Noi tutti sottoscritto compreso agiscono d'impulsi \ istinto e fanno azioni di cui poi si vergognano e porteranno il rimorso , ma almeno si scusano più o meno sinceramente privatamente o pubblicamente quando glielo si fa fa notare ma qui non è avvenuto
La pubblicità degli hamburger con le foto di Maddie: "Con panini così buoni, lascerai i tuoi bambini a casa"
Il proprietario di una ditta di panini da asporto di Leeds ha pubblicato spot usando le foto della bambina scomparsa nel 2007
Affamato di (troppo) denaro. Per vendere i suoi hamburger un uomo Joe Scholey, un 29enne proprietario di una ditta di panini da asporto di Leeds, la Otley Burger Company, ha pubblicato una vergognosa pubblicità senza alcuna autorizzazione (e senza il senso del limite). Ha utilizzato l’immagine della mamma di Maddie MacCann - la bambina rapita in Portogallo nel 2007 - in uno studio televisivo e la foto della figlia con una frase raccapricciante testo: "Con gli hamburger così buoni, lascerai i tuoi bambini a casa. Qual è la cosa peggiore che potrebbe accadere. Buona festa della mamma a tutte le mamme là fuori”.
Le prime immagini pubblicitarie sono di marzo: hamburger e bambina rapita, cosa potrebbe mai andare male? Per giorni la questione era rimasta nel silenzio. Poi improvvisamente qualcuno ha capito quanto fosse inquietante l'abbinamento, ignobile lo slogan, insostenibile l'uso della foto della bambina più tristemente famosa d'Inghilterra. Maddie è stata la protagonista di una campagna mediatica senza precedenti in Inghilterra. La vicenda ha riempito tabloid e tv e talk show per anni. La bambina è stata segnalata in decine di posti. Il nome di Maddie si trova in milioni di pagine internet. Per la prima volta, però, abbinata a un pezzo di carne, due fettine di pane e un po' di formaggio fuso. Joe Scholey ha provato a sfruttare un nome e un viso famoso fino a quando l'Asa (l'Advertising Standards Authority) non ha ricevuto migliaia di denunce e reclami e ha quindi intimato alle piattaforme social coinvolte di rimuovere quei contenuti. Il proprietario della ditta aveva già avuto trovate censurabili: aveva pubblicato un'immagine di una mamma che fingeva che sua figlia fosse stata rapita, aveva condiviso post con le immagini di assassini nel giorno della festa del papà. E non ha neanche chiesto scusa o fatto marcia indietro: al Leeds Live ha detto di pensare solo i soldi e che non importa "se le persone si sentono offese". Non era nemmeno sazio.
Una risata ci seppellirà o almeno cosi dovrebbe . IL fatto segnalato nell'articolo sotto è come quello mdi noi italiani ( almeno la maggior parte ) vanno all'estero per le vacanze o per lavoro ed anziché provare la cucina del luogo chiedono la nostra .
Ideona del Miur: “Ai profughi gare di zuppe ucraine”
ACCOGLIENZA LO STRAMPALATO VADEMECUM DEL MINISTERO PER INTEGRARE GLI STUDENTI UCRAINI
Il Fatto Quotidiano
» Tommaso Rodano
Attenzione italiani, ché la solidarietà non basta. Dove non arriva l’accoglienza, arrivano le zuppe. Per non far sentire a disagio gli ucraini nel nostro paese, mettiamoli ai fornelli.
Attenzione italiani, ché la solidarietà non basta. Dove non arriva con l’accoglienza, possono arrivare con le zuppe. Per non far sentire a disagio gli ucraini rifugiati nel nostro paese, bisogna metterli ai fornelli, farli sfogare con una bella spadellata, lasciarli esprimere con un borsch o con un altro manicaretto tipico; una dolce madeleine della loro vita dilaniata.
A elaborare questa teoria, indubbiamente suggestiva, è l’autorevole Ministero dell’istruzione di Patrizio
Bianchi, che si sforza di regalare sorrisi, sebbene involontari, in questo periodo cupo. Il dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione ha elaborato un sofisticato vademecum per indirizzare le scuole nell’accoglienza degli “studenti profughi dall’ucraina”. Si intitola “Spunti per la riflessione didattica e pedagogica delle scuole” ed è già online, ma in continuo aggiornamento, dallo scorso 24 marzo. IL PREZIOSO documento è articolato in una serie di capitoletti dai titoli intriganti: “I tempi convulsi dell’emergenza e il ‘tempo lento’ dell’educazione”; “Apprendere serve, servire insegna”, “La pedagogia della scala”; “Non fuggire il dolore dei bambini e... attenti al lupo”. Ma le riflessioni più avveniristiche sono quelle che danno sostanza al tema: “Ricchi di doni, non mendicanti”. Ora, l’argomento è serissimo, drammatico, ci sarebbe poco da scherzare. Proprio per questo, forse avrebbe fatto bene un po’ di cautela, prima di rendere pubbliche talune fantasie. “Nell’accoglienza, per sovrappiù, per eccesso di attenzione, può accadere di ‘dare’, senza chiedere nulla – si legge nel testo del Miur –. Sono situazioni da evitare, perché chi arriva deve sentirsi a sua volta portatore di doni, ricco di cose da dare agli altri. Non mendicante alle nostre porte”. Insomma, a questi poveri cristi di ragazzi che si trovano rifugiati e stranieri nelle nostre scuole, non ci si può limitare a dare una mano, sarebbe offensivo: bisogna anche chiedere. Chiedere cosa? “Ad esempio, l’ucraina ha un corpus di canzoni popolari tra i più ricchi al mondo. Con l’aiuto di adulti profughi o residenti potrebbero essere da loro ‘donati’ canti tradizionali”. Una schitarrata tra amici. Ma non basta, c’è una proposta ancora più sostanziosa: “Oppure, questo popolo ha infinite varianti di zuppe (il famoso borsch) che stanno al passo con le tante varianti italiane. Una bella gara di zuppe con le ricette delle nonne potrebbe essere una proficua attività, in collaborazione con il centro anziani del quartiere”. Una gara di zuppe. Agli studenti ucraini si propone una gara di zuppe: una specie di Masterchef del disagio, in cui bambini e adolescenti segnati da un trauma terrificante si sfidano ai fornelli con gli anziani del quartiere (!). “E non pensiamo di poter capire quello che provano – insiste il ministero –. Noi siamo qui, al caldo, al sicuro (auspicabilmente); soltanto pochi grandi vecchi che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale possono capire davvero quello che questi bambini e ragazzi hanno subito e subiscono”.
Nessuno può capirli. Sicuramente non li ha capiti il Miur, che vuole fargli cucinare zuppe e cantare canzoni, così capiscono subito che sono capitati in una gabbia di matti. Una risata ci seppellirà.
PORTATORI DI DEMOCRAZIA MA NON DEMOCRATICI IN CASA LORO
Cari\e Americani o filo Usa senza se e senza Ma Qui non è problema d'essere Americani o Anti Americani ma essere critici verso coloro che si dicono e giustificano le loro guerre( o sostegno a regimi \ governi dittatoriali ) dirette o per procura come democratiche o per poter portare la democrazia quando poi sono carenti e non l'applicano a casa loro .
Leggo dei Maneskin e del discorso del leader, preso in prestito da Charlie Chaplin e dalla sua interpretazione cinematografica " Il dittatore ". Forse i Maneskin non sanno che in Amerika Chaplin fu inquisito dalla Commissione per le attività anti-americane, accusato di filo-comunismo. Periodo storico-politico americano conosciuto come " caccia alle streghe", in particolare con democratico zelo, cacciavano i comunisti. Chaplin scappò in Gran Bretagna, rifugiandosi poi successivamente (1962) in un tranquillo angolo della Svizzera. La condanna decisiva nei suoi confronti era arrivata infatti il 19 settembre del 1952.Il punto é che prima di citare qualcuno, per difendere l'indifendibile, bisognerebbe approfondire la storia di quel qualcuno, in questo specifico caso Chaplin, diversamente si rischia di schierarsi con la "democrazia" sbagliata.
Nel silenzio dei sindacati orami diventati salvo poche eccezioni mercè dei padroni La migliore risposta ad Alessandro Borghese e a Flavio Briatore, alla fine, l'ha data lui.
Il suo nome è Emanuele, un uomo di 32 anni originario di Scampia. Un uomo che non ha mai avuto la fortuna di avere, al contrario di chi fa prediche, una famiglia agiata. Anzi, perse suo padre dopo aver compiuto 18 anni."Sono Emanuele, un ragazzo di 32 anni, nato e cresciuto a Scampia. Ho perso mio padre poco dopo aver compiuto 18 anni, ma avevo una passione, quella del caffè, che poi a Napoli è una vera e propria cultura. Pur di non delinquere, visto il quartiere problematico e viste le tante responsabilità che mi hanno praticamente rubato l'adolescenza, ho deciso di voler imparare il mestiere di barista.Lavoravo in un bar di Napoli, iniziavo alle 6.30 e se tutto andava bene finivo alle 17.00. Durante il periodo estivo iniziavo alle 6.00 e se tutto andava bene finivo alle 23.00.Ho iniziato guadagnando 120 euro a settimana, che moltiplicati per 4 settimane totalizzano 480 euro. Vivevo con mia mamma ma senza mio padre e con i miei soldi riuscivamo a fare ben poco: una piccola pensione di reversibilità e la fortuna di una casa popolare aiutavano a poterci permettere un piatto di pasta al giorno. Dopo quasi 8 anni, la mia paga è salita a 180 euro a settimana che moltiplicati per 4 totalizzavano 730 euro al mese. Nessun contratto, se mi ammalavo era un mio problema, le ferie erano solo 7 giorni in estate, contributi mai versati, forse solo 2 anni.Dopo 8 anni di sangue versato per imparare, di psicologia applicata per relazionarti al pubblico, di pianti fatti di nascosto perché ero stanco ma non potevo mollare, ero arrivato a guadagnare 200 euro in più rispetto all'inizio senza nessun riconoscimento, nemmeno morale, anzi dovevo ringraziare del lavoro, se così lo vogliamo chiamare, che mi era stato concesso.Sai cosa è successo poi? È successo che avevo un sogno, quello di aprire un bar tutto mio e ci ho provato in tutti i modi, Dio solo sa quanto volte ci ho provato, quante notti non ho dormito per i progetti i disegni l'arredamento. Morale della favola: dopo 12 anni, ho preso il mio bel sogno e l'ho chiuso in un cassetto, mi sono diplomato, ho lasciato Napoli e ora sono un tecnico che lavora sulla fibra ottica a Bologna e tutte le volte che entro in un bar a prendere un caffè provo odio e tanto rancore verso chi mi ha spezzato il cuore non permettendomi di inseguire il mio sogno, solo mio. Vedi, caro chef (Borghese), per poter vivere occorrono i soldi, eh sì, occorrono proprio i soldi. Occorrono soldi quando devi mangiare, perché nessuno ti regala nulla e in virtù di questo nessun giovane deve regalare il suo tempo perché non gli tornerà mai più indietro. Ti do un consiglio, sfrutta la tua popolarità insieme al tuo sapere per ottenere altri tipi di obiettivi".
E nella gelateria che si ispira agli anni '60 si paga in lire
di Giulia Mancini
Tornano le vecchie lire per un solo giorno, basterà portarle in cassa a Lamezia Terme e si avrà in cambio un gelato. È la trovata di Valentino Pileggi, ideatore di Coneria Italiana: “Il 21 aprile saremo la prima attività commerciale in Italia a permettere l’utilizzo delle vecchie lire”. Un’idea per riportare fra le mani e nel borsellino la vecchia moneta italiana, un gioco in realtà che vuole rendere omaggio alla memoria degli anni in cui il boom economico metteva il sorriso sui volti degli italiani e tutto sembrava possibile. “Dato che il nostro format è ispirato agli anni ’60, dagli arredi con la radio d’epoca, la musica, le gonne a ruota delle ragazze e le fasce a pois per i capelli, ci è sembrato simpatico festeggiare così il primo anno dall’apertura”. Non volendo semplicemente regalare il prodotto, “vogliamo far tornare i nostri clienti agli anni in cui i loro genitori e nonni con le lire andavano a comperare il gelato”. Una caccia al tesoro fra le tasche di vecchi cappotti o in fondo ai cassetti, alla ricerca delle vecchie monete o delle banconote che per decenni hanno circolato in Italia e che ancora oggi sono indicate sul prezziario della gelateria: “In realtà è un modo diverso, e simpatico, per regalarlo. Basterà mostrare in cassa le lire”.
Un progetto che trae ispirazione dai ricordi in modo non effimero, ma con la concretezza del sapore della memoria: “Coneria Italiana nasce quasi per caso - racconta Pileggi, imprenditore lametino insieme al maestro gelatiere Gianfranco Buccafurni, noto per il gelato di Jacurso, e al socio di capitali Fabio Borrello - Parlando con mia madre Angela mi raccontava del cannoncino mantovano. Lei in Calabria è venuta per amore di mio padre, ma ricorda bene quel sapore dell’antica ricetta di Mantova che spopolava negli anni ’60”. Cialda come quella del cono riempita con budino e sormontata da panna montata, servita in orizzontale come una cornucopia, non freddo come il gelato e comodo visto che non sciogliendosi evita di sgocciolare. Una tradizione che ingolosisce ancora oggi i mantovani, “come in quegli anni il budino è solo di due gusti, vaniglia e cioccolato, mentre per il gelato i gusti spaziano”. Storicità e un pizzico di innovazione retrò, che non si trova solo negli arredi: “Sembra una novità vista con gli occhi di un calabrese, di un meridionale, ma il cannoncino da Mantova in giù non si conosce. Lo abbiamo rivisitato con la cialda fatta al momento e la panna montata in planetaria, senza estrusori”.
Proprio da questa particolare lavorazione artigianale ed estemporanea della cialda prende il nome Coneria Italiana, per sottolineare già nel nome l’intenzione di porre l’accento sul pregio di un prodotto che raccoglie nella sua croccante friabilità: la cialda che sa di biscotto, realizzata in maniera artigianale ed esattamente con gli stessi ingredienti del tempo: “Per i coni usiamo farina biologica di tipo 1, burro, latte fresco e solo uova fresche di galline allevate all’aperto”. Anche per i budini gli ingredienti ripercorrono quelli della memoria, come quando si facevano in casa con latte, panna, zucchero, vaniglia o cacao e amido di mais; stessa filosofia per i gelati che portano la firma di Buccafurni e il sapore della sua abilità, riconosciuta così tanto da aver fatto assurgere il piccolo paese calabrese di Jacurso alla notorietà. “Nel laboratorio a vista lavoriamo anche frutta locale per i sorbetti e i cremolati, composti da polpa di frutta e pochissimo zucchero aggiunto. Il tasso zuccherino è tarato in base all’acidità naturale della frutta e al grado di maturazione, per esempio in estate con pesca e malvasia non ne usiamo, mentre arriviamo al 15% in peso per il sorbetto di agrumi”. Un solo anno dall’apertura e già il riconoscimento, recentemente ricevuto al Sigep di Rimini, con il primo posto per il gusto al cioccolato di Francesco Buccafurni, figlio d’arte: un solo anno ma anni di lavoro al fianco del padre che ha saputo trasmettere passione e competenze, e da un tale maestro c’è tanto da imparare.
Già nell’impostazione del progetto, nonché dalla sua apertura, “Coneria Italiana nasce con l’intenzione di avere impatto zero sull’ambiente. Carta riciclata e fibra vegetale per tovaglioli e palette, barattolo per il gelato da asporto in carta e di forma cilindrica come quello che andava in quegli anni, coppette gelato senza pla (acido poli lattico) quindi biodegradabili”. Un solo contenitore della spazzatura per rifiuti compostabili a disposizione dei clienti, “nella consumazione non produciamo rifiuti che non siano compostabili. Li abbiamo in produzione ma sono i packaging che derivano dai nostri fornitori”. Un’attenzione all’ambiente che si riflette anche, e soprattutto, nella scelta di spronare i clienti al riutilizzo delle vaschette da asporto, quelle in simil polistirolo per intendersi ma accuratamente scelto da fonti rinnovabili. “Alcuni mesi fa Dina Calagiuri, presidentessa di ‘Lamezia Zero Rifiuti’, mi propose di essere la prima gelateria a permettere l’asporto del gelato in contenitori portati da casa, vetro o plastica - prosegue Pileggi - Oppure si può comperare una nostra vaschetta e, terminato il consumo casalingo, lavarla e portarla per la volta successiva”.
Seguendo uno scrupoloso criterio sulle linee guida in materia igienico-sanitaria, i contenitori vengono posizionati su una tovaglietta lavabile per evitare il contatto con la superficie di lavoro, “dentro vi facciamo cadere il gelato a cascata, con una paletta preleviamo il gelato dalla carapina e con una seconda lo spatoliamo in modo che cada, facendo in modo che non entrino in contatto con il contenitore stesso. Una volta riempito di tutti i gusto scelti, con una terza paletta sistemiamo il gelato e quest’ultima - unica in contatto con il contenitore riutilizzato - viene subito messa in lavastoviglie.” Questo incoraggiamento al consumo consapevole del packaging viene spronato, non solo a parole, ma anche nei fatti: ai clienti che portano il recipiente da casa, o ne riutilizzano uno, viene riservato uno sconto sul prezzo del gelato. “Lo sconto equivale a quello che paghiamo noi per la vaschetta, essere vicini all’ambiente non ha un costo per l’attività, ma è una forma mentale".
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Spente 58 candeline. Il "Nutellificio" di Alba produce ogni giorno oltre 300 tonnellate di dolcezza, pari a 550mila vasetti, a cui si aggiungono undici stabilimenti Ferrero in tutto il globo: un totale di 770 milioni di barattoli venduti ogni anno e consumati da più di 110 milioni di famiglie
Buon compleanno Nutella. Era una piovosa mattina del 20 aprile 1964, quando dalla fabbrica Ferrero di Alba usciva il primo vasetto di quella che sarebbe diventata la crema da spalmare più famosa nel mondo. Oggi, dopo 58 anni, più che una crema di nocciole e cacao, la Nutella è una categoria dello spirito. Più che un dolce spuntino, è una passione travolgente. Più che un alimento, è un simbolo transgenerazionale. Non per nulla è entrata nell’immaginario collettivo come metafora del piacere e del desiderio, stregando artisti, scrittori e personaggi di successo, oltre a milioni e milioni di semplici consumatori. È così che la Nutella si è fatta strada non solo nelle dispense delle nostre case, ma anche nella letteratura, nella musica, su internet, nell’arte e al cinema.
Il primo vasetto in etichetta aveva una grande fetta di pane, due nocciole e un nome morbido, intrigante, positivo. A ideare il prodotto fu Michele Ferrero, che a 39 anni riuscì a migliorare gli antesignani Giandujot e Supercrema, creati da suo padre nel dopoguerra, e tirò fuori dal cilindro quel marchio in grado di aprire la strada alle vendite internazionali, fino a farla diventare un vero e proprio fenomeno capace di accomunare i «baby boomers» ai sessantottini, gli «yuppies» degli anni Ottanta ai «Millennials» fino a raggiungere con immutato appeal le nuove generazioni. Infantile e innocente quanto affascinante e ossessionante, la Nutella è un prodotto per le famiglie con un retrogusto quasi peccaminoso, è un marchio socializzante in grado di mettere d’accordo tutti, una crema che vanta più imitazioni della Settimana Enigmistica ma resta inimitabile, grazie a una ricetta segretissima conservata ad Alba esattamente come avviene per la Coca-Cola ad Atlanta. Un esempio azzeccato di globalizzazione golosa, come certificato dai ricercatori dell’Ocse già un decennio fa.
Insomma, citando un fortunato slogan: che mondo sarebbe senza Nutella? Il grande «Nutellificio» di Alba produce ogni giorno oltre 300 tonnellate di crema, pari a 550mila vasetti. Un dolce fiume impressionante, ma che ovviamente non basta a soddisfare la richiesta internazionale. La Nutella, infatti, è prodotta in undici stabilimenti Ferrero in tutto il mondo, con maestranze di 97 nazioni. Ed è commercializzata in circa 160 paesi dei cinque continenti, raggiungendo un totale di oltre 400.000 tonnellate, pari a 770 milioni di barattoli venduti ogni anno e consumati da più di 110 milioni di famiglie. Tanto per dare l’idea, se si mettessero in fila i vasetti di Nutella prodotti in 12 mesi si arriverebbe a una lunghezza pari ad 1,7 volte la circonferenza terrestre e a un peso pari all’Empire State Building. Senza scordare i prodotti Ferrero nati sulla scia della crema da spalmare, dai B-ready ai Nutella Biscuits, diventati i biscotti più amati in Italia. Dunque, potremmo dire che da sempre c’è un po’ di Nutella nella nostra vita e un po’ della nostra vita in Nutella. Lo sa bene Nanni Moretti, che nel film «Bianca» affoga l’ansia in un enorme barattolo alto un metro. E lo sanno bene anche gli strateghi del marketing, che nel 2013 hanno convinto la Ferrero a dare a ognuno la possibilità di sostituire il famoso logo sul vasetto con il proprio nome di battesimo, facendolo diventare un oggetto cult da consumare, da esibire o da conservare come una preziosa opera d’arte pop e personalizzata. Oggi è sulla rete e sui social network che si può cogliere tutta la forza aggregatrice di Nutella: ogni giorno decine di migliaia di persone in tutto il mondo le rivolgono un pensiero appassionato, pubblicando una foto su Instagram o uno status update su Twitter. È una passione globale, che unisce persone comuni e celebrità: la pagina di Facebook dedicata a Nutella in Italia conta circa 6 milioni di fan, quella mondiale supera i 35 milioni di follower. Cifre da capogiro, ma che hanno radici ben lontane, con l’esordio pubblicitario sul palcoscenico di Carosello nel 1967. Chi ricorda, all’inizio degli anni Settanta, le avventure di Jo Condor, l’intramontabile pennuto che fa dispetti agli abitanti della Valle Felice, salvati dal Gigante Amico, depositario della bontà del prodotto?
Sono troppo triste ed indignato da non riuscire a trovare nessuna parola di sdegno per commentare sifatti avvenimenti E poi per parafrasare una famosa battuta televisiva : due parole sono poche e una troppo . a voi i fatto incresciosi
27 ragazzi disabili ed i loro accompagnatori non sono riusciti a salire sul treno che da Genova doveva riportarli a Milano, nonostante avessero anche i posti a sedere prenotati.A nulla è servito l'intervento del personale di Trenitalia e perfino della Polizia ferroviaria; i passeggeri non hanno voluto abbandonare i posti indebitamente occupati (oltretutto segnalati con dei cartelli).Trenitalia è stata costretta ad allestire un pullman dedicato per poter riportare i ragazzi a casa.Diritti cancellati con la forza, persone umiliate con l'arroganza e la strafottenza dell'inciviltà. Un comportamento disumano ed ingiustificabile. Lascia perplessi l'atteggiamento remissivo delle autorità presenti sul posto. Lo Stato non può permettere che i diritti vengano schiacciati dalla forza.Situazione incredibilmente vergognosa. C'è da dire la versione di Trenitalia fa pena ed è un arrampicarsi sugli specchi : << Noi abbiamo fatto il possibile, abbiamo organizzato un pullman, fornendo un kit di assistenza per mangiare e bere e per tutti ci sarà il rimborso integrale del biglietto>>, questa la versione ufficiale delle ferrovie a commento di quanto avvenuto nella stazione di Genova Piazza Principe dove un gruppo di disabili ha trovato i propri posti (prenotati in anticipo) occupati da un gruppo di turisti i quali li hanno obbligati a scendere e andare a Milano in pullman. << I turisti erano tutti italiani - prosegue Trenitalia -, erano di ritorno dalle vacanze di Pasqua e avevano il regolare biglietto per quel treno, ma avrebbero potuto proseguire il viaggio restando in piedi>>. Ma l'associazione Haccade interviene sulla vicenda: <<Non è colpa di chi non si è alzato ma di chi non ha garantito il servizio".Sempe secondo La ricostruzione secondo Trenitalia - Trenitalia >>aveva riservato sulla prima vettura del treno regionale 3075 Albenga-Milano i posti necessari a far viaggiare da Genova a Milano una comitiva di persone con disabilità, 27 persone e 3 accompagnatori. Sul treno, arrivato a Genova Piazza Principe, in ritardo per un precedente atto vandalico, che aveva costretto a cambiare tipo di convoglio a Savona, sono saliti numerosi viaggiatori occupando tutti i posti, compresi quelli tenuti e rimasti fino a Genova liberi per la comitiva. A quel punto il personale di assistenza alla clientela è salito a bordo per invitare le persone a liberare quei posti. Dopo circa venti minuti, nell'impossibilità di persuadere i clienti e permettere alla comitiva di viaggiare seduta e in maniera confortevole, com'era previsto, Trenitalia ha individuato una soluzione alternativa, utilizzando un pullman". E' questa la ricostruzione di Trenitalia di quanto avvenuto nella stazione di Genova Piazza Principe, fornita dalla stessa azienda ferroviaria. La replica dell'associazione Haccade: <<Una narrazione agghiacciante di Trenitalia" - "La responsabilità di quanto successo non è di chi non si è alzato, ma di chi non ha garantito il servizio>>: lo ha detto Giulia Boniardi, responsabile di Haccade, l'associazione con cui viaggiavano i 25 disabili che non sono riusciti a salire sul treno e sono dovuti tornare in pullman a Milano. <<Stanno mettendo le persone una contro l'altra - ha detto all'agenzia Ansa -, è una narrazione agghiacciante, il focus è la mancata tutela di un diritto, quello di viaggiare, il messaggio - sottolinea Boniardi - non è 'poveri disabili trattati male>>. ha ragione Lorenzo Tosa : << [....] Ma, per quanto incredibile, la cosa più sconvolgente non è nemmeno questa. La cosa più sconvolgente è che il personale di Trenitalia e della Polfer intervenuto, invece di far alzare e sloggiare i turisti seduta stante, magari anche con una equa multa, hanno fatto scendere i 27 disabili e li hanno trasferiti su un pullman diretto in Lombardia. Oltre il danno, la beffa. La resa totale dello Stato di fronte all’inciviltà, alla legge della giungla, alla barbarie.C’è solo da augurarsi che qualcuno risponda di tutto questo. Gli incivili ma anche chi all‘inciviltà si piega (invece di perseguirla), diventandone inconsapevolmente complice.>>
il secondo fattto è l'Episodio di violenza in provincia di Napoli, dove un anziano è stato aggredito, sollevato e buttato in un cassonetto da un gruppo di ragazzi che, divertiti, commentano e riprendono la scena con grosse risate per poi postare il video su Tik Tok. Le forze dell’ordine stanno indagando per rintracciare la vittima e gli aggressori.
Diventato in breve tempo virale sui social, il filmato mostra la comitiva circondare l’anziano, forse uscito per buttare la spazzatura, e bloccarlo mentre tenta di divincolarsi. Tra le risate di amici e amiche presenti, i ragazzi sono riusciti a sollevarlo prepotentemente e a gettarlo in un cassonetto dei rifiuti per poi allontanarsi dal luogo del misfatto. In evidenti difficoltà, l’uomo ha provato a chiedere a gesti di essere aiutato ad uscire ma i giovani hanno continuato a filmarlo divertiti prima di andarsene. Borrelli: “Grave imbarbarimento dei costumi” Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi, è intervenuto sulla vicenda parlando di un video vergognoso che ha già provveduto ad inviare alle autorità. “Si è raggiunta una tale sottocultura e un così grave imbarbarimento dei costumi che si fa fatica a pensare da dove cominciare per rimediare a un tale disastro sociale“, ha aggiunto. Le forze dell’ordine, acquisito il materiale, sono ora al lavoro per identificare i protagonisti della vicenda.
L'ideatrice di She works for Peace supporta l'attività artigianale di lavoratrici che prima ricoprivano incarichi pubblici e ora si trovano costrette a lavorare in casa. "Ora dall'Afghanistan vogliamo arrivare anche in Iraq e Ucraina"
Le popolazioni che vivono in zone di conflitto, oltre che con aiuti umanitari, si possono sostenere offrendo occasioni di lavoro. Ad attestarlo è l'iniziativa She works for Peace ideata da Selene Biffi, imprenditrice sociale italiana nonché fondatrice della scuola per cantastorie a Kabul, in prima linea sul fronte dei diritti delle donne afghane, e non solo.
Com'è nata quest'idea? "È il proseguimento naturale delle iniziative portate avanti, in maniera informale, dopo gli eventi dello scorso agosto. In Afghanistan, dove sono stata fino a qualche giorno fa, ho sentito la necessità di dare il mio supporto a donne che prima, con incarichi pubblici, contribuivano all'economia locale e familiare, ma, dopo la caduta di Kabul, sono costrette a lavorare da casa".
Con She works for Peace come aiuta queste donne? "Supportiamo il lavoro artigianale di parecchie donne in varie regioni afghane, offrendo un piccolo contributo economico, formazione e materiali per aiutarle a ricostruire il tessuto socio-economico locale, aldilà delle limitazioni in atto, attraverso le loro microimprese di produzione tessile e alimentare. Il lavoro, così, rappresenta una timida rinascita avviata con la rete di supporto informale costituita con persone, associazioni e imprese locali. La data di lancio, infatti, non è casuale: il 22 marzo, giorno successivo al Nawruz, capodanno persiano che sancisce un nuovo inizio".
Chi sono, prevalentemente, le donne che stanno "rinascendo" insieme a voi? "Finora abbiamo coinvolto circa 300 donne, spesso vedove o con disabili in famiglia, tra cui alcune che avevano già un laboratorio. Come Mariam che, ad agosto, ha visto andare in pezzi il suo, ma continua a lavorare le perline di lapislazzulo da casa riuscendo a mantenere la sua famiglia di oltre 20 persone. Ci sono anche ragazze che ci hanno chiesto aiuto, come Fatima che vuole riattivare la sua fattoria delle api e valicare i confini afghani con il suo miele per sostenere economicamente i suoi cari e offrire occasioni di formazione ad altre giovani donne".
Gli oggetti che producono come diventano fonte di guadagno in un Paese al di sotto della soglia di povertà? "Riprendendo la tradizione artigianale, realizzano a mano sciarpe, ciotole di lapislazzuli, orecchini, borse, tovaglie ricamate e altri oggetti acquistati da tanti italiani che fanno parte della nostra comunità di sostegno ampliatasi grazie al passaparola. Ammetto che non ci aspettavamo questo successo, ma stiamo provvedendo a strutturarci meglio e ad accogliere le richieste che ci arrivano anche da altri Paesi".
Ciò significa che l'eco di She works for Peace si è propagata anche in altre zone di conflitto? "Ebbene sì, grazie al potere dei social e della rete costituita con giornalisti e operatori umanitari, sono stata contattata da persone e associazioni femminili che operano in Iraq e Ucraina. Stiamo definendo i dettagli delle attività che partiranno nelle prossime settimane per consentire anche a queste donne di ricostruire, per quanto possibile, la propria dignità economica e sociale. Saranno coinvolte anche donne ucraine che hanno perso tutto sotto i bombardamenti e ora sono ospitate da comunità con cui siamo in contatto".
Cosa speri possa rappresentare quest'iniziativa in continua espansione? "In contesti di guerra, spesso, le donne sono viste come vittime degli avvenimenti costrette a subire, con poca attenzione alla resilienza che invece dimostrano. Con She works for Peace vogliamo ridare centralità alla figura femminile dimostrando il contributo notevole che può offrire alla famiglia e alla comunità. La mia speranza è di poter raggiungere sempre più donne e ampliare i settori d'intervento, senza mai arrendersi".
finalmente Martedì verrà ricordata ufficialmente, per la prima volta in Italia, da un Ordine dei
giornalisti, quello del Piemonte, grazie anche al libro- inchiesta "Il caso Lea Schiavi" che ho scritto su di lei. Un altro avvenimentoi dopo l'iniziativa fatta Il 25 Aprile 2021 l'amministrazione comunale di
Borgosesia, sua città natale, guidata dal Sindaco Paolo Tiramani le intitola i Giardini Pubblici.L'evento fu ripreso dai media nazionali, riportando in luce nel capoluogo valsesiano la figura della giovane reporter antifascista, evento a cui partecipano i famigliari.Infatti la sua storia è una storia particvolare scomoda ed indigesta . sintesi eccola .
Da repubbblica del
ritorna a casa perché Lea, nata a Borgosesia il 2 marzo del 1907, era una brava e affascinante giornalista antifascista. Il suo omicidio fu opera di sicari curdi, su ordine verosimilmente del servizio segreto militare ( il Sim) dell’Italia fascista, allarmato dall’attività antifascista svolta da Lea in Iran.
Lea con alcuni colleghi
Per quasi un secolo, però, Lea non è mai stata celebrata nel nostro Paese, né dalle associazioni della Resistenza, né da quelle dei giornalisti e delle donne. Negli Stati Uniti invece, al Freedom Forum Journalists Memorial di Arlington, che ricorda i reporter caduti in guerra, come scrisse Ellen Nakashima sul Washington Post, il 22 maggio del 1996, “la prima giornalista donna elencata è Lea Burdett”.
Nel suo libro Novelli [ foto a sinistra ] ripercorre la storia di Lea Schiavi, piemontese di
Borgosesia, prima reporter di guerra donna
Lea, che nel 1940 a Sofia si era sposata con il corrispondente della Cbs Winston Burdett, è stata dunque dimenticata, rimossa dalla memoria nazionale
. Uno dei probabili mandanti del suo assassinio, il generale dei carabinieri Ugo Luca, lo stesso implicato nella morte del bandito Salvatore Giuliano, fu prosciolto in istruttoria nel dopoguerra senza neppure essere stato interrogato. Luca, inoltre, è presente negli elenchi dei combattenti della Resistenza, anche se fino al settembre del 1943 era stato un pezzo grosso dello spionaggio di Mussolini.
Lea con lo scrittore Guelfo Civinini (a sinistra)
Il delitto Schiavi assomiglia a quello dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, fatti uccidere da sicari su ordine del servizio segreto fascista, il solito Sim. Come accadde per la morte di Lea, i mandanti dell’omicidio dei Rosselli vennero assolti, questa volta per insufficienza di prove. Si mise una pietra tombale sopra, insomma. I morti seppellirono i morti; i vivi, anche quelli con le mani sporche di sangue, fecero carriera.
Massimo Novelli, nato a Torino nel 1955, per oltre vent’anni giornalista e inviato di Repubblica, è autore di numerosi saggi
Chi era Lea Schiavi? Una giovane donna che amava la vita, l’avventura, il cinema, il giornalismo: lavorò per l’Impero di Roma, l’Ambrosiano di Milano, il raffinato Lidel, Cinema Illustrazione, il Milione di Cesare Zavattini, Tempo, Omnibus di Leo Longanesi. Winston Burdett scrisse nel memoriale presentato alla Regia Procura di Roma nel 1945: “Lea lasciò l’Italia per i Balcani nell’autunno 1939 per un incarico de l’Ambrosiano. L’incontrai a Bucarest nel giugno 1940 e ci siamo sposati a Sofia il mese seguente".
"Lea - continua Burdett - aveva sempre dimostrato apertamente i suoi sentimenti antifascisti, le sue idee erano ben note a tutti i colleghi italiani e parimenti alle legazioni italiane di Bucarest, Sofia, Belgrado. Le negarono il permesso di matrimonio (ci voleva il permesso del ministero Affari Esteri). Fummo espulsi successivamente da Romania, Jugoslavia, Bulgaria, in parte, e forse soprattutto, a causa dell’intervento italiano in guerra”.
Lea Schiavi divenne antifascista vivendo il fascismo sulla sua pelle, di donna, di giornalista, giorno per giorno. Nella prefazione al mio libro, Maddalena Oliva scrive: “ Sei un comunista?”, chiese Maria. “No, sono un antifascista”, rispose Robert Jordan. “Da molto tempo?”. “Da quando ho capito il fascismo”. Non “sappiamo se Lea ebbe modo di leggere Per chi suona la campana di Ernest Hemingway”, continua Oliva, “ma molto probabilmente sì. E non solo perché in vita fosse sposata con un americano, Winston Burdett, giornalista e corrispondente di guerra per la famosa Cbs. (...) Ma pure perché, per chi conobbe Lea Schiavi Burdett, il primo ricordo era sempre: ‘ Lea di se stessa diceva di essere antifascista’. Lo scrive allora George Weller, corrispondente di guerra e Premio Pulitzer, che aggiunge: ‘ È improbabile che Lea fosse comunista’. Perché? Per ‘ il suo chiassoso e allegro senso dell’umorismo’ “.
A squarciare intanto il lungo silenzio pubblico su questa gran donna è stato, rammenta Maddalena Oliva, “un giovane sindaco, Paolo Tiramani, oggi parlamentare per la Lega Nord, che ha deciso – il 25 aprile 2021 – di intitolare a Lea i giardini pubblici di piazza Martiri a Borgosesia”. Adesso tocca all’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Il ricordo più commovente, tuttavia, data 15 maggio 1942, quando il Brooklyn Eagle, il vecchio giornale di Burdett, annunciò che la storia della morte di Lea, “newspaper correspondent”, sarebbe stata raccontata (“will be told in a dramatic form”) nel programma del Columbia Network “ They Live Forever”, “Essi vivono per sempre”, in onda alle dieci e mezza della sera della domenica.
In un paese del Molise hanno iniziato la produzione nell'anno Mille e non si sono più fermati. Realizzando esemplari anche per il Giubileo e per la Perestrojka