Nel triangolo tra Freud, l'allievo suicida Tausk e una donna c'è il lato oscuro della psicanalisi
La street art incontra la pubblicità grazie ai grandi marchi che riempiono la città di opere che attirano lo sguardo per la loro bellezza e che conquistano anche i residenti dei quartieri da Garibaldi a Porta Romana
Venere di Botticelli in corso Garibaldi (fotogramma) |
In corso Garibaldi una Venere con orologio e borsetta allunga lo sguardo sullo struscio dei passanti, in corso di Porta Romana si fermano tutti a fotografare una facciata alla Gaudì comparsa come per magia. In via Canonica, arrivando dall'Arena, è sbocciata una grande peonia rosa. E in via Spallanzani, da qualche giorno, si è accesso il dibattito su un palazzo completamente rivestito da un motivo a fiori bianchi e neri.
Che Milano si stia colorando di murales in ogni suo quartiere è noto ma, a guardarle bene, alcune di queste facciate dipinte nascondono (o mostrano) qualcosa di diverso: sono pitture pubblicitarie. È il cosiddetto mural advertising che sta via via rimpiazzando i vecchi cartelloni: si dice addio ai posteroni patinati ingabbiati nei sostegni di ferro, ma soprattutto si saluta la logica dello spot tradizionale. Che siano inserzioni mascherate dall'estro degli street artist o vere e proprie opere d'arte su commissione l'effetto non cambia: la promozione incontra la città senza deturparne le facciate, regalando a chi passeggia inediti arazzi urbani.
Secondo i registri del Comune ad oggi i murales pubblicitari sparsi per la città sono circa una ventina: la tendenza, iniziata qualche anno fa, è in crescita. Spuntano come funghi: alcuni sono la semplice trasposizione su muro della vecchia esplicita réclame, ma molti sono street art a tutti gli effetti. L'ultimo, comparso qualche giorno fa tra lo stupore di molti e il disappunto di alcuni, occupa tutta la facciata di un edificio dei primi del Novecento che svetta all'angolo tra via Spallanzani e viale Regina Giovanna. Quel "Feels like Prada" contornato di fiori stilizzati in bianco e nero ha scatenato il dibattito social. Così, mentre in tanti si sperticano in "bellissimo" e "meraviglioso" c'è anche chi non gradisce: "Questa ultima genialata toglie l'eleganza che possedeva questa zona", sentenzia Mirella su Facebook mentre per Rosamarina "sulla carta sarebbe bello il disegno ma su una casa mi pare di no". Non c'è niente di più scontato ma efficace per dare senso ai battibecchi sul web: i gusti son gusti.
Fotorealismo e illusione ottica hanno rapito i residenti del palazzo e i commercianti della zona, che stanno chiedendo che l'opera non venga rimossa: sì perché sempre di inserzione pubblicitaria si tratta (il committente, che si mostra in maniera discreta sulle finestre del primo piano, è la Mv line group, società che produce tende) e come tale ha una scadenza. "Sappiamo che a fine settembre non ci sarà più e siamo molto dispiaciuti, anche perché è impossibile creare qualcosa di più straordinario di quest'opera", racconta Matteo Pescarzoli, condomino dello stabile. "È un'attrazione di grande valore per la nostra zona - gli fa eco Sabrina Frigoli, presidente dell'associazione dei commercianti di Porta Romana - un richiamo per tutte quelle persone che vengono qui apposta per fotografarlo". Da Clear Channel, la concessionaria dello spazio in facciata che ha altri due murales a Milano, la venere di Corso Garibaldi 81 sempre dipinta da Cheone, e un muro del Leoncavallo, non c'è alcuna chiusura: i vertici stanno ascoltando le richieste di tutti e si dicono disposti a trovare una soluzione condivisa qualora dal Comune partisse una richiesta ufficiale per salvaguardare il murale. "Sarebbe un regalo fantastico", sorride lusingato l'artista.
L'elenco stilato da Palazzo Marino è lungo: c'è la peonia mangiasmog di via Canonica 25 dipinta dagli Orticanoodles (il LifeGate Wall sul quale girano, a rotazione, diversi sponsor), piazza Santo Stefano e via Larga, via Casale 3 (dove ora c'è il gemello di via Spallanzani), via Pioppette 3, Largo La Foppa, varie pareti in Corso Garibaldi, via Gian Galeazzo 3, via Melchiorre Gioia, via De Castillia 24, via Lodovico il Moro 129, via Pietro Morselli 3, via Varese 1. Il meccanismo è identico a quello delle pubblicità tradizionali: stessi costi dei vecchi spot, per quanto riguarda i canoni comunali legati alle dimensioni del muro, cui si aggiungono le tariffe degli inserzionisti e i costi di realizzazione.
"Le aziende hanno compreso la potenza visiva della street art", spiega Mauro Ferraresi, professore di Sociologia della comunicazione all'Università Iulm: "Un tipo di comunicazione liquida, che argomenta meno di uno spot tradizionale ma che entra nella memoria visiva delle persone per rimanerci a lungo". La logica, precisa Ferraresi, "è legata al concetto di sponsorizzazione più che di pubblicità". Il messaggio, cioè, è semplice: "Goditi questo momento estetico che ti è stato offerto da me, azienda "illuminata". E funziona"
Bestiario musicale, il disco con cui Lucio Corsi ha esordito |
Immaginiamo una festa di fine anno. A bordo piscina. Con il Martini, la burrata, il deejay set e purtroppo i fenicotteri rosa gonfiabili. Si festeggia la nuova musica italiana, quella degli enfant prodige maghi dell’algoritmo e della prosa, dei nativi digitali favorevoli alla decrescita felice e dei periferici che si sono arricchiti in un click.
Ci sono tutti, vincitori e vinti di Sanremo, X Factor, Amici, scalatori di classifiche di Amazon e Spotify: un parlamento rovesciato per età, ambizioni, colori, motti, sogni. Hanno tutti i capelli rosa, blu, verde elettrico, doppi tagli, tatuaggi, anelli, taglie sbagliate, extra large. Discosto, c’è un tipetto che sembra schizzato fuori dalla copertina di un disco degli Yes, The fool on the hill. Si chiama Lucio Corsi.
Ventisette anni, di Vetulonia, città etrusca in provincia di Grosseto, piena Maremma che lui descrive così: «Il farwest italiano, la Toscana brulla, dura e magica dove agirono briganti e butteri». È cresciuto in campagna, in un podere circondato da alberi che «fanno l’ombra vera», dove c’è «il buio vero, quello che non si ricava: esiste», e gli animali sono apparizioni fulminee ma costanti. Per questo, il suo primo disco è dedicato a loro, gli animali che per lui hanno sempre meno spazio e allora «i draghi sono diventati lucertole», perché le città si espandono indiscriminatamente – lui dice che sono «metropoli tentacolari»: parla come parlava Luciano Bianciardi, grossetano come lui, e come lui spaventato da Milano, fortemente scettico rispetto a quella che chiamava «la società divertentistica e copulatoria».
A gennaio del 2017, quando la nuova musica italiana era ancora l’indie, almeno per i giornali, Corsi pubblicava Bestiario musicale: otto tracce, ciascuna dedicata a un animale del bosco di cui faceva un ritratto e una fiaba. Il cinghiale era «terremoto delle zolle, uragano delle fronde»: in una diretta social dal Museo della Scienza di Milano, ha spiegato che con quel verso intendeva che i cinghiali hanno trasformato il paesaggio, smussato le colline «che si sa, un tempo erano quadrate», comportandosi come agenti atmosferici.
Poeta, cantastorie, aedo, musicante di Brema, folletto, stramba creatura: lo hanno definito in questi e cento altri modi, tutti giusti e insufficienti. Diciannove anni a Vetulonia, dove torna appena può perché solo lì riesce a scrivere, lo hanno reso impenetrabile al suo tempo, a ogni tempo: lui sta nello spazio, non nel tempo. La cosa più precisa che si può dire di lui è che non assomiglia a niente. Certo, richiama gli anni Settanta e certo, il film che gli ha cambiato la vita è Velvet Goldmine, e i dischi che lo hanno allevato sono di Rondelli, Gaber, Paolo Conte, Bowie, Graziani, Dalla, Flavio Giurato (il suo preferito). Ma non assomiglia a niente lo stesso, non ai rapper suoi coetanei, che ascoltano e amano altro, e non ai Maneskin che ascoltano quello che ascolta lui e amano molte delle cose che ama lui, chitarre incluse. L’approccio artigianale alla musica, che studia da quando aveva quattordici anni, è uno dei molti tratti che lo pone in attrito rispetto alla tendenza contemporanea. È un feticista della strumentazione, sul palco siede al piano con in bocca un’armonica.
Nella sua Gibson del ’74, dopo averla comprata, ha trovato l’esoscheletro di uno scarabeo: lo ha lasciato lì, anche se fa rumore. Gli animali, ancora: sempre.
Una delle ragioni per cui Lucio Corsi è così interessante e, sebbene unico, anche esemplare, è che incarna bene lo spirito ecologista della sua generazione. Quello spirito che è facile definire woke (woke è ciò che avantieri avremmo definito radical chic) e che certamente contiene svariate dosi di faciloneria adolescenziale e conformismo intellettuale, ma che è anche, soprattutto, il carburante di un’etica nuova, che nasce da un amore pragmatico e romantico per il mondo intorno. La solidarietà, concetto che agli adulti tardo novecenteschi pare tuttora buonista, per la generazione di Lucio Corsi è un fatto concreto, la condizione della relazione tra uomo e natura e, di riflesso, tra uomo e uomo. L’armonia con il creato, che noi più avvertiti siamo abituati a sbeffeggiare come rimpasto fricchettone, è per loro un fatto di solidarietà, intesa come vincolo, e quindi dovere, e quindi accesso al diritto: intesa come la intende l’articolo due della Costituzione italiana. Solidarietà e anarchia: «C’è un movimento punk nella foresta, gli alberi con i capelli verdi sulla testa, e le galline con le creste mal viste dalla guardia di finanza, che non si accorge del crimine che avanza». Che cantastorie fantastico. L’anno scorso, sul limitare del primo lockdown, Corsi era in tour con il suo secondo disco, Cosa faremo da grandi: ancora otto tracce, ancora un disco concepito alla maniera del Novecento, con uno sviluppo, un tema portante e decine di affluenti. Insomma, un’opera. Era già Lucio Corsi: famoso e adorato dai superstiti della nicchia indie e dai traditori di quella indie pop, cominciava a essere trasversale, iconico, televisivo (è stato anche ospite fisso de L’assedio di Daria Bignardi), ma mai social.
Nel disco parla di vento, conchiglie, mare, lampioni, tempo e della grande impresa che è la rinuncia, di come preluda al cambiamento e di quanto sia necessaria e salutare. «La mia canzone parla di un modo di affrontare la vita dove si festeggiano più le linee di partenza che i traguardi»: quando suona dal vivo, Corsi non manca mai di raccontare i retroscena e i perché delle sue canzoni, come faceva Tenco, convinto di doversi sempre spiegare.
Com’è stato possibile che un ragazzo così speciale avesse un successo tanto disarticolato da tutte le regole del successo? Una parte di merito è della casa discografica che lo ha accolto, appena arrivato a Milano, la Picicca, e del suo manager, Matteo Zanobini, che il suo lavoro ce lo racconta così: «Il mio obiettivo è saper indirizzare gli artisti senza snaturarli. Con un talento puro che ha una visione molto precisa del suo lavoro, come è Lucio Corsi, la prima cosa da fare è preservare la sua anima, accompagnarla e intervenire il meno possibile, come si fa in cantina con un vino naturale. Non si aggiunge niente e si aspetta che la natura faccia il suo corso. In un mercato così veloce, è una strategia rivoluzionaria».
Il resto, è il talento puro di un ragazzo che è una creatura, e certe volte sembra una pianta, magari un vitigno. E per fortuna c’è qualche altro ragazzo, un po’ più adulto di lui, che lo protegge. La concordia generazionale è migliore della rottamazione, no?