28.2.15

ripartire dala brigata sassari ( 1\3\1915-1\3\2015) per riscoprire la nostra identità

La brigata  Sassari  (  151 Tempio pausania  e  152  Sinnai  )   non  è  come  dice l'articolo riportato   sempre  dala nuova  sardegna  e  da  me  ripreso  su questo  blog    solo  un qualcosa  di leggendario (  la leggenda dei dimonios ( la brigata sassari ) nacque da una rissa fra soldati sardi e soldati laziali ?   )  , ma  anche  fortemente identitario   come dic e Manlio Brigalia   nell'articolo  da me riportato nel post precedente   e  come   dice questo video   come   questo  video  sulle celebrazioni  ad  Asiago  
 
 
Ora a 3 mesi  del centenario dell'entrata  in guierra  dell'italia  nella grande  guerra    e   100  dalle  fondazione della Brigata Sassari   riporto  qui    notizie     che trovate su siti  specialisti  o d'appassionati  come   questo ottimo e documentatissimo    sito  d'appassionati  chiamato apppunto  : http://www.frontedelpiave.info  in paeticolare  qui  )  libri  di mmorie   o di storici  specialisti   d'appassionati o di specialisti  sullagrande  guerra  opppure  nei tg  o  giornjali locali  ( da  cui sonp tratte le news  sotto   riportate  )   , o nelle cronanche locali     per il resto   vine  quasi ignorato o passa in secondo piano    nonostante   il grandissimo  contributo  , specie  con i ragazzi del  1899  .



dalla   nuova sardegna del 27\2\2015


 

Emilio Lussu  1890-1975
«La Brigata, tre volte fatta e tre disfatta»: una carica di eroismo I luoghi sacri: dall’Altipiano dei Sette Comuni al Monte Zebio, dalla Bainsizza a Caporetto e fino alla battaglia del Piave
A guardia delle due trincee conquistate la Brigata resta sino a maggio.Ha perso in battaglia 22 ufficiali e 213 soldati, feriti 59 ufficiali e 1536 soldati, nella difesa di gennaio-maggio 4 ufficiali morti e 9 feriti, 76 soldati morti e 410 feriti: «La Brigata fu tre volte fatta e tre disfatta» scriverà Bellieni: vi militeranno,in tutto, circa 16 mila uomini.
«Pro defender sa Patria  italiana/ distrutta s’este sa Sardigna  intrea», cantava il mulattiere  salendo l'erta, ha scritto Camillo Bellieni, padre del sardismo,anche lui ufficiale della "Sassari".
I luoghi "sacri" della Brigata,nel prosieguo della guerra, sono  altri quattro. Il primo, a giugno del 1916, è l'Altipiano dei Sette Comuni, sopra Vicenza,dove la Brigata deve precipitarsi a bloccare la pericolosa Strafexpedition austriaca: due mesi e mezzo di combattimenti,49 ufficiali morti e 106 feriti,456 soldati morti e 3.476 feriti.Nei mesi successivi, sino al giugno  1917, partecipò alla controffensiva  sull'Altipiano e in  Val di Ronchi.Il secondo è, sullo stesso Altipiano,ilMonteZebio e le sue  trincee di Casara Zebio, Monte Fior, Castelgomberto. Vi si  combatte dal 9 giugno all'8 luglio:
la giornata più tragica è il 10, quando l'"Azione K" inizia tragicamente con un errore della nostra artiglieria, che bombardaa lungo i soldati che  stanno per uscire dalle trincee.
Nell'Archivio storico dell'Esercito  Giuseppina Fois ha trovato un biglietto  tutto macchiato del sudore del portaordini: c'è  scritto «In nome di Dio, allungate  il tiro, ci state massacrando ».
L'attacco si infrange contro  i reticolati intatti, ci sono 8  ufficiali morti e 21 feriti, 99 soldati morti e 887  feriti  
Il terzo è l'altipiano della Bainsizza. Per mesi, da ora, mancheranno  dei dati ufficiali sul bilancio dei morti e dei feriti, i  diari dei battaglioni sono stati  perduti a Caporetto: ma quando si scende al piano «i reparti  che si trovano vicino alla sua direttrice accorrono da ogni  parte per vederli e applaudirli », è sempre Motzo che lo racconta nel suo “Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari” pubblicato nel 1931.Il quarto evento è, a partire dal pomeriggio del 26 ottobre,la ritirata di Caporetto.Neanche qui la Brigata si smentisce. Chiamata a rallentare  l'avanzata della spedizione austro-tedesca, mentre l'esercito si disfà al grido di "Tutti a casa" («Mai più un inverno in trincea», predicano i socialisti), fa di Codroipo uno dei nodi della strenua resistenza:«Vincemmo - dicono le memorie di guerra di un alto ufficiale tedesco - nonostante avessimo di fronte la più valorosa formazione dell'esercito italiano, la Brigata Sardegna».Il 9 novembre tutti i ponti sul Piave sono stati fatti saltare: il Genio è pronto a far saltare anche quello, ma mancano dei reparti.Il VII battaglione compare di lontano, il capitano Musinu lo ha portato in fila, fucile a spall'arm come a unaparata. Il battaglione passa il ponte,Musinu
dà "l'attenti a destr' " per salutare un gruppo di ufficiali,poi il ponte viene fatto saltare.
C’è anche un quinto luogo,sono i Tre Monti, Col del Rosso,Col d'Echele, Valbella, dove l'esercito italiano riprende l'iniziativa. Grande battaglia,dal 28 al 3 gennaio, grande vittoria.
Ci sono adesso anche i ragazzi del '99. La mattina dell'assalto nessuno in tutta la Brigata marca visita (quindici ufficialimorti e 43 feriti, 147 soldatimorti e  690 feriti).
Il 28 gennaio sarà la festa della Brigata, e un articolo dello Statuto aveva fissato in questo giorno la festa della Regione sarda.
E poi c’è il Piave. È la parte forse meno conosciuta dell'epopea della "Brigata Sassari",eppure sono giornate di ininterrotti scontri all'ultimo sangue,inesauribili corpo a corposulle rive del fiume. Gli austriaci sferrano l'ultimo grande assalto,tutte le formazioni italiane resistono. Il 28 giugno muore,a 28 anni, Attilio Deffenu,grande intellettuale, uno dei padri dell'autonomismo regionale.Il 29 ottobre la battaglia delPiave è finita. La "Sassari" passa il fiume «a guado, con l'acqua sino alla cintola», a Salettuol di Maserada e il 18 novembre raggiunge la linea di confine stabilita dagli accordi dell'armistizio, al limite orientale dei monti e i fiumi dove aveva combattuto


Gli austriaci iniziarono subito a temere quei sardi indiavolati
che attaccavano all’arma bianca e si abituarono a chiamarli
i “diavoli rossi”
                            Manlio Brigaglia 




I primi battaglioni della Brigata passarono l'Isonzo il 24 luglio. Cominciava la guerra, la lunga fase della "guerra cadorniana", pagata soprattutto dalle fanterie mandate a sbattere, nei giorni di battaglia, contro i reticolati austriaci, preparati già da gran tempo prima, protetti da un'artiglieria pesante  piazzata  con particolare oculatezza: sino a Caporetto, la guerra di Cadorna fu una guerra di uomini (italiani) contro difese poco meno che insuperabili.Dove non bastavano le armi,dovevanosupplire gli uomini.
copertinma della domenica del corriere   dedicata  ala Brigata  sassari 
Per fare il loro dovere gli uomini della Brigata diventarono presto specialisti in assalti alla baionetta trasformati spesso in assalti all'arma bianca,in corpo a corpo mortali.Non è favola che gli austriaci temevano quei sardi indiavolati,si abituarono a chiamarli "i diavoli rossi".Il primo anno di guerra - da luglio a dicembre - fu  contrassegnato da due grandi battaglie.
La prima, tra luglio e agosto,per prendere una fila cupa  di boschi (Bosco Cappuccio,Bosco Lancia, Bosco Triangolare) e una posizione particolarmente munita, che i soldati chiamavano "il Trincerone".
In quegli scontri la Brigata perse 13 ufficiali e 54 furono  feriti, 384 soldati morirono e 2.688 furono feriti. Si contarono anche i primi 57 fanti dispersi: termine con il quale le norme ufficiali accomunano caduti di cui nonfu trovato il corpo, altri fatti prigionieri e anche altri che forse erano fuggiti.La seconda, all'inizio di novembre,fu una battaglia particolare furore, per prendere una posizione in cui, in pochi metri di terra, quando vi arrivò la Brigata erano già morte centinaia di uomini. Due brevi trincee a poche decine di metri di distanza una dall'altra, che i nostri soldati chiamavano da quello che vedevano: la Trincea delle Frasche,
per come erano coperti i parapetti, e la Trincea dei Razzi,che da lì partivano ad illuminare la notte. Diverse formazioni italiane vi erano state decimate: mentre la Brigata saliva a prendervi posizione -
racconta Leonardo Motzo,"uno che c'era" - «dalla linea scendevano di corsa dei soldati che cercavano di allontanarsi al più presto possibile da quello che chiamavano 'l'inferno'».La Trincea delle Frasche
era lunga novecento metri e finiva nella Trincea dei Razzi, altri quattro-cinquecentometri:tutt'e due costruite da tempo,munitissime, distanti una  cinquantina di metri dalle nostre,improvvisate. Il 151° prese posizione davanti alle Frasche,il 152° davanti ai Razzi.
I fanti balzarono dalle trincee a mezzogiorno preciso del 10 novembre: la nostra artiglieria aveva tentato invano di aprire dei varchi, sparando tutta la mattina. Ma i reticolati erano rimasti intatti, le mitragliatrici facevano il vuoto:la lotta fu cruentissima dappertutto - testimonia  sempre   Motzo -: «Morti e feriti si allineavano davanti ai reticolati, che tentavano di tagliare con le pinze».
A sera gli italiani sono ancora fuori dalle trincee, e viene l'ordine che restino lì, nella terra di nessuno, fradici di una pioggia continua e violenta: la mattina dopo gli attacchi sono di nuovo infruttuosi, e la
sera i reparti vengono fatti ritirare nelle trincee di partenza.
Ma la Brigata non molla.Quel poco di terreno di fangoe morti delle Frasche e dei Razzi è il luogo del battesimo "sardo" della Brigata. Per stroncare la resistenza austriaca si decide di far saltare i reticolati
con una serie di azioni notturne di piccoli gruppi. Al mattino del 12 l'artiglieria austriaca inizia un pesante bombardamento  che durerà tutta la giornata: eppure i sassarini resistono agli attacchi. Il giorno dopo, appena dopo l'alba,il 152° parte all'assalto e dilaga nella trincea austriaca, gli occupanti si arrendono. L'indomani 15 il bollettino del Comando supremo racconteràla battaglia: «Sul Carso è continuata ieri l'azione.Per tutto il giorno l'artiglieria nemica concentrò violento e ininterrotto fuoco di pezzi di ogni calibro sul trinceramento delle Frasche, al fine di snidarne le nostre fanterie. Gli intrepidi Sardi della Brigata Sassari  resistettero pienamente nelle conquistate posizioni e con ammirevole slancio espugnarono altro vicino trinceramento detto dei Razzi. Fecero al nemico 278 prigionieri dei quali 11 ufficiali». Il Comando,apparentemente violando l'abitudine per cui non si dichiaravano mai le formazioni e spesso neanche i luoghi dove combattevano, non solo cita la Brigata Sassari ma, forse trascurando la presenza di eroici "continentali" che vi militavano (Fapanni, Osimani,Romanelli, Taddei, Pascazio,Moscato, Villetti sono nomi di ufficiali morti o feriti già nella battaglia d'estate), nomina anche "gli intrepidi Sardi".Forse la maiuscola non ha altra motivazione che un'abitudine lessicale, ma l'aggettivo "intrepidi" non è evocato a caso.Si sottolinea una specificità
del corpo, per ora soltanto una peculiarità regionale. Ma da lì parte, in Sardegna ma anche in tutta Italia, una possente ondata d'entusiasmo e di orgoglio. Gli inviati speciali della grande stampa nazionale battono la grancassa. Il Comando supremo coglie la palla al balzo e pochi giorni dopo emana una circolare con cui dispone che qualunque soldato sardo di Fanteria che voglia passare alla "Sassari" basta che ne faccia semplicemente domanda.Nasce la "Brigata di ferro",guardata a vista dai giornali,esaltata per ogni sua esaltante impresa 
 

 


 

1\3\1915-1\32015 la brigata sassari l'orgoglio dei sardi

  nel  bene e nel male   essa   è il nostro orgoglio    da prendere  come  punto di ripartenza  per  non farci mettere i  piedi in testa  nè  da multinazional  ne  dallo stato   italiano  

27.2.15

abbattere i cani aggresivi ? un altra strada è possibile il caso di Rauyl un cane molosso di porto torres ( sassari )


Non sempre  un cane pericoloso    necessita    d'essere  abbattuto    ecco la storia   avvenuta  l'estate  scorsda   di  un cane molosso più  precisamente  un   Dogue de Bordeaux  che  avev a aggredito   il suo padrone che lo maltrattava   e  aveva bloccato  per  un paio d'ore le operazioni  di 'imbarco    a  Porto torres  e  che    ora  dopo  un corso  d'affidamento  ritorna   a  casa  . 

  La storia    è presa  dalla  nuova  sardegna  del  25 \2  e   del 19\2 

sassari Cani aggressivi abbattuti? Un’altra strada è possibile Il presidente dei veterinari Sarria critica chi si libera alla leggera degli animali: «Anche Raul ha rischiato una brutta fine, ma ha trovato chi ha creduto in lui»

di Giovanni Bua

SASSARI. Raul ora gironzola placido e monumentale tra i “mini appartamenti” del resort Taxi Dog, la struttura da sogno per l’accoglienza, il ricovero e l’ospitalità per animali che il suo Salvatore Andrea Loriga ha aperto nell’agro di Sorso. E a guardarlo sembra impossibile che questo meraviglioso esemplare di dogue de Bordeaux, che aveva azzannato il proprietario nel porto di Porto Torres, sia stato a un passo dall’essere abbattuto. Destino che purtroppo nell’isola è meno raro di quanto si vorrebbe. A salvare Raul, oltre alla testardaggine di Andrea Loriga, che in quella mattina di agosto riunscì miracolosamente a calmarlo e che da allora non lo ha più “perso di vista”riuscendo alla fine a farselo affidare, è stata l’Asl di Sassari, e in particolare i veterinari Tonino Fadda e Antonello Rassu, insieme ad Andrea Sarria, che dei veterinari è lo storico presidente dell’ordine provinciale. Loro hanno fatto in modo che il molosso fosse ospitato nel parco canile di Rovereto, inserito in un progetto pedagogico della durata di 6 mesi, in cui un pool di esperti medici veterinari ed educatori cinofili hanno applicato un protocollo di recupero dell’animale. «Si parte dalla comprensione del suo comportamento – spiega Sarria – per arrivare a modificare i suoi atteggiamenti negativi attraverso l’impiego di adeguate tecniche relazionali fra l’uomo e il cane. Rovereto è uno dei centri di eccellenza in Italia, e lì si riescono a recuperare animali con storie davvero incredibili alle spalle». Pitbull usati dalla camorra per controllare depositi di droga, dogo argentini straziati dai combattimenti, molossi e cani di grossa taglia (ma a quanto racconta Loriga anche un “terribile” chihuahua) che nella permanenza nel centro guadagnano la loro riabilitazione, spesso accompagnata da precise prescrizioni. «Ogni cane ha la sua storia – spiega Sarria che, tra le altre cose, ha anche la qualifica di comportamentista – e le sue ferite che solo in parte si rimarinano. Quando l’animale viene “liberato” magari ti spiegano che non può stare con i bambini, o con altri animali, ad esempio. Ti insegnano quali regole rispettare, per il suo e il tuo bene». Un percorso spesso lungo e complesso. Che però non sempre è possibile seguire. Quando un cane “mordace” viene segnalato l’Asl lo valuta con una commissione ad hoc formata da veterinari e comportamentisti. Se viene giudicato recuperabile segue un percorso come a Rovereto. A volte però l’unica soluzione è l’abbattimento. Una trafila ufficiale, che scatta solo in caso di segnalazioni o aggressioni, che ha volte i propietari cercano di bipassare. «Succede – spiega Sarria – che si compi un cane “importante” e poi ci si accorga di non essere in grado do gestirlo. Alcuni a quel punto chiedono ai veterinari di abbatterlo. Pratica deontologicamente proibita e che non va assolutamente fatta. Il percorso corretto è affidare il cane all’Asl per le opportune e approfondite valutazioni». La cosa migliore però: «Rimane l’attenzione nella scelta della razza, la serietà nel percorso educativo da seguire. E magari il patentino per alcune razze, con i corsi fatti dal Comune che l’amico Nicola Sanna dovrebbe finalmente attivare».

Raul torna a casa insieme al suo salvatore

Il molosso aveva azzannato il proprietario, dopo la rieducazione viene affidato all’uomo che lo catturò

SASSARI. Si erano scelti in una torrida mattinata d’agosto del 2014. Il primo, uno splendido e possente esemplare di Dogue de Bordeaux, nascosto tra due auto nel piazzale del porto di Porto Torres, spaventato e inferocito. Controllato a vista da un cordone di vigili, pronti a sparargli e abbatterlo dopo che aveva aggredito il suo padrone che, tra urla e calci, lo voleva far rientrare nel rovente bagagliaio della sua auto all’imbarco delle Grandi Navi Veloci in partenza per Genova. Il secondo l’uomo che, con qualche carezza e amichevole sussurro, lo aveva miracolosamente calmato, facendogli capire che il tempo della lotta era finito, e iniziava quello dell’amicizia.
Si erano scelti quella mattina Raul e Andrea Loriga. E ieri, a quasi un anno e mezzo di distanza, hanno coronato il loro percorso. A raccontarlo è proprio il gestore del servizio di Taxi dog, l’azienda con sede a Sassari che dal 2001 si occupa principalmente del trasporto e del soccorso di cani e gatti, ma che sempre più spesso, visti i talenti del 36enne sassarese, viene chiamata quando ci sono situazioni difficili da districare con animali di mezzo.
Un “uomo che sussurra ai cani”, lo hanno definito. E lui, che tra i tanti che ha aiutato e trasportato, di cane ne ha scelto uno solo, entusiasta posta nella sua pagina facebook che il suo viaggio di ritorno a casa con Raul è iniziato.
Un viaggio complesso, partito dal canile di Monte Rosè, dove lo splendido molosso era stato portato subito dopo l’aggressione al suo padrone (in seguito denunciato per lesioni). Proseguito nel parco-canile di Rovereto, nel quale Loriga, dopo un’altra aggressione a un veterinario, lo ha portato a sue spese, e dove il possente molosso dal peso di oltre 50 chilogrammi ha concluso la sua riabilitazione, e smussato, con un piano pedagogico studiato ad hoc lungo oltre sei mesi, i lati più iracondi del suo non semplicissimo carattere. Un viaggio da cui ora il cagnone torna con il “suo” Andrea, che ufficialmente lo assume come collaboratore del Taxi Dog, e gli dedica un post che ben spiega da dove nasca l’unicità di questo giovane sassarese e del suo enorme amico.
«Il giorno che ho lasciato Raul a Rovereto – racconta Andrea Loriga – ho scritto e pensato che qualche volta può arrivare il lieto fine. Oggi lo confermo. Mentre affrontiamo il viaggio insieme, per tornare a casa nostra. Ha finito il suo percorso, in cui a dimostrato a tutti quanto può e vuole dare di lui, anche se solo alle poche persone che sceglie».
«Quando mi chiedono perché io mi sia legato così ad uno stronzo come lui – sottolinea il responsabile di Taxi Dog – non so rispondere. Forse ha ragione chi dice che non c’è nessun motivo particolare, semplicemente ci siamo scelti come poche volte succede tra cane e padrone! Devo ringraziare per primo Raul, perché mi ha insegnato e dato tanto, grazie a lui ho allargato le mie prospettive lavorative, provando a migliorare. Devo ringrazia tutto il team del parco canile Rovereto, per l’ospitalità data a Raul, la professionalità e l’amore che gli ha dedicato. E poi il ringraziamento più grande a Gigi e Thomas, che ormai sono diventati per me i miei due fratelli cinofili. Loro hanno sopportato, valutato e lavorato con me e Raul, senza mai tralasciare neanche i più piccoli particolari. Grazie mille a tutti quelli che l’hanno difeso quando è stato visto da molti per il mostro che non è. Da oggi spero possa iniziare per noi una nuova vita, di spazi, rispetto e amore, nella sua nuova casa. Vi presento il nuovo collaboratore del resort taxi Dog».
 

25.2.15

Il bimbo curato via WhatsApp Quando la tecnologia aiuta


Mettendo  in ordine i  miej  file  e  i mie  preferiti  ho trovato   questa news  ripresa  dal www.unionesarda.iot    di qualche  giorno  fa  


Il bimbo curato via WhatsApp Quando la tecnologia aiuta                                      Uno smartphone con WhatsApp
Il piccolo, che vive a Stromboli, ha seguito una terapia indicata dalla pediatra che aveva "auscultato" il suo respiro attraverso una registrazione inviata dalla mamma via WhatsApp.
La tecnologia può essere un utile strumento per chi vive lontano dai punti di soccorso. E' quello che sicuramente pensa una mamma che vive a Stromboli, una delle isole Eolie: per curare il suo bimbo, affetto da una prolungata bronchite, ha inviato a una sua amica pediatra, tramite WhatsApp, la registrazione del respiro di suo figlio, dato che sull'isola è presente una sola Guardia medica e manca l'assistenza pediatrica. La specialista ha così "auscultato" il piccolo paziente attraverso la registrazione, ha individuato il problema e indicato la cura.
E' stata la mamma, Carolina Barnao, a raccontare su Facebook quanto accaduto: "Stromboli, Italia - ha scrottp - qui il pediatra non c'è, i bambini sì! Ho curato Tommaso da una brutta bronchite grazie a Whatsapp, inviando la registrazione del suo respiro a un'amica pediatra! Viva la tecnologia, viva gli smartphone e soprattutto... Viva Delia Russo! Grazie dottoressa!". La mamma ha poi spiegato: "Guardia medica e medico di base sono molto disponibili ma non sono pediatri. Il pediatra si trova a Lipari. Di mezzo c'è il mare e d'inverno è quasi sempre agitato e rimaniamo isolati dal mondo. Beh, sarebbe opportuno avere un pediatra sull'isola almeno periodicamente. Dove sta il diritto alla salute dei nostri figli? Comunque, la cosa importante è che il mio piccolo adesso sta meglio".

Inghilterra La figlia muore a 20 anni, lei vuole partorire un nipotino con i suoi ovuli congelati ma Sarebbe il primo caso al mondo ma nessuna clinica dà l'ok.



Nonostante  abbia votato  si ( alcuni anche  con riserva  non  ricordo  più  con precisione quali fra i quattro   ) al referendum sulla procreazione assistita,perdendo   ( chi  mi segue  da quand  il blog  si chiamava    cdv.splinder.com lo ricorderà  ) com- pagni di strada \  di viaggio  favorevoli  all'astensione  imposta,sono dubbioso   su tale  decisone   che  intende  intrapendere  questa  signora 

da  http://www.leggo.it  del 23\2\2015 
 
 La scienza compie passi da gigante e una donna potrà diventare mamma e nonna nello stesso momento dando alla luce un solo bambino.
Una donna inglese di 59 anni ha chiesto al tribunale di essere sottoposta a una procedura di fecondazione assistita utilizzando gli ovuli della figlia morta circa 4 anni fa all'età di 20 anni a causa di un cancro all'intestino. La ragazza aveva congelato gli ovuli nella speranza di poter guarire e avere un giorno dei bambini.
La donna sostiene che fecondare quegli ovociti, da un donatore esterno, sarebbe stato l'ultimo grande desiderio della figlia scomparsa e lei si è detta pronta a portare in grembo questo bambino.  Come riporta anche il Mail, se questa procedura dovesse essere approvata dal tribunale si tratterebbe del primo caso al mondo. Anche se dovesse vincere la sua battaglia legale nessuna clinica nel Regno Unito ha deciso di accettare questo caso e la 58enne avrebbe deciso di emigrare negli Stati Uniti dove una clinica di New York potrebbe effettuare l'intervento al costo di 60 mila sterline.  La questione su cui si dibatte è di natura etica, morale, legale e scientifica, perchè oltre le leggi e i modi di pensare secondo i medici la procedura medica alla quale vorrebbe sottoporsi la donna è piena di difficoltà, con probabilità di successo basse e il rischio di complicanze che potrebbero essere anche letali. 

E poi secondo  http://www.huffingtonpost.it/2015/02/23/mamma-nonna_n_6733950.html Diventare mamma e nonna contemporaneamente, dando alla luce il suo stesso nipote. E' la controversa battaglia che sta combattendo una donna inglese di 59 anni, su cui con ogni probabilità si
ritroverà a decidere l'Alta Corte. La donna chiede infatti di essere sottoposta a una procedura di fecondazione assistita utilizzando gli ovuli della figlia morta ventenne 4 anni fa, congelati dalla ragazza nella speranza di guarire dal cancro all'intestino che l'aveva colpita e di poter un giorno avere un bambino.
L'aspirante mamma-nonna, che per fecondare gli ovociti ricorrerebbe a un donatore esterno, sostiene che questo è stato l'ultimo desiderio espresso dalla figlia prima di morire. Se riuscisse a realizzare il suo sogno, sarebbe protagonista di un caso unico al mondo.
La storia è stata raccontata dal 'Mail On Sunday' e ripresa da vari media britannici, senza divulgare nomi. Al momento, si spiega, nessuna clinica britannica ha accettato la richiesta della donna che insieme al marito, 58 anni, vorrebbe emigrare negli Stati Uniti dove una clinica di New York potrebbe effettuare l'intervento. Prezzo stimato: circa 60 mila sterline. Ma la Human Fertility and Embryology Authority (Hfea) ha rifiutato alla coppia il via libera all'esportazione degli ovuli negli Usa, in assenza di una volontà messa per iscritto dalla figlia della donna prima di morire. La madre si starebbe quindi preparando a procedere per vie legali.
La Hfea non entra nel merito del caso, ma manifesta solidarietà per il dramma familiare e conferma che sulla vicenda sarà sentita la Corte Amministrativa, divisione dell'Alta Corte, in una data ancora da stabilire. La procedura medica alla quale vorrebbe sottoporsi la donna viene considerata irta di difficoltà, con probabilità di successo "molto basse" e il rischio di complicanze "pericolose per la vita".


I miei dubbi   sono  non perchè  essa non abbia il diritto  , ma  perchè  andrebbe  contro  l'etica . La  soluzione  migliore  sarebbe stato  se lei lo avrebbe fatto fare  ad un altra  donna esterna  .

la morte dei vecchi



accusatemi pure d'essere un cinico e d'essere pro eutanesia viste , chi legge il mio blog e la mia bacheca dagli esordi o con attenzione a lo sa , posizioni su testamento biologico e fine vita . Ma la penso , anche per esperienza personale ( il ricovero per  frattura  di un braccio  di una mia prozia  di  70\80 anni ) come il post di questo sito http://nottidiguardia.it/.
 
 
Scritta da Goldencharlie su giugno 08, 2009
                        .                  
Pur essendo assolutamente contrario filosoficamente, umanamente ed eticamente alla pena di morte, ci sono altre morti che mi colpiscono e mi addolorano maggiormente.
Penso alla morte delle persone anziane. Come muoiono oggi i vecchi? Muoiono in OSPEDALE. Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.
“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.
Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!
“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.
“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”. Io faccio il chirurgo e lavoro da venti anni in ospedale. Mi sono trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. Che senso ha sottoporre una vecchia di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.
Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la vecchia ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.
A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo. La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.
All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.
“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.
Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.
“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.
Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”. La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.
Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri vecchi che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita. Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.
Ma perché? Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scorreggia della vicina di letto.
Regaliamo ai nostri vecchi un atto di amore, non cacciamoli di casa quando devono morire.
 
                                 Glodencharlie
  Articolo che fa riflettere… . Dovremmo riappropriarci della morte, ma fa paura e nessuno vuol sentirsi responsabile del non aver concesso qualche giorno in più ai propri cari, anche quando stanno veramente male.
Qui si entra in tema di fine vita, di accanimento diagnostico e terapeutico. E’ necessario un grande coraggio per lasciare la gente morire quando il loro momento è arrivato. E forse anche un grande altruismo..dovremmo pensare un pò meno ai nostri sensi di colpa e un pò di più agli altri.Ed  affrontare la   vita  senza  stupidi tabù  o  sensi di cola inutili  . accettando   che  anche la  vita può  finire da   un momento all'altro  . Ma  soprattutto  come   dice   uno dei  commenti all'articolo  

Carlo scrive:
10 giugno 2009 alle 15:07
Una risata con la figlia, uno strano sospiro e poi qualcuno o qualcosa (o tutte e due, chi lo sa) scrive la parola “fine” su quasi un secolo di vita con un ictus cerebrale fatale. In pochi attimi dobbiamo decidere se chiamare una autoambulanza, fare qualcosa, tentare l’impossibile …. Purtroppo il medico ci consiglia di apettare quella manciata di tempo di una vita che vita non è più. Con tanta paura di sbagliare accettiamo di lasciarla in casa vicino a noi, tre figli che stringendole le mani l’accompagneranno su un letto di parole, ricordi e sentimenti. Nessuno di noi saprà mai cosa lei possa aver provato o sentito; di sicuro, nel silenzio della sua camera, nella intimità del contatto con i figli si è chiusa degnamente e con rispetto una vita. Nulla di questo sarebbe stato possibile in una corsia di un ospedale…
Carlo  
Lo     che  e’difficilissimo essere costretti a scegliere dove un anziano  starà meglio quando lui stesso afferma di “non stare più bene da nessuna parte” e che le cose che vorrebbe fare non potrà mai più farle.
I sensi di colpa sono devastanti perchè non è tanto importante dove  finirà i suoi giorni, me è essere vicino a lui quando accadrà. Questa è una scommessa terribile! Allora non ci resta che difendere a tutti i costi la dignità di queste persone care sono ridotte a esseri deboli, defedati, emaciati in cui la vita non è che un sottile respiro superficiale in condizioni di riposo…
Quindi  credo   che  bisognerebbe riflettere in tal senso non solo per quanto riguarda le persone anziane, ma per noi tutti.
Quando l’intubazione e  l'alimentazione  (  vedi il caso di eluana  englaro , solo per  citare il più noto  )  non serve più, quando le flebo, i cateteri, i farmaci per pisciare, per nutrirsi, per controllare la frequenza cardiaca, per mantenere calmo il cervello…non sortiscono alcun effetto terapeutico. Quando la cura diventa una sorta di prigione da cui non si può scegliere di uscire…
Ci vuole tanto buon senso per cercare di arrivare a delle leggi – sicuramente difficili da redigere   soprattutto     quando   sisottoposti a pressioni     dei  gruppi  di potere  esterni , la  chiesa  o meglio le gerarchie  ecclesiastiche      in questo caso  – in materia. Ci vuole buon senso e coscienza. Così come bisognerebbe che chi presenta i disegni di legge, o chi evita anche solo di mettersi in discussione in nome di credi diversi, avesse a che fare per mesi con un famigliare in camera di rianimazione, totalmente non autosufficiente, che ti chiede, come ultimo atto d’amore da parte di chi lo ha sempre amato e protetto, di potersene andare in pace, senza essere torturato ulteriormente. Mio marito, per fortuna, si è spento da solo dopo due mesi di calvario…ma non potrei nemmeno immaginare come sarebbe stato doverne affrontare lo sguardo dopo mesi ed anni in una simile condizione…  <<  Ora lo piango, e mi manca tantissimo, ed ho il cuore distrutto, e avrei fatto di tutto per salvarlo, se questo avesse significato poterlo riportare a casa…riportare a casa. Ma almeno adesso sto male io, mentre lui non sente più dolore.  >>  (  da  un altro commengto delll'articolo ) . Lo so  che  è difficile   come  dice   

giovanna scrive:

3 agosto 2009 alle 16:04

ho letto solo ora…e sto vivendo la stessa situazione da lei descritta..mio nonno è in terapia intensiva da una settimana,completamente sedato e intubato,dicono per una polmonite e un accumulo di liquidi nei polmoni.
quando lo abbiamo portato in ospedale era in coma e i medici ci hanno detto che l’unica ,piccola possibilità di salvargli la vita fosse l’intubazione! qual è la cosa più giusta da fare in una situazione simile?! rimani pietrificato,devi decidere in un attimo,altrimenti è trp tardi,il destino di una persona a te cara,dalla quale,nonostante l’età e la consapevolezza che qsta è la vita,nn sei mai pronto a distaccartene.
Nn si tratta di accanimento o di nn rassegnazione,si tratta solo di fare tt il possibile,fino all’ultimo,per una persona a te cara e poi in una situazione improvvisa nn sempre,e nn tutti,riescono ad essere lucidi e calcolatori. Chi può stabilire cn certezza,che dopo la rianimazione una persona,per quanto anziana,nn possa riprendersi e vivere un altro mese,un altro anno o solo una settimana?!
per un attimo ci siamo illusi che tt poteva essere passato,mio nonno si era ripreso,ma solo per qualke giorno.ora da una settimana,tt i giorni,alla stessa ora,andiamo in ospedale,attendiamo in silenzio il nostro turno,speriamo in un lieve miglioramento che è destinato a rimanere un’utopia nn appena vediamo l’immagine sul monitor,da 5 giorni sempre la stessa,come un rituale.
Ora, con il senno del poi mi chiedo se all’inizio abbiamo preso la decisione giusta ma qlla decisione ,subito dopo la sua ripresa, ci ha permesso di dirgli, per l’ ultima volta, “ti vogliamo bene” e lui ha annuito.E credetemi per noi è già molto.

giovanna
 
 
Ma   chiediamoci su lui avrebbe deciso  nella sua  situazione ?  avrebbe voluto  l'accanimento  o   avrebbe voluto morire  subito ?    Concludo    con quest'altro comento  che credo descriva  benissimo tale situazione 




sorriso scrive:

20 aprile 2010 alle 15:52

…complesso, troppo, il tema della dignità della morte per cercare di spiegarlo o comprenderlo in poche parole…
Lasciatemi solo dire, senza voler in nessun modo giudicare o entrare in merito a scelte e situazione troppo personali, che forse nel nostro tempo manca la capacità di accettare la morte e l’impotenza che l’uomo e di conseguenza la medicina hanno di fronte ad alcune situazioni… Non credo che si debba sempre “fare qualcosa”, a volte il “fare” più grande è proprio il non fare medicalmente nulla, ma ascoltare, guardare, stare vicino a chi amiamo accompagnandolo alla fine del suo tempo con rispetto, senza “macchinose torture” e inutili sofferenze… Già, per questo ci vuole un gran coraggio, un immenso altruismo e una grande forza..e forse qualcuno che con altrettante qualità, che ci aiuti a sostenerla…
a voi  ogni ulteriore  commento  in merito  







ruolo importante delle donne nella grande guerra - reprise \ l'8 marzo care donne non è solo spogliarello ma anche lotta e solidarietà non dimenticatelo

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Come   ogni  anno     s'avvicina  l'8 marzo  e   la sua festa  , ormai sempre  più   carica di retorica  e    di business commerciazilzzazione  e  come ogni  anno  in anticipo su  tale  fenomeno    sempre  piùmassiccio     gioco sui tempi  . Ma  quest'anno per  l'8 marzo , oltre   ad  evitare     la solita pippa  storica   su  d'esso  (  chiunque  in rete anche  mnei  siti   commerciali   troveranno qualche riga   in cui   si racconta  cosa  è  l'8 marzo ed  il suo significato   ho scelto di raccontare e di parlare di tale  festa  raccontando, a scapito di altre  storie ( ne  trovate   fra  i link  sopra  dei riferimenti )  , approfittando  del   secondo   della serie di centenari   il primo di quello italiani ( infatti l'italia entrò  nella grande  guerra  nel  aggio del 1915  ),ruolo ancora  poco " pubblicizzato "  ( se non da specialisti )   dellle  donne   nella  grande  guerra  \ prima  guerra mondiale  .
E' vero  ne  avevo già parlato indirettamente   precedentemente  qui sul  blog  : <<  ruolo importante  delle donne nella grande  guerra   >>  ma    il molto  materiale   trovato  sui  vari   gruppi di facebook dedicati  al centenario  o  meglio  i  centenari della  grande  guerra in  particolare   quello di  centenario prima  guerra mondiale     mi portano  a  riparlarne . Ora    Non sono , anche  se   ho  studiato  lettere  ( nonostante  causa  sordita  , miopia   , distrazione   faccio gravi errori  di grammatica  , sintassi   ed  ortografia  )   ad  indirizzo storico ,  uno storico di professione   riassumo  il post  d'oggi     segnalando  oltre  i link    questo  video  ( anche se  con una marchetta evidente visto che   mostra  il suo libro nel finale ma  gli si può passare  visto  l'ottima lezione    ) di Aldo  Cazzullo 



e questo libro
   da  http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2014/12/03/news/libro-102063454/

Un libro collettivo scritto da un gruppo di donne che fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini



ROMA - Giovedì 10 dicembre alle ore 17,30, presso la sede della Stampa Estera, in via dell'Umiltà, 83/C,  Dacia Maraini, Mersiha Colakovic e Ann Marie Kjellander presentano il libro collettivo Donne nella Grande Guerra. Caterina Cingolani leggerà alcuni brani dell'opera.
Crocerossine, eroine e spie. Qual è stato il ruolo delle donne italiane nella Grande Guerra? In tutti i paesi belligeranti, il conflitto fu un¹occasione di emancipazione per le donne, che si trovarono a rimpiazzare in molte funzioni gli uomini partiti per il fronte, e in qualche modo andarono in guerra anche loro: come crocerossine, in Carnia come portatrici, nelle retrovie come prostitute a sollievo delle truppe. Ma il libro ci racconta anche di una spia, di un¹inviata di guerra, della regina Elena che trasformò il Quirinale in ospedale, delle intellettuali che militarono pro o contro la guerra: da Margherita Sarfatti a Eva Amendola e Angelica Balabanoff, alla dimenticata maestra antimilitarista Fanny Dal Ry, per finire con Rosa Genoni, pioniera della moda italiana, che abbandona il lavoro e si batte contro la guerra.

Le autrici. Le autrici del volume, tranne Marta Boneschi e Paola Cioni, fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive hanno pubblicato anche "Piccole italiane" (Anabasi, 1994), "Il Novecento delle italiane" (Editori Riuniti, 2001), "Amorosi assassini" (Laterza, 2008) e, con il Mulino, "Donne del Risorgimento" (2011)


per    chi volesse   approndire  ulteriormente     tali argomenti   ecco  alcuni libri

http://www.ibs.it/code/9788862612760/grande-guerra-delle/gualtieri-alessandro.html
http://www.ibs.it/code/9788815247803/una-patria-per/molinari-augusta.html
http://www.ibs.it/code/9788806203887/bellezza-orrore-grande/englund-peter.html
http://www.ibs.it/code/9788815247803/una-patria-per/molinari-augusta.html
http://www.ibs.it/code/9788815251343/lutto-memoria-grande/winter-jay.html

e  alcuni  linkn
 
http://www.itinerarigrandeguerra.it/Le-Donne-Nella-Prima-Guerra-Mondiale
http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2014/12/03/news/libro-102063454/
http://www.anpi.it/donne-nella-grande-guerra/
http://www.storiain.net/storia/la-violenza-sulle-donne-nella-grande-guerra/
http://www.storiain.net/storia/la-violenza-sulle-donne-nella-grande-guerra/
http://goo.gl/luVT41
https://ilmalpaese.files.wordpress.com/2015/01/29-gennaio-le-donne-nel-mondo-odierno.jpg




quindi cari partner  , per  evitate   che   l'ira  \  l'impeto vi faccia picchiare  o  neo casi più gravi ( vedi melania rea    ) uccidere  pensate a queste donne  e non solo ,  a cosa  una donna  oltre   al sesso  e  alle faccende  di  casa  e la cura dei figli\e   , può fare una donna  nella società

SUL LAGO SI PARLA DI... RENATO ZERO

Sabato 28 febbraio 2015 sarò a Colico a presentare il mio ultimo libro scritto in coppia con Cristian Porcino. Letture, buffet e musica dal vivo. Vi aspetto !
                               Daniela Tuscano





24.2.15

ogni tanto la rai tramette dei bei film . Treno di notte per Lisbona (Night Train to Lisbon)

come stravolgere la propria routine quotidiana    Valutazione 4 stelle su cinque
Chi lo dice  che  i  film d'amore  siano   solo pucci  puci  o  peggio qualcosa  di melensi e noiosi  .In un  giornata  di pioggia e vento come quella  d'oggi  anzichè cazzeggiare   a  fb    ho visto tramite  rai  replay    questo  film   :  Treno di notte per Lisbona (Night Train to Lisbon) è un film del 2013 diretto da Bille August e con protagonisti Jeremy Irons, Mélanie Laurent, Jack Huston, Martina Gedeck, Bruno Ganz e Christopher Lee. Il film è basato sull'omonimo romanzo scritto da Pascal Mercier nel 2004.
Se  non fosse   per  una  collega  che  me lo ha consigliato  e  per  rai   replay   me lo sarei perso  . Uno di   quei   film  da  un tuffo nell'anima... perdersi per poi forse ritrova .percorre alcune vicende della resistenza portoghese alla dittatura di Salazar.
Scorro alcune recensioninegative  al limite dela stroncatura   in particolare fra  le tante   questa di http://www.mymovies.it/ e mi dispiaccio del fatto che non pochi lo abbiano trovato "monotono" o di difficile da  seguire , ed il punto per me è proprio questo: non tutti i film sono per tutti, e non tutti i film debbono pertanto essere semplici o eccessivamente scorrevoli. Anzi, sono convinto che sia proprio una scelta dell'autore ( per me perfettamente azzeccata ) di far scorrere lentamente il tutto per potersi concentrare maggiormente sui concetti e sulle profondità del pensiero che ne deriva.  Infattti : << "Lasciamo sempre qualcosa di noi, quando ce ne andiamo da un posto: rimaniamo lì; anche una volta andati via e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo in noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice alla nostra vita. Non importa quanto questi siano stati brevi e viaggiando dentro noi stessi, ci dobbiamo confrontare con la nostra solitudine. Ma tutto ciò che facciamo, non lo facciamo forse per paura della solitudine? Non è questo il motivo per cui rinunciamo a tutte le cose che rimpiangeremo alla fine della nostra vita? ..."  >>  Non riesco personalmente a trovare un difetto a questo film . Il fatto che da molti non venga apprezzato a mio parere riflette semplicemente il periodo storico culturale che viviamo...un po' come se facessimo ascoltare a Beethoven coni ritmi  moderni ( tecno ,house, ecc ) . 



Un film   sconsigliato a chi odia i  film lenti . E' vero è lento  a volte  anche troppo  , ma   è compensato dala suspence   della ricerca   della verità . E  poi  non è semplice   riassumere  una  vicenda  \  storia   compelssa  ,  si rischierebbe   di concludere  troppo in fretta un film ottimamente costruito .
Si sente  sente molto il background filosofico  del romanzo    che si  sente  nelle voci fuori campo che a tratti  secondo alcune recensioni   appesantisce un pò la trama  rendendola poco scorrevole, di non semplice lettura , è vero che  esse sono  <<  spiegate ad alta voce (di fronte al treno in partenza o nello studio oculistico)  >>  ma poco  importa  non toglie  niente  al  film  al travaglio interiore  del professore  il  protagonista principale   , davanti  alle  vicende  deglia ltri\e   protagonisti della storia  .  In  essa    c'è una certa suspense che spinge ad andare avanti, anche se il finale potrebbe essere deludente  ma  in realta  non lo  è  perchè ... ,ma  si  ve lo dico    tanto il film   è vecchio  e non è nei cinema  o appena uscito   in dvd ....  colui che ha intrapeso il viaggio   decide  di lasciarsi ale spalle  la sua non vita  . Quando l'amore  viene  prendilo  senza  dubbi  altrimenti poi lo perdi  per  sempre  .  Ottima la musica  , specie qella finale  , che lo accompagna  . Ottimo cast  ed ottimo  la  fotografia  .  Stesse atmosfere , anche se  meno tormentate e  filosofiche  di  : Sostiene  Pereira  e  di Terra e libertà
Bello   ed  intenso  .  Questa  è una delle rare  volte  in cui la Rai   è vera  Rai e non Raimediaset  .  e  tramette   film non  mediasetizzati . 


23.2.15

ho vinto sul tumore ora voglio liberare la mia terra dal veleno dei rifiuti tossici. la battaglia di Maura Messina

 La storia che racconto nel post d'oggi è tratta dalla rivista  Natural  di febbraio, ringrazio gentilmente  l'autrice Alina Rizzi   per avermini concesso la pubblicazione  su quesrte pagine   .

Maura Messina designer appassionata di pittura, oltre adaver scritto un libro (a destra) lo ha illustrato,impaginato e ha disegnato la copertina: davvero talentuosa ! Maura Messina, 26,vive a Villaricca, (Na), vicino alle discariche del giuglianese dove, per legge, non possono essere localizzati nuovi siti di smaltimento rifiuti. È previsto, però, un ampliamento della discarica di Cava Riconta. Maura e i suoi concittadini chiedono invece la bonifica della zona e la chiusura definitiva dell’impianto, con la tombatura finale.Il libo s'intitola Diario di una kemionauta «Per me che amo dipingere non è stato semplice trovare un’alternativa immediata quando in ospedale mi hanno vietato l’uso dei colori», racconta Maura Messina. «Ho iniziato così a scrivere un diario che aggiornavo al termine di ogni seduta. Poi sono arrivati gli acquerelli speciali, regalo del mio fidanzato: ho ripercorso la mia esperienza disegnandola a colori. Concluso il ciclo di terapie, ho impaginato il tutto per dare un ordine visivo a ciò che avevo vissuto». Nasce così Diario di una chemionauta (Homo Scrivens, 12 euro).Maura si immagina astronauta alla scoperta di un pianeta (Kemioland), tutto da esplorare, dove ogni progresso è una piccola enorme e faticosa conquista. E lo fa con ironia e coraggio.


ho vinto sul tumore ora voglio liberare la mia terra dal veleno dei rifiuti tossici Un linfoma inoperabile di 13 centimetri. Questa diagnosi sbalza Maura su un altro pianeta. Tiene duro, confida sogni e paure a un diario. Che pubblica quando guarisce. Per denunciare l’inquinamento della Terra dei fuochi. E dare forza a chi combatte la sua stessa battaglia

                                            di Alina Rizzi- foto DI Rosario Schettino


Dalla finestra di casa, a Villaricca,io e mio fratello spesso abbiamo visto i fuochi appiccati ai margini delle strade o lungo l’argine del canale di raccolta delle acque  piovane, a cento metri di distanza dalla nostra abitazione. Di notte venivamo svegliati da una puzza acre, un odore che rendeva l’aria irrespirabile. Così ci alzavamo  e guardavamo fuori dalla finestra.
Si vedevano le luci dei falò e il fumo nero  e denso che si alzava nel cielo. Spesso  papà e alcuni amici si vestivano in fretta, poi partivano con l’auto in quella direzione. Erano tempi non sospetti, non si capiva  lo scopo di quegli incendi notturni e  da chi fossero appiccati. Era difficile incontrare
qualcuno in quei frangenti: sulla  strada deserta restavano i copertoni  liquefatti e puzzolenti, masse di cenere e  detriti carbonizzati. La mattina dopo  nessuno sapeva niente, ma già la mia terra  aveva preso quell’odioso nome, sinonimo  di veleno e illegalità: la Terra dei  fuochi.Mi sentivo bene, ma
ero molto malata.
Mi sono laureata a pieni voti in design per  l’innovazione alla facoltà di Architettura,con una tesi che propone un modo per recuperare  la città di Napoli e sto già cercando  lavoro. Non voglio perdere tempo. Sono  un’entusiasta per natura, non so neppure  cosa sia la noia. Può essere, però, che abbia  esagerato ultimamente: questa febbre  che sale tutte le sere non mi preoccupa, ma è fastidiosa. Immagino sia un sintomo  di stress, nulla di più. Vado dal medico solo  per accontentare i miei genitori e accetto  di fare gli esami del sangue. Sembra sia in  corso un forte stato infiammatorio, benché  non abbia alcun sintomo o dolore. Di buon  grado mi sottopongo alla Tac, come prescrive il mio scrupoloso dottore e l’esito  arriva in fretta, lasciandomi senza fiato: ho  un tumore di 13 centimetri di diametro nel torace, vicino al cuore e al polmone sinistro,non operabile. Si chiama linfoma di  Hodgkin. La faccia del medico non lascia  adito a dubbi: « La situazione è gravissima,Maura, devi iniziare immediatamente la  chemioterapia», mi dice. Mi aspettano sei  mesi di cura intensiva, con un elenco di effetti collaterali che mi faranno sentire sicuramente  peggio di come sto adesso. Dopo, se tutto va bene, un ciclo di radioterapia.
Improvvisamente mi sento sbalzata  su un altro mondo, come fossi un’astronauta  in missione su un pianeta lontano  Attraverso il Policlinico di Napoli appesa a un filo di speranza: perché sono finita
qui? Dopo le prime flebo arriva il dolore,  la nausea, la debolezza. In capo a qualche  mese, inaspettatamente, fa capolino anche una grande rabbia. Sono diventata  una pentola a pressione e spesso rispondo  male a chi non c’entra niente. Poi, però,  me ne pento. Devo essere forte, non posso
piangermi addosso, devo resistere per chi chiusa nel corpo di una vecchietta.
Mi sono fatta un taglio di capelli stile Demi  Moore nel film Soldato Jane, praticamente  rasata a zero. Devo indossare sempre  una mascherina, perché anche un semplice  raffreddore potrebbe diventare problematico  nelle mie condizioni. La gente mi  guarda incuriosita, come fossi una vera marziana. Sembrano intimoriti dal mio  aspetto non proprio florido. Molti mi danno  per spacciata, ma io non ci sto. Voglio  vivere. Mi lascio installare un port-a-cath,  un oggetto metallico sotto pelle che serve per continuare a somministrare la chemioterapia quando tutte le vene cominciano a cedere. Non è una passeggiata nel parco. Sono molto stanca, con i dolori di  una vecchietta. Ogni giorno mi guardo allo
specchio cercando nella mia immagine  qualunque cosa mi ricordi tutto quello che  sono stata prima di iniziare questo assurdo  viaggio di dolore. Non trovo granché e  allora mi accontento di piccole conquiste. Sgranocchiare un tarallo senza vomitare  e poter bere un bicchiere di birra! Oppure  dedicarmi alla pittura, utilizzando degli acquarelli speciali che il mio ragazzo ha  fatto arrivare dall’Inghilterra, visto che i  colori a olio sarebbero molto rischiosi nelle  mie condizioni. Ma anche essere di aiuto  al nuovo kemionauta giunto in corsia:  un novellino, più giovane di me, che scopro
abitare nella mia stessa strada. Ma  quanti siamo, con addosso un tumore,qua dentro ? Un giorno faccio un calcolo e  mi rendo conto che conosco quattro persone abitanti in Corso Italia, ora ammalate  di linfoma, e altre quattro sul lato opposto  della strada, che hanno un cancro ai polmoni.
Siamo davvero in troppi e alcuni politici vorrebbero farci credere che la responsabilità è nostra perché abbiamo strani stili di vita! La verità è che viviamo in luoghi  altamente inquinati. Qui è in atto un biocidio ! Nei nostri territori sono stati sversati illegalmente rifiuti speciali. Mi riferisco a  fusti tossici, scarti di lavorazione industriale,conciaria e affini, nulla a che vedere  con la spazzatura di casa! Senza contare  i fumi dei roghi tossici che da anni respiriamo. Ma ora basta, mi dico: bisogna
prendere in mano la situazione e difendere  la nostra amata terra. Ognuno può fare qualcosa, senza nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Vogliamo vivere, non sopravvivere.
Inizio La mia nuova  avventura.
Dopo sei mesi, finalmente, arriva l’ultima  seduta di chemio. È finita e mi sembra  incredibile. Mi sento confusa, come rinascessi da una pelle nuova. Mi tolgono la mascherina e posso di nuovo abbracciare  gli amici, avere un contatto più umano con le persone. Nel contempo, mi tramortisce l’odore terribile dei disinfettanti, il colore triste delle pareti del reparto,il sapore dei farmaci che percepisco sotto  la lingua, sostanze terribili che mi hanno  attraversato tutto il corpo per tante settimane.  Mi pare di risvegliarmi da un brutto  sogno. Lentamente, recupero pezzi di  me, di quella che ero prima della malattia . I medici dicono che sono migliorata  tantissimo, il tumore è in remissione. Dovrò sottopormi a un ciclo di radioterapia, ma mi salverò. Strano però: l’interruttore del mio entusiasmo sembra spento. Forse sono molto stanca, forse sono cambiata. Sopravvivere non mi basta più. Ho  voglia di sfruttare quella forza che ho scoperto combattendo la malattia per aiutare chi sta attraversando il mio stesso  percorso, portando un messaggio di  speranza. Ma soprattutto, per accendere  i riflettori sulle cause di tanti tumori nella  mia terra: ci metterò la mia faccia e il mio cuore , il tempo e le energie che stanno rtornando. Sono sopravvissuta e voglio fare qualcosa, anzi: devo fare qualcosa !

22.2.15

far ragionare uno stolto non sempre ne vale la pena


Davide, spendersi per bisogno .la storia di Davide Imola sindacalista riformatore di Matteo Tassinari

non sempre  chi  lavora nela burocratia  è  un semplice   automa     che accetta   passivamente  gli ordini  senza  distinguere la regola dall'eccezione  o un maleducato  .  e questa  storia  lo dimostra  .  Se a distanza  di  3 mesi se ne  sente  ancora  a nostagia  . Ha  fatto  venire  le lacrime  a  gliocchi persino a me  che  odio tale  categoria  .
 
È con grande tristezza che scriviamo queste righe. Per ricordare Davide Imola, morto prematuramente sabato 20 dicembre, portato via da un male odioso. E il nostro pensiero e affetto va ai familiari, a partire da Marilisa, insieme con un grande e forte abbraccio.  
Per noi scapestrati quintari-e delle forme di vita e di lavoro indipendente, autonomo, intermittente, precario Davide è stato, soprattutto, il compagno con il quale confrontarsi, discutere, immaginare, progettare, inventare spazi condivisi di azione: per la tutela delle persone e di tutte le forme dei lavori. Al di là di qualsiasi steccato e semplificazione.
Davide, responsabile nazionale di quella Consulta delle professioni della CGIL che proprio grazie a lui è diventato uno dei pochi spazi, all'interno di quel sindacato, dove era possibile parlarsi e non giocare ai soliti, stantii pregiudizi.
Enoialtri, spesso
“rompiballe”, come ci diceva affettuosamente lo stesso Davide, sempre dispersi dai “piedi scalzi” nel mondo inospitale e poco felice e delle mille forme dei lavori intermittenti, precari, passeggeri, momentanei, labile e insicuro, sottopagati, con la convinzione, a volte spocchiosa, altre naïf, che fosse necessario e urgente rivoluzionare forme, mentalità e strutture del mondo del lavoro e quindi, soprattutto, del sindacato tradizionale. Tutto ciò Davide lo sapeva e certe volte m'è parso anche che vivesse il problema come suo. Eppure le molte volte che ci si è incontrati con Davide è stato quasi sempre un “noi” quello che ci ha mosso. Davide, dirigente sindacale, convinto della funzione fondamentale ricoperta da quella struttura. Noialtri, in-operosi free lance del tempo perso, allergici a qualsiasi disciplina. Perché Davide era quel tipo di persona che interrogava l'esistente e fomentava le trasformazioni, anche dentro il sindacato. Si potesse ancora dire, in questo Paese: Davide è stato un riformista visionario, dentro una struttura e un Paese ingabbiati nell'insulsa conservazione del proprio orticello. Davide, sindacalista del futuro.
 
Per questo ci siamo incrociati spesso.
Davide che ci invitava nella cattedrale cristallizzata di Corso Italia, intento ad aprire quella porzione di sindacato alle nuove forme dei mille lavori e attività del post-fordismo all'italiana e delle nuove professioni, oltre gli ordini tradizionali: traduttrici, archeologi, giornaliste, sociologi, avvocati, architette, formatrici, consulenti dai mille progetti lavorativi e dalla cronica intermittenza retributiva. Convinti che solo pensare e praticare determinate coalizioni sociali potesse darci la forza reciproca per incidere sulle oramai ultra-ventennali miserevoli politiche governative e sindacali intorno al mondo del lavoro. Pensare e praticare nuove tutele e garanzie, senza rimpianti.
Anche quando la noia di alcune riunioni mi portavano ad incrociare lo sguardo vispo di Davide, con quel suo concreto pragmatismo trasformativo, da autentico romagnolo. Io che ho sempre pensato quella regione e il suo modello emiliano, del “patto fordista capitale-lavoro”, sotto la cappa annichilente dell'Emilia paranoica dei CCCP.
 E forse proprio per questo era bello discutere con Davide: e dirsi le cose in faccia, anche quando passavano per la rete. Come in questa occasione, quasi due anni fa, sulla nostra furia dei cervelli, a partire da una diversa sensibilità intorno a reddito minimo garantito e salario minimo. Sicuramente anche a causa delle nostre eccessive semplificazioni. Oltre che dei trentennali ritardi sindacali. E proprio in quella discussione telematica, tra i commenti intervenne il caro fratello maggiore Matteo Tassinari, che ancora non ho avuto la forza di sentire, e che scoprimmo essere anche fraterno amico di giovinezza romagnola di Davide.
Davide in azione, dove c'era da battagliare per lui









“Lo vedi, Peppe, stiamo  arrivando anche noi”
Mi fu definitivamente chiaro che l'incontro con Davide non apparteneva al caso. Ci si era trovati su una irriducibile e ancestrale insofferenza a rassegnarsi all'esistente. Sulla convinzione che le litigate potevano anche finire con delle sonore, sferzanti e contagiose risate: a patto di condividere da che parte stare. Quella di chi decide di organizzarsi per strappare dignità individuale e felicità collettiva in questa vita. Anche a suon di risate, per marcare differenze e affinità. Risate come quelle di Davide, quando, dinanzi a timidissime prese di posizioni sindacali sulle trasformazioni del lavoro in Italia e la connessa necessità di universalizzare le tutele, mi apostrofava: “Lo vedi, Peppe, ci stiamo arrivando anche noi!”
 

 Fa rabbia pensare che quella risata non accompagnerà più nessuno dei nostri incontri. E non potrà più spezzare quei silenzi imbarazzati tra sindacati e quintari-e. E si fa fatica a pensare che quello spazio, aperto dalla disponibilità di Davide anche ai “piedi scalzi” come noi, rimanga tale dopo di lui.     Ci mancherai, caro Davide, nei sorrisi e nelle polemiche. Nel crederci, comunque e sempre, contro ogni chiusura settaria e ogni pregiudizio. Nel pensare che solo facendo lotte offensive e ragionevolmente furiose si possano creare gli spazi per vincere insieme, nelle differenze. 
Capitano, mio capitano, a presto, Matteo

Ci mancherai, Zio Dado, e ora dovrò dirlo anche a Matteo, prima che legga queste mie zoppicanti righe. Ciao, Davide.Che la terra ti sia lieve, caro Davide!
*Giuseppe Allegri da anni si occupa in rete e nelle pratiche culturali, spesso in incognito o sotto alias dai retrogusti consolari e  panamensi, di produzione e critica artistica, musicale, cinematografica, teatrale e di costume, seguendo il motto delle sperimentazioni culturali che hanno ibridato e trasformato i tradizionali canoni comunicativi, da dada-surrealismo, alla scena della musica elettronica e sperimentale europea, passando per situazionismi, punk e new/goth wave, club culture e depressioni caspiche, nel solco di contatti e reminiscenze di un passato da afasico e logorroico speaker di una provinciale radio indipendente.  Si è occupato e si occupa di transizioni repubblicane e costituzionali (La transizione alla quinta Repubblica, Aracne 2013; Le due Carte che (non) fecero l'Italia, Fefè editore, 2013), di cervelli furiosi e quintari-e (La furia dei cervelli, manifestolibri e Il quinto stato, Ponte alle Grazie: entrambi scritti con Roberto Ciccarelli), di sogni e deliri europei (Sogno europeo o incubo?, Fazi editore, con Giuseppe Bronzini; Democrazia e controllo pubblico dalla prima modernità al Web, Editoriale Scientifica, con molti altri colleghi), di movimenti costituenti dentro-contro il diritto sovrano (ha curato il volume di Antonio Negri, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti della governance, ombre corte, 2010). È stato con i movimenti degli anni novanta e zero degli intermittenti, soprattutto nella retribuzione, della ricerca e della produzione culturale; tra le anime della portavoce Nora Precisa, “dottoressa in nulla”, anagramma di San Precario. È uno dei promotori e animatori del blog www.furiacervelli.blogspot.it.


di Matteo Tassinari

E’ stato ad un concerto di Gaber che conobbi il “sindacalista visionario” e riformista Davide Imola nato a Riccione. Eravamo alla Fiera di Rimini, metti che fosse il 1993, e ci godemmo le ambizioni, disperazioni, solitudini e il talento del Signor G., ridendo e guardandolo anche seri per due ore di fila e di godimento puro e anche di rivalutazione spirituale. Gaber era catartico, capitava che i suoi spettacoli ti pulivano dentro o di lato o fuori anche sopra. Comunque ti pulivano e ne uscivi rinfrancato, almeno per dieci minuti. Concetto che anche Davide condivideva. Un tempo passato come quando dormi, aggraziato come la leggerezza e i pensieri erano beatitudine. All’uscita dallo spettacolo ridevamo come degli adolescenti, nonostante ci si affacciava, anzi si oltrepassava gli anta e i primi segnali si facevano sentire di una vecchiaia vissuta ognuno a suo modo. Ma quella sera, ricordarci le battute che Gaber aveva lanciato col suo Teatro-Canzone e poi una pizza e due birre per scaldare i motori e poi a letto, niente di più. Gli anni, e i decenni, passarono. Arrivò attraverso mille coincidenze i gemellaggio con gli amici del blog “La furia dei cervelli” http://furiacervelli.blogspot.it/. Da lì sono nati meccanismi che ci hanno avvicinato senza esserci mai visti, parlai praticamente a Davide tramite gli amici di “Furia dei cervelli” che avevano collegato la mia grande amicizia con Davide pur stando a Roma. La cosa ci colpì ad entrambi. Si creò questo cerchio magico, per così dire, che mi riportò una vecchia amicizia presente, che è come leggere un bel libro, una compagnia. Aveva questo carisma, di prendere in mano la situazione e farsene carico mettendoci la faccia, situazioni legate alla sofferenza umana che lui non capiva, che non sopportava e che combatteva come poteva. Come quando siamo assieme siamo andati in una giornata di freddo inverno ad un sit in un campo Rom che il Comune voleva sfollare entro una settimana. Lui era sempre il più in vista, e alla fine era il mediatore, colui che percepiva le esigenze di entrambi le parti e che doveva fare la sintesi che accontentasse le due anime. Quello che poteva fare lo faceva e si poteva vedere sprigionare una generosità stupefacente, davvero gratuita. Ora, come un fulmine, la notizia m’è arrivata all’improvviso. Quando sento dire che un'amica o un amico è morto, la prima cosa che penso è questa: ma guarda te, è morto prima di me, ma chi l’avrebbe detto? Quando, nonostante gli anni procedano a nostra insaputa, non sei in cattiva salute e procedi la tua vita, tutto è normale. Anche la morte. Non sapevo spiegarmi quel gonfiore in volto che avevo notato in una foto di Davide qualche mese fa. Mi aiutò in una causa con un giornale che pagava anche in nero e lui fece da mediatore fra me e il direttore. Ne venni fuori bene, senza alcuna denuncia e una buona parcella complessiva retribuita dopo un conteggio, più o meno, quel che non mi era stato dato. Ma quanta amarezza ! Ripensando a Davide, mi viene in mente la “borsona” dove v'infilava il suo mondo intero: carte, appunti, post-it, appuntamenti, relazioni, una borsa che la portava a tracolla con la voglia di vivere che spaccava i muri e pesantissima per i mazzi di carte che la riempiva. Il suo entusiasmo nel dedicarsi all’esistenza altrui. Tanta tenacia. Un uomo aperto a tutte le possibilità, come quando fondò l’associazione “Tanaliberatutti”. Il “Nidil” di cui era il responsabile nazionale per la Cgil. Ideatore dell'importante e utilissimo Osservatorio Ilaria Alpi, una fucina di materiale che parla di guerra a noi che non la vediamo. Poi ancora responsabile di Informa Giovani di Rimini, Riccione e Cattolica, e devo dire con ottimi risultati per i tempi passati. Sempre tutto gratis. Come tutti, caro amico mio Davide, tendiamo alla morte, come la freccia al bersaglio e mai falliamo mira.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata IX SE NON POTETE SCAPPARE USATE I GOMITI E LE GINOCCHIA

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