22.11.21

C’È IL SOLE. NO, PIOVE DISCUTERE CON UN CONVINTO NO VAX È INUTILE. PERCHÉ VIENE NEGATA L’EVIDENZA

 canzone  consigliata 
la  mia parte  intollerante   - caparezza 

 
                   da Esploratori di silenzi 18 novembre  2021 21.20

Se prima   rispondevo    e dialogavo  ora   lascio  libertà   agli altri \e  di replicare  ai commenti  che   suscitano i  miei post o  articoli  \  storie  che  condivido    come esempio  il precedente     sui vaccini   e  sugli effetti di chi non si vaccina  . Il perchè    di questa  mia decisione   , lo spiego     con questo esempio . 
Mettiamo che sia una bella giornata di sole, in piena estate. Arriva un tizio, si siede accanto a me e dice, sconsolato: «Peccato che stia piovendo». Lo guardo, un po’ smarrito, e gli rispondo: «Spiritoso, sta scherzando, vero?». E lui: «Siamo zuppi, viene giù proprio forte». Poveraccio, penso, deve avere dei problemi. Sorrido, comprensivo: «Ma non vede che bel sole? Neanche una nuvola in cielo». Lui: «E non ho neanche l’ombrello». «Ma scusi, non sente che caldo sulla pelle? Non vede le ombre così nette?». Indignato, il tizio mi guarda storto: «È quello che le raccontano. C’è il sole, c’è il sole... Ma quale sole! Piove che Dio la manda!».
Ecco, discutere con un no vax di quelli “duri” è un’esperienza così. Non è neanche il classico dialogo tra sordi, è molto peggio: l’evidenza non basta, l’evidenza inganna, l’evidenza non è visibile, come il sole in una giornata estiva. C’è, ma non conta: è manipolata, è falsa, è costruita a tavolino da chi ci vuole male. I dati, i morti, le storie di chi non ce l’ha fatta, i disastri in altri Paesi... Niente: favole. E finché a dirlo è qualche picchiatello sui social, vabbè, possiamo anche farcene una ragione: di picchiatelli purtroppo è pieno il mondo, e i social ne traboccano . Comincia a essere preoccupante quando a non vedere il sole è qualche personaggio importante, istruito, autorevole. Di quelli che la gente ascolta e  se  è credente  si  fida  .La settimana scorsa un vescovo, anzi, nientemeno che un arcivescovo, e cioè monsignor Carlo Maria Viganò, ospite di Giovanni Floris a Dimartedì sulla 7, se n’è uscito con questa perla: «Hanno ucciso deliberatamente i contagiati per farci accettare mascherine, lockdown e coprifuoco». Bruno Vespa, presente in studio, se l’è cavata scuotendo la testa e sussurrando un «Che Dio lo perdoni». Il direttore della Stampa, Massimo Giannini, è stato più tranchant: «Viganò è un mascalzone», ha sillabato: «Dobbiamo essere intolleranti, non con chi la pensa diversamente, ma con chi mente sapendo di mentire». Difficile dare torto a Giannini, anche per chi, come noi, l’intolleranza non la pratica (  anche se  qualche  volta  ci  cade   ed  intollerante contro certe  cose 


Dire (o lasciar dire) che i medici di Bergamo, l’anno scorso, hanno «ucciso» i loro pazienti per fare il gioco di chissà quale Spectre mondiale non solo è folle: è molto pericoloso. Perché non tutti hanno gli strumenti per capire che è una vergognosa  fake news  bugia (che fra l’altro getta fango sui medici e gli infermieri che si sono sacrificati  ed  ancora   continuano a  farlo , anche se   fra loro aumentano   chi non vuole  farsi il  vaccino   per salvare migliaia di vite), e si rischia in tal modo di alimentare le paranoie di tante oneste persone che semplicemente hanno dubbi o paure.
Ci sono un paio di fedeli e simpatici lettori che più o meno regolarmente mi tempestano di chilometriche mail , video  e  post   no vax e no Green pass. In passato ho intavolato con loro civilissime discussioni sul tema, ma poi ho smesso. Perché mi sembrava di essere quello che, in una giornata di sole, tentava di convincere l’altro che no, non pioveva affatto. Un altro lettore mi ha scritto: «Visto Ranucci, di Report? ha detto in tv che la terza dose è il business delle case farmaceutiche». Già, peccato che il medesimo Sigfrido Ranucci, qualche giorno dopo, ad Agorà su Rai 3, abbia perorato la seguente causa: «Dobbiamo seguire l’esempio di Israele, che quando ha visto risalire i contagi è immediatamente partito con la terza dose. Quindi partire da subito con la campagna per la terza dose è fondamentale». E allora? Come la mettiamo? Senza considerare che il vero business per Big Pharma, come ha ben spiegato Roberto Burioni a Che tempo che fa, sarebbe in realtà l’ospedalizzazione: più malati, più costosi medicinali da usare, più soldi, per loro, da incassare (un giorno in terapia intensiva costa alla collettività circa 2.800 euro; in media la terapia dura dieci giorni, sempre che il malcapitato si salvi, per un totale di quasi 30 mila euro: altro che gli spiccioli per il booster di Pfizer). Insomma, per fortuna che la larghissima maggioranza degli italiani sa distinguere una bella giornata di sole da una in cui viene giù a catinelle...

"Dipingo i sassi e li lascio per strada": così Francesco a 82 anni ha riscoperto la felicità

 ricolleggandomi   a quello  che  dicevo nel mio post    elucubratorio : <<    cosa è la felicità  >>
credo che la risposta o almeno una delle risposte sia questa


  da  repubblica  online


La pittura come forma di evasione dalla depressione. Strumento di felicità che poi è diventata - inevitabilmente - condivisa per l'82enne Francesco Occhiogrosso. L'anziano pittore di Bitetto, in provincia di Bari, ha scelto una tela particolare per le sue opere: i sassi. E ogni mattina, quando esce di casa, ne porta uno con sé, per lasciarlo in strada e attendere che venga ritrovato, per regalare un sorriso a un estraneo.



L'anziano pittore di Bitetto, in provincia di Bari, ha scelto una tela particolare per le sue opere: i sassi. E ogni mattina, quando esce di casa, ne porta uno con sé, per lasciarlo in strada e attendere che venga ritrovato, per regalare un sorriso a un estraneo. Un'idea nata grazie al fugace incontro con un gruppo Facebook, ideato da una donna svizzera che attualmente vive nelle Marche. Per Francesco una vera e propria missione, tanto che in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre distribuirà sassi con la raffigurazione di una donna afgana. "Non ci vuole chissà quale bravura - racconta - basta un disegno semplice per regalare un sorriso e cambiare la giornata di qualcuno"
 

 

L’ineccepibile “telegramma” di Luciana Littizzetto ai no vax

 io  non avrei saputo  dirlo meglio  


L’ineccepibile “telegramma” di Luciana Littizzetto ai no vax | VIDEO

L’attrice, durante il suo spazio a “Che Tempo Che Fa”, si rivolge direttamente agli anti-vaccinisti e a chi continua a scendere in piazza contro il Green Pass

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Littizzetto

Una lunga lettera che si conclude con la lettura di un “Telegramma”. Così Luciana Littizzetto ha deciso di rivolgersi a quella platea no vax e no Green Pass. A tutti quegli italiani che ormai, da settimane, invadono le piazze del sabato italiano e che non intendono sottoporsi a quella vaccinazione contro io Covid. L’attrice piemontese tenta di utilizzare, come suo mantra, l’ironia andando a colpire tutti quei paradossi che potrebbero portare – a stretto giro di posta – a ulteriori restrizioni (come sta già avvenendo nel resto d’Europa e non solo) per tentare di contenere la risalita dei contagi, delle ospedalizzazioni e delle vittime di questa pandemia.

Littizzetto e il telegramma inviato a no vax e no Green Pass

Nel suo canonico spazio a Che Tempo Che Fa, Luciana Littizzetto prova a far riflettere con il sorriso. Questo il suo lungo discorso che si conclude con un telegramma, per citare l’applicazione molto in voga tra i no vax e in cui – ancora oggi – si continuano a organizzare le mobilitazioni di piazza (come quelle di Milano e Roma dell’ultimo sabato).

“Caro no vax, no green pass, no corona, no virus, no Astra, no Zeneca, no lockdown. E per copia con copia-conoscenza al Kennedy meno sveglio della famiglia,
Ormai io ho capito che non cambierete idea. Per voi il vaccino è respingente come i Maneskin per Pillon. Se dopo aver visto la gente crepare, i medici e gli infermieri vestiti da apicoltori lasciarci la pelle, le file di Jeep a Bergamo, gli amici contagiati che ora hanno i polmoni di macramè. Se dopo aver visto chiudere milioni di negozi, serrare i cinema, i teatri, le discoteche. Aver visto morire la gente di altre malattie perché gli ospedali erano pieni di urgenze. Se neanche le parole di Speranza, inteso non come virtù ma come Ministro – che a vederlo sembra sempre più Dracula – non vi hanno convinto, bon. Fine. Prendiamo atto.
Però vi chiedo una cosa: veniamoci incontro, a due metri di distanza. Evitate almeno di manifestare, evitate assembrarvi. Lasciate libere le piazze. Tanto io ve lo dico: il Green Pass non lo leveranno. Toglietevelo dalla testa perché è l’unico modo che abbiamo per consentire alla nostra economia di non andare gambe all’aria. Anzi, voi potete manifestare proprio perché la maggioranza di noi ha il Green Pass. Sennò sareste tutti chiusi in casa a pisciare i cani con la carrucola dai balconi. Cosa vi aspettate? Che una mattina Draghi si svegli e dica: Basta, la pandemia è finita. O che passi come l’arrotino sotto casa a dire: Donne, è arrivato il Draghino, tutti in piazza a limonare. Ripeto, tutti in piazza a limonare”.

Luciana Littizzetto poi prosegue sottolineando anche come la percezione mediatica faccia apparire immensa quella mobilitazione no vax nelle piazze. Ma, a conti fatti, la realtà mostra ben altro.

“Io lo so che in fondo siamo uguali, per questo cerco di comprendere il vostro punto di vista e le vostre paure. Quello che vi chiedo è di comprendere anche le nostre paure. Di pensare per un attimo anche a noi ‘sì vax’, ‘ok lo faccio vax’, ‘meglio di niente vax’. Provate a capire quanto ci possono girare i cogli*ni a noi nel sentire di nuove chiusure, di vedere di nuovo i medici di base allo stremo, di ospedali che si riempiono. Provate a capire pure quanto ci rode dover far pure la terza dose, magari poi la quarta, la quinta, la sesta fino alla settima come per le taglie dei reggiseni, perché il virus continua a gironzolare.
Tra l’altro, noi se facciamo i conti siamo molti, molti di più. Noi vaccinati siamo più o meno 47 milioni. Se scendiamo in piazza noi, la Lamorgese sclera come Sgarbi. Deve mandare altro che la Polizia, pure i lagunari, la folgore e gli alpini in congedo. Se ci mettiamo noi a manifestare è la fine. Altro che piazze, riempiamo le spiagge da Lignano Sabbiadoro fino a Santa Maria di Leuca e ci facciamo tutto l’Adriatico. Poi voglio vedere. Vogliamo fare un Natale come l’anno scorso solo tra congiunti? In tre a tavola, ma consanguinei. In sei con indosso la rete anti-grandine, in otto ma solo se gemelli siamesi. Ce le ricordiamo quelle fabbriche chiuse, quegli stipendi che non c’erano più, le piccole imprese fallite per mancanza di lavoro. Vogliamo fare la settimana bianca in casa, sciando sulla moquette perché richiudono gli impianti? Girando con le ciaspole, festeggiando il capodanno dentro la cabina-armadio, soli? Ci piacciono le città deserte coi cervi che rosicchiano i semafori? Perché adesso non abbiamo più l’alibi della sfiga, quello che succederà è solo nelle nostre mani e nei nostri avambracci.
Ho letto che alcuni di voi scrivono su Telegram frasi violente e feroci. E siccome non ho Telegram e non voglio dirvi né frasi violente, né frasi feroci perché siamo tutti nella stessa barca, ve lo dico come fosse un telegramma: ‘Aiutiamoci.
STOP.
Facciamoci il più bel regalo di Natale.
STOP
Cerchiamo di avere cura di noi, dei nostri cari, e delle persone più fragili.
STOP.
Vacciniamoci. STOP
Vogliamo tutti che finisca.
STOP.
STOP. STOP’”.

Un telegramma, quello di Luciana Littizzetto, spedito – attraverso lo schermo televisivo e lo specchio dei social – a quella platea di duri e puri. Parole intrise di diverse verità assolute.

(foto e video: da “Che Tempo Che Fa”, RaiTre)

care femministe non celebrate il 25 novembre solo con le panchine rosa altrimenti anche tale giornata finirà per diventare come giornate rompi quelle del 27 gennaio e del 10 febbraio

Anche quest’anno, il 25 novembre, le scarpe e le panchine rosse ci inviteranno a ricordare che la sfida di oggi è un sentire comune, di una “femminilità” non di genere ma di valori come condivisione, empatia, cura. È la storia delle donne. Per un incontro fatto di rispetto e una domanda d’amore che non può tollerare sopruso e violenza. Un dovere morale, umano e di civiltà da promuovere insieme, uomini e donne. Senza omertà e indifferenza. Ogni giorno .   Ma  basta  con articoli    come ad  esempio    questo     qua  sotto preso a caso  cercando    su google    come ispirazione   la parola  femminicidio    

 

Mancano pochi giorni al 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E l'Italia arriverà con un bilancio pesantissimo: nel 2021 si conta un femminicidio ogni tre giorni. L’ultimo in ordine di tempo è quello avvenuto a Sassuolo, nel modenese, dove un uomo ha ucciso a coltellate la compagna, i figli di 2 e 5 anni e la suocera, prima di togliersi la vita con la stessa arma. È successo mercoledì pomeriggio: Elisa Mulas era tornata a casa della madre per allontanarsi dal compagno violento, Nabil Dahari, tunisino di 38 anni. Lui non accettava la fine della relazione e aveva già minacciato di morte la donna. 

                         da   https://www.ilmessaggero.it/italia   di Giovedì 18 Novembre 2021, 11:34

Ed come al solito l'articolo prima citato è correlato dalla solita ormai classica sono dal Era il 2009 quando Elina Chauvet utilizzò trentatré paia di scarpe rosse in un’installazione artistica (Zapatos rojos) davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare le centinaia di donne rapite, stuprate, mutilate e uccise nella città di Juarez. immagine di Una panchina rossa


Certo     sarà pure    un simbolo  come   dice  


[...] 
Rosso, colore dai tanti significati. Per i cinesi rappresenta fortuna e felicità, per gli indiani protezione, fertilità, purezza. In Sud Africa è associato al lutto. Percepito come simbolo di indipendenza e emancipazione o di forte identità, il rosso, in Occidente, significa energia, amore, passione e seduzione, feste natalizie.
Le scarpe rosse, come il colore del sangue, sono il simbolo, per tutto il mondo, della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.
Dietro quelle scarpe, sistemate nelle strade e nelle piazze delle città, ci sono storie di paura, di solitudine e di sofferenza delle donne e disprezzo della vita da parte di mani e menti criminali di alcuni uomini. Simbolicamente, un fiume rosso è quel che resta di un numero impressionante di vite travolte dalla brutalità.
Ma le “scarpette rosse” testimoniano anche la ferma volontà di opporsi alla violenza, in qualsiasi forma e in ogni latitudine. Protagoniste, nella giornata del 25 novembre, del grido di denuncia di tutte le donne contro una delle più terribili violazioni dei diritti umani.
E sempre maggiore è il numero delle “panchine rosse” nei parchi e nelle piazze, per sensibilizzare la società ricordando il vuoto lasciato dalle vittime. Sono proprio quelle panchine ad esortare le donne ad “uscire fuori” e a chiedere aiuto senza paura e vergogna di svelare il proprio incubo.
È il monito delle istituzioni, pubbliche e private, delle scuole, della cultura e delle associazioni femminili, per diffondere un messaggio di memoria e, insieme, di coraggio e di speranza.
Il tempo presente ha una memoria che si accresce ogni giorno di una nuova violenza. Sempre più inaccettabile, feroce e inaspettata.
In Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa, spesso da un uomo che diceva di amarla. Quasi ad evocare ancora il delitto d’onore, abolito solo nel 1981.
È un “flagello mondiale”, un fenomeno trasversale senza distinzione di classe sociale né di livello d’istruzione. Spesso per mano di individui cosiddetti “normali”. La violenza si annida in ogni ambiente e contesto. Vissuta tra storie di sesso, droga, alcool, stupri e festini in appartamenti di lusso come nell’anonimato della “porta accanto”.

  Ma   ora   cerchiamo   qualcosa  di  nuovo per  sensibilizzare  ,  onde  evitare  che     succeda     quanto detto nel  titolo   . Infatti   Care femministe non è solo , non è con convegni ( alcuni anche interessanti come quello da me segnalato qualche post fa ) o panchine rose , o editoriali più o meno ben scritti come quello da me riporto nel post : << contro il femminicidio senza e se e senza ma >> che si combatte i femminicidio \ violenza di genere .

IL male va affrontato alla radice .
Infatti il 25 novembre non è solo una data per le donne o dedicata alle donne . ma è una data contro l'orrendo fenomeno della violenza o di genere \ femminicidio .
In tale fenomeno << La donna può essere vittima due volte: prima per mano del maltrattante, e poi nel processo. La paura di questa seconda forma di colpevolizzazione può portare le vittime a scegliere di non querelare >>( dal dataroom di Milena Gabanelli di qualche tempo fa qui se volete oi rivederlo o ve lo siete persi )
. Quindi se invece di inaugurare solo panchine rosa caltro si promuovessero è programmi o corsi in: centri d'aggregazione , parrocchie , dopo scuola o scuola , o come si sta già iniziando a fare
anche i giornali da parrucchiere come il  settimanale   Giallo ( vedere foto sotto a destra ) che ha inaugurato una nuova rubrica  ed non solo per specialisti o gente già formata come il lodevole ma troppo limitato , almeno per ora , di https://ovd.unimi.it/ si farebbe con più facilità un programma di prevenzione o sarebbe una lotta seria per arginare e contrastare tale fenomeno sempre più in aumento . Avrebbe più risultati di : mille convegni molto spesso retorici e parolai ., delle panchine rosa che vengono continuamente inaugurate tanto pe r far vedere che si fa qualcosa e non si resta insensibili davanti a tali tematiche . Sempre il continuo aumento . Infatti basta confrontare i dati degli anni passati per rendersi conto che la curva delle morti non accenna a scendere. Tra l’1 gennaio e il 7 novembre di quest’anno, in Italia sono stati registrati 247 omicidi, con 103 vittime donne. Di queste, 87 sono state uccise in ambito familiare e affettivo. Altre 60 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Emerge dal report sugli “Omicidi volontari” curato dal Servizio analisi della Direzione centrale della polizia criminale.Rispetto allo stesso periodo del 2020, si nota un lieve decremento (-2%) nell’andamento generale degli eventi (da 251 casi di omicidio si è passati a 247), ma le vittime di genere femminile sono aumentate da 97 a 103, facendo registrare un +6%.
Anche per quanto riguarda i delitti commessi in ambito familiare e affettivo c’è stata una leggera crescita, del 2%: si è passati da 124 a 127. Nel periodo che va dall’1 gennaio al 7 novembre 2020, le vittime di genere femminile sono state 83, mentre nello stesso periodo relativo al 2021 sono state 87, con un incremento del 5%.

 


 Lo stesso incremento è stato registrato per le donne vittime di partner o di ex compagni: passano da 57 a 60. In termini assoluti, le donne vittime di omicidi sono state 141 nel 2018, 111 nel 2019 e 116 nel 2020, ma la percentuale di vittime donne sul totale degli omicidi volontari è salita dal 35% del 2019 al 40,5% del 2020. Quest’anno, fino al 7 novembre, risulta un’ulteriore ascesa: 41,7%.

Quindi  basta   dibattiti  inutili    ,  i cui interventi  finiscono nel  vento  ma  fatti  concreti    come  ad  esempio  un  iniziativa ( immagine  a  sinistra  )   che  affronta  il problema  degli stereotipi \  luohghi comi che   sono   l'anticamera  della  violenza  del genere  \  femminicidio che   ormai sempre  più  radicati    non  solo  sui media   e  nella pubblicità ma  anche   nelle persone di sesso maschile  ma  anche in persone  , SIC  , di sesso femminile    scoperta   da poco  del comune    di Monterotondo    che  ha ripreso    \  copiato    secondo altri     la  campagna di Hella Network collettivo di professionisti\e  della comunicazione.
Con questo  è tutto .  Non so  che  altro  aggiungere    se  non ne  rilanciare  l'appello ,   fin ora  caduto  nel  vuoto  ,  fatto  sul mio  fb  , mentre il post   era  ancora  in word  progress  
ecco un estratto di un post che sto scrivendo per il blog per la giornata del 25 ( se qualcuna\o di voi ha suggerimenti ovviamente serie e non quelle dei : classici populisti #legaioli e #pillonisti ben vengano me lo può far sapere o qui nei commenti o l'email del blog redbeppe@gmail.com )





21.11.21

Rifugiarsi nel passato è Un modo originale per evadere da questo eterno presente che capire non sai . Si può evadere senza ricorre a droghe o mezzi artificiali ., ed altre storie

Lei è Sarah

Ha 45 anni. Vive a Leicester, nel Regno Unito. Ama la storia, i film, i libri degli anni Quaranta. Un giorno apre il suo armadio, e non trova niente che la rappresenti. Cerca nei negozi. La prendono per matta. Signora non è carnevale.Sarah non si arrende. Naviga sul web, scova mercatini, recupera tessuti, stoffe, bottoni tipici dell’epoca, passa notti insonni sulla macchina da cucito, finché è pronta una perfetta camicetta vintage.In dieci anni ha realizzato più di 300 abiti vintage, che indossa nella vita di tutti i giorni.Sono il suo modo di evadere dalla realtà, la sua isola felice.

  le  altere  immagini le trovate in questo post della pagina  Facebook  di     Carmelo Abate   https://www.facebook.com/carmeloabbate1971/
Un  modo originale per evadere da questo eterno presente che capire non sai . Si può evadere senza ricorre a droghe o mezzi artificiali


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Lui è Cristian. Nasce a Mazzarrone, in Sicilia, nel 1985. Il fratello è malato, i genitori lo portano in un ospedale del nord Italia. Cristian resta con la nonna. Per scacciare la solitudine, corre dietro a un pallone. Gioca per strada, scarica rabbia e frustrazioni. Passa qualche mese. Il fratello guarisce, la famiglia finalmente è riunita. Cristian si sente più sicuro, e si permette di sognare. Ha 17 anni, fa un provino per una grande squadra. È l’occasione della sua vita, e non la manca. Segna due gol da sogno e firma un vero contratto. Cristian mette il cuore in ogni partita, ma durante un contrasto si
rompe una gamba. È costretto a fermarsi per molto tempo. Quando torna a giocare, non è più lo stesso. Lo rispediscono al mittente. Cristian stringe i pugni fino a sanguinare, si sente abbandonato, derubato. Si chiude in se stesso, allontana i vecchi amici, ne scova di nuovi, li segue nei locali, nei vicoli, compra la droga, la usa, la spaccia. Senza pallone le sue giornate sono vuote. Tanto vale farla finita. Esce sul balcone, si sporge. Deve solo fare un passo in avanti. Fermati! Cristian resta con il piede nel vuoto. Chi c’è, chi ha parlato? È solo, eppure sente una voce che lo tranquillizza, gli dice che può farcela. Cristian si ritrova a piangere come un bambino tra le braccia della mamma. Deve, vuole crederci. Torna con i piedi per terra, corre in casa, cerca una Bibbia. Le sue mani tremano mentre volta le pagine. Non sa, non capisce, ma più legge, più il suo cuore si riempie di gioia e speranza, come la prima volta dietro al pallone. Cristian si dà una ripulita. Trova un lavoro, si iscrive all’università, basta con la droga, ora a tenerlo in piedi c’è una ragazza bella come un angelo. Si chiama Maria, diventa sua moglie e madre dei suoi figli. Stretto alla sua famiglia, Cristian supera una brutta malattia, e si avvicina alla fede. Oggi Cristian ha 36 anni, è un pastore evangelico, ai fedeli non si stanca mai di ripetere che la salvezza è dentro ognuno di noi, e le possibilità sono infinte.
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è stato il sosia di massimo troisi , ma non sfrutta l'occasione d'entrare nel mondo del cinema e preferisce fare una vita semplice .

 Ma   non rinega  quell'esperienza  ,  e  da    a  suo  figlio nato  dopo la morte  dell'attore  ,   il nome dell'attore  stesso . Questa  è  la storia di  Gerardo Ferrara era un 31enne di Sapri che in qualche modo somigliava a Massimo Troisi.


Egli  Fu contattato dalla produzione de “Il postino”, alla ricerca di qualcuno che sostituisse nelle scene più pesanti un Massimo sempre più stanco e affaticato per problemi  di  salute .Appena si incontrarono, per entrambi fu come guardarsi allo specchio. Massimo, resosi conto del suo imbarazzo, lo abbracciò e gli disse: “E tu mo’ ti fai vedere”. Per un mese buono fu il suo doppio. Era quello che pedalava sotto il sole di Procida o di Salina, si fermava ad ammirare il tramonto in cima alla collina, con quella bici tra le mani. Durante le riprese sua moglie Elena rimase incinta. Massimo le si avvicinava e le chiedeva: "Come sta Pablito? Mi raccomando, lo dobbiamo chiamare Pablito", che era il nome del figlio del Postino. L'ultimo ciak fu il 3 giugno. Massimo salutò tutti così: “Vi amo tutti, non dimenticatevi di me". Il giorno dopo morì. Oggi Gerardo ha 25 anni in più, una carriera da insegnante, un bed and breakfast e nessun altro ricordo dal mondo del cinema. Ha anche un libro che Massimo gli regalò con una dedica: "A Gerardo, per la pazienza e l'abnegazione con le quali ha reso più piacevole e meno faticoso il mio lavoro". Suo figlio nacque poco dopo la morte di Troisi. Non l'ha chiamato Pablito. D'accordo con sua moglie, decise di chiamarlo Massimo.


 da  Lorenzo Tosa

il gelataio Francesco Tirelli fra i giusti in ungheria ., esule albanese, torno a fare il medico ad Asti., Volterra L'anfiteatro ritrovato riparando una fogna

da https://www.facebook.com/lafarfalladellagentilezza Francesco Tirelli aveva lasciato il suo paese in cerca di un futuro migliore. Veniva da un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, Campagnola Emilia, e negli anni Trenta decise di emigrare in Ungheria, a Budapest, dove aprì una gelateria.
Lì il gelato italiano ebbe molto successo, tanti bambini frequentavano abitualmente la piccola
gelateria di Francesco e tutto sembrava andare per il meglio.
Ma era solo un’illusione perché presto tutto cambiò. In peggio.
Nel 1944 la follia nazista arrivò anche a Budapest: Hitler occupò l’Ungheria e con la complicità del partito razzista e antisemita delle Croci Frecciate, mise in atto una delle più terribili operazioni di sterminio della Seconda guerra mondiale.
Nel corso di pochi mesi, dall’aprile al luglio del 1944, furono deportate ad Auschwitz circa 440.000 persone.
Francesco in quanto italiano pensava di essere relativamente al sicuro. Ma non erano al sicuro i tanti clienti ebrei che avevano frequentato la sua gelateria.
E questa cosa non lasciò Francesco indifferente: non voleva e non poteva restare a guardare mentre quei bambini, con i quali ormai aveva fatto amicizia, rischiavano la vita.
Così Francesco decise di agire, e fece in piccolo quello che un altro nostro connazionale, Giorgio Perlasca, sempre in Ungheria, riuscì a fare in grande.
Non si tirò indietro: mise a disposizione la sua gelateria per salvare vite umane. Iniziò in sordina, con molta discrezione, invitando i clienti più vicini, più stretti. Li nascondeva nel suo retrobottega. Poi quando diventarono troppi, sfidando il pericolo delle delazioni così frequenti, cercò di procurare altri alloggi, altri nascondigli, altre sistemazioni. In alcuni casi acquistò anche passaporti falsi. Portava cibo, notizie, amicizia e conforto per quelle persone recluse in pochi metri che ormai dipendevano in tutto e per tutto da lui.
E lui riuscì a salvarle: non si sa esattamente quante persone devono a lui la vita. C’è chi dice 15-20, chi dice molti di più. Ma l’umanità di questo gesto non può essere ridotta a una mera contabilità.
Il gesto di Francesco Tirelli è una luce che brilla negli anni più bui della storia, il suo coraggio e la sua umanità rappresentano la più grande risposta all’orrore di quel periodo, dove oltre che dalla follia omicida dei nazisti, le persone dovevano salvarsi dalla crudeltà dei collaborazionisti e dall’indifferenza di troppa gente.
Ecco, la storia del gelataio Francesco Tirelli ci riscatta in parte da quell’orrore, per restituire speranza e fiducia nel genere umano.Su Francesco Tirelli c’è un bellissimo libro per bambini: “Il gelataio Tirelli” (Gallucci, 2018), scritto da Tamar Meir, nuora di Yitzhak Meir, uno dei piccoli clienti di Francesco che ha vissuto per mesi, con la sua famiglia nella gelateria. Se Yitzhak è sopravvissuto e ha potuto sposarsi, avere figli e nipoti è solo grazie al coraggio di Tirelli, e per questo ha voluto diffondere la storia del suo benefattore, morto nel 1954. Per chi volesse cominciare a parlare ai bambini dell’Olocausto, questo può essere un modo delicato per affrontare un argomento tanto difficile e drammatico.




Rozeta Plumbini è un medico di famiglia ad Asti ed è di origini albanesi. 


Una storia simbolo, all'insegna del riscatto e della fatica, a 30 anni dall’inizio del grande esodo dall’Albania. Risalgono al 1991, crollo del regime comunista, le immagini della nave Vlora(  foto  a  sinistra  )   che attraccò al porto di Bari . 
Ora  indossa   di nuovo il camice come a Scutari: in Italia ha fatto la sarta e assistito anziani, ora guida un ambulatorio









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Tra gli addetti ai lavori, quello di Volterra è considerato lo scavo del secolo. 



Di certo riscrive la storia della Volterra romana che assume così maggiore importanza durante l’epoca di Augusto. L’anfiteatro non era descritto in nessun documento dell’epoca o più recente. Come se non fosse mai esistito. Proprio per questo si è guadagnato il soprannome di “Anfiteatro che non c’era”. Ora l’equipe di lavoro, guidata da Elena Sorge in qualità di direttore scientifico della Soprintendenza per Pisa e Livorno, sta riportando in luce una fetta di storia che risale alla prima metà del primo secolo dopo Cristo. L’arena infatti era sepolta sotto sette metri di terra. Quando l’anfiteatro era in auge poteva contare fino a 7000 persone in un sistema di spalti e sedute che lo rendevano in tutto e per tutto uno stadio ante litteram.

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Iniziò le sue attività nel '500, quando il monastero attiguo alla Chiesa di Santa Maria della Scala, a Roma, venne affidato all'ordine dei Carmelitani Scalzi. 



Per secoli quella che allora veniva chiamata 'spezieria' ha continuato le sue attività, importando spezie, piante e materie naturali da tutto il mondo, fino a diventare una certezza per tutti i pontefici, tanto da essere poi ribattezzata la "Farmacia dei Papi". Adesso le sue sale storiche, rimaste sostanzialmente inalterate dal 1954, quando le attività farmaceutiche sono cessate, sono al centro di un progetto di ricerca italo-spagnolo che coinvolge l'università di Valencia e l'Enea. L'obiettivo è catalogare i preparati ancora contenuti nelle ampolle e nei flaconi dell'epoca e realizzare un modello 3D che possa consentire un tour virtuale dell'antica spezieria, attualmente visitabile dal pubblico solo in numeri ridotti e su prenotazione













Chi ha paura dei partigiani? visto che la storica Chiara Colombini presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese.


Chi ha paura dei partigiani?
Una storica presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese. Ed è successo perché c’è un’aria malsana. Quella di quando si rompono gli argini e anche il peggio, improvvisamente, si può dire

di Mario Calabresi





Prima immagine: una ricercatrice che ha dedicato la sua vita alla storia delle formazioni partigiane presenta un libro in cui affronta i luoghi comuni più diffusi sulla Resistenza. È stata invitata dalla sezione locale dell’ANPI. Fuori, uno schieramento di polizia e carabinieri garantisce che la serata si svolga con tranquillità. Una comunità neonazista attiva nella zona ha attaccato tre striscioni di contestazione. Azzate, provincia di Varese, 12 novembre 2021.
Seconda immagine: due giorni prima a Torino muore una donna che per tutta la vita si è dedicata a far funzionare l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza "Giorgio Agosti". Si chiamava Dada Vicari e ha coltivato la memoria di quelli che si sono battuti e sono caduti per la libertà, come suo padre Michele, ferroviere, partigiano, fucilato il 18 aprile 1945, il giorno dello sciopero generale di Torino, ad appena una settimana dalla liberazione dal nazifascismo.



Il panorama delle Langhe, raccontato da Beppe Fenoglio nel suo romanzo “Il Partigiano Johnny”


A legare le due immagini, i fantasmi che tornano mentre un pezzo prezioso di memoria ci lascia, è Chiara Colombini, 48 anni, autrice del libro Anche i partigiani però.... . È lei che ha avuto bisogno della scorta di polizia e carabinieri per presentare il suo volume, che è proprio dedicato a Michele e Dada Vicari. «Anch’io lavoro all’Agosti, dove sono raccolte tutte le carte delle formazioni partigiane del Piemonte, e Dada mi aveva adottato, era una persona di grande umanità e teneva sotto la sua ala tutti i giovani che passavano dall’Istituto».
Chiara è stata in provincia di Varese per un piccolo giro di presentazioni; le avevano detto che ci sarebbero potuti essere problemi, ricordando la dura contestazione che due anni prima un nutrito gruppo di neofascisti fece contro lo scrittore Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone, un altro libro sul dilagare di luoghi comuni e chiacchiericcio che in tempi di disinteresse, ignoranza e ritorni di fiamma vengono presentati come verità storiche.
«Mi avevano avvisato, ma voglio sottolineare che è stata una tre giorni deliziosa, con sale piene e belle discussioni, ma lascia perplessi che per presentare un libro ci voglia la polizia e questo mi sembra un segnale non proprio rasserenante. Non per me, anzi lo striscione che mi riguarda non l’ho considerato insultante e nemmeno minaccioso. Ma lo sai cosa c’era scritto, usando una rima banale? “Chiara Colombini, mangia bambini”. Mi viene da ridere. La mia preoccupazione è invece legata alla situazione più generale, al fatto che un gruppo neonazista riesca a condizionare le attività culturali di una zona e richieda la mobilitazione delle forze dell’ordine settantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».


Chiara Colombini in una illustrazione di Marta Signori


Quando ho letto la notizia, in un trafiletto nei giornali locali e in una comunicazione dell’Istituto Ferruccio Parri, del cui comitato scientifico Chiara fa parte, avevo appena finito di trascrivere la mia conversazione con Javier Cercas (qui trovate il podcast) e mi risuonava in testa la sua frase contro “la dittatura del presente”, quel modo di vivere immersi in ciò che accade nell’istante, dimenticando ciò che è successo soltanto una settimana prima: «Il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianza non è passato, ma fa parte del presente, se ce ne dimentichiamo viviamo un tempo mutilato».
Ho cercato Chiara Colombini perché mi sembrava che la sua vicenda e quello che mi aveva detto Cercas si parlassero, volevo capire il suo lavoro e grazie a quale scintilla fosse nata la passione per la Resistenza: «È accaduto leggendo Fenoglio. Io sono nata ad Alba e quei luoghi delle Langhe mi sono familiari, ma i suoi libri mi hanno lasciato soprattutto la voglia di conoscere i protagonisti oltre il romanzo e così ho incontrato la figura di Nuto Revelli che mi ha spalancato un mondo. Mi ha fatto capire la complessità e le difficoltà di una scelta come quella partigiana nell’estate del 1943. Revelli era un militare di carriera, un ufficiale degli Alpini ed era andato volontario in Russia. Non era stato antifascista nel ventennio, ma era tornato con ferite umane profondissime e con una voglia di ribellione fortissima. Diventò un capo partigiano leggendario, ma con grande onestà intellettuale ha sempre ricordato la difficoltà di quella scelta. Io studiavo filosofia ma leggere i suoi ricordi mi ha fatto nascere la domanda fondamentale: io che cosa avrei fatto?».
E così la vita di Chiara ha preso la sua direzione che l’ha spinta oggi a confrontarsi con i luoghi comuni che si sono fatti sempre più spazio negli ultimi venticinque anni, ha scelto di fare un libro divulgativo, con un titolo provocatorio, non per storici, ma per tutti.





«Oggi il discorso contrario alla Resistenza è radicatissimo, ha trovato la sua capacità di saltare il fosso della memoria neofascista e di diventare di più ampia diffusione all’inizio degli Anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica. In questa nuova fase si è fatta strada l’idea che l’antifascismo e la Resistenza non potessero più essere il punto di legittimazione della Repubblica e oggi viviamo immersi in un clima che dà pessimi segnali. Se sia fascismo o no, quello che torna non lo so, ma quello che colgo è un clima che non mi piace. Non nasce dalla denigrazione della Resistenza ma è qualcosa di più complesso, è come se si fossero rotti gli argini e così, ora, è possibile fare affermazioni e dire cose che non si sarebbero mai immaginate. Penso ai discorsi razzisti prima di tutto».
Così Chiara è ripartita da lontano e nel suo libro in ogni capitolo affronta una delle accuse mosse ai partigiani, una delle semplificazioni utili a sporcare e denigrare: “Erano tutti rossi”, “Inutili e vigliacchi”, “La violenza è colpa loro”, “Rubagalline”, “Assassini”.
«Nel confrontarmi con i luoghi comuni non cercavo delle giustificazioni e nemmeno di santificare i partigiani, ma volevo raccontare una storia fatta da esseri umani, che ovviamente non erano perfetti e avevano insieme contraddizioni, slanci meravigliosi e limiti. Quello che io amo ricordare è che ci sono state persone che nel momento più nero della disperazione di una guerra di occupazione, dopo vent’anni di dittatura, abbiano trovato un motivo per reagire e il coraggio di salire in montagna».


Una lapide commemorativa nel territorio di Mango (CN). Tre dei contadini qui ricordati, catturati in un rastrellamento dalle truppe nazifasciste e poi fucilati, avevano solo 16 anni


Leggendo il libro di Chiara Colombini e parlando con lei ci si rende conto che tutto il revisionismo, le accuse e i famosi luoghi comuni partono da un dato falsato: si dimentica che c’erano i nazisti, si dimenticano le atrocità della guerra. «Questo è l’elemento fondamentale dei giudizi liquidatori: l’azzeramento del contesto storico e il tentativo di giudicare il passato con il metro dell’oggi. Se non si capisce quale era la situazione, allora la scelta armata è inconcepibile».
Per ripartire davvero dall’inizio, come fa quando incontra i ragazzi delle scuole, è necessario rispondere alla domanda su chi fossero i partigiani: «Erano persone molto diverse tra loro, per provenienza sociale, politica, geografica e con idee spesso opposte sul presente e sul futuro, ma che in un momento di grandissima precarietà e incertezza, in un momento in cui la sopraffazione era legge, hanno reagito. Certo sono stati una piccola minoranza i partigiani in armi, ma più grande era l’area che li sosteneva. Una larga parte era rappresentata dai più giovani, c’erano anche trentenni e quarantenni con una formazione politica alle spalle, già antifascisti o che lo erano diventati nel corso della guerra ma soprattutto tanti ragazzi, nati e cresciuti sotto il fascismo e senza un’idea politica ben precisa. Uno degli aspetti che mi affascina di più è questa natura composita così ricca. E non erano tutti comunisti. Certo la risposta al luogo comune non deve portare a sminuire il ruolo delle Brigate Garibaldi, che erano la metà dei combattenti, ma è scorretto stabilire un rapporto organico tra formazioni partigiane e partiti politici».


Dalla Cascina Langa la vista spazia su tutta la pianura cuneese e sul Monviso


Ogni storia ha un luogo di elezione, un punto in cui le cose sembrano avere un senso più nitido e vero, per Chiara quel luogo è la Cascina Langa narrata da Fenoglio nel Partigiano Johnny, si trova a 700 metri d’altezza tra i paesi di Benevello e Trezzo Tinella, da qui si apre un panorama mozzafiato su tutta la pianura e sulla corona delle Alpi. Per il partigiano Johnny quella cascina solitaria era un rifugio, il luogo degli amici e della cagna lupa.
Anch’io, quando un giorno ci sono arrivato, portato da Angelo Gaja che voleva farmi capire l’essenza dell’Alta Langa, mi sono innamorato di quel luogo e ho riletto lo scrittore che imparai ad amare all’università per quella sua lingua asciutta ed essenziale che definisce alla perfezione ogni cosa.


  stavolta    oin sottofondo  non  c'è una  canzone    ma  un intero  album

Appunti Partigiani” - Modena City Ramblers.

20.11.21

contro il femminicidio e la violenza Senza se e se Senza ma

Oggi  25 novembre   un nuovo 8 marzo   lascio la parola a questo editoriale    della  rivista  free www.ioacquaesapone.it/

Senza ma

Mar 26 Ott 2021 | di Angela Iantosca | Editoriale





“Sono atti violenti, ma quelle ragazze avevano bevuto”. “È stato accertato che la violenza è stata consumata, ma lei avrebbe potuto evitare di andare in giro di notte…”.“Mio figlio è stato condannato, ma la giustizia ha esagerato…”. “L’ho picchiata, ma è stata lei a provocarmi...”.
Siamo ormai nella società del “sì, ma”. Della non pienezza, delle frasi dette senza convinzione, dell’assunzione di responsabilità a metà, delle finte condanne verbali ad azioni violente, ma in fondo legittime.
Assistiamo continuamente a questo allontanamento da noi di ciò che abbiamo commesso.
Come se niente dipendesse dalle nostre scelte, come se fossimo sempre innocenti, nonostante le prove e non fino a prova contraria. Come se volessimo distrarre chi ci ascolta da ciò di cui siamo stati artefici, portando il focus sull’altro, sulle sue mancanze, sui suoi ‘errori’, sulla presunta superficialità.
Non c’è mai uno “Scusate”, “Ho sbagliato”. Non c’è una mano passata sul cuore, una testa reclinata in segno di consapevolezza di ciò che si è fatto.
Ma è possibile che sia sempre colpa degli altri? Non è tempo, forse, di tacere o di parlare solo per ammettere quanto commesso?
Il 25 novembre è la giornata contro la violenza sulle donne. Senza ma.



"Io, Babbo Natale dei bambini meno fortunati"

da  Quotidiano.Net  tramite  msn.it  Guido Pacelli è un Babbo Natale davvero speciale. Conosciuto come l’aggiustagiocattoli, lavora tutto l’...