Il magico suono delle pietre che unisce l’arte alla natura
Lo scultore Pinuccio Sciola racconta il suo rapporto con la materia che plasma fino a restituirle la sua anima Ecco perché ogni sua opera suscita suggestive emozioni
L’artista si racconta a studenti italiani e tedeschi. Tema, il càntico delle pietre. Cortile della grande casa-laboratorio di Pinuccio Sciola, nel cuore di San Sperate: è in corso un incontro di studio. Il grande scultore parla ai ragazzi forestieri come se parlasse ai suoi figli. Narra della musica delle pietre, dell’esperienza di Assisi, del mistero dell’arte, del rapporto con la natura. Era a Monza, Sciola, nei giorni scorsi, nel parco di Villa Reale, davanti alla scuola in cui hanno studiato Nivola, Fancello e Pintori. E’ felicissimo e confida: «Ho provato un’emozione intensa, completata dalla straordinaria accoglienza riservata alle pietre sonore». Stavolta il cronista non deve fare domande: si limita a riportare quelle dei ragazzi, con le risposte dell’artista.
- Da dove viene l’idea delle pietre sonore?
«Nasce con me. Fin da piccolo, quattro-cinque anni, impastavo il fango. Quando ne avevo sette-otto ho visto dei muratori che spianavano e squadravano delle pietre. Mi sono detto: se loro riescono a fare questo, perché io non posso riuscire a fare una figura, un viso, una mano»?
- Allora?
«Ho rubato un paio di pietre, ho provato con strumenti rudimentali. Ci riuscivo. Poi sono andato alla ricerca delle pietre di San Sperate. Quando sono stato scoperto da Vittorino Fiori, Foiso Fois e dal provveditore agli studi avevo diciotto anni. A casa dei miei genitori non era mai entrato un libro e neanche uno stipendio, io non ho fatto le scuole medie. Sono stato scoperto e buttato al liceo artistico».
- Scoperto come e dove?
«In una mostra a Cagliari, alla Rinascente. Oltre al primo premio, mi diedero quattro anni di borsa di studio per riprendere la scuola, il liceo era privato. Mi sono dedicato agli studi. Il dramma è stato dopo il diploma. Mi proposero di insegnare al liceo».
- Fatto di per sé sconvolgente?
«Mi sentivo più ignorante di quando vi ero entrato ma si era scatenata in me la voglia di sapere. E mi chiedevo: se rimango cosa faccio, l’insegnante? Ho mandato tutti a quel paese e sono scappato».
- In quale direzione?
«A Firenze. Lì ho conosciuto una ragazza tedesca che mi parlava dell’Accademia Internazionale di Salisburgo, la più importante del mondo. Esperienza fondamentale per me. Finiti i corsi, andavo in giro per l’Europa. Dormivo per terra, nelle stazioni ferroviarie. A Firenze avevo lavorato una volta sola il marmo di Carrara, con tutti i santi crismi classici. Rientrato in Sardegna, ho ripreso a lavorare le pietre minori».
- Come mai? E perché?
«Per ridare dignità a questo elemento povero. Ho continuato per anni e mi rendevo conto che ogni colpo dato alla pietra era una violenza. Lavoravo pietre di cava, già violentate. Con la presunzione dell’artista cercavo di ridar loro una forma. Ad ogni colpo mi dicevo: si tratta di una violenza in più».
- Quale rimedio ha trovato?
«Da allora ho cercato di infierire il meno possibile. Ero conscio di avere un alleato immenso: il tempo, gli agenti atmosferici. Scrissi una sorta di epitaffio. Diceva: mi auguro che le mie sculture un giorno ridiventino parte della natura. Posso farvi vedere opere di trent’anni fa sulle quali i muschi hanno sanato le ferite. Quando faccio dei lavori grandi, per togliere un blocco opero una serie di tagli più o meno paralleli, con lo smeriglio. Agevola il lavoro».
- Ma questo è basalto, una pietra molto dura. Come si regola?
«Con il basalto ci vogliono tagli ravvicinati. Passando la mano, sentivo vibrazioni differenti a seconda dello spessore della lama, della profondità, del tipo di pietra. Questa curiosità mi ha portato ad approfondire l’esperienza attraverso incontri con musicisti. Vado avanti con emozioni differenti, tutti i giorni».
- C’è qualche altro che segue la sua strada?
«Finora non ho mai saputo che altrove ci sia un’esperienza del genere. Naturalmente tutto questo è possibile grazie anche alla tecnologia. Se non ci fossero state queste lame che permettono di entrare in profondità, probabilmente non sarei mai riuscito a tirare fuori questi suoni».
- Ci racconta l’esperienza di Assisi?
«In tutta la mia carriera, una delle cose più emozionanti è stata la mostra di due anni fa ad Assisi. L’architetto Strozzi di Terni, per rifare la piazza assisiana dopo il terremoto, ha girato il mondo cercando le pietre giuste. La figlia, architetto lei stessa, ogni tanto gli diceva: in Sardegna c’è uno scultore che fa suonare le pietre. Il padre, come tutti gli operatori del settore, sa che la pietra è muta. E mandava sua figlia a farsi friggere».
- Com’è che invece vi siete conosciuti?
«Qualcuno ha insistito, facendoci incontrare. Io sono arrivato con la documentazione: video, sonora e cartacea. Quest’uomo è rimasto impressionato. E mi ha detto: parlerò subito col Padre custode di San Francesco, ma scrivi anche tu una presentazione».
- E lei cosa ha fatto?
«Ho scritto una lettera direttamente a San Francesco, saltando qualche intermediario». “Caro San Francesco, quando parlavi all’acqua, ai fiori e alle stelle, la pietra stava ad ascoltare in silenzio. Quando hai composto Il cantico delle creature tu non hai mai parlato delle pietre. Grazie all’intuizione di un artista e alla tecnologia, ora la pietra vorrebbe che si ascoltasse la sua musica nella tua piazza e nella tua chiesa. Tanti saluti, Pinuccio Sciola”. Molti ironizzavano: San Francesco ti ha risposto? Replicavo: guardate questa piazza piena di pietre, più risposta di questa! Ma la cosa più bella è stata un’altra: ci hanno fatto fare un concerto nella basilica superiore: quella con gli affreschi di Giotto. Alla fine i frati hanno voluto una mia scultura accanto alla tomba di San Francesco. E mi sono ritrovato in compagnia di Giotto e di Simone Martini».
- Reazioni particolari di chi ascolta per la prima volta le pietre che suonano?
«Sì. Un mio amico che non c’è più, il giornalista della Rai Dino Sanna, venne qui con la famiglia e il giorno dopo mi scrisse una lettera. “Carissimo Pinuccio, da quando ho ascoltato i suoni delle tue pietre la mia vita è sconvolta, non posso più guardare una montagna o un nuraghe senza pensare che al suo interno c’è un suono represso”. Noto un grande interesse a livello di musicologia. A Lussemburgo, l’altro anno, ho fatto una mostra e tre compositori hanno utilizzato i suoni delle pietre per le loro composizioni, lì, ai musei. Ma c’è una domanda che mi fanno tutti e che oggi nessuno mi ha fatto: come nascono i suoni».
- Ha già risposto prima.
«Era una risposta tecnica. Sentimentalmente, i suoni nascono nel silenzio della campagna quando cerco le pietre. Quello è il momento più importante. Ricordo un episodio: nelle campagne tra Uras e Mogoro. A una decina di metri da me ho visto una pietra e mi sono bloccato. Sentivo dei suoni, un’emozione incredibile. Mi sono avvicinato, ne vedevo solo una parte. L’ho girata, accarezzandola. Si è instaurato tra noi un bellissimo rapporto d’amore. L’ho portata in segheria. Quando ho finito di lavorarla con l’acqua, l’ho messa ad asciugare e l’ho accarezzata di nuovo per sentire i primi vagiti».
- Ecco una paternità sui generis!
«Sì, molto molto profonda. Qui vengono tante scolaresche. Ne è venuta anche una da Iglesias, seconda elementare. Una bimba mi ha chiesto: come ti sei avvicinato all’arte? L’insegnante l’ha rimproverata dicendo che la domanda era stupida, nessuno si può avvicinare all’astratto. Ma io ho risposto alla bambina».
- Che cosa le ha detto?
«Mi sono avvicinato all’arte come ognuno di noi si avvicina ai suoi genitori, fratelli, sorelle. Anch’io ho due sorelle: con la più piccola ci gioco e le regalo le caramelle: si chiama Pittura. La sorella grande è molto più severa: si chiama Scultura».
- Lei ha fatto mostre dovunque. L’accoglienza è diversa secondo il luogo, o l’animo umano è sempre il solito?
«I commenti sono sempre entusiasti. Il suono delle pietre lascia tutti stupefatti». Il cronista lo ricorda nel nord della Germania, in una “settimana sarda”, ottobre 1988. Amburgo, città fresca: nessuno sorrideva mai prima delle quattro del pomeriggio. C’era anche Maria Carta, bellissima e triste. Vedendo le pietre di Sciola - non ancora sonore - e ascoltando Maria, i tedeschi iniziarono a sorridere fin dal mattino.
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Noi, ospiti nel giardino della musica
L’esperienza della professoressa Manconi nel laboratorio di S. Sperate
SAN SPERATE. La professoressa Giovanna Manconi accompagna i ragazzi stranieri e i suoi alunni al laboratorio all’aperto di Pinuccio Sciola e dice: «Insegno lingua e letteratura tedesca al Deledda di Cagliari. Siamo tornati dall’artista: ogni anno rinnoviamo il gemellaggio tra la nostra scuola e un ginnasio di Sarbrucken, nel Sarland, vicino alla Francia. In questa scuola, tra l’altro, Pinuccio ha fatto una mostra di grande successo».
«I ragazzi imparano a conoscerlo: ormai è quasi una tradizione, torniamo qui e siamo accolti dall’artista che ci fa vedere le sue opere. Gli studenti lo intervistano e cercano di capire l’idea di base della sua concezione artistica. Oltre al giro per il paese-museo e tutti i murales, studiamo la sua opera e ne registriamo l’evoluzione».
Da quanto tempo ritornano qui, gli studenti del Deledda? Giovanna Manconi: «Da cinque anni. Scopriamo sempre qualcosa di nuovo: i ragazzi cambiano, le generazioni si evolvono, le domande sono diverse. Gli interessi diventano sempre più profondi».
Ma non sarà perché pure lui si rinnova? Questa storia delle pietre che suonano è un bell’incantesimo. Suonano anche le foglie sotto la pioggia, le fronde attraversate dal vento o colpite dalla grandine. Però quelli sono suoni già emersi, mentre la pietra era un suono sepolto. O, forse, non è così?
Annuisce, la professoressa di tedesco: «Pinuccio Sciola è riuscito a tirare fuori i suoni. Un’impressione bellissima l’abbiamo avuta l’anno scorso: nel suo giardino delle pietre stavamo seduti all’ombra, i nostri ragazzi facevano merenda, ad un certo punto alcuni di loro si sono allontanati. Tutto a un tratto abbiamo sentito questi suoni bellissimi. Erano gli studenti che giocavano con le pietre. Un concerto».
Ogni pietra è uno strumento musicale diverso? «Ci son pietre che hanno un suono, altre ne hanno uno più cupo», osserva la Manconi.
«Stando seduti lì ci è arrivato un concerto eccezionale. Io sono capitata qui l’anno scorso. C’era un maestro che tentava di riportare, nella chiesetta qui vicino nel paese, il suono della pietra nello spartito. Diceva: c’è bisogno di due spartiti complementari proprio perché la pietra si presta a diverse sonorità. Sappiamo che Sciola ha fatto suonare maestri veri e propri, ad Assisi, e ne è risultata una serie di concerti di alto livello».
Interviene lo scultore: «Se Michelangelo avesse usato una di queste pietre, il suo famosissimo Mosè avrebbe avuto la parola».