31.12.21

Da Aspasia a domani: lo spazio politico delle donne di Anna Rotundo ASPASIA DI MILETO E LO SPAZIO POLITICO DELLE DONNE

 un ottima   risposta    alle  mia elucubrazione  mentale  :<<perchè  nei licei  s'insegna  la  filosofia  degli uomini e  non delle  donne  ?  >> è   venuta   dalla  discussione  in  videoconferenza   con il   gruppo Diaconia "Santa Maria Egiziaca" in Bresso  in  cui   ho  conosciuto  una   nuova  compagna  di strada Anna  Rotundo   ( qualche  informazione  su  di lei  e   i  suoi interventi )       che  gentilmente  mi    ha concesso  come  risposta      questo suo  articolo  pubblicato   su  https://www.noidonne.org/


Da Aspasia a domani: lo spazio politico delle donne- di Anna Rotundo

Da Aspasia a domani: lo spazio politico delle donne  di Anna Rotundo

ASPASIA DI MILETO E LO SPAZIO POLITICO DELLE DONNE

Domenica, 18/01/2015 - Tucidide nelle sue Storie riferisce il discorso che Pericle rivolse agli ateniesi nel 461, un anno dopo l’inizio della guerra con Sparta, per commemorare i caduti in guerra, discorso in cui la polis viene presentata come il paradigma della democrazia.
“Noi abbiamo una forma di governo… chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta”.
La democrazia, dunque, è amministrata per il “bene” di una “cerchia più vasta”.
Chi, però, amministra questa democrazia e dunque sceglie il “bene” per i molti? Risposta: i cittadini maschi. Atene come qualcuno ha scritto è infatti “un club per soli uomini”. Una Atene profondamente misogina, in cui le donne non potevano fare politica, né votare.
E Aspasia, donna colta, filosofa e maestra di Socrate, vissuta in questa Grecia del V secolo a. C., si scontrò con questo forte condizionamento dal pensiero maschile, secondo cui la corporeità femminile doveva giocarsi in un rapporto ineluttabilmente alternativo e conflittuale rispetto alla dimensione intellettiva. L’opposizione di Aspasia alle logiche patriarcali le costò in termini di reputazione, sia ai suoi tempi, sia oggi, visto che i libri di storia la ignorano. Il che mostra il grande lavoro critico ancora da svolgere negli studi classici su questi temi. Perché in quella Atene comunemente riconosciuta culla della democrazia, l’esilio del sesso femminile dalla sfera pubblica, l’esclusione delle donne dalla vita politica, la privazione dei loro diritti patrimoniali e legali, l’affievolimento della loro voce, di fatto smentiva qualsiasi ipotesi di democrazia partecipata. E la non rinuncia da parte di Aspasia all’esercizio del potere intellettuale e quindi politico ricorda, come asserirà molto più tardi Luce Irigaray, che la democrazia comicia fra due, cioè fra uomo e donna. Ribadisce cioè come nel rapporto uomo-donna vada ricercata la modalità d’accesso ad un nuovo concetto di democrazia, rispettoso innanzitutto delle differenze, a partire da quelle fondamentali di genere. Aspasia fu punto di riferimento ineludibile fra i protagonisti della scena culturale greca del V sec. a. C. proprio in virtù del fatto che non accettò di vivere reclusa come le donne del suo tempo, ma, cosa assolutamente inammissibile alle donne greche, frequentava e promuoveva riunioni dove si discuteva di politica e retorica, e fu, oltre che intellettuale acuta e vivace, sapiente e capace mentore delle strategie politiche e culturali dispiegate da Pericle, di cui seppe con intelligente estro indirizzare le scelte. E se Platone nel Menesseno fa recitare a Socrate un discorso retorico che dice composto da Aspasia, e Menesseno si mostra stupefatto che un discorso così elaborato sia stato prodotto da una donna, Socrate ribatte che potrebbe riferirgli molti altri discorsi politici di Aspasia e non esita a ricordarla come sua maestra. Il nome di Aspasia tocca dunque alcuni punti nevralgici della riflessione sulle donne e l’antichità. E se la figura aspasiana ci appare già travagliata proprio dal pensiero della differenza, e dopo di lei qualche altra figura femminile si affaccerà a strattoni su una scena politica esclusivamente appannaggio degli uomini, solo tra ottocento e novecento prenderà forza un vero movimento politico, preceduto dalle rivendicazioni delle cittadine francesi durante la Rivoluzione del 1789, per il superamento degli ostacoli e delle limitazioni che hanno impedito alle donne di “abitare il mondo” contribuendo al bene comune. Tappa miliare è, nella prima metà del novecento, la conquista del diritto di voto delle donne europee, e, altrettanto importante, è l’affermazione del loro diritto al lavoro e l’accesso alle professioni. Il femminile, storicamente condannato al silenzio nella sfera pubblica, nella vita sociale e politica, è portatore di una differenza di sesso, storie personali ed esperienze, che arricchisce la comprensione del mondo, e che non si può semplicemente omologare al maschile. Hannah Arendt, grande pensatrice del ‘900, elabora in questo senso la categoria tutta femminile della nascita, che è simile all’inizio dell’agire perché ogni azione, come ogni nascita, inizia qualcosa di nuovo: originalissimo pensiero, in quel panorama filosofico maschile del Novecento, segnato dalla meditazione sulla morte. L’interrogativo che assorbe pienamente la riflessione della filosofa è: “Che cos’è diventata la vita umana?”. La risposta è da ricercare nell’unicità dell’esistenza che le persone devono realizzare per passare da mero “zoon”, fatto biologico, a “bios”, vita spesa nell’azione e nella narrazione. “Bios” è la capacità politica di prendere l’iniziativa per fare di un “qualcosa” un “chi”. Un dovere eticamente ineludibile per le nuove generazioni, visto che l’’agire politico è diventato per noi comando e obbedienza, rappresentanza e sovranità; ad eccezione dei momenti iniziali delle rivoluzioni moderne e delle esperienze consiliari, non vi è nel mondo moderno alcuno spazio per l’agire in relazione con altri, sulla scena della pluralità. Una pluralità che comicia a due, con l’affermazione piena, ancora purtroppo incompiuta, dei diritti delle donne, anche all’interno di istituzioni definite rappresentative, ma in realtà mai veramente rappresentative delle donne.
Infatti, nonostante i progressi realizzati negli ultimi anni per quanto riguarda la partecipazione della donna alla vita sociale, le donne restano ancora oggi ampiamente escluse dalla politica e continuarono a subire discriminazioni per quanto riguarda le elezioni, come dimostrano i dati a disposizione, dai quali si evince, tra l’altro, come le donne parlamentari siano più inclini degli uomini ad attuare cambiamenti a favore dei bambini, delle donne e delle famiglie. Studi sociologici dimostrano che nei paesi in cui le donne gestiscono il potere politico (in testa, i paesi nord-europei e l’Italia al fanalino di coda!), c’è più crescita economica, più sviluppo sociale, più occupazione femminile, e le donne hanno più figli. Il coinvolgimento delle donne in politica può contribuire allo sviluppo di legislazioni più attente alla condizione femminile, dei bambini e delle famiglie, a partire da temi quali la violenza, lo sfruttamento, la privazione della libertà, le molestie, ma anche il ruolo sociale e pubblico delle donne.



30.12.21

Un trekking di 130 chilometri lungo l'Appennino Tosco-Emiliano tra Bologna e Prato, dove l'agricoltura tradizionale incontra l'energia pulita e il riuso

    in sottofondo 


repubblica  28\12\2021

È stata inaugurata nel 2018 e nel 2020 l'hanno percorsa 4mila persone. Un buon risultato pensando alla sua giovane età e facendo un rapporto con la più vecchia Via degli Dei, considerata il cammino più camminato d'Italia, con numeri che si aggirano tra le 12 e le 14mila persone all'anno. Stiamo parlando della Via della lana e della seta, un tragitto di 130 chilometri che permette di immergersi nelle bellezze dell'Appennino Tosco-Emiliano, composto da un susseguirsi di paesaggi selvaggi, coltivazioni particolarissime, architetture medioevali e due fondovalle industriali legati alle lavorazioni tessili di Bologna e Prato, le città da cui si parte e si arriva.
"Un itinerario trekking ricco di eccellenze e tradizione, di cui Vito Paticchia è stato l'ideatore, dove si sta innescando un circolo virtuoso di operosità", confida Egle Teglia di Appennino Slow, un consorzio di cui lei è vicepresidente, che da 23 anni si adopera su diversi fronti nel territorio: organizza l'offerta, fa da tour operator e formazione, crea situazioni di animazione, mette in rete gli operatori, cercando di svilupparne le potenzialità.


Lungo il percorso c'è chi sta ricercando la possibilità di tessere la pianta della ginestra per produrre stoffe alternative alla lana, a chilometro zero, come Vieri Favini, responsabile tecnico della parte abbigliamento-moda dell'azienda tessile Lenzi. Chi ha attivato un processo di produzione che porta al recupero di materiali - altrimenti destinati a diventare rifiuti - tutti acquistati da commercianti del pratese per poi nobilitarli e trasformarli in filati pregiati. È il caso di Gabriele Innocenti che con due soci guida la Filati Omega, un'impresa che per garantirsi l'autosufficienza energetica ha da poco installato 625 pannelli fotovoltaici, diminuito l'emissione di CO2, l'uso di acqua, coloranti e derivati chimici ed entro i prossimi tre anni avrà un parco mezzi tutto elettrico o ibrido.

C'è anche chi tutela la Calvana, il grande massiccio carsico situato tra la Val di Bisenzio, la Val di Sieve e la Val di Marina e abitato esclusivamente da una natura meravigliosa, tra cui cavalli inselvatichiti più unici che rari. Come l'Associazione Salvaguardia e Sviluppo Calvana (ASSC), fondata nel 2019 dalla veterinaria Agnese Santi, con un gruppo variegato di appassionati.

Di recente Appennino Slow ha lanciato il progetto "La Bisaccia del Viandante" per dare una forte connotazione ai prodotti enogastronomici locali, valorizzando ulteriormente questa terra. Sostanzialmente il pranzo al sacco che ciascun camminatore in ogni tappa può portare con sé grazie a realtà che meritano di essere conosciute attraverso la voce di chi se ne occupa direttamente.

 

"Verdure e cereali dall'orto al mercato"

Luigi Ritacco 
"Provengo da una provincia del Sud Italia, dove il contatto con l'agricoltura è molto forte. Dopo l'università di Agraria a Bologna, avendo questa base culturale e qualche nozione più accademica, è stato abbastanza chiaro qual fosse l'obiettivo che volevo portare avanti. Sono riuscito a conquistarlo dopo 15 anni vissuti a Grizzana, covandolo. Solo tre anni fa, infatti, sono riuscito ad acquistare una vecchia azienda agricola di quasi otto ettari, a cui ho dato il nome DiMondi. La cercavo proprio con caratteristiche precise perché molto spesso la tendenza dei giovani agricoltori, come me e i miei colleghi, è quella di comprare casa sull'Appennino e poi sperare di farla diventare un'azienda, senza considerare la necessità di spazi particolari. Oggi produco ortaggi e cereali. Faccio la vendita diretta. La mia visione è di allargare l'orto, con l'aggiunta di alcune serre, per avere la possibilità di avere il prodotto durante tutto l'arco dell'anno. I cereali li trasformo con un vecchio mulino a pietra della zona. L'agricoltura è di tipo biologico certificato. Siamo presenti su tre mercati, a Marzabotto, a Sasso e a Bologna. In azienda ho una cinquantina di animali tra conigli, galline, capponi e anatre, di cui si fa anche vendita diretta. Con me lavora un ragazzo part-time, c'è anche una ragazza in aiuto nei momenti di bisogno, in più mi avvalgo di giovani che trovo con Wwoof Italia, una piattaforma internazionale di volontariato. Ragazzi che hanno voglia di fare un'esperienza di tipo agricolo e in cambio di vitto e alloggio ci danno una mano. Molto spesso mi trovo davanti a qualcuno che non ha mai visto una gallina dal vivo perché proveniente da una città. Questo ovviamente mi fa un po' sorridere, però succede. Comunque si crea una bella atmosfera. Ovviamente scegliamo dei lavori un po' più semplici per loro. Il risultato però è sempre uno scambio interessante da entrambe le parti. Loro percepiscono il valore del ciclo chiuso che è una cosa di cui ci vantiamo molto. Notano la diversità rispetto alle grandi aziende agricole dove magari c'è solo la parte produttiva, poi a un certo punto arriva un camion, si carica il prodotto e lo porta chissà dove, verosimilmente in un altro magazzino dove verrà nuovamente smistato per i supermercati".
 

"Nei miei frutteti una mela di 2mila anni fa"

Cesare Calisti 
"Sono nato a Grizzana Morandi dove risiedo tutt'ora con la mia famiglia e viviamo in maniera serena. Sono stato amministratore del comune per tanti anni. Nel 1984 decidemmo di aggiungere il nome Morandi a Grizzana, in onore a Giorgio Morandi. Qui ha dimorato per vari anni e i suoi tantissimi paesaggi famosi nel mondo ne ricordano la vita contadina. Vivo in un podere rimasto ancora come nel 900, nella frazione di Veggio, borgo antico da cui passava la via etrusca, famoso per la produzione del baco da seta e del gelso. Nella mia casa ci sono ancora le tracce dei graticci dove venivano coltivati, una parentesi doverosa per far capire il mio attaccamento a questo luogo. È un insediamento ricco di storia e anche di biodiversità per la presenza dei pomari. Attualmente promuovo il recupero di questi antichi frutteti. La punta di diamante sono le mele rosa romana, chiamate così per il colore, il profumo, nonché le origini romane. Sono arrivate da noi in 2000 anni, con una resistenza al clima che ne ha permesso la riproduzione fino ai giorni nostri. Questa specie è stata recentemente studiata all'Università di Bologna, dal professor Silviero Sansavini, massimo esperto di pomologia nel mondo. Dopo due anni di ricerca hanno certificato che è la prima mela in Italia, sorpassando la nurca, di origini campane, e dimostrandone le sue qualità organolettiche: è ricchissima di antiossidanti, polifenoli e vitamine. Nelle annate buone ne raccolgo qualche quintale. Consumata fresca è una prelibatezza. Ma si possono fare le torte di mele e i succhi che non hanno confronti e si conservano in maniera naturale. Qui ogni mese c'è un frutto, ogni settimana c'è una maturazione e lungo il sentiero si possono raccogliere direttamente dagli alberi. C'è il periosso, un'antica pera autoctona, anche questa poco conosciuta. Ma chi la mangia torna. La civiltà contadina d'altronde aveva pianificato le sue culture per avere un'alimentazione da maggio con le ciliegie fino a novembre con le castagne, passando ovviamente prima da mele, pere, ma anche uva e fichi. Tutti frutti biologici naturalmente".
 

"La nostra nuova vita tra capre e formaggi"

Federica Da Campo 
"Facevo la benzinaia, mio marito, Alessandro Barbi, il meccanico, ma abbiamo deciso di cambiare vita. Quando ci siamo conosciuti, lui viveva in un podere a Camugnano nella frazione di Trasserra, dove c'era molto spazio con vari capannoni. Aveva quattro caprette per pulire il cortile di casa, i maiali e i polli. Insomma era già improntato verso l'agricoltura. Così pensando a cosa potevamo intraprendere insieme, abbiamo deciso di sfruttare il suo podere per mettere in piedi un allevamento di capre, essendo meno costoso rispetto a un'attività con i maiali o i polli. Ci siamo iscritti al bando regionale che viene messo a disposizione per i giovani imprenditori. Mi sono insediata in azienda come legale rappresentante e sono riuscita a ottenere il premio per comprare tutta l'attrezzatura per il caseificio che abbiamo realizzato nel 2018 e farne la Società Agricola Appennino. Nel primo periodo sono andata avanti da sola con 25 capre. Poi quando abbiamo considerato fosse giunto il momento opportuno per continuare anche con la sua forza, ha lasciato il tempo indeterminato. Attualmente le capre da latte sono diventate 110. Abbiamo due varietà: le Camosciata delle Alpi e le Saneen. Alessandro le controlla, le munge, si occupa anche della pulizia, io invece della trasformazione dal latte a formaggi, yogurt e dessert. Nel 2019, in pieno lockdown, abbiamo poi aperto il negozio. Ha funzionato fin da subito perché ci siamo attivati direttamente con le consegne a domicilio, in attesa della vendita diretta e ai mercati avvenuta alla fine delle restrizioni date dal Covid. Nelle giornate calde di sole e in primavera quando c'è il fieno nei prati, le capre stanno al pascolo circa 12 ore al dì. Quando vengono munte, apriamo la porta della stalla che dà sul campo, in modo che siano libere di uscire e rientrare a loro piacimento. Anche se dobbiamo stare attenti perché qui abbiamo i lupi e le recinzioni a volte purtroppo non bastano".
 

"Abbiamo preferito l'agricoltura alla chimica"

Arianna Fabbri 

"Io e Paolo Moro, mio marito, siamo due giovani agricoltori col camice, in quanto siamo chimici entrambi. Abbiamo rinunciato al dottorato per tornare a vivere a Creda, in prossimità di Castiglione dei Pepoli, dove sono nata e cresciuta. Lui mi ha seguita dai Colli Euganei, da dove proviene, per fare la nostra produzione di piante officinali e aromatiche, che è una vera e propria passione. Pensavamo al fatto che questo Appennino ci avrebbe permesso di avere le giuste condizioni per ottenere prodotti di elevata qualità. E così è stato. Quando abbiamo iniziato questa avventura ne La Bargazzina, la nostra azienda agricola, nell'estate del 2018, avevamo a disposizione solo qualche attrezzo per lavorare e le nostre mani. Dopo il primo anno di attività siamo riusciti ad acquistare mezzi più professionali per la lavorazione dei nostri campi, ampliando la coltivazione (armeria marittima, polygonum, zucchine limone, varie varietà di peperoncino e basilico, cucamelon, erba luigia, stevia, salvia ananas, menta cioccolato, oxalis triangularis), inserendo le api e attivando l'attività vivaistica. Crediamo fortemente nel nostro territorio, per questo abbiamo deciso di aderire al marchio "prodotto di montagna". Il nostro progetto, finanziato dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), è stato da poco ultimato con un laboratorio di trasformazione dotato di impianto fotovoltaico nel quale estrarre prodotti fitoterapici, una fattoria didattica scientifica e un giardino officinale per fare scoprire la storia delle piante e lasciarsi avvolgere dai loro profumi inebrianti".

"Siamo bio da prima che diventasse di moda"

Pierluigi Poli 

"Sono un montanaro doc. Ho ristrutturato filologicamente la mia casa in pietra, nella località di Spinareccia, una borgata di Rasora, nella fascia alta dell'Appennino. Fin da giovane mi sono dedicato alla coltivazione, dopo il lavoro. Volevo mangiar sano con la mia famiglia, come si faceva un tempo. Adesso va di moda la parola biologico, ma noi in montagna siamo abituati a lavorare la terra da sempre con il concime degli animali e il cosiddetto olio di gomito. Dunque non ho mai adoperato la chimica, non l'ho mai minimamente presa in considerazione, anzi. Da quando sono in pensione mi dedico a tempo pieno alla mia attività agricola che poi è anche il mio hobby. Faccio e brigo da mane a sera. Essendo un estimatore della polenta mi sono informato che varietà di mais seminavano in questa zona, anche se qui, per la verità, va per la maggiore la farina di castagne che è stata proprio il nostro albero del pane. Ne ho trovato un tipo giallo e soprattutto uno rosso che ho piantato e si è rivelata essere una varietà mai censita prima. Attualmente alcuni semi sono arrivati nelle mani di alcuni ricercatori dell'Università di Piacenza e di Pavia, cosicché è stato inserito nel progetto RIcupero Caratterizzazione COLtivazione del Mais Antico (RICOLMA) della regione Emilia Romagna. Ma la cosa ancora più importante e bella è che mia figlia Veruska ha aperto una piccola azienda agricola con l'intenzione di trasformare la farina in biscotti. Devo dire che sono una vera delizia, piacciono molto anche ai camminatori. Al momento sta però sperimentando, in attesa dei permessi per completare l'opera con la realizzazione di un laboratorio. Qui in montagna comunque è il modo migliore per utilizzare il mais, perché non se ne può avere una grande quantità, non avendo delle grandi distese di terreno per la coltivazione. Anche la lavorazione è complessa. Lo devo stagionare e conservare su delle pertiche legato alle travi sotto una tettoia finché il tempo lo permette, per poi spostarle in altre utilizzate appositamente in due ambienti interni, mantenuti caldi con camino e stufe, in autunno quando inizia il freddo e l'umidità aumenta".
 

"La passione per le api è diventata un lavoro"

Cecilia Saccardi 
"Col mio compagno Andrea Piccioli abbiamo un azienda agricola apistica, perché siamo specializzati per l'appunto nella produzione di alveari, miele, polline, propoli. I nostri apiari sono proprio nella prossimità della via, vicino all'arrivo a Prato, nella zona di Vernio. L'idea di questa attività è nata in un momento in cui eravamo tutti e due a casa. Io, laureata in scienze naturali e con un master, non trovavo un'occupazione, Andrea, impegnato nel tessile, era stato messo in cassa integrazione. Dunque ci siamo trovati a fare questo percorso di apicoltura, innamorandocene, e grazie al premio giovani imprenditori siamo riusciti ad aprire l'azienda Società Agricola Apisticamente. Da allora la passione si è trasformata in un lavoro. All'inizio avevamo le api solo a Montepiano, dove viviamo e lavoriamo, che è un po' il crocevia di tanti sentieri, compreso lo 00 del CAI. Poi il numero è aumentato anche nelle zone limitrofe. A parte quest'anno che è stato vergognoso per l'apicoltura in generale, quindi anche per noi, gli altri sono stati ottimi sia per i classici monoflora come acacia, castagno, melata, a volte anche ciliegio, sia per i millefiori che hanno caratteristiche completamente diverse gli uni dagli altri. Nel 2020 abbiamo partecipato al concorso nazionale "Tre Gocce d'Oro - Grandi Mieli d'Italia", vincendo una goccia d'oro con il nostro buonissimo miele di castagno.


Ma la cosa interessante del miele, rispetto a tanti altri prodotti agricoli, è che è una cartina di tornasole di ciò che succede nel territorio. Parla chiaro del cambiamento climatico e delle problematiche che ne conseguono, come le gelate tardive e i lunghi periodi di siccità. La flora selvatica dei boschi, che permette di sostenere le api, ne sta accusando le difficoltà. Comunque è salubre. Lo dimostrano i test che effettuiamo random sulla nostra produzione. Finora hanno sempre avuto un esito positivo".

buon 2022 di ©® Daniela Tuscano

 io  non   avrei saputo dirlo  meglio   . Grande   come  sempre    l'amica    Daniela  Tuscano  a prescindere  dalla  religiosità  o meno  



Gruppo Membri di Diaconia "Santa Maria Egiziaca" in Bresso
La fine dell'anno è arrivata. Un anno travagliato, sotto certi aspetti ancor più del precedente. Dallo stordimento della prima ondata pandemica ai lividi della seconda, sono state messe alla prova certezze e comodità. Per qualcuno/a di noi, tali prove sono state particolarmente dure
perché hanno inciso direttamente sul vissuto proprio o su quello d'un/a familiare, amicizie ecc. A esse si sono assommati, e forse ingigantiti, i problemi pregressi o se ne sono aggiunti altri, non meno seri. E paradossalmente, questa "summa" di difficoltà può rappresentare un'occasione unica per riscoprire il valore della piccolezza. Abbiamo constatato che, nel nostro mondo opulento, ciò che conta davvero è il sorriso d'una persona vicina, un'uscita per una passeggiata, addirittura... poter fare spesa! Talvolta, quella persona possiamo vederla solo virtualmente, la passeggiata non è sempre possibile, la spesa si fa "online"...
Vogliamo ringraziare Dio per questo. Per averci offerto l'occasione di guardare dentro noi stessi e non sopra gli altri. Vogliamo ringraziare Dio padre e madre, ma soprattutto figlio, un figlio piccolissimo, per averci fatto ridiventare grumo, soffio e virtualità. Affinché la virtualità ridiventi virtuosità (simboleggiata dall'icona di San Giuseppe che si prende cura del bambino a fianco d'una Maria esausta).
Vogliamo ringraziarlo perché ha dato uno scossone alle nostre intelligenze sopite. Le difficoltà sempre maggiori nell'incontrarsi ci hanno costretto ad architettare nuovi espedienti per rimanere in contatto. E quel wifi inventato da Hedy Lamarr si è rivelato provvidenziale... Quella tecnologia tanto vituperata non attesta il nostro predominio sul mondo, ma la nostra relatività. E la nostra voglia di esserci.
Non sappiamo se impareremo alcuna lezione, vogliamo semplicemente stare in questa piccolezza estrema che è l'essenzialità. Troveremo allegate le letture ambrosiane del 31 dicembre. E il classico Te Deum che in tutte le chiese risuonerà alla sera, questo inno antico e solenne, che oggi, tolti i trionfalismi del passato, attesta ancor di più la nostra figliolanza, il bisogno di relazione.
Buon 2022!

La Sarta di Bobo Il ritorno a casa, l’avvio di un’impresa in Burkina Faso, uno dei Paesi più poveri del mondo, grazie a “Bambini nel deserto”

   chi lo dice   che  gli immigrati vengono qu solo  per  delinquere     o  sfruttare   il  nostro  (almeno   che  quello che  ancora resta      visto   che politiche  economiche  nei capitaliste    e  globaliste  l'hanno  distrutto    o smantellato   )   sistema  sociale . Uno dei  casi  in cui  vengono   per  apprendere  e  poi  riportano  tutto  a  casa 
Lun 06 Dic 2021 | di Testo e foto di Roberto Gabriele e Simona Ottolenghi | Mondo


Bobo non è un nome di persona, in realtà bisognerebbe dire Bobo Dioulasso che è la seconda città del Burkina Faso dopo la capitale Ouagadougou. Luoghi dimenticati dall’epoca della scuola, quando in occasione dell’interrogazione di Geografia imparavamo a memoria i nomi degli Stati, i loro confini, le capitali e altre informazioni piuttosto inutili a conoscere veramente un paese. Molti ricorderanno l’Alto Volta che è il nome che aveva il Burkina Faso prima di
chiamarsi così, ossia fino al 1984.
Il Burkina Faso quindi esiste non solo su libri, atlanti e vecchi ricordi di gioventù, ma esiste anche nella realtà e si trova nel Sahel, nell’Africa subsahariana occidentale. In quanti se lo ricordano? Non è la prima meta che viene in mente quando si parla di Africa, forse lo leghiamo a problemi di povertà, di malattie e malnutrizione, a colpi di stato, a situazioni estreme di vita e in parte è così perché è davvero uno dei Paesi più poveri al mondo. Qui l'aspettativa di vita è inferiore ai 50 anni e l'età media degli abitanti è di 17 anni. Un popolo giovanissimo che ha un destino segnato dagli stenti, tra i quali malattie come l'AIDS che colpisce il 4% della popolazione!
In Burkina Faso non ci sono paesaggi indimenticabili, non c’è una natura meravigliosa, non ci sono Parchi Nazionali con felini e predatori in libertà, non ci sono multinazionali che producono in serie sfruttando le risorse minerarie o l’eccellenza della manodopera locale come purtroppo avviene in tanti altri Paesi. Qui tutti cercano di sopravvivere. E le persone che meglio resistono a tutto questo (riuscendo ad avere un buono stato di salute, di igiene, di tenore di vita) sono le numerosissime e giovanissime prostitute che per una manciata di CFA (la moneta Comune come l’Euro creata tra gli Stati dell’Africa Occidentale) si vendono ad una schiera di altri disperati, riuscendo così a mantenere la famiglia.
Ecco questa è la situazione che abbiamo rilevato andando in Burkina Faso, prima dell’ultimo colpo di Stato che ha vietato l’ingresso a noi Occidentali, molto prima dell’arrivo del Covid. In un quadro sociale come questo l’unica cosa che resta da fare ai giovani è affidarsi ad organizzazioni criminali che gestiscono migrazioni di massa verso l’Europa e che vendono a carissimo prezzo sogni che si trasformeranno in incubi una volta arrivati sui nostri lidi (per chi sopravvive alle traversate). Venditori di miraggi: trafficanti di schiavi, gente senza scrupoli che mette a repentaglio la vita di altri esseri umani senza speranza.
Interi villaggi selezionano i ragazzi più sani e forti per tentare di farli espatriare senza passaporto (non hanno i documenti: è questo il motivo per il quale si rivolgono alla criminalità pagando cifre molto più alte di un biglietto aereo di sola andata e rischiando la vita in mare). Se arriveranno vivi in Europa, allora potranno lavorare (anche in questo caso spesso al soldo di altri criminali) e parte dell’esiguo ricavato lo potranno rimandare a casa per sdebitarsi con la loro gente che ha fatto la colletta per farli espatriare.
Dove tutto sembra essere senza una speranza, arrivano le Organizzazioni non governative che con i loro progetti di cooperazione internazionale cercano di evitare o almeno ridurre i flussi migratori di questa gente verso le nostre coste. 
“Bambini nel Deserto” è una Onlus lavora molto in questa zona dimenticata del mondo, lo fa con progetti di cooperazione e sviluppo creando quelle che si chiamano “Attività generatrici di reddito“, cioè la gente viene formata al lavoro, ad arti e mestieri che siano compatibili con ciò che hanno a disposizione e a farne eccellenze qualitative. Il fine è sviluppare le capacità teoriche oltre alle abilità manuali. I progetti spesso non prevedono finanziamenti a fondo perduto, ma creando formazione permettono ai locali di rendersi autonomi e autosufficienti. Uno degli strumenti più interessanti è il microcredito, ossia dei piccoli prestiti a tasso zero che servono per fargli acquistare macchinari o materie prime con le quali lavorare, cifre bassissime che i beneficiari possono restituire in 4-5 anni e senza interessi, ma senza le quali non potrebbero iniziare alcuna attività.




ALIMATA E IL RITORNO A CASA
Tutto è iniziato quando una donna burkinabè, che lavorava in Italia, un giorno ha deciso di tornare in Burkina Faso dalla sua famiglia pur mantenendo un contatto con gli italiani che aveva conosciuto stando qui. Il suo lavoro è stato quello di fare da raccordo, creando un contatto tra le persone che avevano bisogno di un aiuto per partire e la Ong. Una di queste era Alimata: una giovane e talentuosa sarta che aveva imparato a tagliare e cucire in un corso di formazione tenuto da una italiana proprio nella sua città Bobo Dioulasso.
Alimata aveva avuto un’idea imprenditoriale molto innovativa dalle sue parti: il suo sogno non era quello di fare semplicemente la sarta mettendosi in proprio, lei voleva aprire una vera sartoria nella quale cucire abiti su misura per uomini e donne suoi concittadini. L’idea era quella di creare abiti con tessuti e linee tradizionali, ma rivisti con lo stile occidentale imparato dalla sua maestra italiana. A lei il ruolo di artigiana libera e autonoma è sempre calzato stretto: Alimata guardava lontano e sapeva di non potercela fare da sola. Per realizzare il suo progetto aveva bisogno di altri collaboratori che lavorassero per lei, di una sede idonea per creare il suo laboratorio e di avere un prodotto di eccellenza da vendere con ottimi margini per ricavarne un reddito per sé e per le persone che lavoravano per lei. Per fare tutto questo aveva bisogno anche di macchine per cucire che le permettessero di fare anche i ricami ornamentali dei suoi vestiti.
Insomma Alimata non si accontentava, puntava in alto e aveva saputo che Bambini nel Deserto le avrebbe potuto dare una mano con un progetto di microcredito. Il budget iniziale era di 5000 euro per comprare le macchine e i locali: una cifra altissima per un singolo a causa dell’economia traballante del Paese, ma sostenibile per un’azienda opportunamente organizzata.
Per avere un’idea del valore di quanto possono valere 5000 euro da quelle parti, basti pensare che un maestro di scuola elementare è un benestante, uno stipendiato che può permettersi un buon livello di vita per tutta la famiglia guadagnando la cifra di 300,00 euro al mese. 5000 euro sono lo stipendio di 16 mesi! 
Arrivare ad una cifra del genere sembrava un sogno irrealizzabile per Alimata, una cifra irraggiungibile e aveva bisogno di una mano per smettere di sognare e creare quello che desiderava con tanta determinazione. Doveva diventare un’imprenditrice e per farlo si è dovuta formare per avere la giusta mentalità. Ha presentato un business plan, ha fatto un piano di rientro dell’investimento, ha ottenuto il privilegio di interessi zero e ha potuto rientrare della cifra in ben 5 anni: un tempo sufficientemente lungo per lavorare sodo e rispettare gli impegni.
Il vantaggio di un’operazione di finanza solidale è proprio nella sua sostenibilità e nel suo valore etico: il denaro non viene regalato, ma prestato e chi lo riceve deve formalmente impegnarsi a restituirlo a condizioni agevolate, ma chiare tra le parti. Senza la restituzione si andrebbe incontro ad un sicuro fallimento dell’iniziativa e al non rispetto degli impegni presi. Normalmente chi riceve il microcredito è portato a restituirlo fino all’ultimo centesimo: sente di avere un impegno morale oltre che finanziario e i casi di insuccesso sono veramente pochi.
Oggi la bottega di Alimata è totalmente avviata, i suoi dipendenti lavorano a pieno ritmo e lei riceve i clienti che vanno a farsi cucire un vestito su misura, studiando insieme a ciascuno di loro le soluzioni migliori. Un vestito di Alimata è diventato un vezzo di eleganza e di moda per gli abitanti di Bobo Dioulasso.
Si va su appuntamento e il cliente sceglie il proprio modello preferito da farsi cucire sugli innumerevoli poster attaccati alle pareti: una sorta di catalogo al quale ispirarsi pur facendo le opportune modifiche. Una volta scelto il modello e fatto  il disegno, arriva il momento di andare a comprare il tessuto con il quale cucire l’abito, perchè Alimata ha scelto di ridurre i costi e non avere magazzino: è lei personalmente ad accompagnare i suoi clienti in negozio ad acquistare un tessuto. Una specie di rito da celebrare tra la sarta e il cliente: è un momento fondamentale nella creazione dell’abito, il momento in cui Alimata fa da consulente esterna, guidando i suoi clienti nella scelta del tessuto o del colore migliore.
Tessuto alla mano, vengono prese le misure sulla persona per cucire l’abito, si scelgono le rifiniture e tutto ciò che può essere personalizzato: dalla lampo ai bottoni, dal colore delle cuciture alla forma delle tasche. Alimata annota scrupolosamente su un suo ordinato taccuino non solo le misure del cliente, ma ogni indicazione che possa servire a non dimenticare nulla per la personalizzazione dell’abito. I suoi operai sono bravissimi a tagliare e a cucire e a seguire ogni indicazione della titolare.
Da quel momento, nel giro di una settimana il lavoro è finito, pronto per essere consegnato, ma in particolari casi di urgenza per cerimonie last minute, l’abito può essere anche terminato in 24 o 48 ore…
Oggi dopo 5 anni Alimata ha estinto il suo debito con Bambini nel Deserto e lei può dirsi una donna che ce l’ha fatta restando a casa sua, rispettando lo stile e la tradizione, dando lavoro a tante altre persone e realizzando prodotti di altissima qualità.



Il nostro laboratorio sartoriale per rinascere dopo il lockdown . Storie di Stoffa Firenze è una creazione di Camille Solignac, Viola Cirigliano e Claudia Salomoni. Tre amiche che hanno dato vita a un laboratorio creativo, che progetta, disegna e realizza capi di abbigliamento per bambini,

accompagnati dalla scrittura di storie dedicate ai più piccoli. Ogni capo ha una fantasia ispirata ad una storia originale, scritta dalle tre autrici, stampata in formato libricino e acquistabile insieme. È possibile seguirle su facebook all’account Storie di stoffa Firenze e su Instagram a @storiedistoffafirenze. Anche solo al telefono senti subito che c’è gioia. Ridono tra loro raccontando come è nato tutto, più di un anno fa. Ognuna porta una sfumatura personale, ma ciò che avevano in comune era la volontà matura di dare una svolta professionale e di vita alla propria storia e  ciò che oggi hanno costruito insieme è una piccola realtà sartoriale, di abbigliamento per bambini, che promettere di crescere bene. Partiamo dall’inizio di questo ‘cambio vita’ moltiplicato per tre. Camille, Viola e Claudia sono mamme e si incontrano al nido dei figli, a Firenze. Un’architetta d’interni, un’architetta paesaggista e un’impiegata d’azienda. In comune l’insoddisfazione per il loro presente professionale.



 Poi arriva il lockdown e un tempo ‘fermo’, per qualcuna anche la perdita del lavoro. Per tutte una grande occasione di riflettere sul cambiamento da ‘provocare’. «Nella primavera 2020 - raccontano Camille e Viola -, quando ci siamo ritrovate fuori dal lockdown ci siamo chieste: “Perché non lo facciamo davvero?”. Oltre ad essere scontente del lavoro, avevamo in comune anche l’insoddisfazione per l’offerta di abbigliamento per i bambini: capi tutti uguali, con fantasie stereotipate. Se vuoi qualcosa di più particolare, come stoffe di pregio, devi poter spendere. Allora ci siamo dette: proviamo noi a offrire un’alternativa. All’inizio l’idea era di confezionare grembiulini per la scuola, ma poi

abbiamo deciso di avere una visione più ampia». E così nasce il progetto Storie di Stoffa, un laboratorio artigianale di creazione capi per bambini, con un’idea in più: raccontare con ogni maglietta o accessorio una storia, anzi partire dalla storia che viene ideata e scritta dalle tre ragazze – confezionando un libricino che accompagna ogni capo - e poi ‘trasformata’ in una immagine simbolo che riempie lo spazio della maglietta. Un orsetto goloso, i colori che tornano ad abbracciarsi dopo le restrizioni della pandemia e tanti altri spunti creativi. «La storia scritta nel libretto accompagna il bambino quando si veste e, quindi, quel momento diventa un momento di gioco, divertente: i nostri bambini sono i primi a darci una mano proprio per ideare i racconti e poi progettare e scegliere l’immagine simbolo della storia, da far diventare protagonista sulla maglietta». C’è voluto un anno per arrivare alla prima collezione pronta, tra corsi di cucito – Viola aveva già la passione per ago e filo e ha tirato dentro Camille e Claudia – ricerca delle stoffe, progettazione grafica, realizzazione dei capi fatti e finiti. E i lavori precedenti mollati. «Facciamo tutto insieme, ci consultiamo, c’è una grande unione d’intenti tra noi per continuare su questa strada che ci sta già dando soddisfazioni». Lo rifareste? Risposta corale, che scaccia ogni dubbio a chi ne avesse. «Sì, siamo felici e vogliamo mantenere questo spirito di gioia. Siamo tre mamme, tre donne che lavorano, che si aiutano, che vogliono esprimere loro stesse con questa attività e che vogliono trovare anche un nuovo  equilibrio tra vita familiare e professionale».      

storie di mare : Plastica: dal mare ai costumi da bagno ., “Ho deciso di vivere su una barca” La storia della cagliaritana Marta Magnano

 da  ioacquaesapone 

La startup “Ogyre” si basa sui principi dell’economia circolare ed è la prima realtà italiana ad aver trasformato in business la pesca dei rifiuti

                                      Ven 22 Ott 2021 | di Domenico Zaccaria | Ambiente



Coinvolgere i pescatori nel recupero dei rifiuti di plastica in mare. Trasformare questi scarti in un filato per realizzare costumi da bagno. E finanziare con la loro vendita l’attività dei pescherecci. È un perfetto esempio di economia circolare quello messo in piedi dalla startup “Ogyre”, un progetto a vocazione sociale ideato da Antonio Augeri e Andrea Faldella; il nome deriva dalle “ocean gyres”, le correnti oceaniche fondamentali per l’ecosistema, oggi tristemente famose perché intrappolano la plastica in grandi isole di rifiuti. Ogni anno 11 milioni di tonnellate di questo materiale finiscono in mare, mettendo a rischio la vita di 1,4 milioni di specie. I pescatori, in teoria, sarebbero i soggetti più facili da coinvolgere in un’attività di pulizia. Ma in pratica la realtà – almeno in Italia – è diversa: le normative vigenti assimilano i rifiuti marini quelli speciali; di conseguenza i costi e la responsabilità penale sono a loro carico, tanto che spesso sono costretti a rigettarli in mare invece di riportarli a terra. Grazie ad “Ogyre”, invece, i pescatori vengono regolarmente remunerati e sollevati dagli oneri di conferimento dei rifiuti; la plastica, una volta riportata a riva, viene stoccata per essere poi riciclata e trasformata in nuovo materiale. Un modello che chiude il cerchio con la realizzazione di costumi da bagno “plastic-positive”, prodotti con un filato ricavato proprio dalla plastica, il cui ricavato sostiene il finanziamento dei pescherecci. 

LO STATO DI SALUTE DEL MARE
Si tratta della prima realtà italiana ad aver trasformato la pesca dei rifiuti in business. Una pratica semplice perché non richiede implementazioni tecnologiche, ma sfrutta le reti dei pescatori che quotidianamente vivono il mare; oltre che per l’ecosistema, è vantaggiosa per la salute dell’uomo e porta benefici per la pesca, per il turismo e per le comunità locali. I rifiuti raccolti vengono stoccati direttamente a bordo in appositi sacchi e, una volta a terra, vengono smistati, catalogati e smaltiti correttamente attraverso istituti di ricerca e Ong partner: così si può studiare lo stato di salute del mare e mappare rifiuti e tipologia di impatto sugli ecosistemi marini. Partito la scorsa primavera, il progetto vede già coinvolti i porti di Cesenatico, Goro e Porto Garibaldi, con sette pescherecci partner attivi che recuperano in media oltre 50 chili di rifiuti plastici al mese; nei prossimi mesi si punta ad inaugurare almeno altri 3 porti e ad arrivare fino a 60 pescherecci.     

“Ho deciso di vivere su una barca”

La cagliaritana Marta Magnano, la velista dell’anno 2021, dopo l’Erasmus in Germania, ha trasformato la sua passione per la vela in uno stile di vita all’insegna dell’ecosostenibilità

Lun 06 Dic 2021 | di Marzia Pomponio | Attualità

dal suo istangram  
Marta Magnano, 30 anni, di Cagliari, istruttrice di vela e socia della Lega Navale Italiana, già a 13 anni è diventata aiuto-istruttrice di vela per i bambini sugli Optimist. Ha gareggiato in varie regate nazionali e internazionali. Dal 2019 vive su Churingas, una Grand Soleil del 1982 sulla quale organizza gite e ospita bambini ai quali insegna il rispetto per il mare e la natura.  Per la scelta di lasciare la terrafema e vivere su una barca a giugno è stata premiata “Velista dell’anno” nella sezione “Tag Heuer Passion”, dedicato a chi ha saputo tramutare la passione per la vela in uno stile di vita. È stata tra le organizzatrici di “Sail for women” (Vela per le donne), la più grande manifestazione velistica a scopo benefico d’Italia, finalizzata all’acquisto di strumenti di screening oncologico in collaborazione con “Salute Donna Onlus”. La pagina Instagram è marta_magnano. La pagina Facebook è Marta Magnano - Boat Sweet Boat. 
L’infanzia l’ha trascorsa sui fondali marini della sua Cagliari, ad ammirare la flora e la fauna marina che ha imparato ad amare guardando le videocassette di Jacques Cousteau regalate dai genitori. È allora che è nata la passione per il mare. A 11 anni il primo corso di vela e il sogno inconscio di andare a vivere in barca. Marta Magnano, classe 1990, laureanda in medicina, istruttrice di vela, il grande salto lo ha compiuto nel 2019, quando ha lasciato la terraferma per vivere a bordo di una barca a vela di 10 metri. «Ho fatto per gioco un giro su un portale di barche usate e ho scoperto che erano alla portata di una studentessa lavoratrice come me. L’ormeggio sarebbe costato quanto un affitto. Così è diventata la mia casa». 



Con Churingas è stato amore a prima vista. Il nome deriva da una pietra sacra indossata dagli aborigeni dell’Oceania durante le navigazioni. Con l’aiuto degli amici della Lega Navale Italiana di Cagliari l’ha ristrutturata all’insegna dell’ecosostenibilità: ha installato pannelli solari e termoisolanti e per la pulizia e manutenzione usa solo prodotti naturali, che sceglie con meticolosità ogni anno al Salone Nautico di Genova – dove è ormai un’ospite fissa e molto richiesta – e che poi fa conoscere ai suoi numerosi followers, conquistati durante il lockdown, quando la skipper sarda ha pensato di rendersi utile per chi era costretto a stare chiuso in casa, raccontando le sue avventure in mare, mostrando com’è fatta una barca, come funziona e organizzando micro lezioni di vela.

Quali reazioni ha suscitato la tua scelta di vivere su una barca?      
«All’inizio ero considerata una pazza, invece durante il lockdown, quando la pandemia ha costretto tutti a fare i conti con se stessi, molti hanno riscoperto il valore della vita all’aria aperta e l’importanza di fare scelte libere, quello che
ci rende veramente felici, che ci fa stare bene a prescindere dalla società».

In un post hai scritto che al vestito costoso preferisci spendere in esperienze e il tuo sabato preferito non è in giro per locali, ma in mare “con quei pochi con cui vale la pena stare”. Proponi un tuo stile di vita fatto di essenzialità.  
«Ereditato dagli ambienti sportivi che ho sempre frequentato e dall’esperienza avuta al mio rientro a Cagliari, dopo otto mesi in Germania con l’Erasmus, quando per un mese ho vissuto senza corrente perché i precedenti inquilini avevano lasciato una morosità di 800 euro. In preda al panico, per conforto, ho chiamato un amico colombiano. «Da dove vengo io tanta gente non ha una casa, né la corrente, né l’acqua potabile, di cosa ti lamenti tu che hai una casa e un futuro?», mi ha risposto. Quelle parole mi hanno fatto riflettere. Ho iniziato a vivere come si faceva in passato: mi svegliavo con la luce, ho salutato la tv che tanto manda in onda solo spazzatura, ho ripreso a leggere, a suonare la chitarra, i capelli li asciugavo al sole durante le belle giornate, mi sono riempita casa di candele. Quando poi ho fatto il trasloco in barca ho dovuto scegliere quello che veramente mi serviva, perché non c’entrava tutto, e questo mi ha fatto pensare ancora una volta che tanto di quello che abbiamo in casa è superfluo».    

Hai annunciato su Instagram la vendita di Churingas per nuovi progetti. Quali?  
«Il mio sogno è girare il mondo, ma per farlo devo iniziare da casa. Il giro dell’Italia lo farò con una barca che dovrà essere un concentrato di prodotti e soluzioni innovative per l’autosufficienza, che vuol dire prodursi la corrente elettrica con pannelli solari e seadamp (per ottenere l'energia sia dal Sole che dal mare) e l'acqua potabile dal mare, tenendola pulita con prodotti bio premiati all’ultimo Salone Nautico di Genova. Spero, inoltre, abbia vele 100% biodegradabili. Nel giro coinvolgerò scolaresche e circoli sportivi, promuovendo tematiche ambientali legate al mare, una grande risorsa sfruttata spesso in modo sbagliato, vedi quando lo inquiniamo, quando peschiamo troppo, quando milioni di barche si concentrano tutte in Sardegna ed erodono le coste, per cui ci troviamo senza spiagge».   

Un altro sogno è usare il mare come terapia preventiva per bambini. 
«In molti Paesi esteri, dove la vela è addirittura lo sport nazionale come il calcio, già esistono figure professionali specializzate nella medicina della vela. Credo in una medicina che debba anzitutto investire sulla salute prima della malattia. Oggi i medici sono diventati talmente bravi a curare le malattie da dimenticare l’importanza di non ammalarsi».                                                   


 

Boat sweet boat



Meloni e company facessero leggi più serie anzichè Vietare le parole «handicappato» e «diversamente abile» nei documenti ufficiali. un linguaggio più inclusivo non si fa per via legislativa

  se invece  di  fare  una legge  per una   cosa di poco conto   visto che  la  sostanza  non cambia   facessero leggi  o  almeno modificase...