27.8.21

Covid: è morto Enzo Galli il 45enne di Firenze contagiato in India dopo una adozione

 come diceva mia nonna bastava starsene a casa e non gli succedeva niente . Più che di coragio come dice l'articolo sotto riportato qui si tratta d'incoscienza . Lo so che sarò cinico e dovrei auto censurare , gettare via questi cattivi pensieri , ma mi danno fastidio quelle persone che fanno cose incoscienti poi pretendono che siano gli altri \e a doverli tirare fuori dai casini . Invece non è cosi .



Ora non capisco Alcune cose : primo era strettamente necessario caricarsi di un rischio cosí grande per il viaggio in India senza valutarne le conseguenze puntualmente avvenute ? Secondo non capisco che visto dovesse rilasciare la Ambasciata . I coniugi non erano Italiani ? Per la bambina adottata ? E allora non era il caso di pensarci prima o rinviare l'adozione o provare ad addottare un bambino\a italiana ( lontano da me ogni forma di becero nazionalismo del tipo prima gli italiani ) che sono rinchiusi in case famiglia \ comunità o orfanotrofi alimentano il business d'assistenza ?

da https://www.lastampa.it/cronaca/2021/08/25/news/muore-di-covid-a-soli-45-anni-ad-aprile-era-andato-in-india-per-adottare-una-bambina-1.40633757

Covid: è morto Enzo Galli il 45enne di Firenze contagiato in India dopo una adozione

E’ deceduto a Firenze  dopo 3 mesi di sofferenze. Ad aprile era rimasto bloccato con la moglie in India dopo il dilagare della variante Delta. La loro storia aveva innescato una gara di solidarietà

Covid: è morto Enzo Galli il 45enne di Firenze contagiato in India dopo una adozione

È una storia di coraggio quella di Enzo Galli senza purtroppo lieto fine. L’uomo si è spento oggi, all’età di 45 anni, all’ospedale di Careggi di Firenze, dopo mesi di agonia causati dall’infezione di Covid-19.  La sua storia, con quella della moglie, era diventata virale la scorsa primavera. La coppia si era recata in India per adottare una bambina, ma era stata sorpresa poi dalla drammatica progressione della variante Delta nello stato asiatico. .....  seguyesul link 

La storia magnifica di Assunta Legnante, che ha vinto il buio e le Paralimpiadi, Il calvario di Mehrzad, il gigante delle Paralimpiadi cresciuto troppo: alto 2.46 per una mala, Zakia Khudadadi prima atleta paralimpica dell'Afghanistan,ttia,

Seguendo   per  la prima  volta    in   "maniera  attiva  e non passiva   " le  paraolimpiadi   credevo   che  esse   fossero solo per coloro  che  avevano perso  uno o più  arti  o  fosse  finito in  sedia  a rotelle  . Non immaginavo che   vi partecipassero    anche  chi  ha altri  gravissimi problemi  come  le  storie che vado a riportare  sotto  .

  fonti 
https://sportdonna.it/ 
https://www.marieclaire.com/it/ 
 https://it.wikipedia.org/wiki/Assunta_Legnante

La storia magnifica di Assunta Legnante, che ha vinto il buio e le Paralimpiadi

A Tokyo 2020 gareggia la pesista e discobola italiana che nella vita ha dovuto affrontare il più tosto dei prima/dopo. Iinfatti Con il termine della stagione 2009 decide di concludere definitivamente la sua carriera a causa dall'aggravarsi dei problemi visivi (principalmente un glaucoma congenito presente fin dalla nascita) che già tempo prima le avevano fatto rischiare l'inidoneità nela  cariuera  pre paraolimpica  .Con il termine della stagione 2009 decide di concludere definitivamente la sua carriera a causa dall'aggravarsi dei problemi visivi (principalmente un glaucoma congenito presente fin dalla nascita) che già tempo prima le avevano fatto rischiare l'inidoneità.Nel 2018 è tornata a gareggiare tra i normodotati tesserandosi con la società ACSI Italia Atletica. Il 26 maggio a Rieti, in occasione della seconda fase regionale dei campionati di società, prima gara dal rientro in FIDAL, Assunta Legnante ha vinto con la misura di 16,05 m. A Modena, il 23 giugno, nella finale nazionale oro dei campionati di società, ha vinto la gara lanciando a 16,15 m.Un prima, un dopo. Un'epifania, un evento, il caso o chi per lui modificano il corso della vita, imponendo un cambiamento cui non si era preparati. Nella vita di Assunta Legnante, da persona e da atleta dai numerosi record, quel prima/dopo è
racchiuso in un anno specifico. Sofferente fin dalla nascita di un glaucoma agli occhi, nel 2012 ha saputo che sarebbe diventata completamente cieca. Ma Assunta Legnante, atleta azzurra specializzata nella disciplina del lancio del peso, ha sempre avuto una luce dentro, quella di chi non si arrende mai, quella che ogni sportivo custodisce per irradiare il podio mentre riecheggia l’inno di Mameli. L’ultimo successo dorato di Assunta, 40 anni, è recentissimo: agli Europei paralimpici di Berlino, la pesista nata a Napoli – ma ascolana d’adozione – ha fatto cadere il peso tre metri più avanti della seconda classificata (15,85 metri):«Se ti fai prendere per mano dal buio puoi scoprire un altro sole» dice la campionessa, che per la sua potenza nelle braccia è soprannominata “cannoncino”. Una donna imponente, la cui altezza raggiunge i 190 centimetri. Si era tolta diverse soddisfazioni anche quando le ombre non avevano ancora preso il controllo dei suoi occhi, quindi da normodotata, vincendo l’argento ai Campionati europei di atletica leggera a Vienna (2002) e il titolo europeo a quelli di Birmingham (2007). Ha partecipano anche alle Olimpiadi di Pechino del 2008.Quando le hanno comunicato che non avrebbe più visto non solo la gente che era solita applaudirla dagli spalti, ma anche il volto dei propri cari, la prima reazione di Assunta è stata: «Mi iscrivo ai Giochi paralimpici di Londra». Da quel momento è iniziata la sua vita nova, più complicata ma ricca di gratificazioni; due titoli mondiali in bacheca, gli ori olimpici a Londra e Rio de Janeiro. «Mi sono abituata a tutto, la grande differenza è la mancanza di autonomia, solo quando sto in pedana torna l’indipendenza» ammette la Legnante, elogiando la preziosa e costante vicinanza di Nicola Selvaggi, suo mentore ed ex commissario tecnico della Nazionale Italiana Lanci: «Mi ha trasmesso un patrimonio tecnico enorme, debbo quasi tutto a lui».Assunta è una perfezionista, al punto che all’ultimo oro di Berlino avrebbe aggiunto volentieri una misura migliore, considerando che recentemente era tornata a lanciare il peso oltre i 17 metri. Dalla sua Porto Potenza, città in cui vive, è già concentrata in vista dei Mondiali del prossimo anno a Dubai e alla Paralimpiadi di Tokyo 2020. Le sue medaglie più belle? Suo marito Paolo e i loro due figli: «Paolo ha trovato lavoro come gommista, ma ogni giorno fa 30 chilometri ad andare e 30 a tornare. Non è una situazione facile, anche per accompagnare i bimbi a scuola (Michael, 7 anni e Nicole di 6), sono un po’ sola, ma la mia società mi ha aiutato spesso portandomi agli allenamenti».


A cura di Marco Beltrami

Il calvario di Mehrzad, il gigante delle Paralimpiadi cresciuto troppo: alto 2.46 per una malattia





Morteza Mehrzad, seconda persona vivente più alta del mondo con i suoi 2.46 metri, è una delle stelle delle Paralimpiadi. Il classe 1987 è il punto di forza della nazionale iraniana di pallavolo, ovvero sitting volley. La sua altezza è legata all’acromegalia, ovvero una malattia che a causa dell’eccesso di ormone lo fa crescere a dismisura.
Un vero e proprio gigante. Morteza Mehrzad, seconda persona vivente più alta del mondo con i suoi 2.46 metri, è una delle stelle delle Paralimpiadi. Il classe 1987 è il punto di forza della nazionale iraniana di pallavolo, ovvero sitting volley. Medaglia d'oro a Rio 2016 spera di centrare il bis anche a Tokyo, E pensare che il suo ex allenatore e scopritore lo ha conosciuto solo grazie ad un servizio televisivo. Morteza Mehrzad già in occasione della cerimonia d'apertura dei Giochi Paralimpici ha conquistato la scena svettando sugli altri atleti iraniani. Anche quando è sul parquet per giocare a pallavolo (che nella sua versione paralimpica si gioca da seduti, stando a contatto con la superficie di gioco) la differenza di altezza rispetto a compagni e avversari è impressionante. 2.46 i metri d'altezza per l'atleta che è secondo al mondo solo al turco Kösen, alto 2.51 metri. La sua è una storia molto particolare. Mehrzad soffre di acromegalia, ovvero una malattia che a causa dell'eccesso di ormone della crescita, lo fa crescere a dismisura (con aspettative di vita purtroppo ridotte). Dal 2003 la sua crescita è diventata esponenziale e a causa di una caduta in bicicletta in giovane età ha rimediato un grave infortunio che ha di fatto bloccato lo sviluppo della gamba destra, di 15 centimetri più corta ora di quella sinistra. Per questo Morteza ha bisogno di una stampella per poter camminare. La sua passione è la pallavolo, sport che può praticare anche grazie alle manone lunghe poco meno di 30 centimetri. Anche da seduti il vantaggio rispetto agli avversari è notevole e a giovarne è l'Iran della pallavolo che a Rio ha conquistato la medaglia d'oro nelle Paralimpiadi. L'obiettivo è quello di centrare il bis in Giappone. L'ex ct della nazionale Alireza Moameri ai microfoni di Focus ha rivelato di averlo scoperto grazie ad un servizio televisivo: "Inizialmente ha detto di no, poi siamo andati nella sua città per convincerlo. Non voleva, ci sono voluti 5 mesi". Il suo attuale coach invece sa di avere a disposizione una risorsa capace di fare la differenza: "Quando l'ho visto per la prima volta, sapevo di aver trovato una risorsa per la mia squadra perché l'altezza è importante nel sitting volley".

La storia della prima atleta paralimpica dell'Afghanistan, che non potrà essere a Tokyo 2020
Zakia Khudadadi doveva partire per i Giochi Paralimpici. Ma la situazione nel paese ha cambiato tutto.
credits Ⓒafghanistan npc
DAL SITO UFFICIALE DI PARALYMPICS CREDITS ⒸAFGHANISTAN NPC
Ha 23 anni, un sorriso rotondo, il velo ben aderente alla testa. L'unica foto che circola la ritrae in allenamento sul tappeto del taekwondo paralimpico, la sua disciplina sportiva. Zakia Khudadadi prima atleta paralimpica dell'Afghanistan, e prima donna a qualificarsi per la competizione internazionale di massimo prestigio nel suo sport, le Paralimpiadi di Tokyo 2020. Ma non ci andrà, la delegazione afghana ha rinunciato ufficialmente a partecipare ai Giochi Paralimpici: la presa della capitale Kabul da parte dei talebani ha impedito la partenza degli atleti fissata per lunedì 16 agosto, il giorno in cui l'aeroporto è stato invaso dalle persone che hanno cercato di imbarcarsi su quanti più aerei civili o militari possibili, pur di scappare dal paese. Le speranze paralimpiche dei due atleti afghani Zakia Khudadadi e Hossein Rasouli sono rimaste a terra, nonostante i tentativi di assicurarsi un volo, anche esoso, per portarli in Giappone. "Questa situazione ha lasciato la nazione senza parole, ha distrutto tutti i sogni di pace e prosperità" ha commentato il capo delegazione Arian Sadiqi sul Telegraph. Le preoccupazioni adesso riguardano l'incolumità dei due atleti, Hossein Rasouli, discobolo paralimpico che ha perso il braccio sinistro per lo scoppio di una mina, ma soprattutto Zakia Khudadadi. Donna, giovane, atleta, simboleggia l'indipendenza femminile (e umana) che il regime talebano punta a estirpare o vietare. "Mi si spezza il cuore a pensare a tutti questi anni di lavoro per dare visibilità alle donne, e ora devo dire alle mie donne in Afghanistan di tacere e scomparire. Le loro vite sono in pericolo" ha commentato al Washington Post Khalida Popal, direttrice della nazionale di calcio femminile in Afghanistan, che vive in esilio a Londra dopo le minacce di morte ricevute.
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La storia di Zakia Khudadadi, 23 anni, dalla provincia di Herat, è quella di una generazione di talenti nuovi che si trova per la prima volta di fronte a temute restrizioni di regime. Disabile dalla nascita, ha scoperto il taekwondo da ragazzina grazie alle Olimpiadi, viatico prezioso di rivelazioni sulle discipline sportive meno conosciute o raccontate. Ad affascinare la ragazzina sono le imprese olimpiche di Rohullah Nikpai, taekwondoka afghano, primo e unico sportivo del paese ad andare a medaglia alle Olimpiadi: nei giochi di Pechino 2008 e Londra 2012 ha vinto due bronzi, un vero e proprio record per l'Afghanistan che nelle sue 14 partecipazioni complessive ai Giochi ha vinto solo con lui. Sulla scia dell'eroe sportivo nazionale, Zakia Khudadadi esprime il desiderio di imparare il taekwondo. "Mi ha ispirata, ho deciso di fare questo sport e per fortuna, la mia famiglia mi ha sostenuta" ha raccontato l'atleta paralimpica afghana al sito ufficiale Paralympics. Non è così scontato, o tantomeno semplice, apprendere una disciplina simile quando sei una ragazza con disabilità, per di più in un paese dalla storia contemporanea complicata. Lo sport femminile è timidamente esploso, le ragazze possono allenarsi liberamente e condividere gli spazi con i ragazzi in palestra. Il talento di Zakia Khudadadi si rivela quando è appena maggiorenne, nel 2016, e vince una medaglia d'argento ai campionati africani di para-taekwondo in Egitto, finora il suo migliore risultato.

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Per attrezzature e strutture dove allenarsi, la situazione in Afghanistan non sembra migliorare col tempo. I fondi sono minimi, risicati, servono a malapena alla manutenzione degli impianti. Atleti e atlete si arrangiano come possono, senza mollare un colpo: si allenano nei parchi, nei giardini, nei garage, ovunque riescano a trovare lo spazio necessario per praticare la propria disciplina d'elezione. La complessa emergenza sanitaria mondiale peggiora ulteriormente il quadro, la chiusura delle palestre e delle rare piscine è un colpo enorme. Zakia Khudadadi non molla, nonostante il Covid-19 le precluda le qualificazioni regolari alle Paralimpiadi di Tokyo ottiene fortunatamente una wild card all'ultimo, categoria K44 (riservata agli atleti con amputazioni o perdite di funzionalità alle braccia, o mancanza delle dita dei piedi che impediscono di sollevare il tallone): "Ero emozionatissima dopo la notizia della wild card per gareggiare ai Giochi. È la prima volta che un'atleta donna rappresenterà l'Afghanistan, sono molto felice". Questo è il suo successo, fortemente simbolico, una sorta di riscatto umano per il paese e per se stessa. Ha a disposizione appena due mesi per allenarsi a dovere, si mette d'impegno col sogno di Tokyo, sa di poter rappresentare la nuova generazione di atlete, le donne, e le persone con disabilità dell'Afghanistan. Ci tiene a sfilare sotto la bandiera del suo paese. "Stavamo facendo la storia, Zakia poteva essere un modello per le donne del suo paese" ha dichiarato al Guardian Arian Sadiqi. Per ora, la storia felice ha sospeso la rotta.





Brevi storie di atleti paralimpici C'è chi arriva da un campo profughi, chi punta all'ennesimo oro e chi ha già fatto un grandissimo risultato con la qualificazione

   con   articolo      che  riporto sotto  de  https://www.ilpost.it/2021/08/25/atleti-paralimpiadi-storie/ confermo  la  riposta    da me  data nel post precedente    a chi  mi chiede  perchè   seguirli    se  non sei uno di loro   ?    Agiungi   che    è  vero   che     non   mi  manca  nessun arto  o   non sono in sedia   a  rotelle , ma  ho  altri  handicap  a  tutta la  parte destra    :  sordità , cheratocono precoce  ,  piede  cavo  ,  difficoltà musoclari ( doppia  ernia  inguinale )  .  Ma otra basta parlare di me parliamo  di loro 


(Richard Heathcote/Getty Images)

Sono iniziate martedì, con la cerimonia di apertura, le Paralimpiadi di Tokyo, che fino al 5 settembre assegneranno medaglie in oltre 500 eventi a cui parteciperanno più di 4mila atleti e atlete, rispettivamente divisi e divise in apposite categorie (indicate da sigle i cui significati sono spiegati qui). Per ragioni tra le più svariate, moltissimi tra loro hanno storie notevoli: da chi ha saputo eccellere e vincere ori su ori, a chi ha già ottenuto un grandissimo risultato anche solo arrivando a Tokyo.
Tra le tante storie possibili ne abbiamo scelte alcune (18, per l’esattezza) tra le più significative. Con l’aggiunta di quella – che sta dentro una storia ben più grande – che riguarda due atleti che avrebbero dovuto esserci ma che, almeno per ora, non ci sono.



Markus Rehm
È tedesco, ha 33 anni e il suo soprannome è “Blade Jumper”, perché gareggia nel salto in lungo nella categoria T64, una di quelle riservate ad atleti con amputazione che competono con protesi. A Rehm (che alle precedenti Olimpiadi vinse anche un oro nella staffetta) fu amputata la parte di gamba sotto al ginocchio dopo un incidente del 2005, mentre faceva wakeboard. Qualche mese fa ha saltato 8,62 metri e in carriera ha già vinto tre ori olimpici. Un po’ come fu a suo tempo per Oscar Pistorius, anche Rehm ha provato – senza riuscirci – a ottenere i permessi per partecipare alle Olimpiadi, non solo alle Paralimpiadi. Oltre a essere un atleta, nella vita fa il protesista.



(Julian Finney/Getty Images)

Grigorios Polychronidis
È greco, ha 40 anni e compete nella boccia, uno dei due sport paralimpici (l’altro è il goalball) che non ha un vero e proprio corrispettivo olimpico e che è riservato ad atleti con patologie neurologiche. Polychronidis, che è affetto da atrofia muscolare spinale e che da pochi mesi è diventato padre, scoprì la boccia intorno ai vent’anni, con l’obiettivo di partecipare alle Paralimpiadi di Atene del 2004. Non ci riuscì, ma poi vinse un argento a Pechino, un oro a Londra in una gara di coppia e altre due medaglie a Rio, nel 2016.



(Gareth Copley/Getty Images)

Zahra Nemati
Gareggia nel tiro con l’arco e nel 2012 fu la prima donna iraniana a vincere un oro paralimpico, quando ancora nessuna sua connazionale aveva vinto un oro alle Olimpiadi. Nel 2016 partecipò sia alle Olimpiadi, dove fu portabandiera, che alle Paralimpiadi, dove rivinse l’oro. Ha 36 anni e compete nella categoria W2 poiché subì una lesione del midollo spinale quando a 18 anni fu colpita da un’auto. Prima dell’incidente praticava taekwondo, che è diventato sport paralimpico solo quest’anno.



(Jamie Squire/Getty Images)


Claire Supiot
È francese, ha 53 anni e quelle di Tokyo saranno le sue prime Paralimpiadi, nel nuoto. Dopo che già nel 1988, quando aveva vent’anni, aveva partecipato alle Olimpiadi di Seul. Supiot, che ha iniziato a gareggiare nelle gare paralimpiche solo da qualche anno, ha la malattia di Charcot-Marie-Tooth, una neuropatia ereditaria per cui ancora non esiste cura e che, tra le molte altre cose, comporta diversi problemi motori e stanchezza cronica. Rispetto a quel che è cambiato da Seul a Tokyo, ha detto: «Ho qualche ruga in più e le mie gambe non funzionano più come un tempo». A Le Monde ha raccontato invece, insieme a diverse altre cose, di come fa a nuotare: «Muovo le braccia come tutti, e faccio ognuno dei quattro stili, solo utilizzo un po’ meno le gambe».




Shingo Kunieda
È giapponese, ha 37 anni e nel tennis in carrozzina non c’è nessuno più forte. Oltre ad aver vinto due ori olimpici nel 2008 e nel 2012 (nel 2016 non c’era per infortunio), ha vinto 45 trofei in tornei del Grande Slam. È stato scelto come capitano della squadra paralimpica giapponese e in una recente intervista ha detto: «Spero che molti bambini, con o senza disabilità, possano guardare gli sport paralimpici e comprendere le infinite possibilità dell’umanità». Kunieda è paralizzato sin da quando era bambino, per le conseguenze di un tumore spinale.



(AP Photo/Thibault Camus)

Sarah Storey
È una ciclista britannica di 43 anni e una delle atleti paralimpiche più vincenti di sempre, con 15 medaglie d’oro complessive (la 15esima delle quali appena vinta alle Paralimpiadi di Tokyo e alcune delle quali vinte nel nuoto, il suo precedente sport). Storey, le cui prime Paralimpiadi furono quelle di Barcellona del 1992, compete nella categoria C5, poiché dalla nascita non ha la mano sinistra. Suo marito, Barney Storey, fa il “pilota” per ciclisti ipovedenti nelle gare di ciclismo su pista.



(AP Photo/Raissa Ioussouf)

Husnah Kukundakwe
Nata senza l’avambraccio destro e con una disabilità alla mano sinistra, è un’atleta ugandese di 14 anni: a queste Paralimpiadi non c’è nessuno più giovane di lei. A Tokyo, a soli due anni dalla sua prima gara, competerà nel nuoto nella categoria S9. Non ci si aspetta che vinca una medaglia, ma lei dice che tra i suoi obiettivi c’è anche la sensibilizzazione verso le disabilità. Intervistata dal sito delle Paralimpiadi dopo un evento di presentazione a cui era stata invitata, ha raccontato inoltre di essere felicissima per aver avuto modo di conoscere alcuni dei suoi idoli, compresa l’italiana Bebe Vio: «Mi sembra di essere seduta in mezzo a stelle del cinema», ha detto.



(Richard Heathcote/Getty Images)

Kate O’Brien
Dopo essere andata vicina a partecipare alle Olimpiadi invernali nel bob, nel 2016 partecipò a quelle estive, nel ciclismo su pista. Poi nel 2017, mentre si stava allenando ebbe un gravissimo incidente, con diverse ossa rotte e con lesioni cerebrali. Andò in coma e rischiò di morire, e quando si risvegliò le fu detto che non avrebbe più potuto pedalare, camminare e forse nemmeno tornare a parlare. A 33 anni, è tra le favorite per l’oro nella categoria C4, sempre come ciclista, sia in una gara su pista che nella prova a cronometro su strada.




Natalia Partyka
Ha 32 anni, è polacca, è nata senza l’avambraccio destro e a queste Paralimpiadi punta a vincere il suo quinto oro consecutivo nel tennistavolo. Tra l’altro, a queste Paralimpiadi ci arriva poche settimane dopo aver partecipato – sempre nel tennistavolo – alle sue quarte Olimpiadi. È raro che succeda, ma il suo caso non è il primo.



(Steph Chambers/Getty Images)

Brad Snyder
Ha 37 anni, è statunitense e a Tokyo gareggerà nel triathlon nella categoria PTVI1, riservata ad atleti ciechi. Lo divenne nel 2011, quando era un militare artificiere in servizio in Afghanistan, in seguito all’esplosione di una bomba. Già un anno dopo vinse tre medaglie a Londra, nel nuoto, e nel 2016 ne vinse altre tre. Da qualche tempo ha deciso di diventare un paratriatleta, in uno sport che debuttò proprio nel 2016.



(Sean M. Haffey/Getty Images)

Hannah Cockroft
È britannica, ha 29 anni, ha vinto cinque ori paralimpici alle due precedenti edizioni a cui ha partecipato e a Tokyo gareggerà su sedia a rotelle nei 100 e negli 800 metri, le due distanze previste per gli atleti della sua categoria (T34). Come ha scritto il Guardian, comunque, si presenta a Tokyo pochi mesi dopo aver migliorato i suoi precedenti record mondiali sui 100, 200, 400 e 800 metri: sono ormai dieci anni che nessuno la batte in una competizione mondiale.



(Bryn Lennon/Getty Images)

Jefinho
È brasiliano, ha 30 anni, è completamente cieco da quando ne aveva sette e il sito delle Paralimpiadi ha scritto di lui che «è considerato il miglior giocatore di sempre di calcio a 5 per ciechi». Anche quest’anno la nazionale maschile brasiliana è favorita, dopo aver vinto l’oro in ogni edizione dal 2004 (quando divenne sport paralimpico) al 2016, anche grazie a questi due gol nella semifinale contro la Cina:




Parfait Hakizimana
Per gareggiare a queste Olimpiadi nel taekwondo, è partito da un campo profughi del Ruanda, in cui vive e insegna arti marziali da più di cinque anni, dopo essere fuggito dalla guerra civile del Burundi, il paese in cui è nato. Hakizimana – che ha 33 anni e che perse l’uso del braccio sinistro otto anni fa, dopo che gli spararono in un attacco armato in cui fu uccisa la madre – è uno dei sei atleti della squadra paralimpica dei rifugiati.




Carol Cooke
Nata in Canada nel 1961, da bambina praticò la ginnastica, per poi scegliere di dedicarsi invece al nuoto, dove andò assai meglio. «A quindici anni» ha raccontato lei «il mio obiettivo erano le Olimpiadi di Mosca del 1980, ma purtroppo il Canada le boicottò, pensai che il mio sogno era ormai svanito». Cooke divenne poliziotta – continuando a nuotare in modo non agonistico – e intorno ai trent’anni si trasferì in Australia con il marito. Fu lì che, quando aveva 36 anni, le fu diagnosticata la sclerosi multipla.
Lei continuò comunque a nuotare, e poi si dedicò anche al canottaggio, riprendendo quel vecchio sogno di gareggiare per il Canada, alle Olimpiadi, nel nuoto (nel frattempo diventato il sogno di gareggiare per l’Australia, alle Paralimpiadi, nel canottaggio). Con la squadra australiana, a 46 anni, mancò per meno di un secondo la qualificazione alle Paralimpiadi del 2008. Decise poi di dedicarsi al ciclismo paralimpico, nella categoria T2, in cui si gareggia con veicoli a tre ruote.
Nel 2012, a 51 anni, Cooke riuscì infine a partecipare alle Paralimpiadi di Londra, di cui ricorda che tra le prime cose che lesse dopo essere uscita dall’aeroporto fu un cartello con scritto: «A tutti gli atleti olimpici, grazie per aver partecipato all’evento di riscaldamento». Nella gara, vinse poi l’oro. Ne vinse altri due a Rio e ora, a 60 anni, gareggerà a Tokyo. Ha detto che non crede di poter essere sufficientemente competitiva anche a Parigi, tra tre anni, ma ha precisato: «Aspetto il giorno in cui l’allenatore mi dirà “Carol, forse è ora di smettere”, ma per ora quel giorno non è arrivato, e allora vado avanti».


(Kelly Defina/Getty Images)


Birgit Skarstein
I prossimi mesi saranno piuttosto intensi per questa atleta norvegese. Perché a Tokyo gareggerà nel canottaggio, nella categoria PR1, e perché a marzo gareggerà nello sci di fondo alle Paralimpiadi di Pechino. Qualche mese fa trovò inoltre il tempo di partecipare alla versione norvegese di “Ballando con le stelle”, con ottimi risultati. Skarstein è paralizzata dalla vita in giù dal 2010, quando a 16 anni il trattamento per un infortunio alla gamba le causò danni irreversibili alla spina dorsale.



(Naomi Baker/Getty Images)

Jessica Long
È nata in Siberia ma fu adottata da piccola ed è statunitense. Prima che compisse due anni le furono amputate entrambe le gambe. Fece il suo debutto paralimpico nel 2004 ad Atene, quando a 12 anni vinse tre medaglie d’oro. Contando anche quelle vinte nelle successive Paralimpiadi ha vinto in tutto 13 ori, a cui si aggiungono alcune decine di altre medaglie mondiali. Nonostante la sua straordinaria carriera, molti statunitensi hanno scoperto la sua storia giusto qualche mese fa, quando fu protagonista di una pubblicità del Super Bowl, in seguito riproposta anche altrove, ad esempio durante le recenti Olimpiadi.




Omara Durand
È una velocista cubana ipovedente, che gareggia nella categoria T12, in cui è detentrice dei record mondiali sui 100, 200 e 400 metri. Sui 100 metri, il suo miglior tempo è di 11 secondi e 40 centesimi; i 400 li corre in 51 secondi e 77 centesimi.




Bebe Vio
È comprensibilmente parecchio famosa, in Italia ma anche all’estero: per la sua grande storia, per la sua partecipazione al documentario Netflix Rising Phoenix, e di certo anche per la sua gran vittoria (con relativa grande esultanza) a Rio, nel fioretto.




Tra gli oltre quattromila atleti presenti alle Paralimpiadi di Tokyo, in rappresentanza di oltre 160 paesi (alcuni dei quali alla prima partecipazione di sempre) non ci sarà nessuno che rappresenterà l’Afghanistan: l’unico atleta afghano, il nuotatore Abbas Karimi, gareggerà con la squadra dei rifugiati.
Zakia Khudadadi – che gareggiando nel taekwondo sarebbe diventata la prima donna afghana a partecipare alle Paralimpiadi – non è potuta andare a Tokyo perché sarebbe dovuta partire proprio nei giorni in cui i talebani sono arrivati a Kabul. E nemmeno l’altro atleta afghano – Hossain Rasouli, che gareggia nell’atletica – è potuto partire.
Secondo il sito australiano ABC News sia Khudadadi che Rasouli sono tra le decine di atleti e atlete afghani che sono riusciti a lasciare il paese dopo che l’Australia ha concesso loro un visto speciale per motivi umanitari. Sempre secondo ABC News, i due atleti avrebbero espresso il desiderio di potere, se possibile, andare a Tokyo. Nel frattempo, durante la cerimonia di apertura delle Paralimpiadi si è scelto di mostrare comunque la bandiera afghana.

26.8.21

Marco Atzeni riporta in vita nel suo blog piccole e grandi storie della città «Non sono matto ma a volte mi sembra di vedere i personaggi dei miei racconti» Vecchie ville, statue e ricordi di una Sassari che non c'è più

dalla nuova  sardegna de  26\8\2021


SASSARI
"Scorsi poco lontano una bimba sola, aveva i fiocchi che le tenevano i capelli. Muoveva le manine nell'aria concentrandosi su qualcosa che non capivo. Che fai? Le dissi. Mi rispose "Accarezzo le farfalle!", ma io non vedevo alcuna farfalla. Rimasi ad osservarla, mi arrivava poco più su del ginocchio e guardandomi seria mi chiese "Signore, io sono morta?". Mi lasciò senza parole. Fu lei stessa a concludere il suo pensiero, dicendomi "Io non cresco mai... sono sempre piccolina!". Fuggì via coi suoi passettini. Allora socchiusi gli occhi, e per un istante riuscii anche io a vedere le farfalle attorno a lei. Poi svanirono, le farfalle e la piccola Bianca Maria Boeri".Erano le 5 di pomeriggio di sabato 9 luglio 1910, e la piccola
 Bianca Maria Boeri  busto
al cimitero moinumentale di Sassari  

Bianca Maria Boeri, a due anni e mezzo, moriva nella casa di via Cavour. Ogni palazzo, ogni statua custodisce un segreto o un mistero. Marco Atzeni spreme il marmo e tira fuori la storia di chi ci ha vissuto. Chi ha abitato, un secolo fa, in quella villa? Perché si chiama così? Chi era quella bimba con le codette del cimitero monumentale ? È strano che sia un giovane di 38 anni a scavare nella memoria di Sassari. E lo faccia solo per passione. Nel suo blog e nella sua pagina Facebook racconta i morti come fossero vivi. È come se andasse a trovarli nella loro casa in bianco e nero, suonasse il campanello, quattro passi e una chiacchierata nel presente, e poi li riaccompagnasse nel loro mondo color seppia, a riposare nelle pieghe della storia. «Alle volte mi sembra di essere matto - dice - quando passo sotto le finestre di villa Farris, a Cappuccini, o villa Crovetti in viale Caprera, o nei palazzi antichi di via Roma, sollevo lo sguardo verso le finestre, e mi sembra di vedere affacciati dal passato gli inquilini di quelle abitazioni. La nobildonna che mi saluta, sento le risate dei bimbi che giocano. Ho una tale confidenza con i protagonisti di quel tempo, che li percepisco ancora vivi».Fare il  cacciatore di storie non è il suo lavoro. Non è uno storico, non ha scritto libri.

cacciatore di storie non è il suo lavoro. Non è uno storico, non ha scritto libri. Marco Atzeni è un impiegato della Provincia, laureato in Economia, dotato di una straordinaria memoria per i nomi e per le date e di una curiosità in riserva fissa. Un topo da biblioteca, ma con la faccia furba e gli addominali da Instagram. «Sia ben chiaro: non sono una enciclopedia vivente. Io scopro e racconto. Molto spesso di quelle storie che scrivo, tre mesi prima non sapevo nulla». È un attento perlustratore del paesaggio urbano, e quando il suo sguardo si posa su una bella villa, diventa come una tomografia assiale, che vuole andare a fondo, nelle viscere, nella dimensione umana custodita nelle cose. I palazzi, gli sfarzi, le apparenze nascondono le fragilità delle famiglie: gioie, sofferenze, sacrifici, debiti, tradimenti, pianti, i delitti e tutti quei segreti di cui i muri sono intrisi. Ma non è gossip barricato, o ficcanasare nelle aristocratiche sfighe. È un rewind rispettoso, in punta di piedi. «Abitavo a Cappuccini, ed è pieno di belle ville. Chiedevo: chi l'ha costruita? Chi ci ha abitato? E non trovavo risposte. La mia ricerca è nata così. E pian piano mi sono accorto che questa curiosità non è solo mia, ma appartiene a tanti». Gli basta un nome, una traccia, una data, poi va avanti come un segugio: «Per prima cosa gli archivi della Nuova Sardegna, dove scovi tante storie. Poi gli archivi comunali, il catasto, la conservatoria». E infine lo strumento più chirurgico: Facebook. «Digiti un cognome, e scovi i parenti di quel nobile, gli eredi, che sono quasi sempre felici di riesumare le proprie origini e ti arricchiscono con gli aneddoti del bisnonno, le foto, i ricordi». E incrociando documenti e testimonianze, la pagina acquista spessore e va oltre il "Ciarameddu storicizzato", le vulgata leggenda affascinante ma priva di fondamento. C'è Villa Farris, intrisa di lutti, mai vissuta per davvero, con un senso di malinconia inestinguibile. Villa Caria, che sintetizza un romanzo, il bello e il brutto di una vita. Un proprietario che esportava il formaggio in America, con le stive dei transatlantici all'odor di pecorino, che dormiva nei migliori hotel di New York. E poi la crisi del '29, il tracollo finanziario e anche la villa che appassisce. O ancora villa Mimosa, con il barone Don Gaspare Arborio Mella dei conti di Sant'Elia che corteggiò la bella e giovane argentina Josephine con i mazzi di mimose. Vicende che Marco Atzeni riappiccica con scrupolo alle pareti, rifoderandole di storia. «I testamenti poi mi fanno impazzire. Racchiudono delle gemme inaspettate. Perché dentro inventari sterminati di ricchezze trovi piccoli spaccati di vita, o pillole che racchiudono il carattere del personaggio». Tipo: Giovanni Battista Basso, proprietario del palazzo di Piazza Azuni, che a fine 800 lasciava alla moglie un patrimonio immenso, a patto che in casa non entrasse nessun altro uomo. E che poi specificava le modalità delle esequie: due bare, una più grande, elegante, e all'interno una più piccola, rivestita con tessuto morbido, per un viaggio confort nell'aldilà. 



O ancora le ultime volontà del medico Achille De Vita, venuto da Cosenza, proprietario del palazzo De Vita in piazza d'Italia, che in più passaggi definisce la moglie deficiente. E scrive: alla mia moglie deficiente lascio.... e uno pensa: ma cosa avrà combinato questa donna? Per poi capire che la povera Fanny Lavagna non aveva alcuna colpa. Era solo l'Alzheimer, nel 1890, a non avere ancora un nome. "Scorsi poco lontano una bimba sola, aveva i fiocchi che le tenevano i capelli. Muoveva le manine nell'aria concentrandosi su qualcosa che non capivo. Che fai? Le dissi. Mi rispose "Accarezzo le farfalle!", ma io non vedevo alcuna farfalla. Rimasi ad osservarla, mi arrivava poco più su del ginocchio e guardandomi seria mi chiese "Signore, io sono morta?". Mi lasciò senza parole. Fu lei stessa a concludere il suo pensiero, dicendomi "Io non cresco mai... sono sempre piccolina!". Fuggì via coi suoi passettini. Allora socchiusi gli occhi, e per un istante riuscii anche io a vedere le farfalle attorno a lei. Poi svanirono, le farfalle e la piccola Bianca Maria Boeri".Erano le 5 di pomeriggio di sabato 9 luglio 1910, e la piccola Bianca Maria Boeri, a due anni e mezzo, moriva nella casa di via Cavour. Ogni palazzo, ogni statua custodisce un segreto o un mistero. Marco Atzeni spreme il marmo e tira fuori la storia di chi ci ha vissuto. Chi ha abitato, un secolo fa, in quella villa? Perché si chiama così? Chi era quella bimba con le codette del cimitero monumentale? È strano che sia un giovane di 38 anni a scavare nella memoria di Sassari. E lo faccia solo per passione. Nel suo blog e nella sua pagina Facebook racconta i morti come fossero vivi. È come se andasse a trovarli nella loro casa in bianco e nero, suonasse il campanello, quattro passi e una chiacchierata nel presente, e poi li riaccompagnasse nel loro mondo color seppia, a riposare nelle pieghe della storia. «Alle volte mi sembra di essere matto - dice - quando passo sotto le finestre di villa Farris, a Cappuccini, o villa Crovetti in viale Caprera, o nei palazzi antichi di via Roma, sollevo lo sguardo verso le finestre, e mi sembra di vedere affacciati dal passato gli inquilini di quelle abitazioni. La nobildonna che mi saluta, sento le risate dei bimbi che giocano. Ho una tale confidenza con i protagonisti di quel tempo, che li percepisco ancora vivi».Fare il cacciatore di storie non è il suo lavoro. Non è uno storico, non ha scritto libri. Marco Atzeni è un impiegato della Provincia, laureato in Economia, dotato di una straordinaria memoria per i nomi e per le date e di una curiosità in riserva fissa. Un topo da biblioteca, ma con la faccia furba e gli addominali da Instagram. «Sia ben chiaro: non sono una enciclopedia vivente. Io scopro e racconto. Molto spesso di quelle storie che scrivo, tre mesi prima non sapevo nulla». È un attento perlustratore del paesaggio urbano, e quando il suo sguardo si posa su una bella villa, diventa come una tomografia assiale, che vuole andare a fondo, nelle viscere, nella dimensione umana custodita nelle cose. I palazzi, gli sfarzi, le apparenze nascondono le fragilità delle famiglie: gioie, sofferenze, sacrifici, debiti, tradimenti, pianti, i delitti e tutti quei segreti di cui i muri sono intrisi. Ma non è gossip barricato, o ficcanasare nelle aristocratiche sfighe. È un rewind rispettoso, in punta di piedi. «Abitavo a Cappuccini, ed è pieno di belle ville. Chiedevo: chi l'ha costruita? Chi ci ha abitato? E non trovavo risposte. La mia ricerca è nata così. E pian piano mi sono accorto che questa curiosità non è solo mia, ma appartiene a tanti». Gli basta un nome, una traccia, una data, poi va avanti come un segugio: «Per prima cosa gli archivi della Nuova Sardegna, dove scovi tante storie. Poi gli archivi comunali, il catasto, la conservatoria». E infine lo strumento più chirurgico: Facebook. «Digiti un cognome, e scovi i parenti di quel nobile, gli eredi, che sono quasi sempre felici di riesumare le proprie origini e ti arricchiscono con gli aneddoti del bisnonno, le foto, i ricordi». E incrociando documenti e testimonianze, la pagina acquista spessore e va oltre il "Ciarameddu storicizzato", le vulgata leggenda affascinante ma priva di fondamento. C'è Villa Farris, intrisa di lutti, mai vissuta per davvero, con un senso di malinconia inestinguibile. Villa Caria, che sintetizza un romanzo, il bello e il brutto di una vita. Un proprietario che esportava il formaggio in America, con le stive dei transatlantici all'odor di pecorino, che dormiva nei migliori hotel di New York. E poi la crisi del '29, il tracollo finanziario e anche la villa che appassisce. O ancora villa Mimosa, con il barone Don Gaspare Arborio Mella dei conti di Sant'Elia che corteggiò la bella e giovane argentina Josephine con i mazzi di mimose. Vicende che Marco Atzeni riappiccica con scrupolo alle pareti, rifoderandole di storia. «I testamenti poi mi fanno impazzire. Racchiudono delle gemme inaspettate. Perché dentro inventari sterminati di ricchezze trovi piccoli spaccati di vita, o pillole che racchiudono il carattere del personaggio». Tipo: Giovanni Battista Basso, proprietario del palazzo di Piazza Azuni, che a fine 800 lasciava alla moglie un patrimonio immenso, a patto che in casa non entrasse nessun altro uomo. E che poi specificava le modalità delle esequie: due bare, una più grande, elegante, e all'interno una più piccola, rivestita con tessuto morbido, per un viaggio confort nell'aldilà. O ancora le ultime volontà del medico Achille De Vita, venuto da Cosenza, proprietario del palazzo De Vita in piazza d'Italia, che in più passaggi definisce la moglie deficiente. E scrive: alla mia moglie deficiente lascio.... e uno pensa: ma cosa avrà combinato questa donna? Per poi capire che la povera Fanny Lavagna non aveva alcuna colpa. Era solo l'Alzheimer, nel 1890, a non avere ancora un nome.



Un umido pomeriggio di aprile del 1894, verso le cinque, il ventenne Ferdinando Marianini indossò i suoi stivaletti, abbottonò il cappotto doppiopetto ed uscì di casa. Abitava con la famiglia in un elegante immobile nella parte iniziale dell'allora via Ospedale Civile, al numero civico 4, oggi via Enrico Costa. Dopo aver chiuso alle sue spalle il portone ad arco, Ferdinando iniziò una lunga camminata. Arrivò prima allo spiazzo sterrato del mulino a vento, all'apice di via Roma, dove si concludeva il centro abitato, poi proseguì per le lontane campagne di Serra Secca. Era una zona che conosceva, perché la sua famiglia possedeva alcuni terreni in quella località. A testa bassa e con le mani in tasca, il giovane Marianini procedette sino alla strada per Osilo e si addentrò silenzioso per gli ancor più sperduti boschi che conducevano al bacino del Bunnari. Eludendo la sorveglianza, arrivò di nascosto sullo strapiombo della diga che allora alimentava Sassari, fumò la pipa per qualche minuto, lasciandola poi sopra un piccolo masso. Si tolse i vestiti e li ripose ordinatamente in un luogo visibile. Fece gli ultimi tre passi del suo percorso cominciato un paio d'ore prima, chiuse gli occhi e si gettò nel nulla. Pochi istanti dopo calarono le tenebre. A casa Marianini si attese con angoscia il suo rientro fino all'indomani, poi fu chiaro che fosse accaduto qualcosa di spiacevole. L'ultimo ad aver visto il ventenne fu un bracciante. L'uomo indirizzò le ricerche, rivelando anche l'oscuro saluto rivoltogli dal giovane il giorno prima: "Ci vediamo all'altro mondo!". Il corpo fu ritrovato solo mesi dopo. Ferdinando, determinato sino all'inverosimile, si era immobilizzato le braccia con la cintura per evitare ogni ripensamento. Ferdinando era un affascinante ed educato studente dell'Istituto Tecnico di Sassari. Un biglietto, nascosto nella tasca della giacca, racconta il perché di quel gesto estremo: Ferdinando aveva perso la testa per la graziosa Antonina, ma i genitori del ragazzo proibivano una relazione con una
domestica. Ferdinando, puro d'animo, se ne innamorò e l'ultimo pensiero, prima di lasciare il mondo, lo dedicò proprio a lei: "Addio Antonina"Le storie delle ville liberty, dei palazzi più prestigiosi di Sassari e dei loro protagonisti sono raccolti nel blog http://storiasassari.blogspot.com Poi ci sono le pillole sul gruppo Facebook Sassari veccia e noba di Marco Atzeni (  foto a  sinistra  presa  dal suo account   facebook )  , Il blog racchiude decine di storie, con episodi spesso inediti e sconosciuti, raccolti attraverso la testimonianza degli eredi dei protagonisti.Marco Atzeni per il momento non ha intenzione di pubblicare alcun libro. Sarà solo l'ultima tappa, dopo aver concluso le sue ricerche. In cantiere ci sono ancora decine di storie.


vite guerriere e vite da buttare via di vanessa ruggeri

 Ci sono persone  che  hanno una forza interiore    fuori dal comune  . Persone   che preferirebbero di gran lunga   avere un' esistenza  più facile e  gentile  , e  che invece  , loor malgrado sono costrette  a combattere  ogni  giorno   per  guadagnarsi il  diritto     di vivere  una prvenza  di normalità  . Persone come  camilla   Serfini di 28  ani  . Infanzia e giovinezza interrotte prima dalla necessità di un trapianto di fegato, e poi da un linfoma di Hodgkin recidivo; un corpo impazzito che non risponde alle cure convenzionali sostenute dal sistema sanitario nazionale e che impone per la propria sopravvivenza infusioni di anticorpi monoclonali dal costo esorbitante. La vita è proprio una bastarda senza cuore, non conosce moralità, pietà o senso di giustizia, fa e disfa senza chiedere il permesso, spesso nei modi più imprevedibili e dolorosi. Eppure, anche nella malattia, o forse proprio perché prigionieri della malattia,
la vita riesce ad apparirci comunque un dono prezioso per cui vale la pena farsi guerrieri. Camilla è una giovane donna straordinaria: resiste e reagisce come una radice di ginepro pronta a rivegetare dopo ogni devastante incendio. Il suo calvario è iniziato a 9 anni, una tribolazione, la sua, che spezzerebbe il nerbo e la speranza di chiunque, perciò mi chiedo: dove trova tanta forza per splendere anche nella sofferenza? Da dove attinge l'energia per consolare gli infermieri quando non trovano vene integre nelle sue braccia? L'amore della sua famiglia e del suo fidanzato, unito alla generosità della gente, sono per lei scudo e corazza dietro cui barricarsi in attesa che spuntino nuovi germogli. Il fatto che Camilla sia una ragazza non deve offuscare il suo esempio di scontatezza: non si è forti e coraggiosi in base all'età, i giovani non sono guerrieri per natura, né sono dotati del potere infallibile di saper riconoscere e accettare l'amore e la bellezza che li circonda. Essere giovani non è uno status che garantisce la volontà di andare avanti anche dopo la sconfitta. Mi viene spontaneo pensare all'abisso che separa Camilla - aggrappata alla vita con le unghie e con i denti, impegnata a lanciare appelli necessari per riuscire a racimolare il denaro utile per la prossima infusione - da quelle migliaia di ragazzi che hanno partecipato al rave party abusivo sul lago di Mezzano: un raduno illegale per imbottirsi tutti insieme, per giorni, di alcol e droga fino a bruciarsi il cervello, a uccidere animali, a cadere in coma, a stuprare, fino a morire nella maniera più idiota. Vite sprecate, buttate via prima ancora di cominciare, viziate e viziose, annoiate e infinitamente tristi, vite che non celebrano libertà, per quanto sfrenata, ma soltanto distruzione. Ai due estremi del medesimo asse ci sono la voglia di aggrapparsi alla luce pur di esistere ad ogni costo, e il desiderio di perdersi nell'oscurità. Il costo in questione per rimanere a galla è elevatissimo, in tutti sensi. Chi dice che i soldi non danno la felicità mistifica di moralismo una verità molto più pratica e schietta: la salute, così come la qualità della vita, è purtroppo anche una questione di denaro: poter accedere a cure esclusive e costose dipende dal denaro. Quando le proprie risorse non bastano bisogna scendere a patti con la realtà e chiedere aiuto. Riconoscere di aver bisogno degli altri non è sintomo di debolezza, non lede l'orgoglio né la dignità o qualsivoglia autosufficienza raggiunta con fatica. Gli altri siamo noi, la guarigione di Camilla sarà la guarigione collettiva di tutti coloro che hanno pregato e contribuito economicamente al buon esito della sua battaglia. "Vola solo chi osa farlo" è il nome della pagina Facebook in cui Camilla racconta il suo percorso e indica come aiutarla. Camilla ha ragione, volare è un atto di coraggio, un atto di fede, il vuoto spaventa ma solo affrontandolo potremo librarci al di sopra delle nostre paure.



25.8.21

Ecco come muore un comico: ridendo in faccia ai suoi assassini. La lezione di Khasha Zwan ai talebani prima di venire ucciso






C’è una scena che mette a nudo in modo straordinariamente drammatico cos’è il regime talebano e quanto sia facile, in fondo, ridicolizzarlo se possiedi una dignità e un coraggio infiniti.
il  video    sotto Mostra il comico afghano Khasa Zwan mentre viene arrestato e caricato in auto dai talebani. E lui, con le mani ammanettate dietro la schiena, nonostante gli schiaffi, non implora, non chiede pietà, non si inginocchia ai suoi aguzzini. Fa quello che ha sempre fatto in ogni suo spettacolo, fino all’ultimo istante: li sfotte, li irride, si prende gioco di loro, di quegli emissari di morte e di un potere cieco e fanatico senza scrupoli né ironia.
Lo hanno ritrovato a fine luglio in campagna con la gola tagliata e i segni delle torture. Ma, tra i due, tra lui e i talebani, a sopravvivere sarà sempre lui.
Khasa Zwan ha mostrato al mondo come muore un comico: ridendo in faccia ai suoi assassini.
Ha tolto ai talebani il potere più grande che hanno: quello della paura.
È come se avesse detto loro: potete anche torturarmi, massacrarmi, uccidermi, ma non mi toglierete mai il potere di prendermi gioco di voi, la mia dignità, quello che sono.
Se esiste un simbolo di resistenza alla banalità del male, ad ogni latituine, eccolo qui.




Le ultime immagini di Khasha Zwan, il comico che ha ferito duramente i suoi assassini con il potere delle parole. Le sue ultime immagini da vivo lo consegneranno alla storia più di ogni suo spettacolo: ridere in faccia alla morte è dote di pochi
Khasha Zwan violenza forza afghanistan comico

Kasha Zwan è il comico afghano protagonista in queste ore, a più di 30 giorni dalla sua morte. Un destino che evidentemente lo vuole sempre al centro del piccolo schermo.

Orgoglio tricolore ad intermittenza vedi la differenza tra europei di calcio , olimpiadi e paraolimpiadi



Molti mi diranno , ma perchè Perché seguirle non sei disabile ? Perché lo sport non ha , o almeno non dovrebbe avere , barriere se non querlle fisiche . E poi vedere il discorso del pontefice , esse rappresentano lo sport, nella sua forma più pura. Perché ci permettono di vedere che i limiti nonostante gli handicap sono superabili. Consiglio a tutti di dargli la giusta attenzione che meritano . Infatti Leggo in rete  , visto  che  materialmente     come  quelle  normali   mi viene male  seguirle  perchè  sono al lavoro  ,  le seguo o indifferità  o via  internet  \ social   che nel primo giorno l'Italia ha ottenuto grandi risultati. e ben 5 medaglie ( 2 d'oro , 1 d'argento e 2 di bronzo ) ma Non leggo gli slanci patriottici di qualche settimana fa. Né da parte della stampa ufficiale , né da parte di semplici utenti.

l'unico che ne ha parlato è papa Francesco al termine dell’udienza generale di questa mattina

 


<blockquote class="twitter-tweet"><p lang="it" dir="ltr">Da <a href="https://twitter.com/hashtag/PapaFrancesco?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#PapaFrancesco</a> Francesco il pensiero agli atleti impegnati nelle <a href="https://twitter.com/hashtag/Paralimpiadi?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#Paralimpiadi</a> : testimoni di speranza e coraggio. <a href="https://t.co/VWPPiaOP4r">pic.twitter.com/VWPPiaOP4r</a></p>&mdash; Tg1 (@Tg1Rai) <a href="https://twitter.com/Tg1Rai/status/1430511801188376576?ref_src=twsrc%5Etfw">August 25, 2021</a></blockquote> <script async src="https://platform.twitter.com/widgets.js" charset="utf-8"></script>

 qual'ora  non dovreste vedere  il video  , blogspot  non  incorpora bene i video  di  twitter    , ha detto 


"Ieri a Tokyo hanno preso il via le Paralimpiadi. Invio il mio saluto agli atleti e li ringrazio perché offrono a tutti una testimonianza di speranza e di coraggio. Essi infatti manifestano come l'impegno sportivo aiuti a superare difficoltà apparentemente insormontabili”. 


 Infatti    ha   ragione l'account twitter ☆ℓ'ɑღอυʀ☆ #IncazzataGirlSummer🤬 @rosyb98

 

Comunque trovo assurdo e molto poco rispettoso che il profilo ufficiale dell' #ItaliaTeam non stia pubblicando NULLA in merito alle paralimpiadi, nonostante anche questi atleti siano appunto parte del team italiano... #Paralympics #Tokyo2020

Meloni e company facessero leggi più serie anzichè Vietare le parole «handicappato» e «diversamente abile» nei documenti ufficiali. un linguaggio più inclusivo non si fa per via legislativa

  se invece  di  fare  una legge  per una   cosa di poco conto   visto che  la  sostanza  non cambia   facessero leggi  o  almeno modificase...