10.11.13

intervista a Corben Sofia di www.psicotaxi.it





 Musica  consigliata   preda  dal  suo blog  e  non  : 1) Bill Withers - Ain't No Sunshine  :,  2)  Five blind boys of Alabama - Sins forgiven  .,  3)  Five blind boys of Alabama - Sins forgiven

 Inizio  questa  post  citando l'incipit o quanto meno  un pezzo del libro  in questione

libreria Feltrinelli di Milano   .  foto dalla bacheca di facebok dell''autrice


Appartengo a un'antica dinastia di stronze. La reincarnazione esiste. Sono la somma delle generazioni di vipere che mi hanno preceduto. Ero cattiva ancor prima di nascere." dal libro Psicotaxi - Ed. Unicopli di Sofia Corben ;)



Ora cazzeggiando in  rete   e su facebook  scopro   che  la mia amica  del blog  psicotaxi.it di  lei avevo    già  parlato  ( me  n'ero  anche  dimenticato    )  .  Colmoquesta mia lacuna  con   url   qui sotto   del mio vecchio  post

Ora  apprendendo  dal suo   facebook Psicotaxi Story e dal  suo sito  

Psicotaxi diventa un libro in una collana di narrativa: Metropolis per le Ed. Universitarie Unicopli. Nella stessa scrittori del 900, come Massimo Bontempell (http://it.wikipedia.org/wiki/Massimo_Bontempelli ) giornalista di guerra, amante del Surrealismo, scrisse sulle principali testate italiane e Saggi per La Terza, Mondadori, ecc.... Per me è una gioia pubblicare nella stessa collana, accanto a uomini che hanno amato la parola, vissuto e sofferto, quando ancora neppure esistevo. Mi dà il senso della memoria. Per me, che non ho una grande fiducia in me, insomma è un grande piacere. Ne sono felice sorridente
e ci  ho trovato anche questo articolo  (  vedere  foto  sopra ) quest'articolo di repubblica edizione milano del 17\4\2013









ma soprattutto , mentre cercavo ispirazione per l'intervista , trovo   non ricordo  se  da lei o in giro per la rete  la trama del suo libro . Un taxi di notte entra nelle vite delle persone. È lo Psicotaxi, ovvero la tentazione di alleggerire il bagaglio dei segreti con un compagno di viaggio incontrato per caso. Succede quando i clienti scoprono che il loro autista è una donna con una laurea in Filosofia. È il viado che una notte viene ritrovato morto, strangolato e, secondo la polizia, la tassista c'entra qualcosa..."Eppure, mi bastava la patente",dice Sofia Corben, che solitaria percorre le trame della città e delle vite dei passeggeri, come quella di vecchio cinese, con una lunga treccia bianca e sfilacciata, che stringe al petto un misterioso fagotto, o, come Monica, unghie laccate, polpacci da ciclista e una quarta di seno. 
dopo questa premessa ecco l'intervista rilasciatami    dalla  gentilissima  e solare ( anche se  solo  via email   visto le distanze   , lei sta  sulla terraferma io  su un isola  ) autrice 




In questa   tua foto hai scritto come didascalia : << Non lavoro di   domenica, è contrario alla mia religione! E il fatto che sia atea è un dettaglio. Sono una non cattolica praticante. ->> di che religione sei allora   ? 

da http://www.psicotaxi.it/le-mie-foto/

Nessuna. Essere atei significa proprio questo, però, non sono anticlericale. Ho un grande rispetto per chi ha fede. Conosco parroci in prima linea, come Don Vittorio dell'Ospedale Niguarda di Milano, che con la raccolta di tappi di plastica costruisce pozzi in Kenya, in Tanzania. Ne ha già raccolti 615 tonnellate. Inoltre ho amiche Arabe, anche loro sono molto religiose ma c'è sempre un confronto che parte da una reciproca accettazione. La tolleranza è una scelta, si può imparare a non giudicare. 

E' per quello che hai detto a maxgazetta.it  l'anno scorso , che preferisci continuare a fare la taxista e non hai scelto di fare concorsi per insegnare o simili ? oppure c'è dell'altro ? 
potrei anche farli, mi sono laureata tardi. Sono sempre stata un pessimo studente. Mi ha sorpreso che un editore che collabora con l'Università e pubblica Docenti Universitari mi abbia proposto di pubblicare. A volte i cattivi studenti funzionano! 


come ci si sente a fare , almeno da q quelle poche volte che ho preso il taxi , visto che generalmente anche nelle grandi città vado a piedi , un lavoro maschile ?
 non credo ci sia un lavoro maschile o femminile. Il lavoro è lavoro, diciamo che storicamente è stato svolto da uomini ma, purtroppo, per ogni professione è così 

il'episodio più brutto 
quando vedo gli incidenti. Mi mette sempre una tensione sgradevole, soprattutto il piacere macabro di quelli che si fermano a guardare. Ricordo una nonna con due bambini rimase ore, io ero imbottigliata nel traffico, prima di andarsene disse ai bimbi che non era giusto fermarsi a guardare!

l'episodio più bello  
 Il più bello con una persona molto creativa e intelligente. Sono felice di averla aiutata ad entrare in contatto con un Editore. Sono molto generosa quando riconosco negli altri la bellezza del talento e poi mi piacciono le persone sincere, è una questione di sintonia...
 quello più curioso


 che ne pensi delle liberalizzazioni dei taxi ?

L'argomento richiederebbe una discussione articolata. In generale, non sono per il liberismo sfrenato ma per una politica al servizio del mercato, invece avviene il contrario. Se vogliamo liberalizzare dobbiamo tutelare i lavoratori e non creare nuove forme di sfruttamento ma questa è solo la mia opinione. Ognuno ha la propria e le rispetto tutte, quello che però detesto è la superficialità dei dibattito politico, ormai è solo una rissa da bar che promuove la guerra tra poveri, vale per ogni argomento ed è svilente. Diffido da chi vuole salvare il mondo ma credo che ognuno di noi dovrebbe cercare di essere migliore. Siamo tutti un ingranaggio del sistema.

lavori solo di notte oppure qualche volta ti è capitato anche di giorno ? Se si ci hai trovato qualche differenza ?

Faccio volontariato con le donne straniere, le aiuto a prendere la patente ma sono una solitaria, non faccio testo nella mia Categoria, è il bello di questo lavoro: non accollarsi i colleghi rompi scatole o un capo ma c'è pur sempre il traffico e lo stress, anche per questo mi piace la notte.


hai mai portato vip o politici ( politicanti ) ?
ti rispondo con una riga del mio libro: "I tribunali sono come i taxi, riempiti dell'umanità più varia" [Psicotaxi Ed. Unicopli]

mandatami via  @  dall'autrice stessa 

Ma Ora basta , non vorrei annoiarti o finire per farti domande banali e scontate , parlare di lavoro parliamo del tuo salto di  da taxista a scrittrice . 
è solo il primo libro. Avevo già delle pubblicazioni alle spalle, per lo più racconti su riviste e quotidiani. Ovviamente vorrei continuare. Vedremo...

come mai Sofia Corben ? e da dove nasce questo 

pseudonimo ?

Voglio scrivere di ciò che conoscono, il mio personaggio è una tassista ma non volevo l'autobiografia, non sono mica così importante. Allora ho usato ho creato trame e avventure per un alter ego, ecco perchè uno pseudonimo. Ho una formazione filosofia Sofia, la cui etimologia è correlata alla Filosofia. 

come è avvenuto il salto dal blog al cartaceo ?
 è stato l'editore a contattarmi, anche per i giornali, per la mia partecipazione ad incontri e dibattiti, l'anno scorso sono stata ospite come blogger al Festival del Giornalismo Internazionale, un evento molto prestigioso. Mi hanno invitato loro. Non ho santi in Paradiso, vengo dal basso e ho solo fatto un grandino in più. Una volta ero ambiziosa e tormentata, oggi, voglio divertirmi mentre faccio ciò che amo: è questa la mia ambizione.


Non è che qualche cliente si riconosca nei tuoi racconti visto che : << Ha iniziato ad ascoltare, e a raccontare, a partire dal 2007, quando ha aperto il blog: uno spazio in cui «spiffera» al mondo i nipotina di Scerbanenco,«mezza donna e mezza macchina»segreti inconfessabili che ha raccolto, archiviato, romanzato.>>   da (  http://www.psicotaxi.it/rassegna-stampa/ )

Non è una cronaca, sarebbe noiosa... M'ispiro alla realtà ma il resto lo fa la fantasia, altrimenti come potrei costruire un delitto, un colpevole una trama, come ho fatto in questo libro.

colonna  sonora  del  tuo lavoro  ?
nessuna risposta  . Evidentemente  le  vanno bene  le canzoni citate  all'inizio   di questo  post  intervista
qualche cosa  da rettificare   \  d'aggiungere

 non risponde   e  partita  con  il  suo taxi verso l'isola  che non c'è

concludo andando ad ascoltarmi il cd doppioThe Bootleg Series Vol. 7: No Direction Home: The Soundtrack. colonna sonora  del film omonimo ( no direction home   )  di  Martin scortzese  

nel tempo d'internet di ci si dimentica in fretta suite per il vajont Vajont, 50 anni dopo: musica per non dimenticare

http://dentroilvajont.focus.it





Vajont, 50 anni dopo: musica per non dimenticare



“La musica può, a volte, aiutare la memoria. Cinquanta anni dalla notte del Vajont sono tanti per chi vuole si dimentichi. Sono niente per chi vuol sapere perché”. Sono le parole di Remo Anzovino, pianista e compositore friulano, protagonista del concerto della memoria, dalla diga del Vajont, che ha avuto luogo domenica 15 settembre. Un grande evento gratuito, inserito nelle celebrazioni per il cinquantenario del disastro, che ha chiuso la tre giorni intitolata “La Protezione Civile ed il Vajont: prevenzione, soccorso, memoria” dedicata al sistema di Protezione Civile Nazionale e al “Raduno dei Soccorritori”, che già la mattina dopo la tragica catastrofe accorsero da tutta Italia sui luoghi del Vajont Remo Anzovino, su questa ferita della sua terra, ha composto 9 ottobre 1963 (Suite for Vajont), suite per pianoforte e coro virile che chiude il suo quarto e ultimo album "Viaggiatore Immobile" (Egea Music). Un successo di critica e pubblico (numero uno della classifica jazz di iTunes) che l'artista sta portando in tournée nei principali teatri italiani

mio reportage dai concerti dei concerti ( 2 data di bvob dylan ) e dei Pixies , delle mostre di Pollock e gli irascibili ,ed Warhol a Milano . \ MioSoggiorno a Milano dal 3-5 novembre 2013






Musica in sottofondo
per  il :
  •   3  novembre The Bootleg Series Vol. 7: No Direction Home: The Soundtrack  del film omonimo di Martin scorzese  su Bob dylan 
  • 4 novembre Where is my Mind - Pixies 
  •  5  novembre   Sunday Morning VELVET UNDERGROUND

Causa  "arretrato" ed  a  grande  richiesta  di amici\  che   di Facebook  e non sono   su maggiori dettagli  dei  miei tre  giorni( il  3-4-5 )  a Milano  pubblico  qui  la mia cronaca   dei  concerti : 1) la 2 data di bob Dylan all'Arcimboldi   ., 2)  l'unica  data italiana  dei Pixies  all'alcatraz  ., 3)  le mostre   di pollok e  gli irascibili   ed warhol  a palazzo reale .
Nonostante la  levataccia  la  domenica   l'Olbia-Milano (Linate  )  c'è solo alle  7 del mattino
il mal di testa     alla cervicale  , che  non mi permesso di godermi in pieno il concerto di  bob dylan
il non aver portato nè macchina fotografica ( per paura  di perderla  e perchè    non riesco a fare  foto  \  video   ,  dove  è proibito senza  farmi sgamare  ) né  video  camera    che avrei potuto usare  al concerto dei  pixies   visto   gli scarsi controlli all'ingresso e dentro il locale  .
Mi  sono divertito  un casino  ed  ho assistito  a  dei  bellissimi eventi  : 1    i due  concerti   ., 2)  le belle  , anche  se  mi  è piaciuta  di più  quella  di Waarhol che quella  di Pollok  e  gli irascibili , mostre  del palazzo reale  .


Ma  andiamo con ordine

 3  novembre
La  seconda  data   Milanese  di  Bob Dyaln si  è  tenuta  nel bellissimo  ed  armai storico  teatro Arcimboldi    Un teatro  molto bello  architettonicamente con un    ottima l'acustica  anche in alto

foto mie   del palco  prima del concerto  la  1  salendo  .,  a  2  da seduti  ., la  3  nell'intervallo  se  non ricordo male 



A causa  di una sottovalutazione  poi smentita dall'ottimo concerto  e  dal  tutto esaurito    sia  alla serata precedente  sia   a questa  , che  i biglietti si sarebbero trovati  anche il giorno prima    e  che  ci sarebbero andati solo i fans  più incalliti   e che  Bob dyaln  avrebbe  fatto un mediocre  concerto visto ormai l'età avanzata  , abbiamo preso i biglietti all'ultimo  e  quindi   di conseguenza  abbiamo trovato posto  sopra  alla 37  fila  . Un buon concerto  , un dylan  pimpante  nonostante l'età  e  la  tournèè  che porta  avanti dal 1989  , ottimo affiatamento con la band  ,  stravolgimenti   funzionali  . confermo in pieno  , sia   quando  hanno  detto  mio cugino ( deluso dalla  sua esibizione precedente  di  4\5  anni fa al  forum d'ìasago  )  e  i suoi amici  con cui  sono andato al concerto , sia  le  recensioni    di  : 1) corriere della sera  ., 2)  onstaweb.com  ., 3 )  . dopo un ora  e mezzo di concerto  il pubblico  ha  chiesto  il bis  in maniera  cosi  fragorosa   che  sembra  che    momenti crollasse   il teatro dell'Arcimboldi  


4 novembre  


 Poiché il mal  di testa  continuava  ho chiesto a mi cugino    un aspirina  ( dimenticandomi che  sono  fabico e  che  tale  farmaco mi  fatale  ) poi mio  cugino  mi ha  guardato  con aria interrogativa  : <<  ma  se  sei fabico  >>    allora  ci siamo fatti  dele risate  e mi ha dato  due tachipirina  in pastiglie  . Siam arrivati   nella  via  dell'Alcatraz  alle  20.15   l'ingresso sul biglietto era per  le  20.30 , e  c'era  già  un caos  di gente  , poi  quasi alla fine del marciapiede   40\50 metri prima dell'ingresso  abbiamo  trovato la  fine della  fila  . ci siamo messi in fila . Dopo quasi un ora   alle  20.55\21   siamo riusciti ad entrare  .  Nonostante   fossimo abbastanza  vicini , ma  è  inevitabile e nei concerti in piedi  ,   c'era  gente  alta   e  cellulari  (  smartphone  e   ipad  a manetta  per  filmare , mettere  online  e   non  )    che avevo difficoltà  a  vedere  il gruppo  come dimostrano le  foto  fatte  con il mio  android  , a vedere  bene  (  ma  meglio di Dylan  )  il gruppo in questione  . Ma pazienza  sono gli effetti collaterali dei concerti di massa  . L'alcatraz  stra pieno  ,  infatti era la loro unica  data italiana  . Concerto  da  




( ANSA) - MILANO, 5 NOV - Il segno che i Pixies hanno lasciato tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, quando con cinque album in cinque anni hanno influenzato tutta la scena dell'alternative rock, è di quelli che non si cancellano. E infatti, nonostante non abbiamo prodotto un disco dal 1991, i loro concerti fanno sempre il pieno. Non ha fatto eccezione l'unica data italiana del loro nuovo tour mondiale, all'Alcatraz di Milano, dove ieri sera la band di Boston ha registrato il tutto esaurito.



Un concerto   trascinante ,  gente  cje pogava  di brutto  a non solo adolescenti  e ventenni  , un tuffo  nella mia  adolescenza  . Ringrazio mio cugino per  avermi fatto riscoprire (  anzi  scoprire    in quanto li ricordavo  vagamente  ,  lo  scoperto durante il concerto  che  erano gli autori di questa  soundtrack    colonna  sonora   del  film  fight  club 



 un gruppo  di tale periodo . Un gruppo importante  , i Pixes  , dal punto di vista storico . Infatti  , i Pixies sono unanimemente riconosciuti tra i precursori di un particolare stile musicale che combina elementi di garage rock, noise, surf e power pop.Inoltre   artisti e band quali David Bowie, Radiohead e U2 espressero infatti il loro apprezzamento per il lavoro del gruppo e lo stesso Kurt Cobain ammise l'influenza del quartetto di Boston sulla musica del suo gruppo, i Nirvana.  la band è stata accolta con straordinario affetto, con la devozione dovuta ai maestri, perché in fin dei conti di questo si tratta.










 Confermo in pieno   quanto   <>   dice     repubblica  del 5\11\2013     Hanno mantenuto quanto promesso  ciooè  quella  di  : <<  offrire al pubblico una scaletta estesa e completa capace di ripercorrere la carriera della band. 
 
“Insieme ai pezzi adorati dai fans, presenteremo anche brani che non suoniamo da secoli o che non abbiamo addirittura mai suonato dal vivo” afferma Black Francis. “Canzoni come  ’Brick is Red,’ ‘Havalina,’ ‘Tony’s Theme.’ e ‘Sad Punk.’ “ >>  (  sempre  da    repubblica  Milano  del  4\11\2013  )  


il 5   novembre  

Mi sarebbe piaciuto  vedermi lvisitare  il duomo  o la scala  e  vedere  con più calma  le  due  mostre    con più calma ,  ma   sto diventando vecchio (  fra  3 mesi sono  38 )  non ce  la faccio più a tornare  alle  3  e poi rialzarmi   se prima    non ho dormito  9  ore   .  Dato che  dopo il concerto siamo andati a mangiare  al ristorante messicano  li vicino  . 
Quando mi è  stato proposto: <<  cosa  vuoi vedere pollok  o  Warhol  ? >>   io ho risposto entrambi  . Ci siamo informati e per  19 € (  11  la  prima  e  8 la  seconda  )  le  ho viste  entrambe  visto  che entrambe  m'interessavano  perchè di W  conoscevo solo i ritratti pop (  la copertina del  1  disco del  velvet  and  underground    e i ritratti di mao e  marilyn monroe ) 




  di pollock  il classico  


(Jackson Pollock, Number 27, 1950, 1950. Oil, enamel, and aluminum paint on canvas, 49 × 106 in. (124.5 × 269.2 cm).




mentre del movimento  gli irascibli poco  e niente   se  non per  via letteraria  cioè  la  1  storia  di  topolino  2969




La prima mostra una mezza delusione infatti ha ragione : << La mostra di Pollock al Palazzo Reale di Milano ben sotto le aspettative. Miglior titolo sarebbe: “gli Irascibili, due Rothko e un Pollock” (!)
Ma andiamo con ordine nello spiegare il perche’ di questa mia delusione, non solitaria e già condivisa con diversi avventori della “mostra”.Iniziamo col dire che se avete un’ora di tempo libero e 11 euro da spendere, comunque, vi consiglio di andare, perche’ un Pollock (ripeto e sottolineo, 1 Pollock, il “numero 27“), idue Rothko, la splendida “porta sul fiume” di De Kooning e “territorio blu” dellaFrankenthaler saranno capaci di ripagarvi ampiamente del tempo e denaro investito. Questa e’ la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che sono grandi opere, nonostante il misero allestimento riescono comunque ad emozionare. Ma, ahime’, le note positive finiscono qui.[.....] - Pollock, dove’? A parte alcune (penso 5), sicuramente fondamentali, “piccole” opere di Pollock, l’unico quadro esposto e’ il “numero 27″. E’ nella prima parte della mostra. Questa evidente “pochezza” (scarsità) di opere dell’artista cui la mostra viene intitolata – sicuramente la fonte di maggiore attrazione – viene “tamponata” con la proiezione di un paio di rari video dell’artista all’opera. Potete trovarli qui (visibili senza pagare 11 euro!): “Jackson Pollock working on a glass surface” – filmed by Hans Namuth in late 1950. Music by Martin Feldman, performed by Daniel Stern; “Jackson Pollock dripping and action painting“. E’ interessante il filmato – che sono riuscito a vedere solo alla mostra – della ricostruzione graduale (per passaggio di colore) della tela “numero 27″.(...) - L’illuminazione delle opere e’ un’altra cosa molto difficile per chi espone in musei e gallerie (soprattutto quando i locali non sono nati per essere spazi espositivi, ma ormai nel 2013 ci sono soluzioni e competenze utili a superare ogni “sfida”). Il problema di riflessi dovuti ai vetri oppure ai pigmenti spesso creano rompicapo a coloro che si occupano di predisporre la migliore illuminazione.Proprio sul “numero 27″ (e poi su molte altre opere) la luce dei faretti va a creare delle vistose alonature blu/azzurre sui bordi della tela, tanto che in un primo momento mi sono avvicinato per verificare se fosse un effetto voluto da Pollock (ovvero pittura) o cosa. Ho fatto presente la cosa agli addetti “forse qualche dado si e’ allentato“. Spero che la cosa sia risolta per i prossimi avventori (!). Ovviamente non era solo Pollock vittima di questi dadi allentati, nelle restanti 50 tele esposte altre 10, almeno, presentavano vistosi problemi di illuminazione.- Lo spazio a disposizione delle opere e quindi anche dei visitatori per osservarle dalla giusta distanza e’ angusto. Parliamo di opere dalle dimensioniragguardevoli, che vanno osservate da vicino (per gustare le pennellate, piuttosto che gli effetti delle varie tecniche pittoriche sulla tela, ecc) ma, anche e sicuramente, da unadistanza adeguata. Assurdo, ad esempio, che per guardare un’opera di Gottlieb (The Crest) una tela di quasi 3 metri per 2, debba allontanarmi e andare a pormi in fronte ad altre opere perpendicolari alla stessa. Per fortuna l’orario in cui ho visitato la mostra – dopo pranzo di un venerdi’ pomeriggio – era stranamente poco frequentato(non più di 5 visitatori per ambiente espositivo), quindi non si sono generate ingorghi e situazioni assurde, ma poco e’ mancato e in certi casi qualche commento per lo spazion “angusto” e’ stato condiviso con i “compagni” di visita.Nell’ultima sala, infine, francamente non capisco, ma sarà una mia mancanza, il perche’ della costruzione di un muro che cela in una sorta di nicchia le due opere di Rothko. E’ noto, mi e’ noto, che il maestro suggerisse una visione delle sue opere anche a soli 45 centimetri, per favorire una totale e completa immersione nel colore (cit. pag 46 “Rothko” di Jacob Baal-Teshuva, Taschen); ritengo, forse erroneamente, che le sue opere siano comunque interessanti anche da lontano, molto lontano; una distanza sicuramente superiore a quella definita dall’allestimento che obbliga – non capisco il perche’ – ad un massimo di 3 o 4 metri (non avevo la bindella!). [....] continua qui >>l'autore di http://ilradar.wordpress.com


http://www.mostrapollock.it/


La seconda . Certo monotematica  , cioè dedicata  ad  un artista  solo , ma   bellissima   con  un esposizione   azzeccata  . Peccato che   ero solo di passaggio   ed  non abbia potuto  godere   al meglio  le  occassioni e  gli extra di tale mostra  . Infatti   : <<  In orari diversi da quelli della normale apertura al pubblico, la mostra apre le porte ad un evento speciale per le esigenze istituzionali e di pubbliche relazioni delle aziende. L’evento potrà essere articolabile nella sola visita riservata alla mostra, con servizio di guida-accompagnatore, oppure nella visita riservata abbinata ad un momento conviviale esclusivo.>> ( per  ulteriori dettagli http://www.warholmilano.it/visite-guidate-didattica/  ) . Ma ho avuto la fortuna di aver visto  Andy Warhol per  a prima  volta  in mosra  e per  giunta  la  raccolta  della   Brant Foundation è un occasione rarissima per il pubblico di poter vedere uno dei gruppi di opere più importanti dell’artista Americano padre della Pop Art, raccolto non da un semplice collezionista, ma da un personaggio, Peter Brant, intimo amico di Warhol con il quale ha condiviso gli anni artisticamente e culturalmente più vivaci della New York degli anno ’60 e ’70. Ancora ventenne nel 1967 Peter Brant acquistò la sua prima opera di Warhol, un disegno della famosa Campbell’s Soup, iniziando quella che sarebbe diventata una delle più importanti collezioni di arte contemporanea del mondo.


http://www.warholmilano.it




Le  due mostre possono   sintetizzarsi  con questa   frase  di  Warhol appesa   durante  il percorso dela  mostra  prima  delle opere  , subito dopo i pannelli      storici  didascalici  del periodo in cui  W    a fece  le  sue opere  .





  qui ne  trovate  altre

9.11.13

questa è la vita


deliberatamente tratto   , eccetto le frasi in grassetto che  sono miei pensieri \ mie integrazioni ,     da
da http://sergiobonellieditore.it/scheda/10270/Sulla-pelle.html




ogni disegno (  in questo caso ogni nostra  opera  d'arte  )  è una piccola  sfida  . Di solito iniziamo  sapendo di dover  arrivare in un luogo inesplorato . 
Lassù da qualche parte del bianco . inquadriamo un punto B   ai margini del foglio.Ma  ancora non conosciamo il percorso   che  dobbiamo  fare  per raggiungerlo . E una misurata  follia .L'esordio di  un'idea .L'unica  cosa di cui possiamo essere  certi  è la partenza . Il nostro punto A .
A  volte succede al termine di un disegno d'avere la tentazione  d cancellare  tutto. Ogni curva  , linea  campitura , ogni traccia del nostro lungo lavoro  . Eppure  ci abbiamo messo l'anima  , abbiamo  come si dice  sputato sangue  e quel sangue  ad  un certo punto è diventato inchiostro (  bit  ) . Un istante  dopo  però , ammirando la nostra opera  dall'alto  , sentiamo  come una vertigine  .. in un momento ci rendiamo  conto che  qualunque sia stato il percorso , in un modo  o nell'altro  siamo arrivati alla  FINE Perché non scordiamoci che siamo partiti dal punto A  per arrivare  al punto B  Quello che  dobbiamo
da https://www.facebook.com/DanielaChiodiPsicologa?ref=stream
domandarci   , osservando la nostra opera   e  se  esprime  ciò  che volevamo   esprimere  .Evitandoci se  nel contempo do chiederci se  abbia un senso  e un significato 
E cosi ogni volta  rincominciamo restiamo in attesa  di un un 'altra  idea un altro progetto  anche se rimuginiamo  ancora  su quello su quello vecchio   e ci chiediamo   se  sarebbero bastati pochi tratti  a renderlo diverso . e  a  fargli prendere  una forma  piuttosto  che un altra  . Comunque  che sia il semplice risultato  dell'unione di due punti  o il percorso  sinuoso  ( curvilineo )  di una penna  ( tastiera  ) nervosa , è meglio non dimenticare mai   che si tratta  di un disegno (  della nostra opera  d'arte  ) 

Boy A di John Crowley - l'impossibilita' di cancellare il passato

Ieri  ho visto  Boy A  : <<  è un film del 2007 diretto da John Crowley e basato sull’omonimo romanzo di Jonathan Trigell, a sua volta indirettamente ispirato al caso ( realmente  successo  )   di James Bulger, bambino ucciso nel 1993 da due ragazzini, i quali vennero scarcerati nel  2001 sotto identità segreta. Esso, come il libro, illustra gli effetti di una visione del mondo anglosassone che sostiene la tesi di un'origine genetica per certi tipi di atti (quali, appunto, l'omicidio) rispetto ad un'analisi dei meccanismi sociali e familiari delle persone responsabili >>  da http://it.wikipedia.org/wiki/Boy_A_(film)  . Un  film  ].triste , duro , non gratuito , non retorico , non melenso \ strappalacrime o peggio buonista , infatti tratto da una storia vera . A quando  un film italiano  de  genere  ?  



Buono! Acquistatelo o noleggiatelo o vedetelo in streaming o scaricatelo e non vi pentirete specie se vi piaccio i film " urbani " , psicologici , e sociali alla ken loack e non solo




 il sito  ufficiale  http://www.boyamovie.info/index.html  da  cui è tratto il trailler  originale 

6.11.13

strage di nassyria dieci anni dopo parlano 5 vedove

Voglio proporre  , anticipando quel fiume di retorica  e  becero nazionalismo   che  ci sarà   tra qualche giorno  per  il deccenale  dei fatti di nassyria  un articolo interessante senza quella  retorica ( almeno da parte della giornalista ) che invaderà tra qualche giorno i media internet compreso . Un articolo che ho giudicato  come : << un articolo pessimo perchè non viene , come sempre si parla di nassyria , di Adele Parillo compagna del regista morto con i militari .ma solo delle vedove di militari . >> Ma  poi  la  risposta  della giornalista Emanuela Zuccalà   di io donna del corriere del  a sera su una bacheca  di un amica  comune  che aveva  condiviso  l'articolo  : << 


.Emanuela Zuccalà Avrei tanto voluto intervistare anche Adele, perche' conosco bene la sua storia. L'ho cercata, ci siamo parlate, e lei con grande gentilezza e sincerita' mi ha spiegato perche' non se la sentiva di comparire. Cosi' anche la vedova di Marco Beci, l'altro civile vittima della strage.

Giuseppe Scano Grazie delle informazioni.leggero con vivo interesse l.articolo mi scuso x giudizio affrettato


>>

 mi ha indotto   a rileggermi l'articolo   che sotto  riporto   e quindi a cambiare  giudizio espresso a caldo   ed   ritornare  ed  a rafforzare la mia opinione che  m'ero fatto  su tale evento   che ho  appreso sia   corrispondendo  via fb  con Adele  Parrillo     sia  leggendo  ( oltre  che a sentirli  quandoi erano venuti a presentare   qui a tempio il libro  )    20 sigarette  a  nassyria  . Un libro  che  si legge in un ora per la fluidità e schiettezza con cui è scritto ( anche se io , causa tristezza , piangevo ad ogni pagina ci ho messo 2 giorni ) da cui l'autore ha tratto il film omonimo http://it.wikipedia.org/wiki/20_sigarette

DIECI ANNI DOPO

Noi, vedove di Nassirya

Il 12 novembre 2003 un camion-bomba devastò la base Maestrale causando una strage. Come ha trascorso questo decennio chi, quel giorno, vide saltare in aria il proprio amore e la propria vita?

di Emanuela Zuccalà - 28 ottobre 2013



8.40, 12 novembre 2003. Alessandra e Monica lavorano. Paola va in palestra, Miriam alle prove in teatro, Margherita dal pediatra. A 4mila chilometri, un camion-bomba uccide i loro mariti, carabinieri in missione in Iraq. Sono passati dieci anni dalla strage alla base Maestrale di Nassiriya: 19 morti italiani (12 carabinieri, 5 soldati e 2 civili), 9 iracheni, 19 feriti gravi. Dieci anni di memoria collettiva a fasi alterne. E di inchieste: l’ideatore dell’attacco viene impiccato in Iraq; tre alti militari italiani, accusati di non aver difeso la base, sono assolti. I familiari di 7 vittime si costituiscono parte civile e la Cassazione riconosce il loro diritto a un risarcimento. Ma com’è trascorso il decennio nel privato di chi, quel giorno, ha visto saltare in aria il proprio amore e la propria vita? 

PAOLA COEN GIALLI

69 anni, moglie del maresciallo luogotenente Enzo Fregosi
«Un ragazzo atletico si tuffava da un trampolino altissimo, in uno stabilimento qui a Livorno: si accorse del mio sguardo affascinato e, con la classica scusa del fiammifero per la sigaretta, mi si avvicinò. Era il 1972. Io mi ritengo fortunata: ho avuto il tempo di godere di mio marito, i miei figli hanno imparato tanto da lui ed Enzo è morto nel pieno del suo vigore, senza invecchiare. Lo so, le suona strano ciò che dico...». Paola è livornese; Enzo, di La Spezia, è stato fra i fondatori del Gis, il Gruppo di intervento speciale dei carabinieri. Nel 2003 aveva 56 anni ed era comandante del Nas: «Voleva concludere la carriera in bellezza, con una missione all’estero. Del suo corpo non è rimasto nulla». Restano i bei ricordi e tre oggetti da cui Enzo non si separava mai, ma prima di partire per l’Iraq li ha lasciati a casa: «Oggi io ho la sua fede nuziale, mio figlio Pietro la catenina e mia figlia Allegra un anello». L’immagine più nitida del 12 novembre è di lei che corre su un’auto dei carabinieri a sirene spiegate, per raggiungere la figlia a Firenze prima che apprenda la notizia della morte del padre dalla televisione. Oggi Paola è fra coloro che si sono costituiti parte civile al 

processo e sperano nella medaglia d’oro. Ha un solo rimpianto: «Nella base vivevano in condizioni durissime, la chiamavanoAnimal House, tanto era malmessa. Lui però non faceva trapelare nulla e io al telefono gli parlavo di stupidaggini, dei nostri cani, delle feste di compleanno...». Solo ora Paola si commuove.



ALESSANDRA SAVIO 
51 anni, moglie del maresciallo Filippo Merlino

«Non sentivo nulla, come se mi fosse colato addosso del ghiaccio. Di quei giorni ricordo solo mio padre che mi accarezza i capelli e Miriam (moglie di Daniele Ghione, ndr) che grida ai funerali. Per un anno ho atteso che lui entrasse da quella porta». Sulla porta una targa recita La casa di Penelope, ma oggi l’attesa di Alessandra è un’altra: quella della medaglia d’oro al valor militare. «L’hanno promessa allora, mi appello al presidente della Repubblica perché ce la conceda. E l’ultima sentenza della Cassazione fa finalmente luce su responsabilità e omissioni. Nassiriya è il nostro 11 settembre: un attacco all’Italia. I caduti meritano questo riconoscimento ». Alessandra incontra Filippo a 15 anni. Corre in motorino e lui, carabiniere lucano di stanza al Nord, la ferma. La corteggia, la sposa nell’85. Abitano a Viadana, nel Mantovano. Cinque anni dopo nasce Fabio, affetto da un’atrofia muscolare che lo costringe in sedia a rotelle. «Filippo alternava il comando della caserma alle missioni all’estero per poter costruire una casa su misura per lui». Ma alla vigilia dell’Iraq appare insolitamente teso. 
Le dice: «Non sarà una missione come le altre». «Rinuncia» abbozza lei. Filippo è lapidario: «Non posso». «L’ho visto per l’ultima volta il 13 luglio 2003, era il mio compleanno e lui ci raggiunse a Ischia per festeggiare». Fabio oggi è impiegato nella caserma di Viadana, la stessa del padre, ed è solare e positivo nonostante la disabilità. Lei ancora rabbrividisce alla parola vedova: «Di Filippo Merlino, io sono la moglie».


MARGHERITA CARUSO 
43 anni, moglie del brigadiere Giuseppe Coletta


«Si amavano da quando erano ragazzini ad Avola, in Sicilia, e nel ’97 avevano condiviso la sofferenza più atroce, la morte per leucemia del primo figlio Paolo, a sei anni. «Negli occhi dei bambini che incontrava nelle missioni all’estero, lui ritrovava Paolo. Aiutandoli, leniva il suo dolore ». Ma l’11 novembre del 2003, quando Giuseppe telefona come ogni sera, lei lo avverte freddo, distante. «Mi sono svegliata all’alba con un groppo in gola, finché le notizie hanno iniziato a rincorrersi... Mi guardavo allo specchio e non mi vedevo, tanto era lo strazio». Margherita ha una fede cattolica granitica, in quelle ore tremende dichiara il perdono per gli assassini del suo amore e spedisce incubatrici all’ospedale di Nassiriya. «Mi davano della pazza, ma io dovevo rispondere a quell’atto inumano con l’amore, altrimenti sarei morta». Torna ad Avola con la seconda figlia, che oggi ha 12 anni, e finanzia un orfanotrofio in Burkina Faso. Scrive due libri (con Lucia Bellaspiga, 
edizioni Ancora: l’ultimo è Nassiriya fonte di vita ). «Tre anni fa mi sono trasferita a Roma, ad Avola ero cristallizzata nel ruolo di “vedova di”, e io volevo tornare a vivere». Oggi ha un compagno. «È un amore grande che convive con quello per Giuseppe, mi batte ancora il cuore per lui». Lei non si è costituita parte civile al processo: «Non avrei potuto mettermi contro l’Arma, Giuseppe era tutt’uno con la divisa, si è fusa con la sua pelle, quando è saltato in aria. È un eroe non per com’è morto, ma per come ha vissuto».


MIRIAM AGRESTA 
36 anni, moglie del maresciallo capo Daniele Ghione

«E' difficile scindere i ricordi di lui da ciò che è accaduto dopo: così forte, così pesante». Daniele aveva 31 anni e Miriam 26, la più giovane delle vedove di Nassiriya. Quella che, ai funerali di Stato nella Basilica di San Paolo a Roma, gridava come impazzita per un disguido sui posti a sedere. Aveva gridato anche il 12 novembre, dopo ore a sentirsi dire che suo marito era disperso. Infine la notizia, lei scagliava via il telefono, dava pugni al frigorifero. Piombava in un buco nero, e ha lottato a lungo per riemergere. Lei e Daniele erano di Finale Ligure, Miriam aveva scelto Roma per la sua carriera di ballerina, mentre lui era assegnato al reggimento di Gorizia. «Stava chiedendo il trasferimento a Roma. Non ha fatto in tempo». Lei schiva rabbiosa le interviste, e lascia subito il mondo dello spettacolo. «Non esisteva più la ragazzina che viveva in una favola con il suo principe azzurro. Sono cresciuta di colpo e mi sono indurita». E si tiene fuori dai processi. «Mi sarei fatta del male» dice. Oggi insegna ginnastica ed è tornata a Finale. Il suo compagno è carabiniere, anche lui, e conosceva bene Daniele. Hanno una bimba di quattro anni. «Le parlo dello zio Daniele, la porto al cimitero, e lei chiama nonni i suoi genitori. Lo so, è difficile da comprendere, ma anche se ho una nuova vita, io sarò sempre la signora Ghione». 
In sala, accanto alla foto della sua nuova famiglia, c’è un primo piano di Daniele. Guardandolo, la tensione di Miriam si scioglie in un sorriso.



MONICA CABIDDU 
42 anni, moglie dell’appuntato Andrea Filippa
«
Poco tempo prima avevo sognato che una bomba dilaniava il suo braccio destro. All’obitorio, sollevando il lenzuolo e vedendo che l’unica parte offesa era proprio quella, ho avuto un brivido». Quella mattina Andrea Filippa era di guardia alla base Maestrale, protetto da sacchi di sabbia, solo il braccio destro era scoperto, per sparare al camion-bomba. Senza le sue raffiche di mitra, il mezzo sarebbe penetrato all’interno distruggendo più vite. «Andrea ha solo fatto il suo lavoro» sussurra Monica, che lo amava da 11 anni e, dalla loro Torino, lo aveva seguito a Gorizia. Lui era nel 13° Reggimento dei Carabinieri, specializzato in missioni all’estero; lei faceva l’insegnante di sostegno. «Era stato in Bosnia, Kosovo, Eritrea. Ma quando mi ha annunciato l’Iraq, non ho parlato per tre giorni, qualcosa mi si era già spezzato dentro». Andrea è stato l’ultimo a essere ritrovato nella base sventrata, «Un burlone, fino alla fine...». All’inizio Monica non mangia, non vive. Finché incontra un altro carabiniere, sta indagando sull’attentato, è



un uomo rassicurante, e lei lentamente torna ad assaporare sentimenti ed emozioni. Oggi continua a insegnare e vive con il compagno a Ladispoli, vicino a Roma: «Volevo il mare». A lei la medaglia d’oro non interessa. «Lo Stato mi ha già accudita molto e tanto lui non torna». In salotto, le altre medaglie ricevute dal marito sono in una vetrina, accanto a una foto di lui in divisa, con la frase dei loro momenti difficili: «Se mi ami, non piangere».

Nel labirinto del Sol Levante: da Nuoro a Tokyo, sola andata


Nel labirinto del Sol Levante: da Nuoro a Tokyo, sola andata
di GIORGIO PISANO

Adesso fa la 'soressa di italiano nella televisione di Stato del Giappone, un po' come faceva con noi il maestro Manzi negli anni Sessanta. Prima di tutto questo, destinazione finale di un cammino iniziato molti anni prima, Eva Cambedda era una ragazzina di sedici anni che girava per Nuoro, capelli rasati a zero e tribali di cinque colori. Una volta in piazza Italia una comare non ha resistito: non ti vergogni ad andare in giro conciata così? Fortunatamente no, difatti ha tirato dritto senza degnarla.
In famiglia, d'altra parte, era considerata «una che fa di testa sua». Figlia di un bancario e di una donna che ancora oggi insegue la pensione sulle macerie dell'Enichem Fibre di Ottana, ha annunciato la partenza verso l'altra parte del mondo con la stessa naturalezza di quando s'è messa in testa un futuro speciale, magari cominciando dall'Istituto universitario Orientale di Napoli. La famiglia è rimasta a guardarla mentre faceva con calma la valigia, nemmeno una parola che potesse far vacillare una decisione che in ogni caso non prevedeva Appello.
Peccato che la strada da Nuoro a Tokyo, sola andata e scalo intermedio in Campania, non sia semplicissima. Nel bagaglio dev'esserci molta testardaggine, un pizzico di autostima e la certezza che alla fine - quando il portellone dell'aereo si spalancherà su un mondo nuovo - non mancherà l'happy end
Trentaquattro anni, sposata ad un napoletano che l'ha seguita in questa avventura, Eva Cambedda ( foto a sinistra presa dalla sua pagina di facebok) non ha figli «ma un centinaio di studenti, tra i 18 e gli 85 anni, da accudire». A voler essere precisi, nella casa del quartiere dove abita - su un lungofiume presidiato dai ciliegi - ci sono anche quattro pesci che il marito confida di trasferire in un acquario più ampio per infoltire i residenti. «Stiamo al quinto piano di una zona molto tranquilla, un passo da Shibuya, che è il quartiere più vivace della città. Quando esco, saluto qualche vicino... cosa abbastanza insolita per i giapponesi. A un passo c'è un ristorante sardo, Tharros, dove mi fermo anche solo per un caffè. E la mia giornata può finalmente decollare».
La storia di Eva si racconta in poche righe: dopo aver inutilmente cercato un'occupazione legata alla sua laurea, ha deciso di abbandonare Napoli e cercare un'alternativa a Tokyo. Entrata con un visto studentesco, ha trovato lavoro (molto pesante) in un'azienda di vini. Il salto lo ha fatto arrivando poi in cattedra alla Berlitz School, scuola di lingue dove attualmente insegna. Nel frattempo l'ha chiamata la tivù per proporle un corso di lingua italiana. Tra poco inizierà a girare un telefilm che è una sorta di traduttore applicato alla quotidianità: come ordinare in un ristorante (italiano ovviamente), dove e a chi chiedere informazioni, come comportarsi in hotel eccetera.
Senza scomodare la felicità, termine troppo impegnativo e ferocemente selettivo, cosa le manca? «Ci stavo riflettendo giusto un mese fa. Dovessi dirlo in una parola: la Sardegna. Ma è scontato, ovvio. Vorrei invece una casa più grande, per esempio con un giardino. Però so già che poi mi lamenterei perché non avrei tempo per starle dietro».
Sette anni in Giappone: quante volte è rientrata in Sardegna?
«Ci sono tornata tre volte. Purtroppo amo molto il mio lavoro e ho difficoltà a staccarmene».
Quante lingue parla?
«Giapponese e inglese correntemente. Parlavo molto bene anche francese e spagnolo ma non utilizzandoli da anni li ho un po' persi, comunque me la cavo».
Marito napoletano, lavoro giapponese: una nuorese dalla mentalità aperta.
«Ho avuto la fortuna di avere una famiglia molto severa che mi ha però sempre lasciata libera di fare le mie scelte. Fin dall'adolescenza avevo tendenze poco convenzionali ma allo stesso tempo ho sempre amato la tradizione. Non sono andata via da Nuoro perché non era abbastanza, me ne sono andata perché la Eva del tempo non mi bastava, dovevo crescere».
Appassionata di Storia antica del Giappone: come nasce questo interesse?
«È stato un processo graduale, come tutto nella mia vita: non sono una persona che si fa folgorare, ho bisogno di metabolizzare gli eventi per dargli il giusto peso. Forse però tutto è cominciato quando facevo judo. Mi affascinava il concetto del rispetto dell'avversario dettato dal Codice dei samurai».
Vivere a Tokyo.
«Tutto dipende dal lavoro che si fa ma in linea di massima Tokyo non dorme mai, milioni di persone si spostano ogni giorno sempre con una meta e spesso in solitudine. Vedere persone che mangiano o bevono da sole nei ristoranti o nei bar è all'ordine del giorno. I giapponesi non amano vivere la casa come noi, quindi la città diventa un vero teatro della vita quotidiana: lavoro, relazioni sociali, amore...».
Dà l'impressione d'essere un popolo felice?
«So che il Giappone figura tra i Paesi col maggior numero di suicidi. Felici? Non ne ho idea, probabilmente lo sono secondo i loro canoni. Che non sono affatto i nostri».
Dovesse descrivere in sintesi telegrafica i giapponesi?
«Popolo complesso difficilmente riassumibile in due parole. Il loro comportamento varia a seconda del contesto in cui si trovano. Li definirei sicuramente stoici, pervasi dal senso dell'effimero, impeccabili nel processo produttivo, carenti in quello decisionale».
Somiglianze e differenze.
«Coi sardi hanno in comune l'insularità e questo li porta per natura ad una chiusura caratteriale e a una generica diffidenza verso l'esterno. Siamo diversi nella spiccata curiosità che hanno nei confronti delle altre culture. Viaggiano ovunque e seguono corsi su qualsiasi cosa e a qualsiasi età. Basti dire che ho studenti ultraottantenni, tra l'altro i migliori direi, ricchi di storia e vivacità. Decisamente un po' lontani dallo stereotipo italiano».
Qual è l'atteggiamento comune verso l'Italia e gli italiani?
«Siamo fortunati, direi: amano l'Italia anche quando noi italiani non facciamo nulla per farci voler bene. Senza il loro estremo amore per il nostro Paese non avrei la possibilità di fare il mio lavoro. I ristoranti italiani e i centri di cultura italiani crescono come funghi. Permane un pochino l'immagine negativa dell'italiano fanfarone ma c'è anche quella dell'italiano ottimista e capace di arrangiarsi con il sorriso anche nelle situazioni più critiche».
Comportamento verso gli immigrati.
«Domanda alla quale preferirei non rispondere per la complessità dei contenuti poco riassumibili in due parole che porterebbero a fraintendimenti. Sicuramente non amano un'assoluta presenza straniera nel loro Paese. Le regole sull'immigrazione sono molto severe e spesso ce ne sono di speciali per gli stranieri, specialmente per quelli asiatici coinvolti nella seconda guerra mondiale. Giapponesi si nasce, non si diventa. Nel momento in cui sai di non voler diventare giapponese ma semplicemente essere italiano nel loro Paese rispettandone in tutto e per tutto tradizioni e regole, la vivi in modo molto positivo. Comunque noi italiani facciamo parte di una categoria speciale, appena sanno che siamo italiani gli brillano gli occhi».
Cosa non sopporta del Giappone?
«Non sopporto il loro disinteresse, almeno apparente, nei confronti dei temi politico-sociali. Sembra sempre che non abbiano curiosità o un'opinione su quello che succede. Il fatto che si viva bene li porta a non pensare che possa cambiare qualcosa. Si adagiano sulle decisioni altrui, soprattutto quelle della classe politica».
Qualunquismo o disinteresse?
«Credo sia solo indifferenza. Sono abituati a rispettare le regole e non metterle in discussione. Ne consegue una carenza di capacità critica».
Dopo la laurea ha fatto per un anno la commessa: avvilente?
«Avvilente certo, ma non per il lavoro in sé, che va rispettato. Avvilente come qualsiasi lavoro che non si sia scelto e per il quale si viene sfruttati. Ad ogni modo facevo del mio meglio e mi riusciva bene, forse avrei fatto carriera».
A quante porte ha bussato prima di partire?
«Troppe. Ricordo che avevo un'e-mail preimpostata con dentro gli indirizzi di centinaia di aziende italiane che avevano rapporti con il Sol Levante. Ogni mese la spedivo e ogni mattina accendevo il Pc con la speranza che qualcuno araccogliesse il mio sos ma, a parte le solite risposte automatiche prive del mio stesso nome nell'intestazione della lettera, nulla di nulla. Era quello che più mi spaventava dopo anni di studi».
Appena arrivata in Giappone ha invece trovato subito lavoro.
«Sì. In un'azienda che importava vini da tutto il mondo. Io mi occupavo della promozione locale e fungevo da interprete durante le manifestazioni con i produttori che venivano dall'estero».
Orari massacranti, giusto?
«Si comincia tardi rispetto all'Italia, di solito alle 9.30, ma non si sa quando si finisce. Se il superiore non va via nessuno va via, anche se non si ha niente da fare. Quante ore? Anche dodici, quattordici al giorno, spesso anche il fine settimana e dopo il lavoro a cena con il capo e i colleghi. Sembra comunque che ora le cose stiano cambiando: i giovani preferiscono essere assunti part-time anziché impiegati a tempo indeterminato in quelle che sembrano aziende-famiglia».
Lei parla di grande stress psicologico. Cioè?
«Mai una gratifica. Si deve sempre fare di più, sempre di più, non è mai abbastanza. Psicologicamente ti uccide».
Ottenuto il visto di lavoro, piovono offerte: come mai?
«Il punto sta nell'azienda per la quale lavoravo e tuttora lavoro, la Berlitz. È una scuola molto stimata, prestigiosa e super-cara (tipo: 40 minuti di lezione 80 euro) che ti apre le porte».
Insegnante alla Berlitz e ora prof nella tivù di Stato.
«Lavoro ancora per la Berlitz. In realtà sono una libera professionista. Di solito ho contratti annuali che si rinnovano automaticamente ogni anno. Mi piace decidere per quanto e per chi lavorare, non amo essere dipendente di un'azienda. La tv pubblica, la Nhk, è arrivata quasi per caso. Mi trovavo a registrare le voci per il corso di italiano della radio di Stato ed era presente, a mia insaputa, un produttore televisivo col quale ho parlato per un po'. Dopo qualche giorno mi arriva la sua e-mail in cui mi chiede di presentarmi per un colloquio: era stato colpito dalla mia vitalità e dal mio lavoro alla Berlitz».
Contraria all'idea del posto fisso?
«Non sono contraria, semplicemente non la ritengo indispensabile. Qui il salario minimo è di 1.500 euro: in una città come Tokyo ci si vive dignitosamente. Io tuttavia preferisco essere una libera professionista e decidere quali lavori mi vanno bene e a quali condizioni. In Giappone si può scegliere tra le due soluzioni».
È stata la televisione di Stato a chiamarla?
«Sì, non è qualcosa che ho cercato e in questo ho avuto fortuna. Ero nel posto giusto al momento giusto».
E sta pure girando un telefilm, adesso.
«Una serie di storielline che insegnano le regole della lingua italiana senza la pesantezza accademica che tende alla mera spiegazione grammaticale. Il mio motto sul lavoro è studiare divertendosi».
La tivù l'ha fatta diventare un personaggio popolare.
«Nell'ambito di chi studia o ama l'Italia sono conosciuta. Mi fermano per strada, oppure mi chiedono autografi e foto da fare insieme, per loro sono Eva dell'Nhk».
Voglia di tornare?
«Idealmente sì. Praticamente però è difficile lasciare il Paese che ti ha accolto a braccia aperte e ti ha dato quello che volevi. Amo il mio lavoro e amo farlo in un luogo che lo rispetta molto. Difficile lasciare qualcosa per cui si è lottato tanto».












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