11.4.22

effetti delle mafie sui ragazzi . i suicidio di Vittorio Maglione 13 anni figlio di un camorrista che non vuole diventare come il padre

  effetti  delle  mafie   sui  ragazzi  . i  suicidio   di   Vittorio Maglione  13  anni figlio di un  camorrista  


  da  https://www.facebook.com/leonardocecchi1991 

Vittorio Maglione aveva 13 anni quando si impiccò nella sua cameretta, a Napoli, il 10 aprile 2009. Lo scrisse su messanger, dicendo addio a tutti, fuorché al padre, un camorrista. A lui disse solo questo: “Io non voglio diventare come te. Me ne vado, non ti scoccio più”. Vittorio aveva perso il fratello maggiore pochi anni prima, ucciso perché aveva rubato il motorino alla persona sbagliata. E da anni “scocciava” il padre e la famiglia, perché nonostante avesse 13 anni tutto voleva fuorché una vita da delinquente, a cui pure a causa del contesto dove viveva sembrava destinato. Si tolse la vita in questo giorno. Un ragazzo che studiava alla scuola dedicata a Giancarlo Siani e che voleva un futuro lontano dalla malavita. Ricordando questo giorno, è difficile esprimere un concetto che non sia francamente solo il dolore per una morte così. Eppure un pensiero va fatto: quanti Vittorio esistono? Quanti ragazzi vengono condannati ad un futuro a cui non possono sottrarsi? Le mafie sono un cancro e si autoalimentano. Combatterle passa dall’agire preventivamente sulle loro fonti, le famiglie. Perché di Vittorio ce ne sono tanti, ed è compito dello Stato offrire loro una fuga da quel mondo che non sia togliersi la vita.


e da repubblica  del 11 aprile 2009

Suo padre è un esponente dei Casalesi, suo fratello fu ucciso giovanissimo
Dopo una lite col padre, lascia un messaggio in chat e si toglie la vita

Napoletano, 13 anni, figlio di boss
annuncia suicidio sul web e s'impicca

di STELLA CERVASIO


Napoletano, 13 anni, figlio di boss annuncia suicidio sul web e s'impicca
NAPOLI - "Adesso sei contento? Non ti rompo più ". Figlio di boss dei Casalesi, a tredici anni ha lasciato una riga di rabbia contro il padre nel grande mare di parole di Messenger. L'addio affidato alla chat alla quale gli adolescenti consegnano i loro pensieri protetti da un nickname, un nome di fantasia. Ha legato una corda a una trave del soffitto della casa dove viveva con i genitori e un fratello gemello, a Villaricca, periferia di Napoli e si è  lasciato cadere da un tavolo. Non voleva andarsene senza dirlo a nessuno, ha lasciato anche un biglietto, trovato sul tavolo: "Addio a tutti quelli che mi hanno voluto bene".
A luglio avrebbe compiuto tredici anni. Uno meno di suo fratello, rapinatore ammazzato dagli "scissionisti" di Secondigliano nel 2005 a Mugnano. Vittorio Maglione andava a scuola, faceva la seconda media, e a differenza del fratello Sebastiano, a quattordici anni già  sulla strada del crimine, non aveva esordito nel mondo di Gomorra. Una famiglia difficile, la violenza di una periferia congestionata e abbandonata: il padre, Francesco Maglione, nel giro era entrato molto presto.
Finito in galera per il primo omicidio a scopo di rapina nel '78, a diciott'anni, era stato nella Nco di Raffaele Cutolo, e alla fine degli anni ottanta era entrato in forze ai Casalesi, passando prima con il boss Tambaro e infine con il feroce Francesco Bidognetti, "Cicciotto 'e mezanotte".
A trovare il ragazzo quando non c'era più niente da fare è stata la madre, che era uscita per fare la spesa. Il primo giorno di vacanze per Pasqua a scuola. Il tredicenne si era alzato tardi e si era messo al computer per la quotidiana razione di "chiacchiere" elettroniche tra coetanei. I carabinieri della compagnia di Giugliano hanno trovato il pc acceso con una schermata di commenti negativi a quel proposito annunciato con enfasi: "Me ne vado, non ti scoccio più ", rivolto al padre. Gli amici, identificati con nickname dai quali gli investigatori cercheranno di risalire alla vera identità dei ragazzi, hanno cercato di dissuadere Vittorio. Molti i messaggi increduli. "Veramente ti vuoi ammazzare?".
Niente aveva girato pi� in quella casa, dopo la morte violenta di "Bastiano", quattordici anni e la vita a rischio per amicizie sbagliate. In piena faida di Secondigliano, gli "scissionisti", i dissidenti del clan Di Lauro che hanno insanguinato un vasto territorio con un crescendo di sfide, il 9 marzo del 2005 spararono un colpo alla testa a distanza ravvicinata al figlio maggiore di Maglione. Aveva rapinato la persona sbagliata e doveva essere punito: ma il raid degenerò come accadeva spesso in quel periodo, nella cruenta lotta tra bande. Un inseguimento in una strada deserta e poi l'esecuzione.
Dopo pochi giorni squadra mobile e carabinieri arrestarono cinque ragazzi, tre dei quali minorenni. Sebastiano Maglione, in sella a un ciclomotore Honda Sh con un complice, aveva tentato il colpo su uno dei suoi coetanei che era fuggito andando a chiamare i rinforzi. La vendetta del branco non si era fatta attendere.

quando è no è no Lei è Alessia Orro, 23 anni, pallavolista del Vero Volley Monza e della Nazionale che ha trovato il coraggio di denunciare il suo

da https://www.storiedeglialtri.it "Avevo 21 anni, un uomo mi scriveva di continuo sui social: complimenti, avance, poi minacce. L’ho bloccato, credevo avrebbe smesso.
Un giorno l’ho trovato fuori dalla palestra, in quel momento ho capito che non si sarebbe fermato.
Mi seguiva agli allenamenti, e alle partite, prenotava negli stessi hotel in cui alloggiava la mia
squadra.
Ho iniziato a soffrire di attacchi di panico, quando lo vedevo sugli spalti facevo fatica a concentrarmi sul gioco.
Pensavo di non avere la forza, ma grazie al supporto delle mie compagne e della società, l’ho denunciato.
È stato arrestato per stalking e finalmente ho ricominciato a respirare.
Oggi, dopo tre anni, è venuto di nuovo a cercarmi. È stato doloroso riaprire quella vecchia ferita.
Per lui provo solo schifo. Come ha potuto arrivare fino a questo punto? Far provare timore a una ragazza, farla sentire così a disagio?
È più difficile se si affronta tutto da soli: non abbiate paura, denunciate ogni forma di violenza". Lei è Alessia Orro, 23 anni, pallavolista del Vero Volley Monza e della Nazionale.
Nel 2019 ha denunciato per stalking Angelo Persico, professionista novarese di 55 anni.
L’uomo è stato arrestato, ha patteggiato una condanna a 1 anno e 8 mesi di carcere, da scontare ai domiciliari.
Tornato in libertà, ha pensato bene di rifarsi vivo. Alessia se l’è ritrovato davanti al palazzetto prima degli allenamenti.
Il galantuomo è finito di nuovo in carcere, Alessia non abbassa la testa, lo fa per se stessa e per tutte le donne vittime di sopraffazioni, molestie, violenze, che troppo spesso non trovano il coraggio di denunciare.

10.4.22

Questo bimbo a chi lo do ? nel rifugio di Kiev dove si trovano 28 bimbi nati da maternità surrogata che, a causa della guerra, non possono riunirsi con i genitori biologici.

 spesso    i  giornali femminili  contengono  storie  ed  articoli interessanti    come quello che    riporto  sotto  . Fncl  a  chi mi dice  che: sono solo letture   per  donne e non  per  uomini  .,   che  sono effeminato    perchè  leggo anche  quelli   




Reportage

Questo reportage è stato scattato nel rifugio di Kiev dove si trovano 28 bimbi nati da maternità surrogata che, a causa della guerra, non possono riunirsi con i genitori biologici.

Questo bimbo a chi lo do?

A Kiev c’è un “nido segreto” dove hanno trovato riparo 28 piccoli appena nati grazie alla maternità surrogata. Ma, per adesso, figli di nessuno. Non più delle donne che per nove mesi li hanno portati in grembo, non ancora dei genitori biologici che a causa della guerra non possono andarli a prendere. L’abbiamo visitato

Chi mi ha dato l’indirizzo si è raccomandato più volte di non rivelarlo a nessuno, per paura che potesse diventare un bersaglio dei raid russi. Le guerre provocano morti ma cambiano anche i vivi, alimentando i sospetti verso chiunque. La mattina del 19 marzo sono sceso dal taxi a Kiev e sono rimasto in strada, in attesa che mi venissero a prendere. Solo 2 minuti, durante i quali però 3 passanti mi hanno chiesto con aria minacciosa perché fossi lì, fermo, senza far nulla. Se ne sono andati solo quando è arrivata la persona che aspettavo e li ha tranquillizzati dicendo che ero un fotoreporter e stavo lavorando. Mi ha fatto cenno di seguirla e dopo qualche centinaio di metri sono arrivato alla mia meta: il “nido bunker” dove dall’inizio del conflitto hanno trovato rifugio 28 bambini nati da madri surrogate. L’idea è stata di Albert Tochylovsky, proprietario della BioTexCom, la più grande clinica specializzata qui in Ucraina per quella che tecnicamente si chiama gestazione per altri.

Entro nel palazzo moderno, scendo per una piccola scalinata e arrivo alla porta di questa nursery segreta. In un attimo il silenzio delle strade semideserte viene riempito dal frastuono del pianto dei bambini. La donna che mi ha guidato fin qui, Antonina, mi fa indossare un camice blu e dei calzari. Nella prima stanza le pareti sono ricoperte di scaffali carichi di pannolini e latte in polvere, nella seconda un’infermiera sta preparando un biberon. «Smettono di piangere solo quando diamo loro il latte» mi racconta. La guardo accennando un sorriso e penso che ci vuole fortuna anche a nascere al momento giusto e nel posto giusto. Fortuna che non è toccata a questi bimbi venuti al mondo da non più di un mese. I loro genitori biologici si trovano

in Italia, Francia, Germania, chiamano di continuo la clinica per sapere come stiano i figli ma non posso venire a prenderli per colpa della guerra. «Alcune coppie sono arrivate in Ucraina e si sono fermate a Leopoli, nell’Ovest relativamente tranquillo, in attesa che riusciamo a portare loro i piccoli nel modo più sicuro possibile» mi racconta Nikolai, un dipendente della BioTexCom che ha il compito di mettere in contatto gli aspiranti genitori con le donne ucraine che porteranno avanti la gravidanza.

L’Ucraina è la seconda meta mondiale dopo gli Stati Uniti per la maternità surrogata, che qui è legale ma può essere richiesta solo da coppie eterosessuali sposate. Ogni anno nascono tra i 2.000 e i 2.500 bambini e, secondo le ultime statistiche, attualmente nel Paese ci sono circa 800 donne incinte per conto delle coppie straniere che pagano tra i 40.000 e i 60.000 euro (la metà rispetto agli Usa). Nei primi 4 giorni di guerra Nikolai è riuscito a portare fuori da Kiev oltre 10 neonati, ma con il conflitto che prosegue sempre più aspro si può solo approfittare dei momenti di tregua per trasferire il maggior numero possibile di piccoli a Leopoli e riunirli finalmente ai loro genitori biologici.

Fino a quel momento è come se questi piccoli fossero orfani. Figli di nessuno. Non più delle donne che per 9 mesi li hanno portati in grembo, ma dopo il parto li hanno lasciati in clinica. Non ancora delle coppie che li hanno fortemente voluti, ma non possono ancora abbracciarli. Solo a Kiev,

dall’inizio della guerra, sono nati 45 bambini tramite la gestazione per altri e la maggior parte vive ancora in questo limbo. Anche legale, perché al momento non è chiaro chi siano i loro tutori né quale sia la loro cittadinanza. Secondo la legge ucraina, infatti, i genitori biologici devono venire a prendere di persona i neonati ma, prima di poterli portare fuori dal Paese, devono ritirare all’anagrafe la copia del certificato di nascita in lingua originale e il passaporto temporaneo. E gli uffici ora sono ovviamente chiusi.

«Ormai questi bimbi sono come figli per noi» mi dice Svitlana, tata di 50 anni, mentre prova a calmare il piccolo che ha in braccio. Vicino a una culla una sua collega in maglione color senape sorveglia altri due bimbi: ha gli occhi stanchi di chi non riposa da giorni, ma anche la fierezza di chi svolge il proprio lavoro con passione ed empatia. Mentre cerco di scattarle una foto senza disturbare, arriva Irina. Ha un camice fucsia e grigio e avvolge tra le braccia un bebè. Con un inglese stentato mi dice che non ha intenzione di andare via da Kiev: «Abbiamo paura, ma non possiamo abbandonare questi bambini. Resteremo qui con loro fino a quando le bombe smetteranno di esplodere. Fino a quando sarà necessario». Fino a quando sarà necessario lo dirà solo il tempo. L’odore dei neonati avvolge il sottoscala segreto governato da queste donne coraggiose. A volte trovano anche la forza per sorridere, nonostante siano stremate. Una di loro pulisce il rigurgito di un bambino col bavaglino. Un’altra prova a farne addormentare due contemporaneamente, dondolandoli uno sul ginocchio destro e l’altro sul sinistro. In lontananza vedo di nuovo Antonina, seduta su un grande materasso con una bambina sulle gambe. L’orologio alle sue spalle segna le 11 e 45. All’improvviso i bambini smettono quasi tutti di piangere e dall’esterno arriva il suono delle sirene ad annunciare un altro possibile bombardamento.


Mustapha Jawara, A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno di diventare arbitro

 leggi anche   

  • dal settimanale  Oggi 
  • In Africa, i miei amici sognavano di fare il bomber. Io no, volevo il fischietto». A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta.

                                                         Fiamma Tinelli

    La prima volta che ha indossato la divisa da arbitro, Mustapha si è fatto una foto e l’ha spedita via WhatsApp al suo amico Bunambass, in Gambia. Bunambass ha camminato per un’ora e mezza, ha raggiunto la madre di Mustapha, Jaka, che lavora nei campi e un cellulare non ce l’ha, e le ha detto: guarda tuo figlio. È vivo, è in Italia. E ce l’ha fatta.

    Mustapha Jawara, 22 anni, è il primo migrante divenuto arbitro effettivo dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Il suo è il racconto di tanti uomini e donne che attraversano l’inferno in cerca di speranza, ma non solo. È la storia di un ragazzino con un grande sogno. E di una determinazione senza pari. Quando siamo sbarcati c’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato Mustapha viene da Sanunding, un villaggio di quattro strade al confine orientale del Gambia, un Paese incuneato nel Senegal come un chiodo. Da queste parti le partite di calcio si guardano fuori dal bar, con la tv attaccata alla prolunga e le sedie di plastica per strada. «I miei amici tenevano gli occhi fissi sui bomber e sognavano di essere come Messi. Io no, io guardavo l’arbitro. Perché è lui che dirige il gioco, che dà sicurezza». A Sanunding, chi ha i soldi va alla scuola privata e impara l’inglese. Chi non li ha, come Mustapha, va alla madrasa a studiare il Corano. Che poi a Mustapha piace, il Corano, «è un libro di pace, di fratellanza», ma non è questo il punto. Il punto è che nel suo villaggio, a parte giocare a choko sul marciapiede o zappare la terra, c’è poco da fare. Un giorno, suo zio si è offerto di pagargli un corso da elettricista. A Mustapha è piaciuto, gli piacciono le cose tecniche, risolvere i problemi, «ma a che serve un elettricista in un posto dove la corrente salta ogni mezz’ora?». Così, a 14 anni se n’è andato. Senza dire niente a nessuno, perché non c’era niente da dire. All’età in cui i suoi coetanei italiani si fanno regalare il motorino per la promozione, Mustapha lavorava in un garage di Bamako, in Mali, e procacciava clienti agli autisti: se riusciva a riempire il pulmino, a fine giornata gli spettavano un piatto di riso e dieci centesimi. Altrimenti, nulla. I soldi per partire di nuovo li ha fatti così, «mettendo da parte le monetine». Aveva sentito dire che in Europa c’era lavoro, che non ammazzano la gente per strada. Il viaggio per la Libia non lo dimenticherà mai. «In macchina eravamo in venti, per pigiarci tutti dentro avevano tolto i sedili». Tre settimane di deserto, in auto, coi piedi in bocca. «Un giorno un ragazzo si è sentito male, gli mancava l’aria. L’autista ha preso a colpirlo col calcio del fucile, ma quello urlava ancora. Così gli ha sparato. L’ha lasciato nella sabbia, come un sacco».

    In Libia, Mustapha è salito sul barcone dopo sei mesi di galera, quella dove ti chiudono solo per massacrarti di botte se non paghi. A bordo c’erano uomini, donne, bambini spaventati. Un ragazzo senegalese è caduto in mare, forse s’era addormentato e ha perso l’equilibrio; il pilota s’è voltato a guardare, di malavoglia, e ha tirato dritto. Quando Mustapha è arrivato a Salerno, grazie al soccorso di una nave della Marina Militare, aveva appena compiuto 16 anni. «C’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato». È stato al centro di accoglienza che il suo amico Massimo, un operatore, gli ha parlato del corso per diventare arbitri. Mustapha s’è messo a studiare anche di notte - rigore, punizione, calcio d’angolo - e ha passato gli esami al primo colpo. Oggi arbitra le gare degli esordienti a Polla, nel Vallo di Diano. «In campo non ho paura di sbagliare. Se rispetti le regole, ti senti sicuro sempre. Vale per il calcio, ma anche per la vita». In Gambia, gli amici sono orgogliosi di lui, ma anche preoccupati: e se ti insultano perché sei nero? Mustapha sorride e assicura che il colore della pelle non c’entra: «Se se la prendono con me è perché sono l’arbitro, punto. A Polla mi vogliono bene tutti». Dal lunedì al venerdì fa l’elettricista e lavora sodo, «perché quando un Paese ti ha salvato devi restituire, mica stare a guardare le nuvole». Lo stipendio lo mette da parte: verrà una moglie, verranno dei figli. L’obiettivo, ora, è diventare sempre più bravo. E magari, chissà, arbitrare la Coppa d’Africa. Qualche giorno fa suamadre Jaka, a Sanunding, si è fatta prestare un cellulare e l’ha chiamato. C’era poco segnale, la voce andava e veniva. Gli ha detto solo: torna a casa, appena puoi. E fa’ il bravo, ovunque tu sia.



    Una storia, la sua, che è subito rimbalzata su Facebook (  e poi su media )  , una volta tanto è veicolo di storie positive  come questa  « [....] Adoro lo sport in generale - si legge su https://www.avvenire.it/agora/pagine/mustapha che     riprende  quello sul sito web dell'Aia -, ma in particolar modo il calcio. Non ho mai avuto piedi buoni, non sono molto bravo a giocare a calcio, e così ho pensato che potevo essere un buon arbitro anche perché mi è sempre piaciuta la sua figura per la sicurezza c dà in campo. Ho imparato tutte le regole a memoria per far si che un giorno il mio sogno possa diventare realtà: sogno di arbitrare la finale di Coppa d'Africa, emulando il mio connazionale Papa Gassamma, e magari quella dei Mondiali. Sarebbe veramente un sogno perché così potrei riabbracciare la mia famiglia ed i miei amici che mi potrebbero rivedere nella mia nuova veste di arbitro ».

    e poi dicono che in Italia non si fanno figli il caso della famiglia Levi -D'ancona che aspettano il sesto figlio


      

      se  invece di finanziare  la guerra  e le  opere  inutili   finanziassero famiglie  come queste o che fanno  figli oltre  il primo       risolveremo il problema  del paese  a crescita zero 




    Francesca Levi D’Ancona attende il sesto, ha preso un’altra laurea e ha successo su Instagram mostrando come se la cava. Ci ha ospitato a casa sua: già, come se la cava?

    Francesca Levi D’Ancona se ne sta sul divano di casa, mangiando pezzetti di uovo di cioccolato (ma non dovrebbe, confessa), piedi allungati e una pancia più grande di lei, qualcosa simile a una Cima di Lavaredo su un corpo minuto. Francesca è al nono mese di gravidanza, data prevista per il parto il 1° maggio.Nella casa ora c’è silenzio, d’altra parte sono le 10 di sera. Paolo e Silvia dormono nei loro letti a castello in una stanza, in un’altra ci sono Maria, Sara e Elena. Elena però non dorme nel suo letto ma in quello di Maria, nel suo letto ci dorme il cane Puffo, nella doccia c’è il coniglio Lelli. Casa Levi D’Ancona-Brunetti a Firenze è questo: 5 figli in scala, in una casa grande ma non troppo e un profilo social da oltre 62 mila follower gestito da Francesca: come fate con5. Come da stereotipi, ma in questo caso è anche realtà, le bimbe hanno occhioni da cartone Disney mentre il maschio fa lo scorbutico. In certi sensi un ossimoro perché Paolo prende lezioni di danza classica, l’arte più gentile per definizione. E qui si apre un nuovo capitolo: Silvia sta imparando a suonare il piano e fa danza anche lei come tutti in famiglia. Il sabato Paolo fa il boy-scout, ma suona anche la chitarra, mentre con Silvia gioca a tennis. C’è da perdersi. Francesca e il marito Alessio, va da sé, fanno avanti e indietro tra scuola e extra.



    Zero capricci, si mangia quel che c’è e tutti, tranne la più piccola, si vestono da soli Sono molto magri entrambi. Costituzione certo, ma viene il sospetto che il loro movimento

    semiperpetuo contribuisca. Una mattina standard, ad esempio, vede il papà che con la bici porta due figli a scuola, uno sul seggiolino davanti e uno sul seggiolino dietro. Poi torna a casa e carica gli altri due. Poi va al lavoro. La mamma o la nonna vanno a prenderli. «Come fate con 5?», è la domanda che più spesso i follower rivolgono a Francesca. Lei cerca di rispondere con una miriade di storie Instagram, circa una ventina ogni giorno con le quali racconta la vita della famiglia dal mattino fino a quando si va a dormire («Se non faccio stories per qualche ora, mi scrivono “Tutto ok?”». Ebbene, come fanno? Francesca, sdraiata sul divano alle 10 di sera, dopo che i figli hanno scombinato persino i tappeti di casa, racconta: «I segreti sono pochi. Niente capricci, si mangia quel che c’è e tutti, tranne Sara, si vestono da soli e vanno a letto da soli». Cerca di focalizzarsi sulle altre domande che le fanno: «Molti sono interessati all’economia familiare. Siamo fortunati perché abbiamo la casa di proprietà, ma poi ci sarebbe forse da vergognarsi se fossimo stati ricchi? Per il resto io non vado dal parrucchiere, non vado dall’estetista, non mi interessa lo shopping. Non sono rinunce per me. Preferisco con i soldi risparmiati pagare la scuola ai bambini che è privata ma vicina a casa ed è la stessa per tutti e quattro i più grandi. Un grande vantaggio». Per quel che può valere, Francesca ci sembra dire la verità. Ci sono due piccoli indizi a dimostrarlo: tutti i bimbi mangiano senza fiatare quello che viene portato in tavola. Lattosio, cibi bio, allergie immaginarie non esistono: il primo è un piatto di tortellini del supermercato con panna e piselli, secondo i gloriosi menu anni ‘80, se non piace tolgono i piselli e via. E poi Francesca è sì avvolta in un’incantevole tuta a fiori, manca un bottone e uno dei pizzi è un filo rovinato. Vero: ai vestiti e al trucco bada poco.  Ha la riposta pronta anche alla più classica domanda: perché sei figli? «Perché no?», controbatte. «Con Alessio volevamo una famiglia, entrambi. Al terzo figlio ci siamo detti “perché no il quarto?” e poi “perché no il quinto?”. E ora sono in gravidanza». Francesca ha 36 anni, una seconda laurea presa ora, quando si è sposata era già incinta. Un amore molto veloce. Letteralmente: lei e Alessio si sono messi insieme a luglio 2013, si sono sposati a ottobre, lei di tre mesi. Lui era rimasto folgorato dopo averla vista a una festa con gonnellino hawaiano e conchiglie come reggiseno. Il viaggio di nozze ha toccato la Crimea e Odessa. Ricorda Alessio: «Odessa era piena di parchi e famiglie. Vedere adesso i sacchi di sabbia per difendere la città sotto assedio mi sembra impossibile», sospira incredulo. Si amano anche se non è tutto rose, come potrebbe esserlo con cinque figli e mezzo? Francesca ha perso un figlio, Elia: «Ero a fare l’ecografia ed ero sola, mi hanno detto che non c’era più il battito». Sono state le follower a fare rete attorno a lei, oltre alla famiglia e a una mamma molto presente. E poi lei e Alessio litigano, eccome. Si amano ma litigano perché a volte ad Alessio manca lo spazio, quello temporale non metrico. Gli manca non poter avere più tempo per la mountain bike, la sua passione. Poi guarda Sara, la figlia che sistema puntigliosa i tappeti di casa, lasciati in disordine dalle sorelle, o Maria che vestita da Elsa di Frozen accarezza il bianco coniglio e si sente squisitamente felice.

    8.4.22

    italiani di serie A e italiani di Serie B

    In un paese , come il nostro , che ha subito sulla sua pelle fra il 1880 -1970 i fenomeno dell'emigrazione , ed la cui costituzione e la forma repubblicana sono nate da una durissima lotta contro una dittatura ( e le sue forme di discriminazione vedi leggi anti meticciato prima e legge razziali dopo ) e da una violentissima ( non solo nel numero delle vittime ) guerra civile esiste ancora una fortissima discriminazione esiste una fortissima discriminazione accettata e tollerata dalla maggior parte del paese e per cercarla di proporla davanti all'immobilismo e chiusura parlamentare nessuno osa indire banchetti per un referendum o raccolte firme per una legge d'iniziativa popolare chela contenga . Infatti mi viene da chiedermi la stessa domanda della foto sotto riportata 
  •  dal    settimanale  Oggi
  •                                      Di ANDREA GRECO — foto di ARMANDO ROTOLETTI

  • «Studiano e crescono nel nostro Paese, non sono stranieri», dice Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia Romagna. Una nuova legge propone che, dopo 5 anni di scuola, venga data loro la cittadinanza. Passerà?

    Sono orgogliosissima». Elly Schlein , vicepresidente della regione Emilia Romagna, sceglie il superlativo assoluto per descrivere il suo stato d’animo rispetto alla decisione del comune di Bologna di dare la cittadinanza italiana onoraria ai bambini e ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, o che vivono in Italia e hanno completato almeno un ciclo scolastico nel nostro Paese. Una decisione, quella

    del capoluogo, che fa scuola: Faenza, Cesena, Modena e ora anche Napoli hanno deciso di seguire l’esempio. «Non è una gentile concessione. Si tratta semplicemente di riconoscere al tempo stesso un diritto e un’evidenza: questi ragazzi crescono e studiano nel nostro Paese. Nessuno li considera stranieri: non i loro compagni di classe, non gli amici, o i loro professori. Spesso sono nati qui, o sono arrivati quando avevano pochi mesi. Però per la legge non sono italiani. In questi giorni la commissione Affari Costituzionali della Camera ha adottato un testo per la riforma della cittadinanza, il cosìddetto Ius Scholae, che garantirebbe la cittadinanza a chi ha frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni. Ed è stato votato anche da Forza Italia. Sono per lo Ius Soli (prevede che chi nasce nel territorio di un certo Paese ottenga automaticamente la cittadinanza), ma questa proposta è un buon compromesso. Spero passi in fretta». La scorsa estate tutta l’Italia ha gioito per le medaglie conquistate dagli azzurri, e nessuno ha fatto caso che alcuni fossero di origine straniera. Magari anche questo ha contribuito…

    «Per i giovani non credo sia cambiato nulla. Loro hanno già assimilato questo cambiamento. Per le persone più mature è diverso. Gioire dei successi di atleti azzurri di origine straniera spero abbia fatto riflettere sull’ingiustizia dei tanti italiani che nascono e crescono qui senza la cittadinanza».

    Lei è cresciuta in Svizzera, suo padre è americano, ma gli avi erano di Leopoli. Sua madre invece è italiana. Lei ha la cittadinanza italiana, svizzera e statunitense. La sua storia influisce nelle battaglie per l’inclusione che conduce?

    «Influisce ovviamente, e soprattutto mi spinge anche a pormi degli interrogativi. Sono italiana per nascita, anche se ho passato i primi 18 anni in un altro Paese, mentre a tanti ragazze e ragazzi che li hanno passati in Italia questo è un diritto negato».

    Le ripropongo la considerazione standard dell’utente dei social: «C’è la guerra, l’inflazione, la crisi, la benzina a due euro e noi qui a perder tempo con lo ius

    ». A lei la chiosa.

    scholae

    «Per rispondere ho scritto un intero libro, si intitola La nostra parte. La verità è che diritti sociali e civili sono inscindibili, così come la lotta contro le diseguaglianze e contro i cambiamenti climatici. Transizione ecologica, politiche di inclusione, parità di genere non sono temi di cui occuparsi quando non c’è nulla di più importante in agenda, ma occasioni che dobbiamo sfruttare, per stare meglio tutti, persino economicamente. Se in Italia la percentuale di donne che lavora fosse uguale a quella di altri Paesi europei il Pil farebbe un balzo in avanti. Se imparassimo a sfruttare e far crescere le rinnovabili, evitando i veti incrociati, ora risentiremmo di meno del gas alle stelle. Il mondo sta cambiando e dobbiamo cambiare modo di pensare, se non per

    gli ideali, almeno perché conviene».

    mi citerebbe?

    Fino a ora abbiamo parlato dei temi cari a una nuova sinistra, così nuova che ha un’area che la sostiene, ma non un partito di riferimento. Però se lei dovesse salvare una frase della vecchia sinistra, quale «Mi viene in mente Antonio Gramsci e il suo “Odio gli indifferenti”. Perché da sempre, e ora di

    Sordi, non sordomuti la storia di di Gloria Antognozzi figlia udente di genitori sordi segnanti.

     non si finisce mai   d'imparare  e di rimettere   in discussione ciò che hai imparato . Infatti   anch'io   cadevo nell'errore  di  cui  si parla   nella lettera    sull'ultimo n  de settimanale oggi   che      ho trovato  ed  riporto sotto  insieme  alla  vicenda    di Gloria Antognozzi  (  foto  a sinistra )  figlia udente di genitori sordi segnanti. Studia alla facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione presso l’Università di Roma 3.
     Lavora come Assistente alla Comunicazione, Interprete LIS ed è socia fondatrice nonché Presidentessa dell’Associazione  CODA Italia ( https://www.codaitalia.org/ per  maggiori  informazioni    su  tale  mondo   su  cui esistono  pesanti  pregiudizi   e  sui cui m'identifico  pure  io  visti i  forti problemi di sordità  ).

    Gentile direttore,
    gli Oscar alla pellicola I segni del cuore – Coda rappresentano per la comunità dei sordi una soddisfacente vittoria a ben 35 anni dall‘ultimo film Figli di un Dio minore, ma in articoli e titoli si utilizzano termini molto obsoleti, come “sordomuto”, “linguaggio” dei segni, “linguaggio mimico-gestuale”, “non udente”. Grazie alla Legge 95/2006 art.1 la persona è definita sorda a tutti i sensi di legge e decade il termine “sordomuto”, inappropriato, dal momento che il sordo può imparare a parlare, in quanto l’apparato fonatorio è integro. I sordi preferiscono il termine “sordo”, invece di “non udente” perché è la negazione di un qualcosa che non esiste. Inoltre i sordi non usano un linguaggio ma la Lingua dei Segni Italiana (LIS – senza i puntini fra una lettera e l’altra), una lingua che ha una propria struttura, regole grammaticali, sintattiche, morfologiche e lessicali come una qualsiasi lingua parlata. Non esiste la lingua dei segni universale, così come non tutto il mondo parla l’esperanto. Infine, non è neanche corretto dire o scrivere “Linguaggio mimico-gestuale”. I sordi usano segni che non vanno confusi con la comune gestualità utilizzata dagli udenti per enfatizzare un discorso e rispettano regole sintattiche ben precise.


                                                Vanessa Migliosi, presidente Movimento Lis subito



    La casa coi lampeggianti quando suona il telefono, l’infanzia passata a far da interprete fra i genitori e il mondo. Come Ruby, la protagonista di Coda - I segni del cuore, il filmdell’Oscar, Gloria Antognozzi vive sospesa tra due realtà. E in una, c’è solo il silenzio

    La prima volta che Gloria Antognozzi ha cantato in pubblico, in una chiesa gremita, suo padre si è addormentato e sua madre ha dovuto tirargli una gomitata. «La gente aveva le lacrime agli occhi e i miei si guardavano attorno straniti: ma che avranno da piangere, tutti? E quand’è che tocca applaudire?».

    Romana di Portonaccio, 29 anni, qualche giorno fa Gloria è andata a vedere CODA – I segni del cuore, miglior film agli Oscar. E ha pianto, «perché parevo io». Anche Gloria, come Ruby, la protagonista, è la figlia udente di genitori non udenti. Anche lei è cresciuta tra due mondi, uno che sente e l’altro che parla con le mani. Anche lei ama i suoi genitori ma ha sentito la fatica di dover fare da tramite, «semplicemente perché senza di te tua mamma non può neanche comprare un’Aspirina». Oggi, il suo essere “diversa figlia di diversi” Gloria lo vive come una ricchezza: interprete Lis, la lingua italiana dei segni, lavora con alunni non udenti, gira documentari, ha tradotto le canzoni di Emma e Irene Grandi a Sanremo. Ma per lei, trovare una sintesi tra la vita in casa e quella fuori, tra quel continuo “noi” e “loro”, non è stato facile.

    Lei cantava, ma ha smesso. Perché?

    «Mi sembrava di fare un torto ai miei genitori. Quando mi hanno ammessa all’Accademia di Santa Cecilia non sapevo che dire: come glielo spiego che ho una bella voce? Per loro esiste solo il silenzio».

    Come si è innamorata del canto?

    «A casa nostra, ovvio, la musica non c’era. Finché un giorno mio padre arrivò con uno stereo per me e mia sorella Susanna, udente anche lei. Guardavo questo coso come fosse un alieno, ricordo che passai una giornata ad ascoltare I migliori anni della nostra vita, a nastro. Mi addormentai abbracciata alle casse».

    Quando ha capito di vivere in una famiglia diversa dalle altre?

    «Subito. Gli altri bambini chiamavano la mamma e lei arrivava, io, se mamma era girata di là, dovevo andare a tirarle la maglietta. Ho imparato a chiedere l’acqua prima con le mani che con la voce, a casa nostra esisteva un lampeggiante per il telefono e uno per il campanello. E poi c’erano le domande dei compagni, a scuola».

    Cosa le chiedevano?

    «Di tutto. Perché i miei genitori avessero una voce strana, se potevano guidare, perfino se sapevano leggere. Per alcuni era una curiosità bella, un’amica che veniva spesso a giocare a casa nostra aveva imparato a segnare: “buongiorno!”, “posso avere un succo di frutta?”. Qualcuno ci invidiava pure un po’, perché io e Susanna potevamo par

    lare in codice e nessuno ci capiva. Nel quartiere, però, mi hanno chiamata a lungo “la figlia della muta”. Che poi, mia mamma è tutt’altro che muta: quando alle superiori mi bocciarono e la preside le rivelò che avevo saltato un sacco di lezioni, la sentii gridare fin giù dalle scale. Lì cominciò la stagione dei colloqui alternati coi professori».

    Alternati?

    «Sì, perché mamma aveva capito benissimo che mia sorella e io traducevamo la metà di quello che le dicevano gli insegnanti. “Sua figlia ha fatto un compito da schifo” diventava “S’impegna molto ma potrebbe migliorare ancora”. Era furiosa: “Ma mi pigliate per scema?”. Finì che agli incontri sulle pagelle di Susanna mamma portava me e ai miei faceva tradurre lei».

    Quanto le è pesato, questo continuo fare da ponte?

    «A12 anni stavo in banca a contrattare il mutuo per i miei, e chi lo sa come si segna “tasso d’interesse”? Mia sorella e io abbiamo dovuto crescere in fretta, più in fretta di quanto fosse giusto. Ma la colpa non è dei miei genitori, che ci hanno sempre fatto vivere la nostra diversità come una ricchezza. La colpa è di una società che non si organizza per sostenere chi non sente, che non provvede agli interpreti, che non informa. L’anno scorso, quando mia mamma ha chiesto a una commessa la cortesia di abbassarsi la mascherina per poterle leggere le labbra e capire cosa dicesse, quella si è messa a urlare e l’ha allontanata. La pandemia è stata un disastro».

    Nel film c’è una scena in cui Ruby chiede a sua madre: «Avresti preferito che fossi come te?». È una domanda che ha fatto anche lei?

    «Come no. Mamma mi ha sorriso e ha risposto che sì, quando siamo nate ci avrebbe voluto sorde, ma poi s’è detta “pazienza, impareranno questo e quello”. Le dirò di più: ci sono stati momenti in cui io stessa avrei voluto essere uguale a mamma, a papà, ai loro amici con cui passavamo ogni vacanza, in cui mi sono chiesta a che mondo appartenessi. È difficile trovare un confine».

    Se un giorno fosse lei, la mamma?

    «So cosa intende, la sordità è ereditaria. Esiste un test genetico per capire se sei portatore, ma io ho deciso di non farlo. Se avessi un figlio, lo amerei e basta».

    Lo psicolinguista americano Harlan Lane diceva che la sordità non è un handicap, ma una cultura.

    «È verissimo. I sordi hanno una loro storia, i loro poeti, il loro modo di raccontare il mondo, un loro sense of humour e ne vanno orgogliosi. Infatti si dice “sordo”, “non udente” è una formula offensiva, non identitaria. E l’identità sorda per loro conta moltissimo, perfino quella regionale. Il segno di “daje”, per dire, ce l’abbiamo solo a Roma, a Torino mica lo conoscono».

    E la bella voce di Gloria? Dove trova spazio, in tutto questo?

    «Sto lavorando su me stessa per capirlo. Oggi canto solo quando vado in motorino, per strada. Certo, un palco tutto mio... Ora so che mamma non può sentirmi, ma gli altri sì. E forse è venuto il momento di farci la pace».


    7.4.22

    quando a commettere un femminicidio è un giudice . la storia di Giuseppe Sapienza magistrato della corte costituzionale

     

    «OGGI» DI IERI


     A fianco, da sinistra: il giudice Giuseppe Sapienza, Patrizia Giglio e Roberto Ippolito

    Erano parole disperate quelle di Patrizia Giglio, allora 34 anni, che la nostra cronista Gabriella Montali raccolse poco dopo il delitto, avvenuto il 13 aprile 1992: il suo ex amante, il giudice della Corte costituzionale Giuseppe Sapienza, 39, aveva ammazzato suo marito, Roberto Ippolito, 37, perché lei aveva deciso di non separarsi e di rompere, invece, con il magistrato. C’era voluto quasi un mese per capire chi avesse sparato alla tempia di Ippolito. Nel frattempo, Sapienza si era pure calato nel ruolo del consolatore. «Vorrei essere sotto terra, morta e sepolta anch’io, come mio marito Roberto. Cosa racconterò a mia figlia Caterina, adesso che suo padre se n’è andato in quella maniera orribile? Che potevo fare? Quel giudice aveva perso la testa... Per sfuggire alle sue molestie non andavo nemmeno più in ufficio... Ma che arrivasse a uccidere, no, non l’avrei mai immaginato». Patrizia, segretaria e impiegata presso la Consulta, proprio come suo marito, non riusciva a capacitarsi. Né ci riusciva l’opinione pubblica: un magistrato? E, per di più, della Suprema Corte? Eppure alla fine i giudici non credettero all’unica tesi che gli avvocati difensori avevano potuto giocarsi: l’infermità di mente. A fine ottobre 1993, la Corte d’assise di Latina, dopo quattro ore di camera di consiglio, condannò Giuseppe

     la fossa in cui Sapienza aveva sepolto Ippolito dopo averlo ucciso.
     A destra, Giglio al processo al Tribunale di Latina.
    Sapienza a 23 anni di carcere. Patrizia, in quell’occasione, era scoppiata in un lungo pianto disperato. La madre della vittima, Caterina Ippolito, aveva invece commentato in modo secco: «Spero solo che sia stato giudicato come uomo, e non come magistrato». Poi, il silenzio. Eppure, 30 anni fa, avrebbe dovuto fare molto rumore quella vicenda, pur piombata in un inizio anno fitto di eventi (dal dissolvimento dell’Urss, siglato nel dicembre 1991, all’assedio di Sarajevo, dall’inizio della guerra civile in Afghanistan alla Strage di Capaci). Gli elementi c’erano tutti: un brillante, giovane e promettente magistrato che si innamora della sua avvenente e vivace segretaria. Una storia clandestina. E poi un sentimento che diventa ossessione. Persecuzione. Patrizia che cambia idea e rifiuta di firmare le carte della separazione che lui le spinge sotto il naso e inizia a fingersi malata pur di non andare in ufficio e

    sottrarsi così alle sue molestie. Giuseppe, che con un ego smisurato, non riesce ad accettare l’idea che lei gli preferisca il marito, un “semplice impiegato” che lavorava part time per completare i suoi interrotti studi universitari. Un vicolo cieco. All’epoca, a nessuna donna sarebbe venuto in mente di denunciare molestie sul lavoro. Non sarebbe stata creduta: non era forse stata l’amante? E poi Ippolito non si era accorto di nulla: la nostra cronista lo ribadisce. Il suo stupore dev’essere stato immenso: invitato da Sapienza nella sua villa di Terracina c’era andato senza alcun sospetto. «Il colpo della pistola, comprata un mese prima, arrivò dritto alla testa», scrive Montali. «Ippolito veniva spogliato (gli sono stati tolti solo i pantaloni e gli slip, altra circostanza strana di questo omicidio) e seppellito in una fossa di tre metri scavata in giardino due settimane avanti».

    Tolta la rilevanza del ruolo ricoperto da Sapienza e quindi l’interesse pubblico della vicenda, forse avrebbe comunque meritato l’oblio, se, ad aggravare il tutto, non avesse concorso uno strano e inquietante elemento: i Carabinieri erano stati avvertiti. E non avevano fatto nulla: non solo perché di avvertimenti del genere, pare, ne ricevessero a bizzeffe (e quante volte, ancora oggi, le denunce di violenze vengono sottovalutate?). Ma soprattutto perché sembrava loro impossibile che un magistrato si volesse macchiare di un delitto del genere. E invece Giuseppe Sapienza aveva confidato la sua ossessione e le sue intenzioni al suo amico Filippo Iannarone, allora 39 anni, imprenditore agricolo a Panicale ( Perugia), che, appunto, era andato a raccontarlo ai Carabinieri. Senza fare il nome del magistrato e senza firmare una denuncia. Poi, a 17 giorni dal delitto, l’assassino gli aveva confessato tutto. Ma quando, il 1° maggio, erano andati ad arrestarlo aveva fatto finta di cadere dalle nuvole. Salvo confessare dopo 12 ore di interrogatorio. Una sua ex aveva raccontato alla nostra cronista: «Ha amato una sola persona in vita sua: la madre, che ha idealizzato... Lui stesso diceva di essere incapace di innamorarsi». Di uccidere, invece, sì.

    GIUSEPPE SAPIENZA: riconosciuto colpevole dell’assassinio di Roberto Ippolito e della premeditazione, fu condannato, nel 1993 a 23 anni. Nel 1995 la sentenza fu confermata in Appello. Sapienza ricorse il Cassazione e il caso arrivò addirittura alla Corte costituzionale che, il 17 ottobre 1996, dichiarò infondato il ricorso.

    VITO IPPOLITO: il padre della vittima, che sperava nell’ergastolo, affermò, dopo il primo grado: «Noi siamo e resteremo una famiglia unita... Anche permia nipote». Caterina aveva allora 16 anni.


    che succede alla scuola italiana Alunni imbrattano il bagno di feci, la maestra li rimprovera e i genitori la denunciano: condannata a un mese e 20 giorni?


    ma come sta diventando la scuola italiana tra prof che ridono e sono contenti se un ragazzino autistico si prende il covid , presidi che non s'accorgono e che non prendono provvedimenti nonostante le segnalazioni delle vittime verso prof bavosi (per non dire di peggio ) le alunne , presidi sospettati  d'abusare di potere . E  per   ultimo presidi ed  giudici  che si fanno mettere i piedi in testa da i genitori e sospendono una prof che sgrida i ragazzi di quinta elementare per aver imbrattato con feci il muro dei bagni forse in maniera esagerata visto che secondo quanto riporta quest articolo del il sito leggo.it  << oltre a ai i legali della donna, anche l'accusa aveva chiesto l'assoluzione della supplente, sottolineando come i racconti dei testimoni non fossero coincidenti fra loro  >> .
    come  cambiano i  tempi  quando  andavamo a  scuola  noi  

    5.4.22

    ma che razza d'amore è di comicità si ha con il femminicidio di carol Maltesi

      dopo la  triste    vicenda  di carol maltesi o  charlotte  angie   come  si faceva  chiamare  nel  suo lavoro  )   e : 1) l'intervento   di comici da strapazzo  ,


     io   chiamo cosi   quei comici  che non  si pongo  limiti di buon senso  e  opportunità  o  sfruttano  come il secondo  il  fatto  per  cercare notorietà  .,  2) le  anticipazioni   (    che  visto il genere   di trasmissioni  e  di programmi saranno sicuramente   confermati ) dell'intervista    che  a Salvatore Galdo  ragazzo   della povera  Carol Maltesi  ha rilasciato  e   che   andrà in onda  oggi  martedi  5  aprile  in cui  dice  :  <<  [...] "Davide non ha mai accettato che Carol dopo la breve relazione che avevano avuto due anni fa, durante il lockdown, lo avesse lasciato e proprio ai primi di gennaio lei finalmente aveva deciso di staccarsi definitivamente da lui e questo evidentemente lo ha fatto scattare. Lui avrà pensato: o con me o niente. Per questo credo che il delitto sia stato premeditato. La storia del video se l’è inventata. L’ha uccisa perché non voleva farle fare la sua vita. Lei voleva stare con me. Voleva venire a vivere con me", continua il 30enne. Il ragazzo racconta anche che, dopo giorni dalla morte di Carol, ha ricevuto una chiamata dal suo profilo, ma non è riuscito a rispondere in tempo. Ha cercato, invano, di richiamarla più volte finché disperato scrive a Davide, implorandolo di farlo contattare da Carol: “Dorme sempre”, la risposta. >>  Mi chiedo perchè   tali comici   non stano zitti   o  si comportano  specie  Andrea Vituzzi come  un  avvoltoio   che   si  getta    su una preda   appena  morta  . ? Capisco che  la  comicità   debba   essere :   libera  , senza  padrone  ed  contro  tutto e tutti   ,  ma  va  saputa  fare soprattutto quando si tratta di humor nero   ,  e quando succede perchè  può capitare  a tutti  compreso il sottoscritto (  a cui è capitato   anche  se  non    a livelli del  genere   )    chiedere    scusa    anche  se    l'applicazione  del termine  / parola   Scusa sembra essere la parola più difficile  a   dirsi e  a  farla 
     Cosi  come mi  chiedo      se   uno  dice   d'amarla  non la lascia sola con un bambino . anche  se  ami una persona perchè non    denuncia   ( provi a fare ragionate o picchi ) colui che  la  perseguitava    ed era morboso nei suoi confronti .  Ed    accetta     che  lui  si   spacci   al telefono  per  lei   ed  non  si  pone    qualche dubbio ?  Una  cosa  del genere   si  può   chiamare   amore  ? Secondo me . No.   Sarà anche come  dicono alcune   mie amiche  femministe     amore  possessivo   ma meglio ciò in certe situazioni che trovartela morta o torturata psicologicamente e fisicamente  non trovate  ? 

    4.4.22

    Paolo Rondelli, 58 anni, storico attivista Lgbtq, e da poche ore primo Capo di Stato dichiaratamente gay al mondo.



    Quest’uomo dalla barba risorgimentale si chiama Paolo Rondelli, 58 anni, storico attivista Lgbtq, e da poche ore primo Capo di Stato dichiaratamente gay al mondo.

    Rondelli è uno dei due nuovi capitani reggenti di San Marino.
    Non dovrebbe neanche essere una notizia, se non fosse che parliamo di un Paese in cui, fino a 18 anni fa, l’omosessualità stessa era un reato punibile col carcere.
    Perciò, se ve lo steste chiedendo, sì, è una notizia. È un caso più unico che raro. È il simbolo di una svolta istituzionale che sta diventando culturale. È un passo in avanti verso la civiltà.
    Aspettando il giorno in cui non ci sarà neanche bisogno di sottolinearlo.
    Buon lavoro Capitano. Lui sì, Capitano vero.

    «Il patriarcato è finito. Violenze in aumento per l’immigrazione illegale»: il discorso di Valditara alla Fondazione per Giulia Cecchettin. se stava zitto faceva più bella figura

    «Occorre non far finta di vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza, in qua...