26.11.21

Agostino, il poeta-pescatore che ha imparato il mestiere per fuggire da un'infanzia difficile ed altre storie

 


“Il mare, il vento e le reti da pesca sono la mia famiglia. Ringrazio gli anziani che mi hanno aiutato a trovare la libertà” Cavallino Treporti – Ci sono uomini che, nella loro semplicità, capiscono il vero senso della vita e la affrontano ogni giorno a muso duro.


Di Agostino  Cavestro  ammiro la profonda conoscenza del mare, delle correnti, delle maree, del tempo che cambia imperturbabile quando sei in mezzo alle onde e devi affrontare una tempesta. È un uomo che ama il suo lavoro. Un lavoro duro che richiede fatica e che lui riesce a vivere con passione, scrivendo poesie per il suo mare.La sua è una vocazione, è il suo modo personale di dare un senso alla vita. Agostino Cavestro è un poeta-pescatore. 





Lo puoi trovare in un bar di Cavallino Treporti e farti raccontare del suo pescato, oppure lo puoi trovare in laguna, immerso nell’acqua in qualsiasi stagione intento a pescare le vongole. A me ha raccontato della sua vita difficile, costruita a suon di rinunce e sofferenze.
Agostino non conosce la sua famiglia di origine, perché, appena nato, è stato abbandonato sull’isola di Pellestrina. 
 “Sono cresciuto in un orfanotrofio – racconta – con suore e preti. Ero piccolissimo e le violenze continue erano castighi. Scappavo dall’asilo e mi nascondevo sotto la prua delle barche da pesca: è lì che ho cominciato ad amare il mestiere di pescatore”.” Gli anziani pescatori dell’isola, vista la mia grande passione per il mare, mi hanno trasmesso tutte le loro conoscenze. Con tempo, il mare è diventata la mia vera famiglia, la mia vera casa, mi dà lavoro e mi  permette di vivere in libertà”.





 Ha imparato ad ascoltare gli anziani in silenzio, a riparare reti di qualsiasi tipo, a pescare con umiltà e rispetto nei confronti di chi gli insegnava le tecniche. 
“Oggi, la mia famiglia è il mare. Il vento e la salsedine, tutto è famiglia”, dice.E io amo la semplicità con cui si esprime. Oggi Agostino ha più di 60 anni, vive da solo in una casa popolare di Cavallino Treporti, scrive poesie e racconti di mare.
Gli piace  trascorrere i pomeriggi raccontando della sua vita. Io guardo il suo mondo in silenzio, attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica.



 Scattando, le emozioni mi arrivano più forti e mi invitano a fermare il tempo e comunicare le sensazioni di questi momenti unici irripetibili.


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Teresa Soardi, il suo volontariato in America Latina per dipingere volti, paesaggi e popoli
Con la sua arte ha rappresentato la quotidianità e l’anima di tante persone in opere sacre esposte in chiese, case e luoghi di accoglienza

                                     Linda Scuizzato


Montemezzo (Vicenza) – Per arrivare nella contrada di campagna dove vive Teresa Soardi si guida attraverso una vallata bellissima che porta a Montemezzo, in provincia di Vicenza.  La casa della pittrice si trova esattamente di fronte al suo studio, un vecchio fienile ristrutturato con il soffitto alto di legno e una vetrata luminosa perfetta per dipingere. Teresa Soardi è nata a Vicenza 90 anni fa e la intervisto alcuni giorni prima del suo compleanno. 

La sua passione per la pittura è iniziata da ragazzina, ricorda sorridendo: “Ogni pezzo di carta era mio!”. Alla fine della guerra, suo padre ha deciso di farle prendere lezioni nello studio della famosa pittrice Mina Anselmi, per capire se la sua fosse realmente una passione profonda e duratura. Teresa si è entusiasmata e ha continuato a dipingere, diplomandosi in arte a Venezia e tornando poi a Vincenza per insegnare educazione artistica alle scuole medie.

Nel tempo libero ha continuato a dipingere sul cavalletto e a sperimentare diverse tecniche di pittura.  Nel 1967, suo fratello, un frate missionario, è stato mandato in Patagonia, nell’isoletta di Porto Aguirre, nell’arcipelago di “Las Huichas”, e Teresa ha deciso di prendere un anno di aspettativa dalla scuola per andare a fare volontariato e conoscere il Sud America. Dopo il primo anno, ha prolungato la sua permanenza fino al 1969, lasciando qualcosa di sé alle persone del luogo: la sua pittura e i suoi dipinti in cambio dell’esperienza nell’isola

Come primo lavoro, le è stato chiesto di rappresentare la storia sacra della salvezza in una chiesetta di legno. Aiutata dai bambini del paese, ha dipinto lo sfondo di verde, l’unico colore presente nell’isola e quello utilizzato per dipingere le barche. In seguito, il vescovo le ha commissionato un dipinto a Puerto Ayse’n s, sulla terraferma. Nel 1969 Teresa è tornata a insegnare in Italia, ma il segno lasciato dal Sud America, che lei definisce la sua “seconda patria”,  l’ha tenuta legata a quei luoghi, che ha continuato a visitare durante le vacanze estive.In Ecuador, Nicaragua, Perù e Brasile, ha continuato a dipingere, su commissione, opere sacre che oggi sono esposte sulle pareti delle cappelle, in chiese e case delle comunità sudamericane.

Nel 1995 Teresa è tornata in Patagonia, dove le è stato chiesto di dipingere nella cattedrale della capitale un’opera di 10×10, a forma di triangolo, con al centro un Cristo di legno, attaccato alla croce ma con le braccia alzate. E’ stato il lavoro più grande che abbia mai realizzato, assistita da un pittore locale appassionato di cavalli, che, onorato dall’essere stato al suo fianco al termine della collaborazione, le ha regalato il disegno di un cavallo su un pezzo di legno. Spesso i tre mesi di visto turistico non erano abbastanza per terminare le opere e alcuni dipinti venivano terminati l’anno successivo.  

Fra le opere di arte sacra di Teresa Soardi ci sono ritratti di persone reali, incontrate nei luoghi in cui ha vissuto. In uno dei dipinti del Cristo risorto, il volto di Cristo è proprio quello di un abitante del luogo. Teresa ricorda di aver aspettato che non ci fosse nessuno in giro per dipingerlo, ma una bambina del paese, arrivando di corsa per ammirare l’opera, se ne è accorta subito: “E’ uno di noi!,” ha detto, riconoscendo il volto del noto abitante.

“Cerco di adattare la mia pittura al posto in cui mi trovo e alle persone che lo vivono”, spiega la pittrice vicentina.

Per 

Teresa Soardi, la pittura non è solo ricerca artistica ma anche documentazione del sociale, denuncia politica, un modo per dare voce a mondi isolati e realtà poco conosciute, ma ricche di storia, dignità e profondità. Le sue opere sono testimonianza del lavoro nei campi, della resilienza e della forza delle donne con il volto segnato dalle rughe, nei loro occhi puliti e vivi. Donne dignitose alle quali la vita non ha regalato nulla, vittime di ingiustizie che prendono vita sulle tele e sono documento storico di quegli anni.
Nelle opere di Teresa Soardi si riconosce anche un ordine architettonico. “Mi ha sempre affascinata l’architettura e mi viene naturale dipingere seguendo delle linee guida e la prospettiva corretta”, spiega. “Mi sarebbe piaciuto studiare architettura, ma non volevo lavorare nello studio di qualcun altro. Quando ero giovane, una donna architetto faticava a trovare lavoro e quindi la pittura ha preso il sopravvento”. 

Lo studio di Teresa Soardi a Vicenza è un trionfo di tele, ritratti, mondi, colori e stili diversi: vi sono, infatti, sia opere del periodo sudamericano, sia dipinti che ritraggono le località venete e le montagne dell’altopiano dei Sette Comuni. Tra i numerosi dipinti, ne noto uno con gli alberi ammassati sul dorso della montagna dopo la tempesta Vaia il 26 ottobre 2018; un altro con le colline vicentine e i dintorni, e il più recente, che celebra i 500 anni dal giro del mondo del navigatore vicentino Antonio Pigafetta. Un dipinto ancora fermo sul cavalletto perché, in tempo di Covid, non è possibile presentarlo con un evento pubblico. Quando arriva il momento di salutarci, Teresa, mi saluta mostrandomi il ricordo del suo ultimo viaggio in Patagonia, nel 2012.Quando le chiedo in quale paese vorrebbe tornare subito, risponde sorridendo: “Tutti!”. 

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Giovanbattista Fiorese e il sogno di “Kroitzabeg”, l’azienda agricola che parla cimbro
Uva “bacò”, bacche di ginepro e aglio orsino per sfornare pane e dolci secondo la tradizione di famiglia

                          Linda Scuizzato

storiedichi-marostica-kroitzabeg-aziendaagricola-cimbroPer raggiungere la mia meta prendo la strada che da Vicenza sale verso le colline, dopo il paese di Marostica: un panorama di ulivi e vallate si allunga dolcemente verso Lusiana, passando per la frazione di Crosara, che lascio alle mie spalle.

Sulla destra un cartello segnala l’azienda “Kroitzabeg e Le marmellate di Rosi”, entrambe attività gestite da Giovanbattista Fiorese, con la collaborazione della mamma, Rosella Frigo (“Rosi”). Oltrepassando un’antica contrada, e incrociando il cammino di alcuni caprioli fra un tornante e l’altro,  raggiungo la loro casa di famiglia, che domina un panorama mozzafiato sulle colline.

Mi accoglie prima di tutti Amos, uno staffordshire bull terrier nero, che salta sul sedile della mia auto scodinzolando non appena apro la porta. Giovanbattista lo segue, vestito nel suo abito tradizionale cimbro, che indossa generalmente quando partecipa ai mercatini tradizionali e medievali, abbinandolo a un cappello di paglia realizzato con i fastughi del grano vernisso, ossia la lavorazione tipica della paglia di Crosara che ha caratterizzato il territorio sin dalla fine del 1600.

Giovanbattista Fiorese, per tutti “Gioby”, ha 24 anni e, sin da bambino,  coltiva una grande passione per la farina e per gli impasti, dolci e salati. Prima di iscriversi alla scuola alberghiera, innamorato del disegno e la scultura, ha tentato la strada del liceo artistico, ma si è reso conto ben presto che voleva dedicare la sua vita alla cucina, unendo arte e fornelli, ed esprimendo così al meglio la sua creatività.Ha frequentato la scuola alberghiera a Tonezza del Cimone, proseguendo con un’esperienza di tre mesi negli Stati Uniti, al servizio di una pasticceria francese. Ha lavorato, inoltre, in una panetteria di Asiago e successivamente, per quattro anni, in una pasticceria a Conco.

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La sua attuale azienda agricola “Kroitzabeg”, che significa “Crosara” in cimbro, è nata un anno fa, verso la fine del 2020, proprio nella casa dove Giovanbattista è cresciuto con la sua famiglia. Con la mamma, la sorella e il padre, scomparso qualche anno fa.“Il legame con la nostra terra e con gli insegnamenti di mio padre è molto forte, così come lo sono le tradizioni del mio paese di nascita, Roana, dove la cultura cimbra è ancora molto sentita, racconta. “Ho deciso di valorizzarla e farla conoscere attraverso la mia attività”.

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La frazione vicentina di Crosara, che anticamente faceva parte della Federazione dei Sette Comuni, è diventata comune autonomo per la tradizionale lavorazione della paglia e, nel 1938, è stata inglobata nel comune di Marostica.
Giovanbattista Fiorese lavora in un laboratorio annesso alla storica casa di famiglia. È una bellissima casa con panorama mozzafiato sui colli di Marostica, circondata da 6,5 ettari di terreno tra orti, frutteti, piantagioni e boschi di castagni. Il laboratorio, che inizialmente era dedicato alla sola produzione di marmellate della madre Rosy, è stato ingrandito e attrezzato ulteriormente per poter produrre pane e dolci. Tutte le erbe e i frutti utilizzati nelle sue ricette provengono dai suoi terreni, alcune, come le ortiche, vengono raccolte nei boschi circostanti.
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storiedichi-marostica-kroitzabeg-aziendaagricola-cimbroQuello che rende unico il sapore delle sue creazioni sono gli ingredienti: per la produzione di pane e dolci utilizza farine antiche biologiche di sua produzione, a basso contenuto di glutine, per ricette particolari attinge a farine di grani antichi di un mulino di sua fiducia.

L’acqua arriva invece da un’antica fonte di una contrada vicina, a cui si accede attraverso il bosco in cinque minuti di passeggiata. Le diverse erbe e gli ingredienti aggiunti al pane e ai dolci vengono prodotti con metodi naturali nel suo terreno in base al susseguirsi delle stagioni. A breve, per esempio, verrà sfornato il pane alla castagne, un inno all’autunno.

Ho la fortuna di assistere alla preparazione e alla cottura del pane con le bacche di ginepro, l’aglio “orsino” – così chiamato perché è il primo pasto dell’orso quando esce dal letargo – le ortiche, famose per le loro caratteristiche curative, e l’uva bacò. Quest’ultima, dal 2019, è entrata a far parte del patrimonio Slow Food, l’associazione che si impegna per la difesa della biodiversità e dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare, battendosi contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura di massa e  le manipolazioni genetiche.“Quando, nel 2002, siamo venuti ad abitare a Crosara, un contadino, conoscente di mio padre, ha piantato alcuni butti recuperati da piante madri antiche di uva bacò  nel terreno di famiglia”, racconta Giovanbattista Fiorese. Con la pazienza, la costanza del lavoro e l’amore per la terra, prima del padre e poi di Giovanbattista stesso, l’uva è cresciuta e, da una sola pianta, ne sono nate altre cinquanta, che si trovano sulla parte più alta del terreno in pendenza, una si scorge sotto uno dei ciliegi centenari. “Lavorare la terra è dura, ma farlo, dà anche grande soddisfazione”, mi racconta “Gioby”. I prodotti dell’azienda agricola “Kroitzabeg” si possono trovare in sede a Crosara, al panificio di Roana “Vacca strada”, ad Asiago da “Annette”, a Bassano alla “Quinta essenza” oltre che ai mercatini – tra i più famosi “Made in Malga”, “Formaggi in Villa”, “Pomopero” ed eventi eno-gastronomici legati al territorio.Mentre intervisto e fotografo, il profumo di pane invade il laboratorio, e ho la fortuna di assaggiare il pane di uva bacò appena sfornato, di colore rosato per il mosto, e con il disegno della foglia di vite.

Prima di andare non posso non scattare due ritratti a Amos, seduto composto esattamente sotto il tavolo con le pagnotte appena sfornate, in attesa di qualche briciola.Una frase mi è rimasta impressa delle parole di Giovanbattista: Prima di andare devi scoprire le tue radici, prima di andare via devi sapere da dove vieni. Sono certa che le sue creazioni culinarie andranno lontano, ad addolcire i palati di molti buongustai.

La curiosità

Lo stemma dell’azienda agricola “Kroitzabeg” include l’albero ritratto nei letti in ferro battuto (per rappresentare la famiglia), il braccio di un cavaliere che afferra un’ascia (per rappresentare il lavoro), e la pianta di canapa (una pianta forte e curativa). A sinistra, invece, ci sono tre castagne, che nella simbologia Araldica rappresentano valori nascosti.

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all'estero ci vedono anche senza stereotipi Dall'archivio del British Pathè immagini bellissime da Oliena, Castelsardo, Sedini e Dorgali (1963)


il  video   sotto riportato   è un  estratto  di questo  




amore a prima vista tra uomo ed animale ., La gentilezza questa virtù semi conosciuta .,

Storie degli Altri - Carmelo Abbate 

Lui è Anco.
È un turista olandese in visita nel Lazio.
È ottobre. Anco sta affrontando la salita dei Monti Lepini.
D’improvviso si trova di fronte a un branco di cani randagi. Non sono ostili, si lasciano
accarezzare, scodinzolano felici. A un certo punto i cani fiutano qualcosa e se ne vanno.
Anco si gira, fa per riprende il suo cammino quando si vede spuntare un toro. Corre a corna spiegate nella sua direzione.
Anco fugge, urla.
Nella concitazione si volta, pensa di avere il toro attaccato alla schiena, invece assiste a una scena che non avrebbe mai potuto sognare.
Un branco di cani sta attaccando il toro, e alla fine lo costringe alla fuga. Sono proprio loro, quelli di prima. Anco li ringrazia con mille carezze. Poi riprende il cammino, scortato da tre dei sui fedeli soccorritori.
Proseguono insieme per ore, finché un enorme mastino da guardia gli sbarra la strada.
I suoi amici a quattro zampe levano le tende. Non tutti. Una resta al suo fianco, e insieme superano l’ostacolo.



Anco la guarda negli occhi.
Amica mia, mi hai salvato, non una, ma due volte, sei una compagna fedele.
Da quel momento la chiama Roma, e non si lasciano più.



La farfalla della gentilezza

“La gentilezza è una virtù che possediamo tutti noi. Se lo vogliamo”.
Orion Jean ha le idee chiarissime, anche se è solo un ragazzino. Talmente chiare che il suo discorso sulla gentilezza gli ha fatto vincere a 10 anni una gara nazionale in Texas nel 2020.
Il premio era di 500 dollari, ma lui non li ha tenuti per sé: li ha donati a un ospedale pediatrico di Dallas.
Ma quello era solo l’inizio di un grande progetto per diffondere concretamente gentilezza.
Ha organizzato una grande raccolta di giocattoli per provare a restituire il sorriso ai bambini in difficoltà. Poi una raccolta di cibo per le persone bisognose.
E poi quest’anno ha deciso di lanciarsi in un progetto ancora più ambizioso. Orion ama leggere, ma sa di essere privilegiato: due bambini su tre che vivono in povertà non possiedono nemmeno un libro. E se un bambino non ha libri a casa, è statisticamente più probabile che terminerà gli studi precocemente.
Per questi motivi Orion vuole condividere il suo amore per la lettura con migliaia di altri bambini, per dar loro il potere della lettura e superare lo l’odioso stereotipo per cui i bambini neri leggono di meno dei bambini bianchi.
Ma non ne vuole pochi: lui vuole raggiungere la cifra di 500.000 libri da donare.
Impossibile?
Niente è impossibile per chi è determinato a seguire i suoi sogni.
E se un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso, Orion è sicuramente un vincitore: con l’aiuto di sua mamma ha realizzato un sito web, e finora ha raccolto e distribuito centinaia di migliaia di libri, ma siccome gentilezza genera gentilezza, l’impresa di Orion non è passata inosservata, e i donatori aumentano sempre di più: è di poche settimane fa la notizia che la cantante Kate Perry ha contribuito alla “gara di gentilezza” di Orion con un assegno di 10.000 dollari per l’acquisto di libri.
Libri che poi Orion distribuisce in “fiere del libro”, dove bambini (ma anche adulti) possono liberamente prendere i libri che preferiscono. E poi scambiarli.
“La gentilezza è una virtù che possediamo tutti noi. Se lo vogliamo. Allora perché non cominciare oggi. Perché proprio ora, ne abbiamo veramente bisogno”.

La post@ dei lettori [ il covid ed la peste , muro contro muro , ed altre storie ]

  visto  che  spesso rispondo  alle  vostre  email  , ho deciso  di  farne     una  rubrica  settimanale     intitolata  appunto La post@ dei lettori    che   vedrà scomparire  (  questa  del post   sarà l'ultima 😢😉 )  la  consueta premessa   o spiegone    introduttivo alla  corrispondenza    . 

 lo  so  che  chi  si loda  s'imbroda  ma  ogni tanto   è  salutare  togliersi qualche    sassolino prima  che  diventino macigni  dale  scarpe e  chiarire     che   non sono  cerchiobottista ma  al limite troppo ingenuo  e  fautore  di  un assoluta  libertà    oltre  che  provocatore    e   creatore  di polemiche   .Dopo  il mio post  oltre     che  le  consuete lettere  di no  green  pass    e  no  vax    ( non  ne  pubblico  non per  censura   ma  perchè   sono :  solo  insulti  ,   dischi rotte  di teorie   smentite    da  nuovi studi )    ho ricevuto  anche  lettere  interessanti  

  Adesso  veniamo     alle  vostre  lettere  


Caro Giuseppe 
 visto  che  tu  citi   più volte  espressioni   Manzoniane    ti faccio   notare  (  anche  se   essendo laureato in lettere   e  figlio  di  prof   d'italiano   )    che  la lettura de I promessi sposi ci permette di notare alcune analogie tra gli avvenimenti odierni da Covid e quelli narrati da Alessandro Manzoni sull’epidemia di peste del 1629-30 a Milano. Il Green pass di quattro secoli fa era il certificato necessario per passare da una città all’altra, e si chiamava “Bulletta di sanità”. Allora non esistevano i no vax, ma c’erano già i loro precursori: «Chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse la peste,
veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo». E i no vax in terapia intensiva? Il loro modello è don Ferrante: «All’inizio della terapia don Ferrante è stato tra i più decisi a negare il contagio della malattia, argomentando la sua opinione con dotte disquisuzioni filosofiche.  Non prese nessuna precauzione; gli s’attaccò; andò a letto a morire come un eroe di Metastasio, prendendosela con gli astri». Allora si poteva evitare di assistere allo spettacolo dei contrasti televisivi tra i virologi, ma potremmo individuare chi oggi li contesta leggendo cos’è successo a Milano al protofisico Lodovico Settala: «Eppure quella grandissima fama che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinione di quello che i poeti chiamano volgo profano e i capocomici rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall’animosità e dagli insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da giudizi alle dimostrazioni e ai fatti. Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando essere lui il capo di coloro che volevan per forza che ci fosse peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo...». Il resto nel XXXI capitolo.

               Luigi 


Caro  Luigi la  ringrazio  per  avermi rinfrescato   la  memoria   dei vecchi studi letterari . E  di  tener  vivo  la passione    per  i  classici   della  nostra   letteratura  ,  quella  che   oggi  viene  definita  anticaglie  e  jurassica  dala maggior  parte  delle  nuove  generazioni  .


Caro direttore,
perché in tv ospitano personaggi come Gianluigi Paragone, che argomenta come un bambino di 8 anni? Mentre sparava un po’ di scemenze mi è arrivato un messaggio sullo stato di salute di una mamma e una figlia disabile (la figlia in terapia intensiva) non vaccinate. La mamma ha dei grandissimi sensi di colpa. Il signor Paragone e quelli che come lui snocciolano numeri a loro piacimento forse dovrebbero sbattere il muso in situazioni come quella che ho citato. Il suo editoriale è assolutamente condivisibile: sembra di parlare con nessuno!

                             Luisella


Cara Luisella, Va  bene   che  sono il proprietario  del   blog    e     il suo  fondatore    ma  non  mi  chiami  direttore   .  Dopo  questa  premessa   le  dico  la domanda  non dovrebbe  rivolgerla   a me   , ma  ai presidenti   delle  televisioni . Io posso  , dire  da  semplice  fruitore  ( anche  se  scarso  , perchè mi  limito  solo  a    fiction  su rai  replay  visto  che   ormai     quello  che  era  servizxio pubblico  s'è  omologato  alle  tv  commerciali   con la massiccia  pubblicità che  rende  inguardabili  o   visibili a metà  i  film o  altri programmi  )      che per  fare  audiens  . Per  il resto  dico    che  è come parlare col muro!. A questo proposito, legga la prossima mail.



Caro Giuseppe 
 la tua lunga tirata contro i no vax potrebbe benissimo adattarsi a tutti quelli che come lei non potranno mai convincersi di avere sbagliato tutto. Leggo il  tuo blog   solo  vedere fino a che punto possono giungere il conformismo e l’allineamento al potere  e  vedere  come  ti  smentisci  visto   che    usi spesso    come  slogan  \  motto  padroni di  niente  servi di nessuno  .
Marcella


Spett. Marcella, intanto le sono grato che continua  a   seguirmi  anzi  seguirci   in quanto  ,  come  certament e saprai  ,  il blog ma  soprattutto l'appendice     social   la  più  usata      è multi  autore    e  di  opinioni  diverse  spesso contrastanti   .   Ma voglio rassicurarla: l’unico “potere” a cui sono allineato è quello del buon senso e di  rimettere indiscussione  le proprie  convinzioni  .



 i telespettatori sono stanchi di andare a letto a mezzanotte per guardare la prima serata. La prima serata dovrebbe iniziare subito dopo il Tg delle 20  come  era  un  tempo che iniziava massimo  alle 20.35\20.45 po spostato alle  21    e  alle  21.30\40 Un adulto va a lavorare, il giorno dopo, o le tv pensano che siamo tutti disoccupati?

             Giovanni

Come  ho  già  detto   più  volte  nel  blog  e   sull'appendice  sociale  del  blog  basterebbe   che  : 1)    facessero    domanda   di   escludre il  canonme  dala boletta  della  luce  2) innondassero di email  o  classiche  lettere   i  vertici  di raimediaset   spiegando  la situazione  e minacciando    di  non giuardare  tali programmi   3)  facciao  ricorso  alla  visione  online  , tanto ormai  un pc   o   tablet  ,  c'è   in ogni casa   visto  che  in italia  siamo   quelli  che  abbiamommil maggior  umero  di apparecchi internet   soprattutto  cellulari  . Lo so  che   le  sembreranno   soluzioni ideologiche    del  secolo scorso   , ma  io  non ne  vedo altre  .  Se lei   ne  ha  di migliori  me lo  faccia  sapere  ,  sarei  ,  come  credo  anche   gli altri lettori ,    curioso    di conoscerle 




25.11.21

un vero artista sa trasformare quella che avrebbe potuto essere una potenziale «catastrofe» in un momento piacevole. il caso del violinista Ray Chen



Nato a Taiwan e cresciuto in Australia, Ray Chen

è uno dei migliori violinisti al mondo. Noto per la sua passione e l’energia che ci mette durante le esibizioni, il 32enne ha trasformato quella che avrebbe potuto essere una potenziale «catastrofe» in un momento piacevole.


 Mentre sul palco della Benaroya Hall eseguiva il suo assolo del Concerto per violino di Tchaikovsky insieme alla Seattle Symphony, una delle corde del suo violino - uno Stradivari Joachim del 1715 - si è improvvisamente spezzata. Chen, tuttavia, non si è fermato; ha dato una rapida occhiata al direttore Ludovic Morlot e poi, senza battere ciglio, ha scambiato il suo strumento con un violinista dell’orchestra.

La questora Alessandra Simone, ideatrice del Protocollo Zeus: "Li rieduchiamo dopo il primo schiaffo e nove su dieci non picchiano più"

Per combattere la piaga aberrante e vergognosa del femminicidio \ violenza del genere oltre a : leggi a 
hoc   che  poi  finisco  per  diventare   come  le    famose    grida  manzoniane  , le  pulisci coscienza    delle panchine ed scarpe rosa , ecc  si può e si deve mettere in sicurezza le donne vittime di violenza, aiutarle a denunciare e offrire loro un sostegno dopo la denuncia oppure meglio ai primi  sintomi   di violenza verbale
  
Luca (nome di fantasia), 41 anni, è uno dei settanta uomini violenti che dal 2011 a oggi hanno varcato la soglia del centro per uomini maltrattanti di #Forlì. A fine 2017, in Emilia-Romagna, erano 196 gli uomini ad aver chiesto aiuto a uno dei dieci centri in Emilia-Romagna. Numeri molto bassi a fronte della montagna di casi di #violenza: ogni tre giorni una donna muore per mano di un uomo. Perché, allora, gli sportelli di ascolto per uomini stentano a riempirsi? Il grande scoglio restano le resistenze culturali, e un "sistema, il nostro, permeato dal machismo“.

Ma se non lavoriamo anche sull'uomo maltrattante avremo salvato solo "quella" donna, e lui potrà cercare altre vittime". Infatti considerare gli uomini solo antagonisti e carnefici non serve a nessuno, neanche alle donne stesse .
Rieducare, ovviamente   senza sminuire la gravità di quanto fatto ma facendola comprendere, è una strada"  .
Una  cosa  simile è stata  proposta  da  Alessandra Simone (  foto sotto a sinistra ) è stata nominata a maggio dirigente superiore della polizia di Stato, questore anzi no questora altrimenti la Boldrini e i fans del politicamente corretto s'arrabbiano 🤣😜 , l'ultimo incarico precedente era quello di dirigente dell'Anticrimine di Milano.
Dove, anni fa, si occupava già di reati sessuali e contro i minori. E dove ha messo a punto il protocollo Zeus, partito proprio da Milano nel 2018 e ora operativo in trenta città italiane.
Eco cosa ha dichiarato la  stessa  Alessandra Simone a Repubblica d'oggi

Perché pensare agli uomini? Sono le donne le vittime della violenza.
"E questo non lo dimentica mai nessuno, anzi: è proprio per proteggere e aiutare le donne che abbiamo studiato e continuiamo ogni giorno a lavorare sul Protocollo Zeus. Considerare gli uomini solo antagonisti e carnefici non serve a nessuno, neanche alle donne. Rieducare, senza sminuire la gravità di quanto fatto ma facendola comprendere, è una strada".
Ci spiega in cosa consiste questo protocollo?
"Per la prima volta la prevenzione rivolge la sua attenzione all'uomo maltrattante e allo stalker, grazie all'osservazione sul campo, e per questo è importante il primo intervento. Davanti a una condotta che potrebbe sfociare in violenza ma non è ancora un reato il questore emette un ammonimento per stalking o per violenza domestica, convochiamo l'uomo intimandogli di interrompere ogni forma di aggressione anche verbale invitandolo però a seguire un percorso di recupero trattamentale (non terapeutico) in un Cipm, un centro specializzato nel contrasto alla violenza e per i conflitti interpersonali".
E lo fanno davvero?
"Dal 2018 a Milano e provincia abbiamo ammonito e invitato a seguire il percorso oltre 300 uomini violenti, il 90 per cento di loro non ha più manifestato forme di violenza e ha capito il disvalore delle sue azioni e le mogli, ex mogli, compagne hanno riacquistato serenità, e lo sappiamo perché facciamo incontri e controlli periodici. Una recidiva bassissima si può ottenere, però, soltanto se interagiscono almeno due fattori: l'agire in tempo, quando la violenza non si è ancora manifestata pienamente, e fare rete".



L'illustrazione del calendario della polizia del mese di novembre dedicato al contrasto alla violenza sulle donne


Qual è la situazione tipo in cui utilizzate il protocollo?
"La volante - o i carabinieri, la polizia locale: tutti dobbiamo essere preparati - viene chiamata perché c'è una lite in casa, ascoltando la coppia si capisce che c'è stata agitazione, uno schiaffo, ma non ci sono denunce precedenti. Se non c'è una dinamica di maltrattamenti in famiglia l'uomo può essere denunciato solo se è la donna a sporgere querela, ma nella relazione l'agente farà presente la situazione e il questore potrà far partire l'ammonimento. A quello schiaffo potrebbe seguire una pedata, le mani al collo: intervenire quando tutto è ancora recuperabile, questo cerchiamo di fare".
Come reagiscono le donne? Uno dei problemi è ancora, purtroppo, la difficoltà a denunciare?
"Si sentono aiutate, capite. Vogliono essere aiutate, ma vogliono anche salvare i loro compagni. Tante di loro si vergognano a denunciare. Una cosa in tutti questi anni ho capito, ed è fondamentale: le donne vittime di violenza non vogliono compassione ma comprensione, altrimenti alzano un muro e non è più possibile aiutarle".
 Il 7 dicembre Milano, la città in cui ha lavorato per vent'anni, le tributerà l'Ambrogino d'oro per il suo impegno a difesa delle donne e dei soggetti deboli. A chi dedica questo riconoscimento?
"A Roberta Priore, uccisa a Milano nel 2019 dal suo compagno, che si è poi suicidato in carcere. Quattro giorni prima le volanti erano entrate per la prima volta a casa, due giorni dopo c'era stato un altro allarme e avevamo preparato l'ammonimento. Quando abbiamo telefonato per comunicarlo, Roberta Priore era appena stata uccisa. Fa male, certo, ma ai miei ragazzi ho detto che la strada era quella giusta, che noi c'eravamo. Ecco perché dobbiamo arrivare ancora prima".


Alcune  di voi diranno che sta  sclerando   .  Invece purtroppo   è  necessario     ed  è  da  qui   oltre  che    con  l'introduzione  o  rafforzamento     nelle  scuole  , negli oratori  ,  centri  d'aggregazione  ,  dopo  scuola ,     con  l'educazione sentimentale  . Ovvero  ad  insegnare  alle donne    ad  non essere preda  o   a  gli uomini a non essere  cacciatori  .  

  da  01/02/2020
Curare il maschile per combattere il femminicidio – Di G. Maiolo, psicoanalista


I maschi devono riconoscere a livello individuale e collettivo quella dimensione profonda di violenza che appartiene al loro essere maschile
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La barbarie del femminicidio sembra inarrestabile, soprattutto se stiamo alle cronache che ci segnalano delitti e tragedie che sembrano uscire dal Medioevo.
I fatti terribili degli ultimi giorni sono la dimostrazione spaventosa che perdura ancora quella piaga sociale che chiamiamo violenza di genere e domestica e che trova l’espressione massima nel femminicidio.
I dati ufficiali dell’Istat relativi al 2018 ci consegnano la fotografia inaccettabile di un paese ancora incapace di contenere il proliferare degli abusi, delle prepotenze e delle violenze dei maschi sulle donne.
Essi segnalano tragicamente che il femminicidio nell’85% delle volte avviene in famiglia per mano di un uomo che spesso è marito o compagno della vittima.
E non è mai per via di un raptus improvviso di quel maschio o del suo stato di stress che compromette la capacità di autocontrollo.
L’assassinio di una donna è sempre il culmine tragico e intenzionale di una violenza che pre-esiste nel rapporto di coppia.
È l’azione mortifera di un persistente accanimento morboso sul femminile che in ogni caso accompagna quella relazione disturbata, costituta per lungo tempo da abuso fisico e psicologico, stalking e persecuzione.
Diviene, allora, assolutamente necessario e urgente tentare il possibile per sospendere questa impressionante «mattanza» e cercare una cura preventiva di quel maschile realmente disturbato che è possibile trovare dentro le esistenze «corazzate» di quei maschi incapaci di contenere e gestire i sentimenti perversi del male.
Sappiamo da tempo che urge rivedere il progetto educativo dei figli e soprattutto dei giovani maschi, i quali in questo momento di assoluta «liquidità» di valori e carenza di esempi educativi, stanno crescendo fragili e incapaci di gestire emozioni e relazioni, privi di competenza empatica e attenzione ai vissuti degli altri.
Perché, e anche questo è risaputo, conta molto la carenza o la mancanza di empatia nelle tragedie più turpi e nei crimini più efferati.
Allo stesso tempo però, dovremmo pensare, e con non poca inquietudine, alla dimensione personale e forse strutturale del maschile che contiene un denso e stratificato grumo di violenza, nascosto nel tessuto profondo della psiche, certamente difficile da scovare, ma la cui pulsionalità distruttiva ogni uomo è chiamato a rintracciare.
Non si tratta di giustificare l’oscuro Mr. Hyde che alberga nell’ombra della coscienza.
È piuttosto il punto da cui i maschi possono e devono partire per sviluppare la forza di integrare gli opposti e imparare a gestire quel flusso di energie negative che abitano le parti inconsce e sfuggenti di ognuno di noi.
Perché, a vedere questa ecatombe di donne uccise con tanta malvagità dai maschi, può non bastare più la difesa comune degli uomini che sono realmente rispettosi delle donne.
Credo sia necessario invece che i maschi, a livello individuale e collettivo, lavorino intensamente per il riconoscimento di quella dimensione profonda di violenza che appartiene al loro maschile la quale, se è vero che non contagia ogni maschio, continua però a impedire l’adeguato contenimento di un «morbo» spaventoso quanto devastante.

Giuseppe Maiolo
Psicoanalista - Università di Trento
www.officina-benessere.it

24.11.21

il femminicdio non è solo omicidio . Violenza sulle donne, vi racconto il disagio degli uomini., Violenza sulle donne / Alma, violentata due volte. Ma il suo processo entrò nella storia sociale ed cultiurale ( anche se ancora c'è ancora mlto da fare ) ed altre storie

 Anziché farvi il solito  pippone   sul femminicidio , credo che siano sufficienti   questi  post    ( I  II  III ) voglio riportare  quattro    anzi tre  ( per  chi volesse  approfondire  oltre  ai collegamenti   del  blog
 trova  soprattutto la seconda  rimando  alla  sitografia  a   fine post  ) ,  visto che
una l'ho  già raccontata   precedentemente in questo post  qui    . La prima  riguarda anche  noi  uomini  e  le nostre paure    ed la nostra lotta ( quando riusciamo ad  affrontarla )  contro il maschio alfa  .

da repubblica  non ricordo la data 


                       "Violenza sulle donne, vi racconto il disagio                                          degli uomini"

                                    di Stefano Cristante



Gli interrogativi e i sentimenti, a cominciare dalla vergona. Stefano Cristante, docente dell'università del Salento e membro di un'équipe di ricerca sui femminicidi: "Forse bisognerebbe cominciare a pensare alla violenza contro le donne in termini di tabù, come azione tra quelle proibite dalla mente stessa"
Tanti anni fa, mentre frequentavo il liceo, durante un'autogestione studentesca un ragazzo di sinistra ebbe un battibecco con una ragazza del collettivo femminista della mia scuola. Gli uscirono parole stonate e offensive, e lei fece girare un volantino sull'accaduto che mi parve esagerato. Glielo dissi. Lei replicò con una specie di apologo fatto di sole domande, che ricordo ancora: "Secondo te se un maschio violenta una femmina si tratta di violenza?" "Ovvio" - risposi. "E se le mette le mani addosso è violenza?" "Sì". "E se le dà della puttana?" "Sì". "E se le rivolge un complimento pesante?" Anche". "E se fa allusione alle sue caratteristiche fisiche?" Capii dove voleva arrivare. Risposi, alla fine, che messa così lei aveva ragione: ci sono molte azioni violente - verbali e non verbali - che gli uomini compiono verso le donne, forse senza rendersi conto di ciò che stanno facendo. E replicai che mi sembrava però comunque esagerato mettere quel nostro compagno alla berlina nel modo che lei aveva scelto. Ma il mio disagio di fronte alle argomentazioni della mia coetanea era evidente.
Passati vari decenni da quel momento, mi è capitato di far parte di un'equipe di ricerca allargata a quattro sedi universitarie (si chiamano Prin, Progetti di rilevante interesse nazionale) che, alla fine dello scorso anno, ha portato alla pubblicazione del volume L'amore non uccide. Femminicidio e discorso pubblico: cronaca, tribunali, politiche (a cura di Pina Lalli, il Mulino). Per tutta la durata della ricerca, in cui la mia unità locale (Università del Salento) si è occupata di come la stampa locale rappresenta i femminicidi, ho provato una sensazione di disagio in qualche modo apparentata con quella provata tanti anni prima. Perché?
Me lo sono chiesto più volte. Innanzitutto per il fatto che la nostra ricerca - come tante altre, d'altronde - ha evidenziato che il "mio" genere è protagonista a senso unico di atti di violenza su cui la gradazione della mia antica compagna di scuola femminista non ha nemmeno bisogno di essere squadernata, e su cui il termine "femminicidio" non è sbagliato né esagerato, perché avviene in grande numero da parte di maschi che esercitano violenza e femmine che sono costrette a subirla. Si tratta di botte, di pugni, di coltellate, quasi sempre preceduti o accompagnati da una sequela di minacce, di stalking, di sfuriate, spesso messe in atto davanti a eventuali figli. E questo non può non creare malessere nei maschi che cercano di non vivere in questo modo i propri rapporti sentimentali.
Lo stato emotivo che prevale è la vergogna. Scaricare sui disadattati (e criminali) che si abbandonano a questi comportamenti non implica d'altronde una piena distanza, perché il brivido che attraversa il cervello di un maschio medio è in realtà generato anche dai ricordi più bui delle proprie relazioni. Certamente ci saranno maschi di una correttezza assoluta nei rapporti sentimentali, ma in tantissimi siamo arrivati vicini a forme detestabili, a fronteggiare nostra moglie o la nostra fidanzata o la nostra partner come in una rissa tra bulli adolescenti, mettendo in scena una maggiore potenza fisica, riverberata da toni di voce che sono il prolungamento di quella stessa (fortunatamente sempre più eventuale) superiorità fisica. Di fronte al "poteva capitare anche a me?" il maschio mediamente sensibile e consapevole giura in cuore proprio di saper distinguere tra un conflitto relazionale - per quanto aspro - e la violenza fisica e psichica. Forse occorrerebbe cominciare a pensare alla violenza contro le donne in termini di tabù, cioè di inserire tra le azioni proibite dalla mente stessa (individuale e collettiva) questo tipo di comportamenti estremi.
Infine, c'è un altro tipo di sentimento che attraversa con dolore la mente maschile, ed è il riconoscimento dell'imperdonabile abbandonarsi di molti uomini all'idea di poter tormentare una donna per il fatto di essere stati lasciati. Come se certi cervelli maschili non potessero accettare la verità - dura ma inscalfibile - che i rapporti d'amore sono legami che possono essere sciolti in qualsiasi momento anche solo da uno dei due partner, e senza dover fornire - nella sostanza - altre spiegazioni che non siano la fine dell'amore provato, o il malessere che la relazione produce. Non lo so che cosa accada nella mente di un maschio che non è in grado di rassegnarsi alla fine di un amore voluta dall'altra parte, ma gli effetti travalicano ogni proporzione. Con quale coraggio psicologico si mettono in atto comportamenti deliberatamente puntati a distruggere la vita di una persona che si pensa (spesso senza alcuna chiarezza) di amare? Con quale obiettivo, se non lo scatenarsi di una violenza così spaventosa da non risparmiare nella stragrande maggioranza dei casi nemmeno il carnefice? Cosa significa tutto questo nell'antropologia e nella sociologia del genere umano nel XXI secolo? Non è forse venuto il momento che i maschi parlino di tutto questo e si assumano le proprie responsabilità di genere psicologicamente debole e impreparato al cambio mentale di cui c'è bisogno per accettare che i Sapiens si declinano in due e più generi che esigono parità ed eguaglianza?
Un'ultima osservazione: ma com'è possibile che la sicurezza di una donna che denuncia le violenze di cui è vittima sia ancora oggi così labile da consentire al persecutore di andare fino a fondo alla propria ossessione criminale? Qui il deficit non è più solo di un genere, ma delle istituzioni. Cioè di apparati che dovrebbero tutelare tutti e tutte, e che non possono permettersi disattenzioni che hanno il sapore di un fallimento civico universale.

La seconda  
è  del primo processo   a porte  aperte  per  stupro  in Italia (1976)  a cui seguirà un altro caso  simile  rappresentato  dal documentario <<  Processo per stupro è un film del 1979 realizzato da sei giovani programmiste, filmaker e registe: Loredana Rotondo, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini. Fu il primo documentario su un processo per stupro mandato in onda dalla RAI. Ebbe una vastissima eco nell'opinione pubblica relativamente al dibattito sulla legge contro la violenza sessuale.   continua  ... https://it.wikipedia.org/wiki/Processo_per_stupro >>

 repubblica   23 Novembre 2021
Vittime non credute e procedure lente. Tutte le falle nelle leggi a difesa delle donne
                                di Viola Giannoli

            

Grazie alla ricerca inedita di Nadia Filippini, che diventerà presto un libro di Viella, quello celebrato a Verona nell'ottobre del 1976 riacquista il suo carattere di novità assoluta nell'ambito dei processi per violenza sessuale. Fu il primo dibattimento pubblico al quale parteciparono le donne al fianco della vittima. E il primo ripreso dalle telecamere della Rai e dai taccuini dei cronisti che lo trasformarono in un caso politico. Sarebbero passati ancora due anni prima di assistere a Latina al secondo processo per stupro aperto alla platea femminile, un evento diventato assai più famoso per il fortunato documentario realizzato da sei giovani registe e per la celebre arringa di Tina Lagostena Bassi.
L'avvocatessa delle donne era presente anche nell'aula di Verona, dove aveva portato l'esperienza maturata l'anno prima al processo del Circeo, segnato dalle domande assurde rivolte a Donatella Colasanti,  viva per miracolo. Essere stuprate, alla metà degli anni Settanta, era ancora una colpa, non una violenza subita. E per questo molto spesso taciuta. Alma, nome di fantasia, scelse di non tacere. Tornava a casa insieme al fidanzato, un giorno di giugno del 1976, quando due ragazzi la violentarono su un sentiero della campagna veneta, a pochi chilometri dal paese. Si ritrovò a terra, stordita e umiliata; vicino il suo amore pestato a sangue.
Alma ha 16 anni. E' una ragazza semplice, anche un po' timida, figlia d'una famiglia della microborghesia rurale. Si sente sprofondare in una sorta di paralisi, il "senso di colpa" comune a tante donne nella sua condizione. Ma dentro di sé avverte l'urgenza della denuncia. Con la firma del padre, resa necessaria dalla minore età, sporge querela contro gli stupratori. E, incoraggiata dal movimento delle donne, chiede che il processo si svolga a porte aperte. "Un gesto dal profondo significato politico e simbolico", commenta la storica Nadia Filippini. "Per la prima volta le donne misero sotto accusa la legge che faceva rientrare la violenza carnale non nei delitti contro la persona ma contro la moralità pubblica e il buon costume. E per la prima volta misero sotto accusa la  doppia violenza, quella degli stupratori e quella esercitata dalle istituzioni conniventi".
A questo punto bisogna dare la parola ad Alma, che nell'ottobre dello stesso anno, in coincidenza con il processo divenuto mediatico,  decise di rilasciare la sua prima intervista a Repubblica, quotidiano molto sensibile al movimento delle donne.  Come è stato l'interrogatorio di polizia? "Mi accorgevo che le mie parole non venivano credute. Il maresciallo mi rimproverava la mia incapacità di azione e faceva delle assurde ipotesi chiedendomi se non era stata una mia scappatella. Oppure se io avessi organizzato il tutto per giustificare una mia probabile gravidanza. Mi chiesero come mai non avessi agito nemmeno durante il coito; mi dissero che se una donna non vuole che avvenga il rapporto sessuale, per costringerla bisognerebbe legarla, insinuando che in fondo avessi voluto io il rapporto. Mi chiesero anche se ero vergine".

Che domande le sono state fatte in aula a porte chiuse? "Il Pubblico Ministero mi ha chiesto se sono stata spogliata con la forza o se mi sono spogliata da sola; qual era la posizione delle mie gambe e come mai erano aperte  e piegate. E ancora: abbracciavo gli imputati durante il coito? Ho smesso di fare resistenza a un certo punto? Ho avuto precedenti rapporti sessuali?". Domande vergognose che fissano un canone destinato a resistere per svariati decenni, i cui echi ancora oggi risuonano incredibilmente nelle aule di giustizia. Come persistente appare "il senso di colpa" nominato da Alma, una "tremenda paura, una insicurezza che mi impedì di agire contro la violenza che subivo. Questa mia debolezza interna mi impressionò molto". Alma è un'adolescente che parla con la maturità di un'adulta, aiutata probabilmente dalle femministe di Verona che non l'hanno lasciata sola. E che non si arrendono alla decisione del giudice di allontanarle dall'aula al momento dell'interrogatorio della vittima.
Fu il primo processo a porte aperte grazie alla decisione della Corte che dopo un iniziale rifiuto aveva acconsentito alla richiesta, ma a condizione che nella fase più delicata dell'udienza il pubblico uscisse dall'aula ("i particolari possono turbare la pubblica opinione", fu la giustificazione dei giudici a ricalco del Codice Rocco).  Le proteste dentro e fuori del Palazzo di Giustizia indussero i magistrati a sospendere il dibattimento. Ma alla ripresa del processo le avvocatesse Lagostena Bassi e Maria Magnani Noja - accorse a Verona per rafforzare la difesa di Vincenzo Todesco - ricusarono la Corte per le domande inaccettabili rivolte ad Alma. L'istanza di ricusazione fu negata, nel tribunale risuonò la protesta finché l'aula venne sgombrata dalla polizia. Per gli stupratori arrivò la condanna a quattro anni e  sei mesi di carcere. Una sentenza allora giudicata corretta dalla stessa Lagostena Bassi, ma che allo sguardo di oggi potrebbe apparire fin troppo morbida.
Alma lascerà per sempre il suo paese, che era il paese dei violentatori. Non le avrebbero perdonato la militanza con le femministe, notoriamente delle "poco di buono". Nadia Filippini, storica e testimone, ricorda ancora le urla sguaiate delle madri degli imputati. "Puttane, siete delle puttane", gridavano in tribunale rivolte alle donne dalla parte di Alma. "Fu allora che le nostre vite cambiarono", dice la studiosa. "Molte di noi scelsero la militanza politica,  il destino individuale si fondeva a quello collettivo. Alcune intrapresero gli studi di giurisprudenza per difendere i diritti delle donne. E io cominciai a occuparmi della storia di genere".
Fu comunque una grande vittoria perché per la prima volta veniva rotta "l'aspettativa del silenzio", il sacrificio della vittima muta per difendere l'onore proprio e della famiglia.  "Da quel processo sarebbero scaturiti i centri antiviolenza, la parola pubblica di Alma avrebbe dato forza a molte altre vittime di stupro. E vent'anni dopo anche la legge sarebbe cambiata. Di lei ho perso le tracce, ma è giusto riconoscerle un grande coraggio e un posto di rilievo nella storia delle conquiste femminili".

la terza    piena  di  speranza  e   di rinascita  sempre  da repubblica  24 NOVEMBRE 2021



Violenza sulle donne, il riscatto dopo i soprusi. "Mi diceva non vali nulla, ora ho un'impresa tutta mia"
Cinque anni accanto a un marito che la picchiava e umiliava. "Poi ho detto basta e sono rinata, alle donne dico di riprendersi la vita"

di Romina Marceca





"Ero isolata e mi vergognavo della condizione in cui vivevo. Ero così vessata che ormai cercavo di anticipare i suoi desideri per evitare che lui potesse infierire su di me".
Paola aveva 34 anni quando ha varcato la soglia di uno dei centri antiviolenza di Differenza donna di Roma. Sul collo aveva ancora i segni di un tentativo di strangolamento e a casa aveva lasciato il suo bambino di tre anni insieme al marito, l'uomo che l'aveva ridotta in quelle condizioni. Non si era mai rivolta a un ospedale per i segni lasciati sul suo corpo. Oggi, a quasi 40 anni, è un'imprenditrice apprezzata e sicura di sé. Paola è un nome di fantasia perché questa donna ha deciso che il passato fa parte solo della sua anima ferita.
"Racconto la mia storia perché spero che chi soffre come è successo a me, possa sperare in un futuro migliore". Cinque anni fa, Paola era una donna molto indebolita dalle umiliazioni, dagli insulti e dalle aggressioni verbali e dalle botte anche davanti al figlio. Poi ha deciso di dire basta.
"Il giorno che Paola è entrata al centro e abbiamo notato quei segni sul collo ci siamo molto allarmate. Le abbiamo detto che c'erano dei rischi per lei e per il bambino", ricorda Cristina Ercoli, responsabile della casa rifugio di Villa Phamphjli di Differenza Donna.
Lui faceva uso di cocaina, era sempre più violento. Paola si trascinava ogni giorno in un'esistenza sempre più difficile. "Non avevo mai lavorato, ero una casalinga ma non per mia scelta". Una vita al contrario rispetto al presente. Sono bastati pochi colloqui con le operatrici e Paola è entrata nella casa rifugio. Ha portato con sé il figlioletto. Ha chiuso la porta di casa. Pian piano è arrivata la consapevolezza del passato.
"Era arrivato il momento della forza, ho capito che dovevo prendere in mano la mia vita. Affrontare i rischi e soprattutto denunciare quell'uomo". Paola l'ha fatto. Si è presentata a una avvocata civilista per ottenere l'affido esclusivo del suo bambino. Il marito è stato prima allontanato, poi ha perso la responsabilità genitoriale.
"Nello stesso periodo in cui il mio vecchio mondo crollava, arriva una splendida occasione: la possibilità di partecipare a un corso con Gambero Rosso. Amo cucinare e dopo questo primo corso ho ottenuto uno stage in un ristorante ".
Da lì è stato un percorso tutto in salita. È arrivato il finanziamento per un'impresa individuale. E Paola è diventata un'organizzatrice di catering con laboratorio vicino al centro di Roma. Al suo fianco tre dipendenti. "Sono tutte donne, non poteva essere altrimenti. Credo profondamente nella loro forza".


sito  grafia 
http://www.femminismo-ruggente.it/femminismo/violenza.html
https://ilmanifesto.it/gli-anni-settanta-e-la-richiesta-di-porte-aperte-nei-tribunali/













"Io, Babbo Natale dei bambini meno fortunati"

da  Quotidiano.Net  tramite  msn.it  Guido Pacelli è un Babbo Natale davvero speciale. Conosciuto come l’aggiustagiocattoli, lavora tutto l’...