13.10.22

In abito da sposa al cimitero per rendere omaggio al papà morto

  la  storia  di queste  due spose   che decidono  prima di celebrare il loro matrimonio  di rendere  omaggio ai  loro padri   Descrive benissimo  miei lutti parentali e di amici fraterni avuti tra la primavera  e l'inizio  autunno di quest'anno  e  tutto il periodo   adesso un po'  più calmo  (  sono arrivato  quasi  all'arcobaleno )   della triologia  sulla  malinconia   ed  i post ad essa  collegati   . Prima  di lasciarvi  ad  essa   devo fare   chiarire  una  cosa   non si  tratta    di  un  elogio  del patriarcato   ma il  ricordare   un genitore \ un punto di riferimento  , il padre  in  questo  caso  , che non c'è più.  Infatti  leggendo e  storie  sotto  riportate  , sono convinto che esse  avrebbero fatto la stessa  cosa     se  ad essere  morti   fossero le  loro madri .   Adesso basta  con il  pistolotto   e veniamo  alle  storie d  di   Alessia e  Gianna


  fonte    fanpage Napoli  

La giovane sposa va al cimitero per rendere omaggio alla tomba del papà pochi minuti prima di convolare a nozze. La fotografa del matrimonio scatta una immagine che inevitabilmente diventa oggetto di affettuosi commenti e commozione. Il padre della sposa riveste uno dei ruoli più particolari in quella grande macchina organizzativa e turbinìo di emozioni rappresentato da un matrimonio. Nell'unione tra due persone che si amano spesso i genitori sono gli specchi dentro i quali gli sposi si guardano. E ci sono delle situazioni in cui la presenza di uno o di entrambi i genitori genera enorme commozione anche tra gli invitati.  Quando il papà o la mamma non ci sono più spesso gli sposi affidano ad un ricordo, ad un simbolo, la loro presenza durante il matrimonio.




A Mugnano, popoloso centro a Nord di Napoli, Alessia, in quello che spesso viene definito «il giorno più bello» ha deciso di fare una deviazione prima di andare in chiesa e convolare a nozze. Si è recata nel cimitero del paese e si è fermata a rendere omaggio e saluto al papà scomparso.  La fotografa, Angelica Casaccia, ha deciso con molto tatto ma anche con estremo tempismo, di scattare una foto.Su un frequentatissimo gruppo Facebook di Mugnano, la fotografa racconta :La foto che mai e poi mai avrei pensato di fare. Una sposa al cimitero. Ho riflettuto un po’ se pubblicare o meno questa foto: come la vedranno? La capiranno? Troppo personale? Alessia è speciale, una di quelle persone che nonostante le difficoltà incontrate durante il suo cammino, è grata alla vita! È una donna che ringrazia, ringrazia tanto ed è riconoscente alle persone che ama, alle persone che sono presenti, ed essere riconoscenti purtroppo è una prerogativa per pochi. Probabilmente queste sono le caratteristiche che mi hanno colpito di più in lei. Ieri Alessia mi ha mandato un vocale, dicendomi che il suo desiderio più grande prima di andare in chiesa era quello di passare al cimitero a salutare il papà. “Angelica possiamo?!” “Possiamo? Sei la sposa, è il tuo giorno andiamo dove vuoi. ”Ha continuato a ringraziarmi tutta la giornata e a scusarsi se “per caso in qualche modo mi ha fatto perdere tempo”. Faccio il lavoro più bello del mondo, mi impegno tanto per lasciare qualcosa alle persone, ma probabilmente non vi accorgete di quanto siate voi a lasciare qualcosa a me. Entrando in quel cimitero stamattina mi sono resa conto di quanto “sono piccola” ma soprattutto di quanto sono fortunata. Mi si è stretto il petto e avuto un nodo in gola. Quando entri nelle case delle persone diventi parte di un qualcosa questi aprono i loro sentimenti a te e ti raccontano le loro storie e credetemi quando vi dico che è un privilegio.

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Dalla Finlandia, dove vive, ha deciso di sposarsi nella sua Ischia, dove è cresciuta: Gianna, nel giorno delle nozze, prime del sì ha voluto però farsi immortalare al cimitero sulla tomba del padre.

Ha voluto, in qualche modo, che al suo matrimonio fosse presente anche il padre, nonostante questi sia morto circa 10 anni fa: così, in abito da sposa, nel giorno delle nozze, si è fatta immortalare sulla tomba del papà, sulla quale si è recata a rendere omaggio. La storia, e lo scatto, molto commoventi, arrivano dall'isola di Ischia, dove Gianna, la sposa, ha deciso di convolare a nozze, nonostante lei e suo marito – anch'egli partenopeo – vivano ormai in Finlandia da qualche anno: la donna ha voluto fermamente fare ritorno sull'isola dove è cresciuta per convolare a nozze, per avere vicino a lei gli affetti più cari e, in qualche modo, anche il padre, morto quando Gianna, che ora ha 28 anni, ne aveva solo 19.

Con l'abito bianco e il bouquet tra le mani, la neo sposa si è fatta immortalare mentre rende omaggio alla tomba del padre. Lo scatto (realizzato dal fotografo Luca D'Ambra) è stato pubblicato dalla stessa Gianna su Instagram; la donna, come didascalia, ha scritto una sorta di lettera al padre: Quando ho camminato verso quell’altare tu non c’eri al mio fianco. Non c’eri quando ho conosciuto l’uomo che oggi è mio marito, quando ci siamo fidanzati, non ci sei stato quando abbiamo litigato. Non hai avuto la possibilità di conoscere questo meraviglioso uomo che amo così tanto, non potrai conoscere i nostri figli che, se Dio vorrà, forse un giorno ci saranno. Ma non c’è stato neanche un momento in cui io abbia pensato che tu non ci saresti stato per me, se ti fosse stato concesso più tempo qui con noi. Non c’è stato neanche un attimo in cui io abbia creduto che tu non saresti fiero di me, che non ameresti alla follia la tua nipotina, che non avrei potuto chiamarti e chiederti di sistemare qualsiasi cosa io abbia combinato. Quando ho camminato verso quell’altare io ti portavo con me, non solo come una foto nel ciondolo appeso al bouquet, ma soprattutto nel mio cuore, nella forma dei mille ricordi bellissimi che ho di te  Sono sempre di più le spose, che hanno perso affetti cari, che nel giorno delle nozze decidono di recarsi, in abito bianco, al cimitero per rendere omaggio a genitori e parenti in generale che non ci sono più

Cresce i nipoti orfani della cugina uccisa dall’ex: “Abbandonato dallo Stato con sei figli” anche lui ha lottato per aver riconosciuto i suoi diritti come Vanessa mele orfana di femminicido

 

Generalmente  quando si parla  di femmnicidio o violenza  di genere   non si  parla  se  non in casi  eccezionali come queri  due riportati sotto  diquello che  è un effetto collaterale  d'esso ovvero gli orfani  . Ed  è per  questo che  riporto  tali storie   in quanto  della descrizione  spesso giustificazionalista   e ipercomprensiva  dei  fatti in sè     ne sentiamo   ed  leggiamo  in abbondanza .

Ecco   che quindi  una delle poche   in merito  questa inchiesta   di fanpage  affronta  il problema  in quanto  gli orfani (  quando va bene )  ed  i  sopravvisuti   sono spesso maltrattati dallo stato  e devono lottare  duramente    per  i loro diritti .Vedi l  caso  , ne   ho parlato più volte nel blog  , di Vanessa  mele (  foto a  destra )  , il cui padre  uccise   , quando lei aveva  6 anni la  madre  . Essa  ha lottato per far modificare le leggi in materia di successione ereditaria (  il padre    uscito dal carcere   riscuoteva   la  pensione  d'invalidità della  madre    da  lui uccisa  ) e per cambiare il suo cognome in quello materno  . Infatti non   non ha più quello del padre assassino, bensì quello della madre ammazzata. Adesso veni.amo al tanto articolo di fan page




Cresce i nipoti orfani della cugina uccisa dall’ex: “Abbandonato dallo Stato con sei figli”
Fanpage.it racconta le storie di Carmelo, Matteo e Francesca che si incrociano a Roma, in un incontro in Campidoglio sul progetto Airone dedicato agli orfani delle vittime di violenza di genere e alle famiglie affidatarie.
                                 A cura di Alessia Rabbai




La storia di Carmelo è quella di un uomo che ha preso per mano i figli della cugina vittima di femminicidio e li ha cresciuti come fossero suoi. Un uomo rimasto coinvolto nelle conseguenze che provoca la violenza di genere, in particolare quella messa in atto dal partner della donna che le subisce. Un quadro che vede impegnati in prima linea anche gli uomini stessi, perché da una parte parenti di una donna che non c'è più e dall'altra di coloro che sono vittime due volte, gli orfani. Testimonianze quelle di Carmelo, Matteo e Francesca, che si sono incrociate a Roma e delle quali si è parlato in un incontro al Campidoglio, dedicato al progetto Airone.
"La Regione Lazio è la prima in Italia ad aver fatto una legge sugli orfani di femminicidio nel 2017, con un protocollo d'intesa insieme alla magistratura – ha spiegato l'assessora regionale alle pari opportunità Enrica Onorati – prevede un contributo economico e un accompagnamento per chi deve ricostruire un percorso di vita interrotto dalla violenza e che coinvolge oltre 30 ragazzi e ragazze nel territorio regionale".
"Crescere sei figli è stata dura ma ce l'abbiamo fatta"
Carmelo, di Senigallia, ha ricevuto la notizia del femminicidio di Marianna, una sua cugina siciliana, che non conosceva. La donna è stata uccisa a trentadue anni dall'ex il 3 ottobre del 2007, dopo averlo denunciato ben dodici volte. I suoi tre figli maschi di due, cinque e sei anni sono stati affidati a lui. "Ho ricevuto la chiamata per il loro collocamento istantaneo, in poche ore la mia vita è cambiata. Con mia moglie lo abbiamo saputo la sera del 3 ottobre e ci siamo trovati nella posizione di dover prendere una decisione subito. E la scelta è stata quella di crescere sei figli, tre biologicamente nostri e altri tre nostri nipoti". Una nuova vita che non è stata facile: "All'inizio volevo capire cosa sarebbe successo, quale sostegno avremmo avuto. Le difficoltà sono state tante, da una parte la preoccupazione di far sentire la nostra presenza ai ragazzi e dall'altra quelle più puramente concrete, di natura economica. Ma ce l'abbiamo fatta. Ci siamo sentiti a lungo abbandonati a noi stessi e, dopo quindici anni di battaglie legali, abbiamo ottenuto il risarcimento da parte dello Stato".
Carmelo, Matteo, Francesca e gli altri
La storia di Carmelo è una delle tante di famigliari di donne vittime di femminicidio, i quali si sono trovati la vita improvvisamente sconvolta per la perdita di una persona cara e per il dover crescerne i figli rimasti orfani, che vengono affidati a zii o nonni. Quest'ultimo è il caso di Matteo, un uomo che, insieme a sua moglie ha cresciuto i due nipotini nati dalla figlia uccisa dal marito. "Mia figlia è stata uccisa il 16 agosto del 2014 in Trentino davanti ai suoi bambini, dopo aver denunciato diverse volte senza essere ascoltata. Parlo delle violenze che sia lei che i miei nipoti sono stati costretti a subire. Come genitori avevamo capito che qualcosa non andava, lei ci diveva ‘non so cosa fare'. Inizialmente in quanto nonni paterni ne avevamo ricevuto la custodia. Dopo numerosi rinvii e ritardi il giudice ce li ha affidati e li abbiamo portati con noi a Foggia".

                        L’avvocata Patrizia Schiarizza e i testimoni Carmelo, Matteo e Francesca

"Orfana di madre vittima di violenza sono stata lasciata sola"
Francesca ha raccontato se stessa, com'è stato essere orfana di madre vittima di femminicidio a cinque anni nell'Italia degli anni '70: "So cosa vuol dire sentirsi invisibile da parte delle Istituzioni. Ero solo una bambina quando mio padre ha ucciso mia madre davanti ai miei occhi. Non ho ricevuto alcun supporto psicologico, quando ne avrei avuto il bisogno e sono rimasta troppo a lungo avvolta nel silenzio. Sono andata avanti grazie a mia sorella e al nonno materno che ci ha adottate. Essere orfani di madre vittima di femminicidio è una ferita che non si sana. Crescendo avevo paura di sentirmi ed essere considerata diversa, la scuola non era pronta ad affrontare problematiche di questo tipo e a fornire supporto. La fase peggiore è stata l’adolescenza, perché in quegli anni mi sono resa contro che non potevo accettare il tradimento di mio padre. A diciassette anni ho deciso di incontrarlo per avere una risposta da lui che non ho trovato se non quella che era figlio di una cultura fortemente patriarcale. Oggi mi batto per il rispetto. E per spiegare che il fenomeno del femminicidio non è solo una tragedia per chi muore, ma anche per chi resta".
Il progetto Airone
Le storie degli orfani e delle loro famiglie sono riunite nel Progetto Airone, che vede un finanziamento di 10 milioni di euro da spendere sul territorio italiano messi a disposizione dal presidente dell'Impresa Sociale con i Bambini Marco Rossi Doria. Il Giardino Segreto con l'avvocata Patrizia Schiarizza, che ne è presidente, è associazione capofila con 30 partner. "I bambini sono un patrimonio dell'umanità – spiega – il progetto nasce dal fatto che abbiamo iniziato a domandarci dove fossero gli orfani di madri vittime di femminicidio e quali fossero le loro storie. Abbiamo sentito parlare di ergastolo del dolore, di una solitudine rispetto alla quale non potevamo restare indifferenti. Storie di donne che hanno denunciato e che non sono state protette. Ci siamo domandati cosa potevamo fare, abbiamo portato le loro testimonianze allo Stato per costruire tutti insieme una rete. Il progetto Airone è pionieristico, abbiamo previsto per ogni bambino e bambina una somma di 10mila euro, per restituire a bambini e bambine opportunità di vita".

12.10.22

Giovanni Iannelli: morire a 22 anni in una gara ciclistica mal organizzata e senza protezioni il cui processo non s'ha da FARE



che sbadato m 'ero scordato e me ne ricordo solo ora che il 5 ottobre sono passati 3 anni dalla tristissima morte di Giovani Iannelli chiedo scusa alla famiglia ed a me stesso visto che è un caso che sto seguendo con interesse vedere i mie precedenti post .
Giovanni Iannelli è morto a 22 anni il 5 ottobre 2019 durante una gara ciclistica in provincia di Alessandria. Con Nicolò De Devitiis cerchiamo di capire se la sua caduta fatale poco prima dell'arrivo, durante la volata finale, poteva essere evitata. C'erano troppi ostacoli in quella strada? vedendo il filmato delle iene e le varie documentazioni riportate in rete sui social dal padre si c'erano troppi ostacolo . Perché il padre parla di una "tragedia annunciata"? Ecco cosa risponde in un intervista volante da me fattagli su whatsapp , il padre Carlo : << Ciao Giuseppe parlo di tragedia annunciata perché era evidente che prima o poi sarebbe perché transenna senza un materasso senza una balla di paglia tutto ciò in violazione finita in quel modo lì. Con una vo finale di gruppo arranghi compatti. Sono centoquindici chilometri completamente quel rettilineo non è un rettilineo ma è una S e quindi dello sbandamento se così si può dire di di Giovanni di Mario Cipollini sono emblematiche e quindi ripeto non si è tratta di una tragica fatalità ma di una tragedia annunciata sulla prevedibilità ti dico solamente questo di quella società della società organizzatrice si chiama Ennio Ferrari quella corsa. Dice sono sei sette anni. E lei si è mai posto il problema della pericolosità dell'ultimo chilometro dell'arrivo? Lui risponde candidamente semplicemente no a porre il problema della prevedibilità se non ci si è neanche mai posti tragedia che si poteva e si doveva evitare . >>

la verità è appunto che non si vuole arrivare fino in fondo per punire gli ateggiamenti irresponsabili e menefreghisti di chi ha organizzato tale gara e poi per evitare condanne ha depistato e insabbiato tutto . Quindi mi chiedo come il commento lasciato sulla sua bacheca facebook da


Luca Panichi


C è ancora qualcosa che non è chiaro!?: È una vicenda assurda, una vergogna di Stato...la Federciclismo è complice ed omissiva nei suoi rappresentanti...ma tutti i Presidenti dei Comitati regionali, cosa dicono in merito!? La Giunta della Federciclismo, cosa dice in merito!? Il Presidente, cosa dice in merito!?
C è qualcuno che voglia ancora raccontarci che Giovanni Iannelli è morto per una tragica caduta, come afferma il Tribunale di Alessandria, il quale ha agito avallando il calpestio delle norme, delle procedure e della verità dei fatti!?I fatti sono inconfutabili e sono anche ancora più gravi della descrizione già drammatica delle Iene Vergogna inimmaginabile, ma già l avevamo constatato nel 1999 con il caso di Marco Pantani!!! Non è cambiato nulla: Vergogna! E chi fa finta di non capire, di non sapere, di non conoscere, non merita di rappresentare uno sport meraviglioso come il ciclismo!!

con questo  è tutto   alla prossima 

La storia del nivuriddu, Michele Antonio Scigliano di Longobucco (CS) figlio del Ras etiope Ubie Manghescià.

La  storia     che riporto  oggi è    la tragedia personale di un giovane che paga due volte il prezzo del sanguinario colonialismo italiano. Nato da  un etiope  al confino   e  una donna  locale  nella Sila degli anni Trenta, quando finalmente sembra arrivare il momento del suo riscatto la sorte gli predispone una trappola beffarda. E gli fa saldare un conto rimasto in sospeso tra due popoli.
  
  fonti 

Durante il fascismo a Longobucco vennero confinati 35 personaggi di primo piano del regno di Etiopia. Tra questi il ras Ubie Manghescià, ex ambasciatore etiope a Roma ed ex governatore della provincia Uellega Occidentale. Questo ras ebbe una relazione con una donna di Longobucco, che aveva il marito in guerra, che andava a fare le faccende a casa sua. Dalla relazione nacque un bambino di carnagione nera, che il marito della signora – tornato dalla guerra – riconobbe,  Michele Antonio Scigliano. Dopo qualche anno arrivò al comune di Longobucco una lettera dell’ambasciata etiope che chiedeva notizie sul ragazzo. Avutele, il ras richiamò presso di sé in Etiopia il giovane. Di seguito la storia raccontata da testimoni diretti e articoli sui confinati etiopi dal fascismo.

 

Hailè_Selassiè_nel_1941

Fra i notabili etiopi inviati al confino in Italia dopo l’attentato, ad Addis Abeba, al viceré Graziani (19 febbraio 1937), vi era pure ras Mangascià Ubié, ricco sfondato e onnipotente, nonché particolarmente caro al negus Selassié che prima lo aveva messo al vertice del tribunale per l’abolizione della schiavitù, poi lo aveva nominato governatore della Uollega occidentale e, infine, lo aveva incaricato di aprire una legazione diplomatica a Roma; incarico, quest’ultimo, che, certo per colpa del ponentino romano inducente al douce vivre, egli aveva assolto consumando i giorni fra case d’appuntamento e tabarins, tanto che il Ministero degli Esteri italiano si era sentito in dovere di «consigliare» alle autorità etiopi di richiamare in patria il dissoluto diplomatico «la cui sola attività è quella d’accumulare debiti».

E anche a Longobucco — sua sede di confino – egli non si smentì, solo che dovette accontentarsi di quel che passava il convento, e, a parte la frequentazione assidua di terragne femmes de chambre, strinse una relazione stabile, col tempo non priva d’una qualche sfumatura d’innamoramento reciproco, con Giuseppina Blaconà, donna che gli sbrigava le faccende di casa, nonché moglie di Vincenzo Scigliano, un contadino che s’era fatto la campagna di guerra in Etiopia ove sognava di ritornare per crearsi un destino meno pidocchioso; e fu, certo, a questo scopo, o, comunque, per poterne ricavare un qualche utile, che egli, lo Scigliano, favorì la stessa relazione, nel pieno rispetto del credere popolare secondo cui ai meschini sono offerte due sole strade per mutar stato: «o travatura o incornatura»” (O il ritrovamento d’un tesoro o la moglie mantenuta da qualcuno); tant’è vero che quando dalla stessa relazione – notoria a tutto il paese e dintorni oltre che alle autorità di polizia – nel febbraio 1939 nacque «’na creatura nira nira», egli non solo ne riconobbe la paternità, ma, dandogli il nome Michele Antonio, «alzò» il nome del proprio padre, così offrendosi «cornuto e contento» alla considerazione paesana.

Poi, dopo l’8 settembre 1943, i confinati etiopi poterono ritornare in patria, e Mangascià chiese insistentemente a Giuseppina d’andarsene con lui o, almeno, d’affidargli il figlio, che lo avrebbe fatto studiare e crescere da gran signore; ma lei oppose un netto rifiuto, dietro il quale non si sa cosa intravedere. E negli anni successivi i destini dei protagonisti di questa strana storia restarono in qualche modo e per qualche tempo cuciti assieme con refe d’ordinaria qualità: Mangascià Ubié si fece ancora vivo con la donna, inviandole denaro e rinnovandole la richiesta di raggiungerlo o di affidargli Michele, ma poi, come dice la canzone, la lontananza e come il vento, anche perché egli teneva pensiero ad altro, s’andava facendo vieppiù ricco potente (fra l’altro, fu pure ministro delle poste e consigliere della Corona), e finì per sposare la principessa Zauditù, imparentata con l’imperatore, e dalla quale ebbe due figli maschi che si rivelarono la deboscia in persona; Vincenzo Scigliano s’andò consumando nell’acidità e nel rancore verso tutto tutti, specie verso il figlio-nonfiglio; Giuseppina Blaconà, come voleva la sua cultura, si vestì del ruolo di presenza muta che si trascinava sulle spalle sghembe tutti i peccati del mondo e, forse, pure il ricordo d’una specie d’amore, unica, grama consolazione d’una vita di travaglio in virtù della quale una come lei diventava gozzuta e sdentata a manco quarant’anni; Michele Antonio, lapidato dalle prese in giro dei compaesani, crebbe strànio e selvatico fra i boschi, senza manco un giorno di scuola, consapevole d’essere il «figlio della colpa» per giunta «diverso», ma anche una specie di re, guadagnandosi la campata coi lavori più umili, appartati e solagni – il pastore, il carbonaio, il boscaiolo …-, e ad appena diciott’anni si sposò con una meschina più meschina di lui, pensando, forse, di esorcizzare l’infelicità o, per lo meno di dimezzarla, che aver compagni al duol…, e, invece, da quell’analfabeta che era non sapeva che la matematica non è un’opinione, e infelicità più infelicità fanno un’infelicità doppia; e quando gli nacque un figlio pensò bene di non scontentare nessuno, «alzando» il nome di tutt’e due i suoi padri, chiamandolo Mangascià Antonio.

Finché non si ebbe il colpo di scena tanto colpo di scena da far pensare a William, il Bardo, là dove dice che la vita è una storia raccontata da un ubriaco: nei primi anni ’60 ras Mangascià Ubié, da tempo vedovo, morì lasciando tutti i suoi averi a quel figlio naturale che non sapeva nemmeno come fosse fatto, e lo fece forse perché preso dagli scrupoli, forse per giocare un brutto tiro ai suoi due figli debosciati, forse perché non aveva mai scordato quella sua amante sottomessa, dalle parole in bocca contate e che non gli aveva mai chiesto niente, forse …

Certo è che un giorno i carabinieri di Rossano, attivati dal Ministero degli Esteri, salirono in montagna, ove Michele era a pascolar pecore, e lo informarono che era diventato un miliardario e bastava solo che raggiungesse Addis Abeba per poi poter volare sui tappeti, come i principi delle fiabe ricchi sfondati e, perciò, si potevano permettere cose negate ai cristiani normali, tanto più se miserabili.

E fu come se in cielo fosse apparsa una stella cometa che s’andò a posare sulla cupogna (grotta) d’un novello redentore le cui carni, però, puzzavano di strame e di lecciata: tutti – nobili e plebei, potenti e stracciati, abbienti e non… – ossequiarono e riverirono Michele (quando l’avevano crocifisso fino a un attimo prima!), gli fecero grandi festeggiamenti, programmarono con lui iniziative e intraprese che avrebbero rivoltato da così a così Longobucco; e lui promise, acconsentì, progettò, intanto spendendo e spandendo sulla parola, che nessuno gli negava niente sperando di intingere il pane in quella succulenta minestra (in primis la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania che gli concesse fido illimitato contando, tramite lui, di aprire una filiale nella capitale etiope) e consentendogli di far debiti per oltre due milioni d’allora.

E un giorno egli partì per Addis Abeba, dopo aver promesso a tutti, famiglia compresa, di sistemar le cose là e ritornare, ma già nel cielo di Roma, sull’aereo su cui era imbarcato, svaporò ogni traccia di Michele Antonio che lasciò il posto a Micael Mangascià (identità che avrebbe preso di lì a poco, non appena rinunziato alla cittadinanza italiana per assumere quella etiope), il quale, buon sangue non mente, nella stessa Addis Abeba si diede subito alla bella vita, rinnovando pari pari i fasti prima romani e, poi, calabresi del genitore, abbandonandosi a una sorta di delirio fottitorio; e quando tempo dopo la moglie, accompagnata dal figlio, andò a trovarlo anche per richiamarlo ai suoi doveri coniugali, egli promise, firmò – ovviamente con una croce – impegni di mantenimento poi tutti disattesi, e la mise pure incinta; e non mosse un dito né scucì un tallero quando il figlio, in palese stato di denutrizione, stette male e gli italiani là residenti dovettero ricorrere a una colletta per poterlo far ricoverare.

Ma l’ubriaco non aveva ancora finito di raccontar la sua storia.

La perfida, intrigante sorella di Mangascià Ubié, non rassegnata al vedere i nipoti esclusi dall’eredità in favore, oltretutto, d’un bastardo mezzosangue, e lei dalla gestione del potere e dei privilegi a nome e per conto loro, fece causa per far annullare il testamento in favore appunto del bastardo, sempre tutto compreso nel suo delirio carnale, e riuscì ad averla vinta – figuriamoci, con le sue relazioni! – e Micael si ritrovò col culo per terra peggio di prima; il quale Micael, secondo alcune fonti finì ucciso da un sicario della controparte – a che prò considerato che l’avevano restituito all’originario stato minimale?  Solo per il gusto del coltello sempre nell’ombra? – mentre, secondo quelle più attendibili, preferì scendere sempre più giù nei bordelli di Addìs Abeba, fino a mendicare, letteralmente, un po’ d’amore carnale e fino a consumarsi giorno per giorno l’ossa, piuttosto che ritornare vinto e umiliato e indebitato a Longobucco.

"Storie e persone": Silius in Sardegna, un paesino di 700 anime, dove una volta a settimana vi arrivano dai paesi vicini ex minatori, pastori e anziani ed insieme ai professori della Romero studiano Filosofia.

11.10.22

autunno - Daniela Piga

 



Sindrome di Down, Emanuela e Davide: "Siamo felici insieme, lasciateci vivere il nostro amore e Sposa vegana infuriata, fidanzato cancella menu del matrimonio (senza dirglielo) perché vuole la carne

 da  REPUBBLICA  ONLINE 

Sindrome di Down, Emanuela e Davide: "Siamo felici insieme, lasciateci vivere il nostro amore"

Davide ed Emanuela sono due ragazzi con la sindrome di Down, hanno 22 e 23 anni e un sogno: sposarsi e andare a vivere insieme. “Siamo fidanzati da cinque anni, ma non è stato facile. Abbiamo vissuto molte difficoltà e ostacoli ma alla fine, dopo aver lottato tanto, siamo riusciti nel nostro sogno di stare insieme”.


I due ragazzi di Milano abitano ancora con i genitori ma stanno cercando la propria indipendenza: Davide lavora da un anno come addetto alla logistica di un negozio sportivo, mentre Emanuela da qualche anno lavora come cameriera in un bar ma tra lavoro e tempo libero hanno difficoltà a ritagliarsi dei momenti intimi.
"Avere una relazione amorosa è diritto di tutti - ha precisato Martina Fuga, responsabile della comunicazione dell'associazione Coordown - ma oggi per le persone con sindrome di Down è ancora un tabù. Spesso le persone con disabilità intellettiva sono considerati degli eterni bambini: bisogna cambiare questo preconcetto dando gli strumenti alle persone con disabilità per poter vivere la loro sessualità in modo sano e responsabile".
“Ai genitori vorrei consigliare di ascoltare i bisogni dei propri figli, lasciar loro gli spazi necessari senza negargli l’opportunità di vivere esperienze importanti per la propria infanzia”, hanno detto i due ragazzi che, a tutte le persone come loro, hanno suggerito: “Dovete combattere e lottare per il vostro amore, credete in voi stessi e abbiate fiducia nella persona che potrà prendersi cura di voi”.

                                      Di Edoardo Bianchi

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Sabato 8 Ottobre 2022
Sposa vegana infuriata, fidanzato cancella menu del matrimonio (senza dirglielo) perché vuole la carne

Uno sposo ha cancellato il menu vegano del matrimonio perché voleva la carne. Molte persone si innamorerano nonostante differenze fondamentali. Ma queste diversità possono diventare grandi ostacoli al momento del matrimonio. Questo è stato il caso dell'utente di reddit SarahJake2022 e del suo fidanzato. Lei e la sua famiglia seguivano tutti la stessa dieta rigorosa, di cui lo sposo non era un grande fan. Tanto che ha eliminato tutte le sue scelte alimentari senza dirglielo.
La sposa ha spiegato come un grave disaccordo sul menu del loro matrimonio abbia portato a una tensione inaspettata con il suo fidanzato. Erano d'accordo su tutto, tranne sul cibo. "Io e la mia famiglia siamo vegani e ci sono così tante ragioni per cui abbiamo scelto questo stile di vita e una di queste è che abbiamo una storia di problemi di salute". Ma non così per i parenti dello sposo. "Il mio fidanzato e la sua famiglia sono l'esatto opposto. Sono mangiatori di carne accaniti, il che ovviamente per me va bene."

L'opposizione

Quando la sposa decide il menu del cibo del matrimonio vuole aggiungere 4-5 opzioni vegane. Ma il fidanzato e la madre si sono oppongono dicendo che era uno spreco di denaro per il cibo che 'non è vero cibo'. Hanno anche sostenuto che sarebbe stato offensivo per i 'loro' ospiti. Lei si rifiuta di discuterne e fa di testa sua.

La sopresa

La sposa scopre che il futuro marito aveva cancellato tutte le opzioni vegane e le aveva tolte dal menu completamente alle sue spalle. "Stavo ribollendo. L'ho chiamato al lavoro ma continuava a riattaccare. Sono andato direttamente al suo posto di lavoro e l'ho affrontato lì e l'ho semplicemente preso di mira. Era sbalordito nel vedermi. All'inizio ha detto che era stata un'idea di sua madre, poi mi ha detto di andare a casa perché stavo facendo una scenata in ufficio".

10.10.22

finalmente i media scoprono un eroe donna Branco di bulli aggredisce ragazzino, l'autista Simona ferma l'autobus e lo salva

repubblica online


Branco di bulli aggredisce ragazzino, l'autista Simona ferma l'autobus e lo salva. 
Ha fermato il mezzo e con la scusa di dover controllare la ruota, ha ammutolito i giovani violenti e
portato il ragazzo nella cabina di guida dove insieme hanno telefonato ai familiari: voleva essere sicura che gli altri non l'avrebbero seguito una volta sceso al capolinea. La madre sul profilo Fb dell'Atac: "Grazie di essere intervenuta" .
Insulti, risatine, spintoni. Parole e gesti violenti con un loro coetaneo. Il branco di adolescenti si sente invincibile e continua a bullizzare il ragazzino anche sull'autobus di linea pieno di passeggeri. Le male parole diventano mani, Simona, conducente Atac della quale l'azienda non riporta il cognome, guarda dallo specchietto retrovisore, nota che nessuno si muove a difenderlo. Sta guidando, ma decide di intervenire.





Ferma il bus con la scusa di controllare la porta posteriore del mezzo, lascia il posto guida e si avvicina ai ragazzi. Loro fanno spazio, muti, il ragazzino resta in mezzo.
"Ha parlato con dolcezza al giovane spaurito per invitarlo a seguirla e se lo è portato con se all'interno della cabina guida", si legge in un post su Facebook nella pagina dell'azienda di trasporti capitolina che racconta la storia. Il branco si è ammutolito "consapevole, forse, di avere esagerato".
Ma Simona, mamma di una bambina e figlia di una professoressa di sostegno, non si limita a questo. "La nostra collega ha chiesto al ragazzo di telefonare ai suoi familiari. Vuole essere sicura che non subisca di nuovo quando lo lascerà al capolinea", spiega l'Atac.

qui il resto del testo https://www.facebook.com/AtacSpaRoma/posts/479503147551006 
La nostra collega chiede al ragazzo di telefonare ai suoi familiari. Vuole essere sicura che non subisca di nuovo quando lo lascerà al capolinea. La mamma del giovane si fa trovare all'appuntamento. Scossa da quanto accaduto, va via con il figlio, scambiando poche parole con Simona.Poi, nel pomeriggio, ci contatta sulla nostra pagina Facebook. Vuole ringraziare quell'autista dell'Atac: "Grazie per avere salvato mio figlio dai bulli", scrive. Parole di gratitudine per una donna che ha deciso di non voltare la testa e di intervenire.
Un gesto così oggi è un autentico monumento di resistenza all’odio e all’indifferenza. Grazie, Simona, per averlo fatto, per essere stata lì dove era giusto che fossi, per non essersi voltata dall’altra parte. Viene voglia di abbracciarti.

9.10.22

Gli adesivi anti-schwa all’università di Torino, i militanti di Fuan-Azione: «Protestiamo contro le storpiature della lingua italiana in salsa gender» omofobia mascherata da lotta contro il politicamente corretto e l'assurdità linguistica


 Anch'io  sono ( anche se   non  condivido  completamente    , ma questo è un altro discorso , le  ultime
tre righe  )  come ɘ

Avverto tutte e tutti che sulla mia pagina fb non si usano i segni della lingua impronunciabile e neutra della cosiddetta inclusività:
«-@», l’asterisco «-*», il fonema schwa ɘ e la «-u» declinativa, per significare la sigla lgbtq+, che nella versione statunitense è arrivata ormai a comprendere 28 caratteri.
Sono un affronto alla realtà della differenza sessuale e alla corretta grammatica che la significa. I commenti di coloro che sono favorevoli a tali segni saranno cancellati.
contro lo schwa ə ed altre deturpazioni , anche se ormai è una battagia persa o peggio contro i mulini a vento . Infatti : <<La schwa è una cagata pazzesca. >>( cit Antonio Deiana  ) o meglio un idiozia   da
politicamente  corretto  e uguaglianza a tutti i cositi  ovvero quel  conformismo che uccide  le stesse diversità   \ identità   omologandole  oltre a mandare a affanculo ramengo  millenni di storia   di  cultura  linguistica  .
Ma  la condivisione  finisce qui .  Infatti il modo di fare  opposizione   a tale  cosa   ed  sopratutto  ilmodo arrogante    con cui hanno replicato  alle  contestazioni che   gli si viene  rivolta 
  

[...]
«Questa piccola beffa futurista aveva lo scopo di protestare contro le ridicole storpiature ideologiche della lingua italiana in salsa gender a cui assistiamo costantemente in università ormai da anni, e di difendere la dignità della lingua di Dante e D’Annunzio», hanno scritto in una nota, criticando il “pensiero unico” che si è sollevato contro la loro trovata: «La reazione immediata dei collettivi di sinistra è stata l’ennesima prova della loro arroganza e della loro assenza di argomenti reali. La stampa è intervenuta in massa, preferendo sbattere in prima pagina un inesistente “mostro omofobia” piuttosto che concedere il normale diritto di replica a studenti che portano avanti una legittima battaglia in difesa della cultura», hanno continuato i militanti.
Che si sono scagliati anche contro Arcigay che, dopo aver denunciato la comparsa degli adesivi a opera di «organizzazioni studentesche a stampo fascista», ne aveva chiesto la rimozione, appellandosi all’Università di Torino e all’assessora all’Istruzione Carlotta Salerno. «Abbiamo assistito anche all’ingerenza di potenti associazioni come Arcigay, che nulla hanno a che fare con l’università e che non dovrebbero esprimersi a riguardo di ciò che accade al suo interno. Abbiamo dimostrato come mainstream e sinistra siano sempre pronti a scatenare polveroni per difendere stupidaggini come lo schwa, ma non per discutere dei reali problemi quotidiani degli studenti. Il nostro non era un gesto discriminatorio se non contro le idiozie del politicamente corretto».

 Ecco  quindi come  dicevo  dal titolo che  la   giusta ed  comprensibilissima lotta  \   guerriglia culturale    contro le idiozie   del politicamente   corretto   a  tutti costi    diventa   omofobia in quanto la  tendenza    ad usare   le  nuove forme     grafiche  ed  ortografiche del politicamente  corretto (  vedere  post citato sopra  )  non  è  in uso solo  dal mondo  LGBT+   o  dalla  sinistra  ma   non  ha  colore  politico ideologico ma  soprattutto  lo si giustifica  con l'astrusa  teoria del  Gender  



assurdità giuridiche . Uccise l'amante incinta, ma per i giudici fu un impeto: in appello pena ridotta accolta la teoria della difesa

Invece di parlare a  vanvera     e fornire delle giustificazioni o pseudo scuse come quella di Paola Di Nicola Travaglini, giudice di Cassazione e consulente della commissione del Senato sui femminicidi, analizza il verdetto di Palermo che ha ridotto a 19 anni la condanna all'ergastolo dell'uomo che ha ucciso Ana Maria Lacramioara Di Piazza: " Nella magistratura c'è un problema culturale e di competenze, dobbiamo smaltire le scorie del delitto d'onore., "Un femminicidio non è mai un delitto d'impeto.Sentenze così frutto di pregiudizi sessisti"  è meglio  il silenzio  oppure     chiedere     al ministro di mandare  gli ispettori    si eviterebbero    simili ingiustizie  ,  assurdità giuridiche  

repubblica  7\10\2022

In primo grado Antonino Borgia aveva avuto l'ergastolo per l'uccisione di Ana Maria Di Piazza. La disperazione della madre


"Mi dica lei cos'è l'atrocità - ripete Anna Di Piazza - . Mi dica lei se mia figlia non è stata uccisa con violenza e atrocità". La Corte d'assise d'appello ha appena tolto l'ergastolo all'assassino di Ana Maria Lacramioara Di Piazza, la trentenne incinta uccisa il 22 novembre del 2019 con dieci coltellate, a Giardinello: l'imprenditore Antonino Borgia, che era l'amante della giovane, dovrà scontare solo 19 anni e 4 mesi. "Com'è possibile che un delitto così efferato venga punito con una pena che non dà giustizia a mia figlia? - si dispera la madre della vittima - Io non volevo vendetta, solo giustizia. Ma questa sentenza non fa giustizia". Anche la procura generale di Palermo presieduta da Lia Sava aveva chiesto la conferma dell'ergastolo e adesso valuta di ricorrere in Cassazione contro la sentenza che cancella le aggravanti legate alla premeditazione, ai motivi abietti e futili, alla crudeltà. Il collegio presieduto da Mario Fontana ha accolto invece la tesi della difesa, che ha sempre parlato di un delitto d'impeto. "Basta guardare il video della telecamera di sorveglianza che ha ripreso tutto - insiste la madre - . Mia figlia sarebbe ancora viva se quell'uomo avesse avuto un attimo di pietà. Invece nulla. L'ha inseguita e colpita più volte. È stata una morte atroce. Come non considerare tutto questo?". In quelle immagini c'è tutta la freddezza di Borgia, sposato e padre di due figli, che si è sempre difeso accusando Ana Maria: "Voleva dei soldi, minacciava di rivelare tutto a mia moglie", ha detto sin dal primo momento. Dopo il delitto, non ebbe alcun ripensamento: andò addirittura dal barbiere e poi pure in commissariato, per risolvere una questione burocratica. "Io sono stata sempre in silenzio - dice ancora Anna Di Piazza, che si è costituita parter civile con l'avvocato Angelo Coppolino - ma ora voglio urlare tutta la mia disperazione, spero tanto che la Cassazione riveda questa decisione che mi ha lasciata sgomenta" Ana Maria, originaria della Romania, a 4 anni era stata adottata da una famiglia siciliana. Non voleva perdere quel bambino avuto dall'uomo conosciuto un anno prima. Borgia voleva invece che abortisse, le discussioni erano diventate frequenti, come raccontato da alcune amiche di lei. Il 22 novembre 2019, l'ennesima lite. Prima, l'uomo l'accoltellò all'interno del suo furgone. La ragazza, ferita, riuscì a fuggire e venne inseguita lungo la provinciale che collega Alcamo a Balestrate. Borgia la raggiunse, la fece risalire a forza sul furgone e continuò a pugnalarla, fino ad ucciderla. Poi gettò il corpo in un campo lungo la statale 113 e se i carabinieri non lo avessero fermato era anche pronto a sciogliere nell'acido il cadavere di Ana Maria. "Le indagini sono state fatte con grande attenzione - dice mamma Anna - i carabinieri hanno sempre avuto professionalità, ma anche umanità. Ora, però, sono davvero addolorata per una sentenza incomprensibile".Ana Maria voleva una vita spensierata, poi però alcune amicizie non proprio rassicuranti avevano rallentato il suo cammino. Non aveva finito gli studi all'Alberghiero e nemmeno il corso per assistente agli anziani. "Ma aveva sempre una grande gioia di vivere", hanno raccontato le sue amiche. "Ed era anche una buona mamma". Aveva un figlio di 11 anni, nato da una precedente relazione. "Passeggiava serena con il suo bambino, mano nella mano. Era serena, tranne negli ultimi tempi". Per l'accusa, lui l'aveva minacciata. Lei aveva paura, si era confidata con le amiche. Ma non è bastato per confermare la condanna all'ergastolo. "Riguardate quelle immagini - sussurra ancora alla madre - non c'è bisogno di codici per riconoscere l'atrocità di quell'uomo".

Proprio a proposito di femminicidio ecco come commenta su repubblica online ( qui il testo purtroppo per abbonati )Vera Squatrito nonna e tuttrice della nipote orfana a 4 quando sua madre Giordana Di Stefano fu uccisa a coltellate dal compagno che aveva lasciato.

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Signora Squatrito, cosa ha provato leggendo della sentenza di Palermo?
"Tanta rabbia perché i giudici dovrebbero pensare anche a chi resta, ai figli delle vittime come mia nipote quando ci sono o agli altri familiari, loro sì condannati ad un ergastolo che nessuno potrà mai azzerare. E senza nessuna tutela e protezione da parte dello Stato che avrebbe invece l'obbligo di proteggere i più fragili. [...]
Lei almeno ha avuto giustizia in tempi più o meno rapidi. Niente sconti in appello per l'assassino di sua figlia.
"Io ho avuto giustizia ma credo che qualsiasi femminicidio andrebbe punito con la massima pena. Le condanne esemplari parlano a tutti i giovani, sentenze come quelle di Palermo invece mandano messaggi pericolosissimi, calpestano il valore della vita, lasciano intendere che se ne può uscire comunque con sconti di pena. Io però non voglio essere pessimista, penso che con il tempo qualcosa cambierà e le battaglie dobbiamo farle dentro ma anche fuori i tribunali".