebbe almeno per lei e gli altri atleti che si trovano in questa condizione una situazione che ha dell’assurdo, ma soltanto a partire dai 18 anni: «Proprio non riesco a capire perché, pur essendo italiana a tutti gli effetti, non posso rappresentare il mio Paese nello sport. E vorrei tanto farlo in giro per il mondo. Sono campionessa italiana, ma non posso dimostrarlo fuori confine».
La campionessa, il razzismo e lo ius soli sportivo
Se tutto rimanesse com’è «perderei tutte le gare estive non solo di quest’estate, ma anche della prossima. Luciano Gemello, il mio allenatore nel Cus Torino, si sta battendo tantissimo perché diventa difficile se non posso avere confronti internazionali. Ad esempio, agli Europei Under 18 di metà luglio a Tallinn è andata Giulia Gelmotto, seconda agli Italiani, e mi sarebbe piaciuto condividere l’esperienza con lei». Great rivela anche di vivere quotidianamente sulla sua pelle la piaga del razzismo: «A volte quando sul bus sono seduta vicino a un adulto che magari si alza, mi guarda male o fa il gesto di chiudere lo zaino. Quando sono con gli amici italiani, invece, non succede e coi miei coetanei non mi sento discriminata, ma molto amata».
Ma, come ha spiegato ieri la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, del tema dello ius soli non bisogna ricordarsi soltanto quando gli atleti vincono medaglie: «È importante pensare all’inclusione per questi ragazzi. Loro si sentono già italiani». Attualmente sono un milione e centomila i minorenni italiani di fatto ma non di diritto. Non sono tutti atleti, anche se l’iter per loro è uguale. E, come dice oggi a Repubblica Mauro Berruto, ex ct della nazionale di pallavolo maschile e responsabile sport del Partito Democratico, «il tema prescinde dal contesto sportivo, ma le Olimpiadi ce lo hanno fatto ricordare, perché lo sport anticipa. Chiunque si trovi in un campo di pallavolo, di calcio, di basket e di qualsiasi altra disciplina sportiva soprattutto nei settori giovanile, vede la società di domani che è già oggi, e non guarda certo al colore della pelle, alla provenienza geografica, all’appartenenza religiosa».
Cos’è lo ius soli sportivo
Berruto fa notare che la questione dello ius soli è antecedente a quella dello ius soli sportivo. Le proposte di legge per riformare la cittadinanza sono ferme in commissione Affari costituzionali a Montecitorio. Tutte queste prevedono la concessione della cittadinanza italiana tramite un percorso di studi: Ius soli temperato o Ius culturae. Il relatore è il presidente grillino della commissione Giuseppe Brescia. Che ora si dice pronto a far ripartire l’iter. «Le Olimpiadi non hanno fatto altro che confermare quanto il Pd ripete da tempo: lo Ius soli è già nei fatti, è nella società, è nelle scuole, è tra i nostri ragazzi. Adesso la politica e le istituzioni hanno il dovere di adeguarsi a queste trasformazioni», hanno fatto sapere ieri fonti del Nazareno.
Una forma di ius soli sportivo, ovvero la possibilità che giovani non in possesso della cittadinanza italiana partecipino a competizioni sotto la bandiera tricolore, esiste già. Lo ius soli sportivo è stato introdotto con la legge 1 febbraio 2016 «Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva». Secondo la norma un ragazzo che abita in Italia può essere tesserato e partecipare alle competizioni. Ma c’è una limitazione: i minori devono essere regolarmente residenti in Italia «almeno dal compimento del decimo anno di età». Proprio in virtù dello Ius soli sportivo attualmente un cittadino di un altro paese non può gareggiare con la maglia azzurra fino al compimento del diciottesimo anno di età e alla richiesta della cittadinanza. Il cui iter può durare fino a quattro anni.





 mi piace  co cludere  con  questa frase     chje  è  anche  una  risposta    a  chi  dice  :  Aspetta e spera, siamo in italia. Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, ed al vedere uno che non sia pazzo, gli si avventeranno contro dicendo:  Tu sei pazzo!  (Sant'Antonio abate)

 





Recensione libri “La notte di San Valentino” di Elizabeth Wetmore


Texas 1976 nei pressi di Odessa, terra arida, i miasmi che provengono dalla città petrolifera, Ranch dove gli animali si ammalano e muoiono, e la pioggia che non arriva mai, luogo di misoginia e razzismo contro i messicani che varcano il confine alla ricerca di una vita migliore. Per Gloria, ragazza messicana quattordicenne, questo San Valentino non sarà un San Valentino come un altro, annoiata, arrabiata, decide di salire su di un camion sotto lo sguardo di disapprovazione di un’anziana coppia. Questa notte tutto cambierà, si troverà nella polvere, picchiata e violentata, Il racconto inizia con lei, perfettamente immobile, guardare il giovane, accertarsi che stia dormendo, con gli occhi fissi sul furgone in attesa di scappare. Gloria che da questa maledetta notte si farà chiamare solo Glory, perchè oltre all’innocenza, la notte di San Valentino ha perso anche una vocale, per segnare un confine tra il “prima “ ed il “dopo”. Si guarda intorno, scalza, senza vestiti, le pietre bollenti, i vetri, i rovi che le feriscono i piedi, le costole rotte la milza spappolata, che cerca rifugio in un Ranch.

 Potrebbe essere un'immagine raffigurante una o più persone e il seguente testo "ELIZABETH WETMORE LA NOTTE romanzo DI SAN VALENTINO PONTE ALLE GRAZIE"


Ad aprirle sarà May Rose, incinta ed una figlia di poco più piccola della ragazza. Mary Rose che dopo aver chiamato l’ambulanza e lo sceriffo, rimarrà sulla porta con un fucile in mano, rifiutando al giovane Dale Strickland di consegnare la ragazza.
A loro si unirà una vedova, Corinne, insegnante in pensione, che non avendo mai perdonato il marito per averla lasciata sola morendo, passa le sue giornate ubriaca.
Infine Debra, anche lei con una vocale in meno, perchè quando all’anagrafe hanno scritto Debra anzichè Debora, i genitori non avevano i tre dollari per correggere il nome. Debra, una bambina di soli dieci anni che, come tutti i bambini, si attribuisce la colpa per l’abbandono da parte della madre, sparita un giorno senza dare più notizie di sè. Attorno alle quattro protagoniste, ruotano una serie di figure femminili, ognuna con la sua storia. Romanzo corale di solitudine, amicizia, solidarietà e coraggio. Il coraggio di Mary Rose che testimonierà contro Dale Strickland, figlio di un pastore anglicano, che non vuole finire in prigione per colpa di una ragazzina di quattordici anni, per giunta messicana. Mary che testimonierà nonostante le minacce ed il processo farsa. Tutto ciò in una terra inospitale, arida, dalla polvere secca in cui solo i cactus riescono a sopravvivere.
Altamente Consigliato.

10.8.21

La seconda vita del carcere sull'isola , Il campo di girasoli dove si coltivano sorrisi , L'immortale Pulcinella del burattinaio giramondo

La seconda vita del carcere
sull'isola Santo Stefano è il penitenziario dove furono rinchiusi l’anarchico Bresci e poi Sandro Pertini. Ora diventa laboratorio culturale. E le celle si trasformeranno in museo di Camilla Romana Bruno Il campo di girasoli dove si coltivano sorrisi
La chiamano “agricoltura delle relazioni”: alle porte di Foggia, quarantamila piante da fotografare e raccogliere, un progetto sociale all’insegna della bellezza di Gianvito Rutigliano L'immortale Pulcinella del burattinaio giramondo Gianluca Di Matteo è un napoletano che vive a Torino. Come un moderno mastro Geppetto dà vita ai pezzi di legno. E racconta favole senza tempo che incantano sempre

8.8.21

La nazione multietnica è già una vibrante realtà,e le olimpiadi di tokyo lo dimostrano

non sono neppure finite che già si fanno i bilanci su questre olimpiadi . per fare i mie io aspette ancora qualche giorno . vogliosia metabolizzare meglio le emozioni che esse mi hannocreatgo sia sentire alttre ci che confermino o smenticano la mia opinione in merito .


Riprendndendo il  titolo del post   or ra  la delicata questione è come portare il Paese legale a fare i conti con il Paese reale ecco  la  definizione   di paese  legale   e paese  reale   presa  da https://dizionariostoria.wordpress.com/  più precisamente  qui


Espressione entrata a far parte del lessico politico moderno e contemporaneo per indicare il contrasto (manifesto) tra le classi sociali di un paese e quella che detiene il potere politico. In particolare, tale contrasto è stato utilizzato nella prima metà del XIX secolo, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, per contestare l’eccessiva ristrettezza del diritto di voto che, infatti, veniva determinato dal censo, e da qui, appunto, la contrapposizione tra “paese legale” – il corpo elettorale ristretto e elitario – e “paese reale” – il resto della comunità dei cittadini impossibilitati ad esprimersi liberamente.
                        Enciclopedia della storia universale”,                            De Agostini Edizioni, Novara, 1999



ha  perfettamente   la  ragione  ,  io  non avrei saputo dire  di meglio  l'editoriale  di Mauriuzio Molinari su repubblica del  8\8\2021

L ’estate di straordinari successi sportivi, da Londra e Tokyo, ci dice che l’Italia è diventata una nazione multietnica. Non è solo una questione di percentuali o statistiche sulla presenza nei team azzurri di una quantità evidente di immigrati o figli di immigrati, è una questione di identità: atleti, allenatori,
preparatori, tecnici, famiglie e tifosi compongono il mosaico di uno sport che, al maschile come al femminile, è lo specchio di una società cambiata sotto i nostri occhi.Molto più velocemente di quanto le istituzioni ed anche i media siano riusciti a comprendere e rappresentare nell’ultimo quarto di secolo.L’Italia fisica è terra di transito e insediamento di popoli ed etnie di ogni origine sin dall’antichità ma l’Italia politica in cui noi viviamo è venuta in contatto con le migrazioni di massa solo nel 1996, quando furono i primi barconi provenienti dall’Albania ad attraccare nei nostri porti. Da allora, il flusso di arrivi da Europa dell’Est, Asia ed Africa si è esteso e diversificato, ha incluso una moltitudine di individui e famiglie con il risultato di trasformarci: una nazione composta quasi esclusivamente di italiani per nascita si è arricchita grazie agli italiani per scelta.segue dalla prima pagina O vvero a seguito dell’arrivo di coloro che appartengono alla nostra società nazionale non perché nascono qui o sono figli di cittadini italiani ma perché decidono, consapevolmente, di diventarlo. Nascono altrove ma, per le ragioni più diverse, arrivano da noi in un momento qualsiasi della loro vita portando con sé storie, culture, lingue e tradizioni che non potrebbero essere più distanti.È un passaggio che ogni democrazia in Nordamerica ed Europa ha attraversato negli ultimi 150 anni - sommando successi e fallimenti - ed ora questa sfida riguarda noi. Si tratta della più grande delle opportunità perché avere una comunità nazionale che attira persone significa disporre di più risorse ed il fatto - come lo sport suggerisce - che la loro integrazione genera successi lascia intendere quali e quante potenzialità vi siano. Anche perché le medaglie olimpiche e la vittoria agli Europei sono il frutto soprattutto della seconda generazione: figli e figlie di migranti o più in generale di stranieri che hanno scelto di vivere, in alcune occasioni solamente per breve tempo, nella nostra Penisola.Poiché l’Italia multietnica è già una vibrante realtà, la delicata questione che abbiamo davanti è come portare il Paese legale a fare i conti con il Paese reale. Come trasformare l’incontro fra italiani per nascita e italiani per scelta in un volano di crescita collettiva - identitaria, culturale ed economica - destinata a premiare le nuove generazioni.È un terreno sul quale l’esperienza fatta da altre democrazie può certamente servire ma in ultima istanza l’Italia dovrà trovare una propria strada, basata su leggi e tradizioni che la definiscono.E nella Storia d’Italia vi sono esempi e precedenti che ci aiutano a comprendere il bivio di fronte al quale ci troviamo Da una parte ci sono infatti gli esempi negativi ovvero ciò che di peggio abbiamo fatto e che rischia oggi di frenare la crescita multietnica del Paese: l’ostilità viscerale fra Nord e Sud che seguì l’Unità, il razzismo contro i meridionali, le leggi razziali del 1938 contro gli ebrei, le lacerazioni ideologiche fra laici e cattolici nel Dopoguerra, l’intolleranza verso i migranti, l’odio sugli spalti degli stadi e il più recente risveglio dell’orgoglio etnico-regionale ci dicono come nel nostro dna c’è anche il pericoloso seme del rigetto del prossimo.Ma siamo anche la nazione che nasce dal Risorgimento trovando una matrice unitaria fra tante patrie italiane, legittimata dai plebisciti, che dopo la voragine del fascismo riesce a ritrovarsi attorno ad una Costituzione repubblicana capace di tenere assieme laici e cattolici, aprendo la strada alla ricostruzione che ci ha trasformato in una moderna democrazia industriale a dispetto di lacerazioni ideologiche, terrorismo interno e corruzione politica. Nel dna nazionale c’è dunque anche il seme della coesione, dell’intesa con il prossimo.Ecco perché se a prevalere fra noi sarà il seme dell’odio perderemo l’occasione dell’Italia multietnica e resteremo una provincia insulare, ai margini delle sfide globali, mentre se a imporsi sarà il seme della coesione, l’incontro fra italiani per nascita ed italiani per scelta promette di renderci competitaceytareivi su ogni fronte. Anche su quelli più imprevisti e inattesi. Come le vittorie sportive ottenute dimostrano.

ma alcuni si ostinano a non volerlo accettare o peggio ad accetta rifiutano 

storie olimpiche 8 ( fine ) olimpiadi vince l'oro a 14 anni per pagare le cure alla madre malata , "Finestre sigillate, poco cibo, solitudine": ecco il Covid Hotel degli atleti, dove muoiono i sogni olimpici e altre storie


  da  
Una delle storie più belle di queste Olimpiadi, forse la più bella e commovente, arriva dai tuffi e da questa ragazza qui.Quan Hongchan è un’atleta cinese, una tuffatrice di 14 anni e 130 giorni. Poco più che una bambina.Due settimane fa è partita per Tokyo per coronare il sogno di partecipare alle Olimpiadi e un obiettivo molto piu intimo e personale: racimolare abbastanza soldi da poter pagare le cure della madre, malata. Quan Hongchan non si è limitata a partecipare. Non si è limitata neppure a vincere. Oggi è entrata nella Storia dello sport dalla porta principale portando a casa un clamoroso oro olimpico dalla piattaforma dei 10 metri con un puntegggio da record (466.20 punti totali) e addirittura tre tuffi semplicemente sublimi che hanno ottenuto 10 da tutti i giudici. La perfezione tecnica ed estetica. Mica male per una ragazza adolescente che si affacciava per la prima volta a una grande competizione internazionale e che era arrivata a Tokyo per un atto d’amore. Favole che solo le Olimpiadi sanno regalare.
Infatti secondo https://www.nextquotidiano.it/ eccetto il video

a favola di Quan Hongchan: va alle Olimpiadi per pagare le cure alla mamma e vince l’oro a 14 anni 

La giovanissima tuffatrice cinese ha vinto la finale di tuffi dalla piattaforma (10 metri). Uno dei suoi tuffi ha raccolto il punteggio massimo

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Quan Hongchan
Ogni atleta ha il suo sogno olimpico. In tanti, quasi tutti, gareggiano per tentare di vincere una medaglia per scrivere il proprio nome nella storia. Altri, invece, lo fanno perché il palcoscenico a Cinque Cerchi è quello che si sogna fin da bambini. A prescindere dal risultato finale. Poi c’è Quan Hongchan, partita dalla Cina in direzione Tokyo solamente per un motivo: cercare di pagare le cure alla mamma malata. Lei è giovanissima (14 anni e 130 giorni) e oggi è entrata nella storia dello sport. La gara era quella di tuffi femminili dalla piattaforma 10 metri. Partita in sordina, fuori dai radar delle favorite, la giovanissima atleta cinese ha sorpreso tutti. Con n punteggio da record (466.20 punti totali) – con uno dei tuffi che ha fatto l’en plein di 10 da parte dei giudici – la 14enne ha sbaragliato la concorrenza di tutte le sue “rivali” sportive partite con i favori dei pronostici. Una prestazione sublime che porta con sé un grande messaggio.Non solo per l’età. Quan Hongchan, infatti, si era aggregata alla compagine cinese. Ma era lontana dai riflettori, nonostante la grande tradizione della Cina nei tuffi (sia al maschile che al femminile, sia dal trampolino che dalla piattaforma). Lei era lì con un obiettivo che poco aveva a che vedere con le medaglie e il podio olimpico: tentare di ottenere il miglior risultato possibile per racimolare un po’ di soldi e pagare le cure alla mamma malata. Una spinta emotiva che l’ha guidata, leggiadra come una campionessa, fino all’oro olimpico.

 

Non male per una giovanissima atleta alla prima apparizione internazionale. Non male per un’adolescente salita su quella piattaforma senza pensare a una medaglia. Perché le storie olimpiche sono anche queste e possono trasformarsi in favole.

"Finestre sigillate, poco cibo, solitudine": ecco il Covid Hotel degli atleti, dove muoiono i sogni olimpici dal nostro inviato Fabio Tonacci





Cinque anni di allenamenti, la gara negata dalla positività, come è successo al canottiere Bruno Rosetti, si finisce a Koto city. E gli atleti protestano per le pessime condizioni in cui sono costretti durante l'isolamento


TOKYO - Una macchia arancione appare dietro l'unica finestra semi-aperta. A occhio, è uno del team olandese. Il ragazzo si sporge per respirare la brezza di Tokyo, e non si può dire che sia una boccata di aria fresca: già a metà mattina in città si superano i 33 gradi. La finestra è al terzo di dodici piani di cemento, vetro e piastrelle. Un parallelepipedo rovente e sigillato che affaccia sul canale del Sumida, uno dei tre fiumi che sfociano nella baia. Sulla facciata, in alto, l'insegna recita: "Day Nice Hotel". Siamo a Koto City, a venti minuti di macchina dal Villaggio Olimpico. Qui vengono rinchiusi gli atleti trovati positivi al tampone, come il canottiere italiano Bruno Rosetti. Soggiorno gratis e forzato al Covid hotel. Su ordine delle autorità sanitarie giapponesi, devono rimanere in quarantena una decina di giorni, anche di più se non si negativizzano. Sono arrivati fino a Tokyo dopo cinque anni di allenamenti, ma le Olimpiadi le guardano sul tablet.
La macchia arancione sta parlando al telefono. Ci vede e ne approfittiamo. "Come stiamo?", risponde con quel poco di inglese che mastica. "Male. Stanze piccole, le finestre sono bloccate, il cibo fa schifo e ci sentiamo abbandonati". Un mezzo sorriso di sarcasmo. Poi con le braccia mima il gesto delle manette. "Tra poco esco, sono stanco di sentire l'altoparlante che alle sette di mattina ci sveglia per ricordarci di sputare nella provetta". Il Nice Day hotel è un albergo a tre stelle chiuso da settimane. Il Cio e il Comitato Tokyo 2020 non forniscono dettagli sulla sua ubicazione, e adesso si capisce perché. All'ingresso un poliziotto controlla che nessuno esca e nessuno entri. La porta girevole non gira. All'esterno ci sono tavolini messi uno sopra l'altro. In fondo al marciapiede che conduce sul retro, una tenda bianca per la raccolta dei campioni salivari e due giapponesi che siedono in silenzio.






Cronache dalla quarantena. Il ciclista tedesco Simon Geschke su Instagram ha documentato la sua settimana e mezzo dentro. Giorno 3: "Ci è proibito far arrivare cibo da fuori chiamando i rider. Per colazione mi hanno dato pane secco, devo ringraziare un egiziano che mi ha portato della marmellata". Giorno 4: "Non esiste servizio lavanderia, lavo la biancheria nel lavandino. La finestra non si apre, asciugherò magliette e mutande col phon". Giorno 5: "Buongiorno dall'atrio, l'unico posto che posso vedere oltre la mia stanza. Preleviamo qui il cibo in tre momenti della giornata. Dietro una vetrata c'è un'infermiera con cui possiamo parlare". Giorno 7: "E' la prima volta che perdo peso dopo il Tour the France". Mostra il vassoio del pasto: due cartoni di riso appiccicaticcio e delle verdure lesse. Giorno 8: "La colazione sta migliorando, c'è più frutta oggi. Ma non abbiamo coltelli. Taglierò il pompelmo con la limetta per le unghie". Unico sollievo all'inerzia: nella camera, dove sono sistemati il letto e la scrivania, ha potuto mettere la bicicletta e può allenarsi pedalando a vuoto.
Athleten Deutschland, la federazione tedesca, attacca duramente il Cio. "I nostri atleti denunciano la mancanza di un ricircolo sufficiente d'aria, descrivono condizioni da prigione e si lamentano che il cibo non offre gli apporti nutrizionali necessari per chi gareggia". I medici interni, stando ai loro racconti, non parlano l'inglese. Lo skateboarder olandese Randy Jacobs è arrivato ad usare il termine "inumane" per descrivere le condizioni vissute al Covid hotel.
Il Nice Day è stato scelto per l'isolamento di atleti e allenatori ed è gestito dal Comitato Tokyo 2020. Sono una trentina quelli fermati prima di competere, su un totale di 358 positività riscontrate all'interno del perimetro olimpico: oltre a Jacobs e Geschke, la pallavolista ceca Marketa Nausch-Slukova, due tennisti olandesi, la karateka russa Anna Chernysheva, la cilena del Taekwondo Fernanda Aguirre, mezza squadra greca del nuoto sincronizzato e altri. Il Cio, per i contagio del team greco, è stato costretto ad uscire allo scoperto e a chiamare le cose per quello che sono. "E' il primo cluster dei Giochi". Non si sa dietro quale finestra chiusa sia la stanza di Rosetti, che ha saputo di essere positivo la mattina del 28 luglio nell'imminenza della finale del quattro senza. Il Coni e la Federazione di canottaggio si limitano a riferire che il 33 enne sta bene e non ha sintomi. Dovrebbe uscire tra qualche giorno.
Questo non è l'unico Covid hotel olimpico. Ce n'è un altro a Chuo City, molto più lontano e piccolo. E' riservato al personale delle federazioni internazionali. E' gestito direttamente dal governo giapponese. Le condizioni, dicono, sono anche peggiori



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Lotta, la rabbia di Chamizo: "Il destino ce l'ha con me"

dal nostro inviato Cosimo Cito07 Agosto 2021






Lotta, Conyedo medaglia di bronzo. L'Italia tocca quota 39
dal nostro inviato Cosimo CitoAbraham Conyedo esulta per il bronzo (afp)

L'azzurro sale sul podio nella libera, categoria fino a 97 kg. Battuto in finale il turco Karadeniz per 6-2. "Questa medaglia è la vita per me, ha vinto chi lo desiderava di più"
TOKYO. Arriva dalla lotta libera la 39ª medaglia azzurra ai Giochi di Tokyo. Abraham Conyedo ha avuto la meglio sul turco Karadeniz nella finale per il bronzo nei 97 kg. L'italo-cubano, 27 anni, si è imposto con il punteggio di 6-2: dopo essere stato a lungo in svantaggio, Conyedo ha trovato nei 30" finali la forza per capovolgere il risultato. Decisiva anche la chiamata di un challenge dalla squadra turca, rifiutato però dal collegio arbitrale, con conseguente punto della sicurezza per l'azzurro. La lotta è il 16° sport a salire sul podio ai Tokyo per la spedizione italiana. E per la libera si tratta del terza medaglia di sempre dopo l'oro di Claudio Pollio a Mosca 1980 e il bronzo di Frank Chamizo a Rio 2016. Conyedo proveniva dal tabellone dei ripescati e oggi aveva battuto, prima del turco, anche il canadese Steen. "Questa medaglia significa tutto per me, è la mia vita, ciò per cui ho lavorato negli ultimi cinque anni": è il commento dell'azzurro, "la prima dedica che voglio fare è per il mio allenatore, che per me è come un padre. Il turco Karadeniz lo avevo già affron.tato e per batterlo ho dovuto cambiare strategia e fare un lavoro molto intenso. Alla fine ha vinto chi lo desiderava di più".
Nato a Santa Clara, giunto nel nostro paese nel 2017 con un buon curriculum alle spalle (argento ai Giochi olimpici giovanili nel 2010 e ai Panamericani nel 2015), Conyedo ha ricevuto la cittadinanza italiana "per meriti speciali" nel 2019 dal Ministero dell'Interno grazie ai risultati sportivi ottenuti. In azzurro ha vinto un un bronzo mondiale (2018) e uno europeo (2019). Solo il 6 maggio scorso aveva ottenuto la qualificazione per i Giochi attraverso il torneo Preolimpico di Sofia. Diplomato in educazione fisica presso l'Università dello sport dell'Avana, ha una compagna italiana, Tiziana, è inserito nel gruppo sportivo dell'Esercito, si allena nel centro federale Fijlkam di Ostia con il coach Pietro Piscitelli. La sua medaglia compensa la delusione per il mancato podio di Frank Chamizo, del quale è amico fraterno, nei 74 kg.




Giappone, scuse pubbliche per chi arriva secondo. Ma cresce il fronte del no: "Troppo stress"dal nostro inviato Giampaolo VisettiKiyou Shimizu, argento nel karate (afp)
È tradizione culturale nel paese del Sol Levante scusarsi per aver fallito. Ogni giorno Tokyo si sveglia con trionfi e ammissioni di colpa. Ora c'è chi dice stop: "Ci siamo allenati duramente, non ci si può accusare di tradimento della patria"


TOKYO - "Non sono riuscita a rispondere alle attese del mio Paese e a ripagare i tanti connazionali che hanno fatto sacrifici per organizzare questi Giochi in un momento così difficile. Per questo chiedo scusa a tutti". Kiyou Shimizu aveva ancora la medaglia d'argento al collo quando in diretta tivù ha pregato i giapponesi di perdonarla per non aver trionfato nel karate kata, perdendo l'ultima sfida per l'oro contro la spagnola Sanchez. Tokyo 2020 ha segnato il debutto del karate alle Olimpiadi, proprio nella culla di una tra le più antiche arti marziali, nata sull'isola di Okinawa quasi otto secoli fa. Fuori dal Giappone l'incrocio di opportunità non basta però a spiegare l'urgenza di comprensione collettiva e la sistematicità dei mea culpa pubblici che accomuna gli atleti di casa che non salgono sul gradino più alto del podio.
Per gli stranieri vincere una medaglia alle Olimpiadi è comunque un sogno. Già qualificarsi per la finale, o conseguire un buon risultato, sono gli obbiettivi di una carriera sportiva. Per i giapponesi no: se vinci devi ringraziare, se non ci riesci ti devi scusare. Mai come in questa edizione. "Non ho il coraggio di prendere in mano il telefono - ha detto Kenichiro Fumita, argento nella lotta greco-romana - non so cosa dire a mio padre. Spero solo che lui e la nazione accettino le mie scuse". Il paradosso è che mai nella storia delle Olimpiadi il Giappone ha vinto tante medaglie come quest'anno. Alla vigilia della cerimonia conclusiva, la nazionale ospitante ne ha già conquistate 52: 24 d'oro, 12 d'argento e 16 di bronzo. Battuto il record di 38 medaglie, di cui solo 7 d'oro, stabilito nel 2016 a Rio de Janeiro.
Nel medagliere il Giappone è terzo alle spalle di Cina e Usa, le due superpotenze sia dello sport e che del pianeta. I successi hanno via via ridotto l'ostilità popolare contro i Giochi: rinviati di un anno, tenuti nonostante il riesplodere della pandemia nel Paese e svolti infine a porte chiuse. Non bastano però per sollevare gli atleti giapponesi dall'obbligo di pubbliche scuse, spesso in lacrime, ogni volta che mancano la vittoria assoluta. "Per rendere orgogliosa la gente - ha detto piangendo il climber Tomoa Narasaki, rimasto ai piedi del podio finale - ho rinunciato a tutto, ma non è bastato. Conquistare una medaglia d'oro era un mio dovere: chiedo scusa per questo fallimento".
La cultura occidentale tende a trovare anche nella sconfitta le ragioni di una grandezza. Quella dell'Estremo Oriente insegna invece che perdere significa non aver fatto il necessario per vincere e che tale mancanza impone una piena assunzione di responsabilità. Scusarsi davanti a tutti in Giappone fa parte di educazione e convenzione sociale. Lo fa chi entra in casa d'altri, il taxista che resta imbottigliato nel traffico, il manager che non soddisfa le attese degli azionisti, il politico travolto da uno scandalo, il dipendente che va in ferie, il conducente del treno che arriva con pochi secondi di ritardo. "La richiesta del perdono - spiega la psicologa Shirobu Kitayama - è prevista anche dal cristianesimo, ma in Giappone è rivolta alla società, non alla divinità. Mira ad attenuare le conseguenze di un errore, a dimostrare umiltà e rispetto nei confronti di chi si ritiene di aver deluso, o fatto soffrire".
Alle Olimpiadi di Tokyo per gli atleti di casa tale dovere è moltiplicato dalla pressione popolare che circonda l'evento, dai costi pubblici sostenuti per svolgerlo, dalla depressione indotta dal Covid e dal bisogno politico del governo di trionfi sportivi per risalire nei sondaggi in vista delle elezioni di fine settembre. Perfino la campionessa-star del tennis Naomi Osaka, a cui è stato riservato l'onore di accendere il braciere olimpico nel Nuovo stadio nazionale, non avendo centrato la finale è stata costretta a scuse social "per non essere riuscita a soddisfare le attese di tutti". Proprio i social sono tra le cause dell'escalation di richieste di comprensione che partono dal Villaggio olimpico. Decine di atleti, dopo aver mancato la vittoria, hanno denunciato minacce, insulti e aggressioni in Rete. Chi non ha provveduto a postare subito le proprie scuse sul web è stato subissato dalle accuse di "egoismo, menefreghismo e superbia". Tra questi anche Shochiro Mukai, argento nel judo a squadre. "Sì - ha dovuto infine ammettere - potevo resistere di più e non deludere i miei compagni, privandoli della gioia di vincere". Il capo dell'Unione degli atleti giapponesi, Takuya Yamazaki, ha spiegato che nel Paese "non si compete per se stessi, ma per rendere onore alla nazione". Da bambini si comincia a fare sport a livello agonistico non per divertimento, ma per essere all'altezza delle attese dei genitori, degli adulti, di insegnati e allenatori. L'obbiettivo, come nella vita di ogni giorno è "non perdere la faccia" risultando sconfitti. Scuse pubbliche esprimono allo stesso tempo rimpianto, umiltà, paura, riconoscenza, responsabilità, dispiacere e gratitudine per la comprensione altrui.
"Volevamo vincere a tutti i costi - ha detto il calciatore Yuki Soma dopo la sconfitta ai supplementari contro la Spagna - per rendere felici i giapponesi che causa Covid non hanno potuto sostenerci dal vivo nello stadio. Chiediamo scusa per non aver contribuito a dare forza ed energia al Paese". Mai come oggi il Giappone olimpico si sveglia ogni mattina carico di trionfi e allo stesso tempi di ammissioni di colpa. Il contrasto tra realtà sportiva e convenzioni sociali è tale che i media cominciano a chiedersi se non sia arrivato il momento di "attenuare lo stress che nella nazione pesa su ogni individuo dal giorno della nascita", considerato tra le cause del primato mondiale di suicidi. "Giusto aprire un dibattito sincero - ha detto al New York Times l'ex maratoneta Yoko Arimori, argento e bronzo ai Giochi di Atlanta e di Barcellona, processato pubblicamente per essersi dichiarato fiero di sé - sull'enigma della nostra identità. Ma restando allo sport e alle Olimpiadi, se un atleta si è allenamento duramente e in gara ha dato tutto, oggi non può più essere moralmente obbligato a scusarsi di un secondo posto per sottrarsi all'accusa ipocrita di tradimento della patria".

Tokyo 2020, i record di età dei medagliati: ecco la più giovane e il più anziano a salire sul podio


di Francesco Cofano

In questa edizione delle Olimpiadi sono stati riscritti primati di precocità e anzianità che resistevano da decenni. 

A 12 anni la giapponese Kokona Hiraki ha vinto la medaglia d’argento nello skateboard, sport al debutto assoluto ai Giochi, diventando la più giovane a vincere una medaglia da 73 anni. Il più anziano è invece il cavaliere australiano Andrew James Hoy, che a 62 anni si toglie la soddisfazione di vincere un argento e un bronzo alla sua ottava Olimpiade. Per quanto riguarda l’Italia, invece, tra il più giovane e il più anziano ci sono 23 anni di differenza. Ecco chi sono.





Naifonov, il bronzo del bambino di Beslan



Artur Naifonov (reuters)

Il ventiquattrenne russo, terzo nella lotta libera 86 kg, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l'assedio della scuola nell'Ossezia Settentrionale, la repubblica autonoma nella regione del Caucaso
Il ventiquattrenne russo Artur Naifonov, tre volte campione europeo e bronzo nella lotta libera 86 kg ai Giochi di Tokyo, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l’assedio della scuola numero 1 di Beslan, nell’Ossezia Settentrionale, repubblica autonoma nella regione del Caucaso. Lo riferisce il sito della Bild.
Tra il 1° e il 3 settembre 2004, 36 fondamentalisti islamici e separatisti ceceni occuparono l’edificio, sequestrando oltre 1200 persone. Quando intervennero le forze speciali russe, i terroristi uccisero 331 ostaggi, compresi 186 bambini, e ne ferirono 750.
In quell’occasione la mamma di Naifonov perse la vita per cercare di salvare il figlio. La vicenda coinvolge anche un altro lottatore presente ai Giochi: il connazionale Zaurbek Sidakov, oro nella categoria 74 kg ed ex compagno di classe di Naifonov, che per sua fortuna quel giorno non era a scuola. “In quel momento mi sono detto: se mai dovessi ottenere una grande vittoria, la dedicherò a tutti coloro che hanno sofferto a Beslan”, ha dichiarato alla testata Meduza il neocampione olimpico.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata IX SE NON POTETE SCAPPARE USATE I GOMITI E LE GINOCCHIA

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