Nella CASA DELLE VEDOVE, le più coraggiose vi arrivano da sole, sognando di raggiungere il paradiso dove saranno liberate dal ciclo della morte e della rincarnazione.
Ma la maggior parte viene accompagnata, o meglio «scaricata» a sua insaputa, dalla famiglia del marito, ormai defunto.
Con lui del resto hanno perso tutto, persino il cognome da sposate.
Eppure a portare a Vrindavan migliaia di donne ogni anno non è tanto la fede, ma la disperazione. Questa cittadina dell' Uttar Pradesh, 150 chilometri a sud-est di Nuova Delhi, da 500 anni è un rifugio per le donne spogliate di tutto che qui vivono, se va bene, di elemosine e offerte.
Un lungo purgatorio in terra, un viaggio senza ritorno verso l' oblio: a casa non arriverà neanche la notizia della loro morte.
Vrindavan, una città santa quasi tutta per loro: su 56 mila anime, quasi 15 mila sono vedove.
Un abitante su quattro.
Cinquemila in più rispetto a dieci anni fa.
A lanciare l' allarme è il rapporto del Fondo di sviluppo dell' Onu per le donne e Guild of Service, organizzazione umanitaria laica indiana.
Rifiutate dalle famiglie d' origine, diventate un peso per quella del marito, praticamente impossibilitate a risposarsi, le vedove si ritrovano a vagare come fantasmi tra i templi per guadagnarsi da vivere: tre rupie (6 centesimi di euro) e una ciotola di riso per 4 ore di canti e preghiere al giorno. È anche per questo che Vrindavan è segnalata dalle guide: le donne avvolte nei loro sari bianchi, che mendicano nelle strade polverose e cantano «hare Krishna» nei 5 mila templi della città, sono diventate senza volerlo delle attrazioni.
Molte sono giovanissime, andate in sposa da bambine a uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: una bocca da sfamare in meno in casa.
A Vrindavan 2 su 5 sono convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su tre è rimasta vedova prima dei 24.
Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10.
Rimaste sole, un tempo le bruciavano sulla stessa pira dell' uomo.
Ora, almeno, vivono. Rifugiate negli ashram. Dove però soprattutto se giovani vengono sfruttate sessualmente da chi dovrebbe proteggerle.
Della città delle vedove parla un film:
“Water, il coraggio d’amare” per la regia di Deepa Mehta.
Patrocinato da Amnesty International e inserito nella campagna di sensibilizzazione "Mai più violenze sulle donne" .
La pellicola è stata e candidata all'Oscar 2007. Water. Il coraggio di amare è un film toccante e con una messa in scena accurata e coinvolgente. Un film che si colloca nella tradizione del miglior cinema di impegno civile.
India, 1938: Chuyia è una bambina di otto anni, con lo sguardo, la spontaneità, la voglia di giocare di qualsiasi coetanea, solo che lei è diversa:
è una baby-sposa, a cui, per colmo di sfortuna, muore il marito.
Così, come prescrivono i rigidissimi rituali religiosi indù, la piccola è costretta a lasciare la famiglia e l'adorata mamma, per essere segregata in una "Casa delle vedove":
una sorta di lager dove - tra amicizie, umanità dolente, prostituzione occulta, divieti di ogni genere - finirà, dopo l'ennesimo trauma, per perdere definitivamente l'innocenza e tutta la luce che aveva negli occhi.
La denuncia della regista si fa aspra e inflessibile:
la vedovanza che impone alle donne indiane di allontanarsi dal resto della società, le trasforma in fantasmi abbandonati da tutti, riunite dalle lacrime per una vita passata, spesso infelice, ma sicuramente più libera.
L'arrivo nella casa delle vedove di una piccola bambina mescola destini e scatena passioni, sentimenti di tenerezza e desideri appropriativi.
Film-denuncia e set bruciato…
Lavoro osteggiato dalle autorità bengalesi e preso di mira dai fondamentalisti indù che distrussero il set e minacciarono di morte la Metha e le attrici.
Il governo interruppe la produzione per questioni di pubblica sicurezza e dopo 4 anni le riprese ripartirono in Sri Lanka segretamente.