10.6.21

 Oggi ho letto sula bacheca della mia amica una cosa che mi ha fatto piangere sangue. Sono talmente sconvolto e troiste da non riuscire a proferire parola . lascio che sia lei a farlo per me , visto che è più coraggiosa , conosce meglio l'argomento ., oltre ad avere una storia parrticolare , ma di questo abbiamo già parlato nei post precedenti la trovate nell'archivio del blog

A Roma una ragazzina tredicenne si è suicidata: e questa è la tragedia, non ci sono altre parole.
Poi leggo che la madre è indagata per abbandono di minore: domenica sera stava lavorando perché fa le pulizie in un piccolo pub sotto casa.
Questo è essere madri sole che crescono da sole i propri figli.
Qualsiasi cosa accada sei responsabile ed è abbandono di minore.
Se lavori e li lasci soli è abbandono di minore.
Se non hai i soldi è abbandono di minore e te li portano via. Se lavori dev'essere un lavoro che ti permetta di pagare una baby sitter, altrimenti non puoi andare a lavorare, ma se non riesci a lavorare non puoi crescerli e allora ti accusano di inadempienza. Se chiedi aiuto ai genitori sei una mantenuta. Se chiami gli assistenti sociali per segnalare una difficoltà, finisci dritta al tribunale dei minori, accusata di chissà che cosa. E così via.
Io nemmeno ve lo racconto cosa significhi sopravvivere e poi essere ingoiati dall'angoscia ogni volta che ci si chiude la porta alle spalle anche solo per andare dal medico.
Se poi vivi sotto la lente di un tribunale, di un servizio sociale, in una condizione di disagio e difficoltà.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante una o più persone e il seguente testo "DRAMMA Offese sull'identità sessuale dietro il suicidio della 13enne Roma, la ragazza presa di mira scuola madre indagata per abbandono laspetto «robusto» poco femminile di minore: quella domenica era al lavoro VICENDA Impiccata cavo wd Ledifficoltà media Bcambiodlserlow allarmi inascoltati L'incubo dei social STRUZIONI L'AWISO DOVUTO- 19enne Cesano abusata, due arresti www.m"
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40 anni fa #AlfredinoRampi, il bimbo che non salvammo Di © Daniela Tuscano

Ci sono eventi del passato per i quali ciascuno può dire: «Mi ricordo dov’ero e cosa facevo quando è successo». Che so, le Torri Gemelle nel 2001. Poi ci sono luoghi che evocano un fatto, lo descrivono compiutamente al solo citarli, e quindi a renderli emozionanti anche a chi anagraficamente non c'era a come per esempio Caporetto. Infine ci sono nomi capaci di riacutizzare un dolore. Vermicino
da quello che leggo in questo articolo di dell'utente Daniela Tuscano che trovate sotto è tutte e tre queste cose insieme.



Avevo quasi 17 anni quando Alfredino Rampi scivolò in quel maledetto pozzo artesiano nelle campagne di Roma, per non tornare mai più. Incollata come tutta l'Italia davanti allo schermo a snocciolare i minuti, a chiedermi cosa mai ci volesse a estrarre un pischello così esile, eppure quello sgusciava via, sempre più in basso, nell'umidore maligno che lo ghermiva senza pietà. Quando poi rinvenne, ormai esanime, ricordava uno di quegli insettini imbozzolati nella tela del ragno.


Solo che i fili erano ghiaccioli, e le immagini in bianco e nero richiamavano scenari di guerra, Italia stracciona, volti neorealisti, a cominciare dal dolore inespressivo della madre, allo stesso Alfredo, gracile e quasi sottopeso, a quell'Angelo - di nome e di fatto - che si fece calare fin nelle viscere, insetto anch'egli, con mani da elitre rivelatesi poi tenaglie: "Scivolava, lo presi per le vesti, poi per il polso, sentii crac, glielo avevo rotto. Per anni fui tormentato dall'incubo: volevo salvarlo, gli ho pure spezzato un braccio". Il piccolo non emise un lamento, come Cristo sulla croce. Era già tardi. Rivedo la compostezza ruvida e partigiana del presidente Pertini, lo stellone civile e degno. E impotente. "Povero bambino tanto amato" esclamò appena si trovò davanti al corpicino freddo. Sì, Alfredo fu davvero amato, ma l'amore non bastò. E non servì.


Maria Grazia Carta, sopravvivendo al dolore che conosce solo una madre alla quale muore un figlio in un OMICIDIO STRADALE , è riuscita a rendere questa terribile esperienza sorgente di nuova vita. educando i bambini delle scuole all'educazione stradale

N.b
Per  chi leggesse   di questa  storia    può  o  andare  in archivio   visto    che ne   abbiamo  parlato  precedentemente  ma se   non avete  voglia  o tempo  trovate il racconto (  e non solo )   qui sotto in questo video   



oppure         qui     dalla  nuova Sardegna del  10\6\2021


N.b 2
le  foto   salvo la  1  centrale  presa dall'articolo sotto  citato   , aono prese dalla pagina  fb  di Maria Grazia 


Ora la madre Maria Grazia Carta, sopravvivendo al dolore che conosce solo un  familiare   alla quale muore un figlio, è riuscita a rendere questa terribile esperienza sorgente di nuova vita. Ed ha  incanalato il suo dolore  non nell'odio e nella vendetta (  e sta ancora lottando  visto che attende  la sentenza  , ormai  vicina    della cassazione  ,  vedere   secondo articolo sotto  )  ma in programmi  di prevenzione   nellle  scuole  .Infatti dopo la morte del figlio ha deciso di portare la sua esperienza nelle scuole. Parla ai ragazzi Maria Grazia, ai loro genitori, agli insegnanti e alle istituzioni che lei stessa giudica 
locandina  della  sua iniziativa  

giustamente   assenti.
E proprio nelle scuole, ai bambini e ai ragazzi che chiama “semi”, la signora Carta parla di sicurezza stradale, di rispetto della legge, di amore per la vita; lo fa per ricordare Davide e per evitare che ci siano altre famiglie colpite da tragedie come la sua .
 << [...]Sono sarda e come tale tenace e sin dall’inizio, dal momento in cui ho saputo che mio figlio è stato ammazzato, ho giurato che avrei fatto prima la battaglia giudiziaria e poi ho voluto fare qualcosa di buono per il futuro, per le giovani vite ma anche per chi è sordo e non vuole ascoltare.
Sto portando un messaggio all’interno delle scuole perché serva a scuotere le coscienze di tutte quelle istituzioni che non si fanno carico di quella che è la sicurezza stradale.
Oggi più che mai si muore sulle strade tra l’incuria istituzionale, ma io ho fatto un giuramento a Davide  perché quello che gli è successo non capitasse più.La vita è bella, è una sola e rivolgo un appello: non ammazzatevi e non ammazzate: salite in macchina consapevoli che anche un solo bicchiere di birra o di vino vi può togliere la lucidità >> ( da https://www.castedduonline.it/automobilista-educazione-stradale/ 


«Davide travolto da un ubriaco
ora insegno le regole ai bimbi»

di Silvia Sanna

SASSARI
In fila tra i percorsi tracciati nel cortile, attenti a rispettare la segnaletica e le distanze con le loro macchinine di cartone. Poi alla domanda "cosa si indossa appena si entra in auto?" rispondono in coro "il cervello", perché è la testa l'elemento più importante, ancora più della cintura di sicurezza. Hanno dai 3 ai 13 anni, sono gli scolari di un istituto comprensivo di Roma, quartiere Tor Bella Monaca:





 tutti gli alunni, dall'infanzia alla secondaria di primo grado, conoscono l'insegnante Maria Grazia Carta, maestra quest'anno della prima elementare. Nuorese di 59 anni, da 26 vive a Roma: è la mamma di Davide Marasco, investito e ucciso due anni fa - il 27 maggio del 2019 - da un automobilista ubriaco mentre in sella al suo scooter, di notte, andava a lavorare nel panificio. Da quando Davide non c'è più la mamma Maria Grazia non si è fermata nel portare avanti la sua duplice battaglia: ottenere giustizia per la morte del figlio

ed evitare altre croci come la sua. «Educare i bambini e gli adolescenti è fondamentale: imparano presto le regole e le insegnano ai genitori, agli adulti che usano l'auto ogni giorno - spiega Maria Grazia - e troppo spesso si dimenticano che al volante bisogna essere lucidi: niente distrazioni, come il telefono cellulare, e niente alcol. Se la persona che ha travolto Davide avesse usato la testa, mio figlio sarebbe ancora qui con noi, con la sua famiglia, con il suo bambino». E proprio ai bambini, "i semi" come li chiama Maria Grazia Carta, si rivolge la campagna di educazione stradale che tante scuole, sull'esempio di quella in cui lei insegna, vogliono inserire nel Ptof, il Piano triennale dell'offerta formativa. «Io ci sono, l'ho promesso il giorno in cui è morto mio figlio: voglio impegnarmi perché altre madri non debbano piangere come me».Lezione speciale. Il progetto si chiama "Una scuola sulla buona strada" e punta a diffondere «la cultura del rispetto e della legalità tra i bambini e i ragazzi - spiega Maria Grazia Carta - per veicolare il messaggio anche gli adulti. I piccoli sono gli automobilisti di domani e devono crescere con la consapevolezza che un'auto può trasformarsi in un'arma potenzialmente pericolosissima per se stessi e per gli altri. Abbiamo insegnato ai bambini che non ci si può mettere al volante dopo avere bevuto alcolici o assunto droghe, e che è vietato telefonare o mandare messaggi. Loro hanno capito e lo ricorderanno a qualche genitore distratto». L'iniziativa ideata da Maria
Grazia, presidente dell'associazione sportiva e culturale Davide Marasco, è stata accolta con entusiasmo dalla scuola in cui lei insegna, l'Istituto comprensivo Via Acquaroni, e tutti gli alunni hanno partecipato con elaborati e prove pratiche «sulla base delle diverse fasce d'età». Il 27 maggio, giorno del secondo anniversario dell'incidente in cui Davide perse la vita, i piccolini hanno letto i temi e i pensieri dedicati a lui e a tutte le vittime della strada, hanno piantato alberi, illustrato le regole imparate alla perfezione. «Sono stati bravissimi, alunni, colleghi e dirigenti hanno dimostrato da subito una sensibilità straordinaria. Avere loro accanto mi ha aiutato ad affrontare il momento più doloroso della mia vita, in cui mi sono sentita abbandonata dalle istituzioni. Invece la scuola è presente e dimostra ancora una volta di essere capace di grandi cose, arrivando a sensibilizzare su temi cruciali come la sicurezza stradale sui quali lo Stato invece è assente. Non c'è infatti alcuna campagna di educazione, non si fa abbastanza per fare capire che chi guida deve essere lucido, perché bere anche un solo bicchiere di birra può rivelarsi fatale».I testimonial. Accanto a Maria Grazia, in alcune iniziative nelle scuole, c'è Omar Bortolacelli: è anche lui una vittima della strada, sopravvissuto a un incidente che gli ha lasciato una infermità gravissima. Operatore del 118, aveva 27 anni quando l'ambulanza su cui viaggiava si schiantò: un colpo di sonno del collega alla guida e l'esistenza di Omar cambiò per sempre. «Gli avevano dato poche ore di vita - dice Maria Grazia - invece è sopravvissuto. Ha perso l'uso delle gambe ma nonostante questo non si è mai arreso: è diventato un campione di motociclismo, fa immersione subacque ed equitazione. E continua ad aiutare gli altri, come operatore del
118, sempre con il sorriso. Dice che lo sport lo ha salvato e per i ragazzi è un ottimo esempio di coraggio e determinazione. Sono fiera che mi accompagni in questo viaggio, perché so che Davide ne sarebbe felice».Il futuro. Maria Grazia Carta ha lasciato la Sardegna molti anni fa «ma l'isola resta casa mia, sono sarda e tenace come tutte le donne sarde. Non ci pieghiamo mai e andiamo avanti a testa alta, come diceva Grazia Deledda. Nuoro è la mia città, il luogo del cuore. Lì ho le amicizie più care e i ricordi più belli. Anche Davide, che era nato a Sassari, amava tanto Nuoro: era tifoso della Nuorese, la squadra gli ha dedicato gol e striscioni bellissimi. Saremmo tornati insieme d'estate. Invece ci andrò da sola o con gli altri miei figli. E mi piacerebbe ricordare Davide anche lì, portare la testimonianza di una madre che ha perso un figlio per colpa del comportamento insensato di un'altra persona: solo così riesco a dare un senso alla mia vita e ad aiutare altri a salvare la propria».

Gli avvoltoi su Saman e sulle vittime dei femminicidi etnici - religiosi il caso saman


Ogni volta che il tema della violenza basata sul genere si intreccia con la questione migratoria, le attiviste per i diritti delle donne sono accusate di restare in silenzio per il presunto timore di incorrere nell’accusa di razzismo.  In realtà, basterebbe scorrere i comunicati presenti sulle pagine dei movimenti e di tutte le principali organizzazioni italiane, a partire dalla rete  del  D.i.Re ( DONNE IN RETE CONTRO LA VIOLENZA La Rete nazionale antiviolenza gestita da organizzazioni di donne che riunisce i centri antiviolenza  )  per accorgersi che le femministe dicono parole chiare, di rabbia e denuncia, sull’ennesimo caso di femminicidio che – ormai è certo – ha tolto la vita alla diciottenne pakistana Saman Abbas. Ciò che non si perdona a quelle che vengono schernite come “professioniste dell’indignazione di genere” è di non sposare il frame culturalista: la violenza come il prodotto di culture o religioni non occidentali.
Questa lettura, però, ostacola il riconoscimento della violenza come fenomeno strutturale, mentre ignora la complessità determinata dall’intersezione di genere, etnia, religione, nazionalità, e finisce per offrire un alibi per non fare nulla. Infatti a destra c'è chi usa la vicenda della povera  Saman Abbas per colpire "gli amici degli stranieri" oppure "le femministe". Esse   devono essere Persone a cui della sorte della ragazza interessa poco, quasi nulla . È la solita banalità del male



ecco cosa ha postato Rossella Angiolini presidente della commissione per la promozione delle pari opportunità di Arezzo. (Avvocata di spicco, ex candidata sindaca). Elegante, sobria, raffinata ma soprattutto la persona migliore che si potesse trovare per descrivere il caso umano del giorno .
Ecco quindi     che  era era prevedibile, ogni volta che una donna \ ragazza di famiglia islamica viene ( quando non riesce a fatica ad arrivare a  conquistarsi la libertà ) la libertà conquistata a fatica delle musulmane d’Italia barbaramente  uccisa  le  iene  si scatenano 
 E poi vengono  gli avvoltoi  . Ed  ecco  che    alla fine gli avvoltoi si sono buttati su Saman Abbas usandola come clava per colpire i propri avversari che in questo caso sono la sinistra (che poi, a pensarci bene, beati loro che vedono sinistra dappertutto e noi tutto il giorno tutti i giorni qui a cercarla), le femministe e di sponda anche gli amici degli “stranieri” (perché per loro Saman Abbas è morta solo  perché di fede islamica, mica perché schiacciata da un patriarcato che non la voleva libera ) che sarebbero addirittura complici morali .
Mentre le notizie su Saman Abbas disegnano un finale sempre più fosco si moltiplicano gli strumentali appelli di chi urla “e le femministe dove sono?”. Domande  legittime certo   vista la  quasi  indifferenza   assuefazione  (  ne abbiamo già parlato   precedentemente   su questa  pagine  qui qui  )  . Ma    sfugge   che  coloro  che   fanno  o intersecano  i  loro discorsi   con  tali  domande  sono  sempre gli stessi che dipingono ad ogni pie’ sospinto le femministe come delle pazze esagitate il  che  rende il tutto ancora più cretino e  strumentale  \  opportunistico  . A questi ovviamente , senza  generalizzare  , la sorte della ragazza interessa poco, quasi niente, giusto il tempo di usarla come fionda per lanciare i loro sputi e poi tornare nelle loro tane. È la solita banalità del male.
Infatti    come  giustamente  fa notare   Giulio Cavalli  sul settimanale Left (  https://left.it/ ) 9 Giugno 2021 

Tra l’altro questi sono gli stessi che stanno trattando la vicenda come una “questione tra stranieri” rivendicando ovviamente la superiorità italiana (sovranisti anche nei femminicidi, che miserabile squallore) e sarebbe curioso sapere cosa ne pensino invece del fatto che Saman Abbas a novembre dell’anno scorso (era ancora minorenne) avesse chiesto aiuto ai servizi sociali di Novellara per non essere costretta al matrimonio, fosse stata trasferita sotto protezione in una comunità di Bologna, e avesse presentato una regolare denuncia ai carabinieri. Non è una storia tra “pakistani isolati”, insomma. Ci sono istituzioni, forze dell’ordine coinvolte. E non solo: l’11 aprile Saman Abbas, ormai maggiorenne, decide di tornare a casa per prendere i suoi documenti e presumibilmente trasferirsi all’estero. Il 22 aprile si presenta (di nuovo) dai carabinieri per denunciare i genitori raccontando che non le veniva permesso di prendere le sue cose, raccontando le minacce di morte a lei e al suo fidanzato pakistano.
I carabinieri si presentano nella casa dei genitori di Saman Abbas solo tredici giorni dopo. Tredici giorni dopo, il 5 maggio. Non trovano più la ragazza e lì cominciano ad affiorare i sospetti e poi l’indagine. Insomma, ci sono un po’ di responsabilità anche di casa nostra, forse, no?

Tesi confermata  anche    dalla   replica  dell'eurodeputata del Pd Pina Picierno alla Lega sulla tragedia di Novellara

Poi, volendo ci sarebbe il tema vero : questa narrazione di donne \  ragazze  che    “vogliono diventare occidentali” con la solita boria da superiori e che invece sono donne\ragazze che vogliono essere libere, che rivendicano il diritto di dire no ad  antiche  consuetudini  e tradizioni e che muoiono per questo. Ma del tema vero, credetemi, interessa poco agli avvoltoi ed  ai politicanti  nostrani .infatti trovo che l'aspetto più fastidioso e ipocrita, in questo e in altri casi come questo sia l'ostentazione e l'esaltazione  della superiorità culturale occidentale residuo di teorie di :  Cesare Lombroso 1835 –1909) e Alfredo Niceforo ( 1876 – 1960 )  Una ostentazione che non manca nemmeno nella sinistra, una certa parte d'essa  , passa a  destra    sebbene attuata con maggiore eleganza risetto alla destra. E allora com'è fatta l'ostentazione di superiorità culturale della sinistra centrista ( ex DC per chi è  mio coetaneo o appassionato  della storia repubblicana  )  ovviamente   fatti salvi dei piccoli   casi  isolati    come  quello   della Picierno in particolare ? È fatta di silenzi e, laddove silenziare non è possibile, è fatta di quel 'troncare e sopire, sopire e troncare' che le mette un sasso in bocca di fronte, per esempio, a casi irlandesi e canadesi, di ( limitandoci agli infanticidio ) sepolture massive di bambini in siti di impianto culturale cattolico e derivati . 


9.6.21

Morto don Mario Riboldi, ha dedicato la sua vita ai rom e sinti: "Scelse di vivere il sacerdozio da nomade"

 Ha vissuto a lungo in roulotte in un campo rom di Brugherio e ha condiviso la sua vita con i rom e i sinti italiani di cui è sempre stato amico e referente. Ieri è morto a 92 anni, don Mario Riboldi, il prete di frontiera che più di chiunque altro negli ultimi 50 anni è riuscito a interpretare i bisogni di un popolo che ha vissuto come una minoranza ai margini delle grandi città, Milano in primis.Lo avevamo intervistato una decina di anni fa proprio a Brugherio, nella sua casa mobile, in mezzo alle altre roulotte e vicino alla "cappella" dove celebrava ogni mattina la messa per i cattolici del suo campo. Era il loro consigliere spirituale e con loro tante iniziative aveva organizzato a favore del dialogo e dell'integrazione sociale. Da


quando la sua salute si era deteriorata, viveva in una casa di riposo di Varese, lì dove è mancato ieri.
"È morto don Mario Riboldi, un uomo buono di Dio e uno dei più cari amici dei Rom e Sinti in Italia, Europa e in mezzo mondo - racconta in un post su Facebook Stefano Pasta,  di Sant'Egidio di Milano - Ho avuto la fortuna di essergli amico e aver tante occasioni con lui per condividere preghiere, parole, pranzi, sogni, preoccupazioni, pensieri per tanti rom e sinti. Tanti sono i ricordi dei momenti vissuti insieme: ricordo quando - avevo appena finito le superiori - mi raccontò come aveva iniziato la traduzione del Vangelo di Marco in una delle tante lingue romanes che parlava. Ogni incontro era l’occasione per un nuovo aneddoto, vicino e lontano nel tempo".

 
 
 
 
 
Don Mario Riboldi era stato incaricato di seguire come cappellano i rom di Milano dal cardinale Carlo Maria Martini, che aveva accettato la sua scelta di vivere il sacerdozio da nomade, vivendo nel contesto fragile e particolare in un accampamento autorizzato ma non certo comodo. Riboldi non aveva difficoltà ad ammettere che lo stile di vita in fondo arcaico e rurale dei rom gli era consono, forse per una sua autenticità così rara nei tempi di oggi. 
"Con Sant'Egidio avevamo la tradizione della preghiera per i defunti rom e sinti a Milano, a cui ogni anno hanno partecipato tanti amici rom - aggiunge Pasta -. Don Mario ha dedicato la sua vita ai rom e sinti, che amava. Ha testimoniato cosa vuol dire vivere la testimonianza, radicale e non scontata, del Vangelo. Lo ricordo nella preghiera e credo la sua bella vita sia un dono e anche una responsabilità per tutti noi".

Cordoglio arriva anche dalla Diocesi che ricorda la storia di questo prete, ordinato nel '53, appoggiato dal cardinale Montini futuro Papa Paolo VI, e dal 1971 al 2018, per 47 anni,incaricato diocesano per la Pastorale dei Nomadi. Svolse diversi ruoli in ordine alla evangelizzazione dei rom, sinti e camminanti sia come responsabile diocesano che nazionale, portando agli onori degli altari il 4 maggio 1997, per la prima volta nella storia il gitano Ceferino Jimenez Mall. Preziose le sue traduzioni nelle varie lingue rom della Bibbia, di testi liturgici e canti.
«Scompare un prete che ha saputo vivere con radicalità la testimonianza del Vangelo e un punto di riferimento per la comunità rom. La sua scelta di farsi povero tra i poveri, di vivere come un rom, pur non essendolo, è stata una provocazione anche per molti credenti, costretti dal suo esempio a interrogarsi sui tanti luoghi comuni di cui questo popolo è ancora vittima e ostacolano, purtroppo, la sua piena integrazione», dice Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana.

NIENTE è QUEL CHE SEMBRA . QUANDO L'AUTISMO VIENE SCAMBIATO ED CONFUSO CON disturbo dell’attenzione,

 

Lei è Florina. Vive in provincia di Roma. È sposata, ha un figlio. Alessio ha 2 anni, è un bambino molto vivace, ma non spiccica una parola. È il 2012. Florina e il marito portano il figlio in ospedale per un problema respiratorio. Il medico li fa chiamare. Prego signori, accomodatevi, i polmoni del piccolo sono a posto, il problema è un altro. Florina sgrana gli occhi. In che senso? Il dottore la guarda dritto negli occhi. Alessio è autistico. Florina è smarrita, anche il marito cade dalle nuvole. Si rivolgono a una neuropsichiatra. Dopo ore di test, la dottoressa conferma il verdetto. Alessio è grave, non parlerà e non sarà mai autonomo, rassegnatevi. Florina è divorata dai sensi di colpa.






Come ha potuto non accorgersi di nulla? Passano gli anni, Alessio segue una terapia mirata, si comporta in modo diligente, ma i risultati sono scarsi. Si esprime a monosillabi, è irrequieto, gli altri bambini lo evitano, e lui ne soffre. Florina non riesce a rassegnarsi. Prende Alessio per mano, lo porta alle poste, gli insegna a ritirare il ticket, a mettersi in fila. Entrano al supermercato, gli fa inserire la monetina per il carrello, lascia che scelga i prodotti dagli scaffali. Alessio ti va la pizza? Il bambino fa segno di sì, Florina gli mostra come ordinarla. Lo coinvolge in tutte le attività del quotidiano, la gente del quartiere impara a conoscerlo, lo prende in simpatia, lo saluta quando lo incontra. Alessio sorride, poco alla volta parla, si apre, e un bel giorno esprime alla mamma il suo desiderio più grande. Mamma io voglio essere accettato per quello che sono. Florina è incredula, abbraccia il suo bambino. Ce la faremo tesoro, te lo prometto. Gira l’Italia e trova un medico specializzato. Il dottore visita il bambino. Signora, ma quale autismo, suo figlio ha un disturbo dell’attenzione, con la terapia giusta farà passi da gigante. Oggi Alessio ha 10 anni, frequenta le Elementari, ha imparato da solo il rumeno, va alla grande in inglese, fa pianoforte, tennis, e ricorda il numero civico di tutti i suoi amici. E c’è una frase che ripete di continuo, fino all’ossessione. Mamma, sono felice.
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