23.2.14

L'emozionante storia di una donna di Gesturi che ha dato alla luce una bimba mentre viaggiava verso Caglari per partorire.

in sottofondo  Tiromancino - Imparare Dal Vento

Lo so   che a  voi lettori\ trici    la  vicenda  sembrerà banale ed effettivamente  potrebbe esserlo   . Ma  ( misteri e  imprevidibilità della vita  )  ci sono stati , qui in sardegna    diversi casi  quasi una decina  dal 2002 ,  di bambini\e    che hanno fretta  di nascere  e  nascono  in strada    come in questo caso  .

I PRECEDENTI Il sedile come sala parto: dal 2002 a oggi si sono registrati una decina di casi  Sono tanti i neonati con la fretta di venire al mondo

L'ultima volta, il 17 giugno 2011: Emma viene al mondo in via Bacaredda a Cagliari, davanti al Conservatorio, nel sedile di una Opel Corsa partita da Sestu e diretta in una clinica del capoluogo. Ma la bimba ha troppa fretta di scoprire il mondo e non lascia alla mamma Sonia Nioi, 34 anni, e al padre Emanuele Serci, 37, il tempo di arrivare a destinazione.
Nascere in auto capita. Dal 2002 a oggi è successo tante volte. Due sole però in un veicolo in movimento. Il caso della coppia di Gesturi dunque è particolare, anche se partorire nel sedile di una macchina è sempre, bene o male, un'avventura indimenticabile. Il 19 luglio 2010 nel parcheggio di via San Giorgio a Cagliari, a venti metri dall'ospedale San Giovanni di Dio, il bimbo, figlio di una coppia di tunisini residenti ad Assemini nasce sotto la luce dei lampioni all'una e mezza del mattino grazie a due giovani volontari del 118 che passano proprio in quel momento.
Il 23 giugno dello stesso anno Rachele viene al mondo sul sedile posteriore di una Fiat Marea che da Loceri si dirige all'ospedale di Lanusei: con marito e moglie c'è una zia che si improvvisa ostetrica. Il 23 febbraio 2009 tocca a Quartu e alla piccola Miriam: la mamma Cornelia, una ragazza tedesca al terzo figlio, partorisce in viale Colombo mentre il marito Andrea Krause, sergente maggiore in servizio all'aeroporto militare di Decimomannu, cerca di raggiungere Cagliari. Ma i dolori sono troppi forti ed è costretto a fermarsi. Il 4 agosto 2008 il lieto evento avviene sul ciglio della strada statale 195 poco prima della mezzanotte alle porte di Sarroch. I genitori sono due giovani cagliaritani, la bimba si chiama Asia. Il primo febbraio 2007 una coppia di extracomunitari dà alla luce il figlio sul sedile dell'auto che corre verso Isili. Il 3 febbraio del 2005 la “sala parto” è invece l'incrocio tra la provinciale per Settimo San Pietro e la statale 554 all'altezza di Selargius: alle 19,30 sul sedile posteriore di un'auto nasce il bimbo di una donna di 34 anni di Maracalagonis che, in preda alle doglie, non fa in tempo a raggiungere l'ospedale.
Il 27 agosto 2002 l'episodio più datato di questo piccolo resoconto. Le prime cose che vede Luigi, figlio di Salvatore Testa, 34enne di Quartucciu, e di Silvia Orrù, 32enne di Sinnai, sono il cruscotto dell'auto di papà e il piazzale del distributore di benzina in viale Marconi a Cagliari nel quale l'auto è stata parcheggiata per portare a termine il parto. «È stato facile facile», giura la mamma.
Infatti lo stesso Marco Piga il ginecologo dell'ospedale Santissima Trinità che sempre secondo l'unione sarda << non nasconde nel volto un misto di felicità e soddisfazione. «Non mi era mai capitato prima», dice. «Solitamente, quando lavoravo a Isili, in casi urgenti come questo accompagnavo personalmente le mie pazienti in ospedale. Mi mettevo alla guida per guadagnare tempo, non aspettavo l'arrivo dell'ambulanza». (...) >>
Ed  eccoci ad  oggi   sempre  dal'unione   sarda   del  23\2\2014 
 Primo articolo  


Gesturi 
Il miracolo della vita, la forza di una mamma che ha dato alla luce una bambina sulla Statale 131 e il coraggio di un papà che guidava da Gesturi a Cagliari per portare la moglie all'ospedale SS. Trinità.


Si disegna tra queste immagini la storia di una coppia di Gesturi che ha vissuto la gioia e la tensione del parto in un'auto che viaggiava sulla Carlo Felice. La donna ha parlato al telefono con l'ospedale rimanendo in contatto mentre il parto era in corso. La bambina è sana e i genitori rimane la gioia dopo la grande prova di coraggio .  Un occhio alla strada, l'altro rivolto al sedile alla sua destra, Bruno Lai schiaccia l'acceleratore della Renault Clio infrangendo i limiti di velocità sulla statale 131. La strada è buia, il tempo stringe: l'ospedale Santissima Trinità di Cagliari è ancora lontano, l'auto è appena passata davanti alla Conforama poco oltre Monastir. Sono le 23,30 di venerdì e l'uomo, partito da Gesturi, è in viaggio da circa tre quarti d'ora. D'un tratto sente la moglie al suo fianco avvisare l'interlocutore al telefono: «Ha la testa fuori». Lui si gira, vede qualcosa muoversi e poi torna a guardare davanti a sé. Pochi secondi ancora, il tempo di voltarsi nuovamente a controllare ed è già tutto finito.SALA PARTO In un istante, probabilmente vissuto come una mezza eternità, è appena nato il suo secondo figlio. Anzi: la sua prima figlia. Si chiama Benedetta, è un piccolo fagotto che ora la madre protegge tra le mani mentre, non si sa bene come, continua a parlare al telefono cellulare con chi le ha dato
i protagonisti  
capacità e forza di portare a termine da sola l'impegno più gravoso: partorire. E non in condizioni normali, circondata da medici e infermiere. No: sul sedile anteriore di una macchina che neanche si è fermata al momento del dunque ma si è trasformata in una sala parto improvvisata proseguendo la corsa fino all'arrivo. Un viaggio terminato in una piccola stanza al primo piano del reparto di Ginecologia e Ostetricia, dove Mirella Erbì si è finalmente riposata.
IN OSPEDALE «Non c'era altro da fare». Dodici ore dopo, la neo mamma è seduta sul letto dell'ospedale. In camicia da notte, la bambina dentro una culla a un passo da lei, è serena e contenta. È andato tutto bene, la piccola pesa tre chili e mezzo («nella media», sottolinea il ginecologo Marco Piga) e dorme tranquillamente. «Le contrazioni arrivavano ogni cinque o dieci minuti», ricorda lei, «ormai era l'ora». Mirella, 39 anni, è insegnante precaria alle scuole elementari: ogni anno, da dodici a questa parte, «mi mandano in una sede diversa». Ora è la volta di Villasimius. Un viaggio non da poco, soprattutto per chi non naviga nell'oro. Il marito Bruno, 40 anni, è un operaio di Abbanoa. Lavora all'impianto di potabilizzazione a Isili, ha un contratto a tempo indeterminato. La coppia ha già un figlio di tre anni «e basta così: ci fermiamo», giurano papà e mamma.I DOLORI Tre ore di sonno alle spalle, dopo una notte non esattamente tranquilla, Lai sorride alla moglie e a chiunque gli passi vicino: il momento lo richiede, lo stato d'animo è sull'euforico andante. «Ma soprattutto vorremmo ringraziare tutto il reparto», confida, «e chi ci ha fornito l'assistenza telefonica». Un intervento “moderno”, si potrebbe dire, che ha origine nei primi dolori sentiti dalla donna nel pomeriggio di due giorni fa. «Crescevano, così alle 22,30 abbiamo chiamato il dottor Piga e abbiamo deciso di partire».LA NASCITA Portato l'altro figlio da una cugina, marito e moglie si dirigono verso Cagliari non ipotizzando cosa sarebbe capitato di lì a poco. «Le contrazioni sono aumentate, poi sono diventate fortissime». Bruno Lai suda freddo e accelera mentre Mirella Erbì, scomoda come mai sul sedile anteriore, chiama ancora il ginecologo: «Sento che sta nascendo», gli dice. Il medico cerca di farle mantenere la calma e la fa richiamare dall'ostetrica Barbara Mocci: è lei a guidare la gestante in quei momenti. «La bimba era quasi già nata», ricorda la madre, che poi ha un piccolo buco di memoria e ricorda solo il dopo: «L'ho presa e poggiata sulla pancia, come suggeritomi al telefono, e le ho massaggiato la schiena per farla piangere». Poi l'arrivo in ospedale e la festa. La bambina sarebbe dovuta nascere oggi o domani: la sua fretta di venire al mondo però è stata più forte.

                              Andrea Manunza







il  secondo 

La nascita in diretta telefonica con l'ostetrica

Il telefono del reparto squilla per la prima volta alle dieci e mezza della sera, quando Bruno e Mirella sono ancora nella loro casa di Gesturi. Dall'altro capo del filo, primo piano dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari, il ginecologo Marco Piga si raccomanda: «Venite immediatamente in ospedale». Detto e fatto: la coppia sale in auto e parte.
Quando la Clio è all'altezza di Villagrande il telefono squilla di nuovo: «Mia moglie sente la testa del bambino, sta uscendo». Piede sempre schiacciato sull'acceleratore e mani ferme sul volante, Bruno Lai segue ancora una volta le indicazioni del medico, poi il telefono passa velocemente nelle mani dell'ostetrica, Barbara Mocci, che con voce ferma prende in mano la situazione: «Signora, tenga le gambe allargate il più possibile e quando si presenta una nuova contrazione spinga forte. Continui così sino a quella decisiva». Dopo circa un quarto d'ora il primo vagito della piccola Benedetta si fa sentire, anche al telefono. La gioia dilaga, dell'abitacolo e in tutto l'ospedale. «Porti il bambino a contatto con la sua pelle ma faccia attenzione, non tiri troppo forte per non strappare il cordone». L'ostetrica resta ancora in linea: «Signora copra bene la bambina». Il borsone con tutto il necessario per il ricovero è pronto sul sedile. La mamma prende gli asciugamani e avvolge la piccola. Ora è al caldo, sta bene. Mariella e Bruno, mamma e papà per la seconda volta, arrivano un pochino più sollevati in via Is Mirrionis. Davanti al cancello dell'ospedale, in festa, li accolgono primario, ostetrica, infermieri e tanta, tantissima emozione.

                                    Veronica Nedrini



22.2.14

carnevali sardi parte II


l'altra  volta http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2014/02/lo-che-ma-non-darli-torto-i-miei-vecchi.html  avevo dimenticato  i  carnevali più importanti  ed secondo me più autentici   come sempre   clicate  sulle immagini  per ingrandirle  , e  scusate  ancora   ma  ancora  non mi sono ripreso 










21.2.14

i carnevali sardi non solo ubriacature ma anche tradizioni

Lo  so che  --- ma  come non darli torto  ----sia i miei vecchi  sia  i  miei   amici (  pochi  gli altri\e non vedono l'ora  che arrivi per ubriacarsi  , sballarsi  ,   con danze  e  sfilate  continue )   che non hanno mandato il cervello all'ammasso   e che    odiano o stanno iniziando ad  odiare il carnevale  perchè ,o  vedono solo come sinonimo  di ubriachezze   specie  adolescenziali . Ma  come  ho scritto nel  " tag  "  ogni tanto  è belo illudersi ma  sopratutto ispirato da questa  canzone




ho deciso  di  riportare degli articoli sul  carnevale    anzi i carnevali sardi .


N.B poichè  ho capogiro   e nausea  riportero dei file  in PNG   PER  INGRANDIRE  CLICCARCI SOPRA








simbiosi fra antico e moderno a tempio pausania

premetto che questa macchina  uscio  ( anche se  si trova ancora  oggi nell'usato ) fuori produzione  quando ebbi  6\9  anni  però ho alcuni ricordi della mia infanzia   e  voi  ?

da Natalina Casu una mia amica  del corso di fotografia   organizzato  dall'associazione culturale la  sardegna vista  da  vicino  con il suo smartphone  passeggiando per  il paese 

20.2.14

Olbia, i genitori di Elysa: «Donare gli organi? Una scelta difficile» Marco e Teresa parlano della loro figlia quattordicenne morta sabato dopo un attacco di asma non controllato

Leggendo  , l'articolo  ---- che  trovate  sotto ----    della nuova  sardegna  d'oggi  ,  capisco    avendo  subito 22  ani fa  un trapianto di cornea   derivato  dalla degenerazione prematura  in ernia  corneale  del mio cheratocono  ,    la  dolororissima scelta  dei genitori 

Prima di'iniziare  il post d'oggi voglio consigliare  questo libro  di Abate Francesco  l'autore  parla del suo trapianto di fegato 


Valter si burla del mondo perché da sempre è abituato a perdere. Pensa che il mondo debba chiedergli scusa. Ma quando una malattia lo porta a un'odissea senza fine nel dolore, sente che invece è lui a dover chiedere scusa a tutti. Perché quello che credeva il suo dolore è una goccia del dolore del mondo. Una goccia dell'ingiustizia senza rimedio e spiegazione. E allora, forse, Valter può scoprire la gioia. La gioia di accettare e di vivere. La voce beffarda e innocente di un uomo che si è sempre rifugiato nel sarcasmo e nel risentimento per non soccombere. La sua caduta e rinascita diventano, in questo romanzo asciutto e commovente, il tentativo di risarcire ognuno per la misera condizione di essere umano di fronte al potere spesso crudele della natura. Ma anche un'indimenticabile dichiarazione di speranza. Saverio Mastrofranco è il nome con cui un "intenditore" di cinema chiamò Valerio Mastandrea chiedendogli un autografo per strada. Da quel giorno l'attore lo usa per piccole incursioni sulla scena musicale e letteraria. Dall'incontro con il giornalista Francesco Abate, il racconto di una storia vera: la vita ha sempre un lato comico, e questo libro, nudo e limpido come una pietra preziosa, lo scopre nel luogo piú impensato. Nel più estremo dolore.

qui sotto   in questi due articoli sempre  della nuova  sardegna  la vicenda  


di Serena Lullia



 OLBIA. Le lacrime si mescolano al sorriso dei ricordi. Il dolore convive con le risate, il suono della voce di Elysa, fissi nella mente di mamma Teresa e papà Marco Azzena. Un paio di giorni fa la loro figlia di soli 14 anni, è morta per un gravissimo attacco di asma. Dopo una settimana di coma la ragazza ha smesso di vivere. I genitori hanno deciso di donare gli organi. Un gesto di amore che ha ridato la speranza a quattro persone.

Ma babbo Marco non si sente un eroe. Non pensa di meritare un riconoscimento particolare per quella scelta. «Sono un uomo come tanti – dice –, un papà come tanti. Il gesto che abbiamo fatto non mi rende migliore degli altri, anche se non nascondo che mi inorgoglisce aver ricevuto tanto riconoscimento».
La piccola Elysa era stata ricoverata in ospedale il 6 febbraio. La ragazza era arrivata al Giovanni Paolo II già in stato di coma, da cui non si risveglierà più. «Vorrei spiegare come si possa morire per una crisi di asma – prosegue Marco –. In tanti, in questi giorni, ce lo hanno chiesto. In gergo tecnico si chiama asma non controllato ed è una malattia sottovalutata, silenziosa, che ti impedisce di essere una persona normale, di fare cose che ci sembrano scontate, come fare una passeggiata, fare sport, o solo seguire una lezione di ginnastica a scuola. L’asma non controllato ti costringe a prendere delle pastiglie ogni mattina e a usare la “pompetta” due volte al giorno. Così andava avanti da dieci anni, nella speranza di un miglioramento, nella speranza di guadagnare la cosiddetta normalità. Una normalità che per noi non arrivava mai, che ci ha costretto a girare ospedali, medici specialisti. Ci sentivamo dire che l’asma non era grave. Ma la nostra piccola non migliorava mai. Anzi negli ultimi tempi sembrava peggiorare, sebbene prendesse da tempo dosaggi di farmaci da adulto. Oggi, col senno di poi, penso che, anche solo aver avuto l’ossigeno a casa, le avrebbe allungato la vita e ci avrebbe risparmiato di diventare gli “eroi” della città, un ruolo che non ci si addice, che non avremmo mai voluto».
Papà Marco trova poi la forza di parlare della donazione degli organi della figlia. Sabato era cominciata la fase di osservazione per verificare lo stato di morte celebrale di Elysa. La procedura di accertamento prevede un rigido protocollo: per la constatazione della morte ci si basa sulla verifica, per almeno 6 ore consecutive, della contemporanea assenza dello stato di coscienza, di tutti i riflessi che coinvolgono l'encefalo, dell'attività respiratoria spontanea, dell'attività elettrica cerebrale. «“Io non ci sarei riuscito”, “Che grande gesto”: sono frasi che ci siamo sentiti dire in questi giorni – prosegue il padre di Elysa –. Ed è vero, è una decisione difficile da prendere tanto più perché, non molti sanno, che ti viene chiesto giorni prima, per avere il tempo di fare le analisi del caso e rintracciare i possibili riceventi compatibili da liste chilometriche, togliendoti anche quel briciolo di speranza che ti resta. Nessuno pensi che ci sia stato chiesto di acconsentire allo spegnimento delle macchine. Proprio a chi ha pensato queste cose dico “se un vostro caro avesse bisogno di un trapianto cosa cambierebbe nella vostra testa?”. E allo stesso tempo ci siamo chiesti se ci avessero proposto il trapianto di un polmone, per la nostra Ely, poteva essere la salvezza, la tanto sperata normalità. Questo pensiero ci ha guidati in una decisione che ci è costata, non sapete quanto. Perciò se potete donate. Perché il vostro dolore potrebbe dare la vita ad altre persone. Nel nostro caso quattro, e non sono poche».
La famiglia Azzena rivolge poi un pensiero ai medici del reparto di Rianimazione del Giovanni Paolo II che hanno assistito Elysa fino all’ultimo. «Tante volte ho sentito pesanti critiche nei confronti dei medici – dice papà Marco –, verso un sistema sanitario alimentato dal clientelismo, che troppe volte ha favorito l’amico o il figlio dell’amica a discapito di chi magari avrebbe meritato, perché la sanità pubblica, come tutti gli altri enti pubblici, è solo un bacino di voti in cui pescare all’occorrenza. Io ringrazio il personale del reparto di Rianimazione e il primario, Franco Pala, per esserci stati vicini. Per aver sopportato, per aver fatto tutto quello che potevano per noi, per alleviare la nostra attesa, per Elysa nel tentativo di salvarle la vita. Sono persone come noi, che a volte sbagliano, che si fanno carico di una responsabilità enorme che è la vita delle persone. A loro dico grazie. Come anche ai nostri amici, che hanno dimostrato un affetto per Ely, per noi, che mai ci saremmo aspettati. Agli amici di mia figlia dico “sono orgoglioso di voi, del bene che volevate a Elysa”».

18.2.14

mia intervista a Carmelo Musumeci

in sottofondo  
SONG FOR CLOCHARD - Daniele  ricciu 

facendo  una ricerca ,  dopo aver  visto questa sua    intervista  da  cui  è  tratta la  foto sotto   foto



 e  leggendo ,   in particolare il primo , questi due  articoli  di  http://www.giornalesentire.it/, sulla storia  e sulla battaglia di Carmelo  Musumeci

il primo  

CARMELO MUSUMECI - Storia di un malvivente

L'ergastolo è paragonabile ad una morte? Il quesito nasce dopo avere letto il libro dell'ergastolano Carmelo Musumeci "Gli uomini ombra" (Gabrielli editori). Ma chi è Musumeci e perché ha
scritto un libro che ha fatto risvegliare tante coscienze? Musumeci è un ergastolano, attualmente detenuto a Padova. E' siciliano. Nato a Aci Sant'Antonio in provincia di Catania è stato arrestato per appartenenza a "cosa nostra", e posto in detenzione all'Asinara in regime di 41 bis, da sempre il carcere di massima sicurezza. Lì Musumeci ha ripreso a studiare fino a laurearsi in giurisprudenza con una tesi in sociologia del diritto dal titolo eloquente "Vivere l'ergastolo". La sua storia è raccontata da Giornale SENTIRE (www.giornalesentire.it) che ha dedicato diversi articoli a questo ergastolano. (....) continua qui in : LA STORIA DI CARMELO MUSUMECI . 
IL  secondo in cui parla  de IL LIBRO IN CUI RACCONTA LA LIBERA USCITA
 ho deciso di intervistare lo stesso protagonista  


Com’è avvenuto il trapasso dalla precedente all’attuale vita?
A un tratto mi sono trovato in un luogo remoto e vagamente irreale. Pensavo di essere  arrivato in un altro mondo, in un altro tempo: sbarre e cemento dappertutto, dove ognuno aveva un posto preciso e nessuna vita.
Pentito o dissociato oppure né uno né l’altro? Oppure mi pento ma non mi svendo?
Non sono nè pentito né dissociato, sono solo una persona che ha sbagliato e vorrei scontare la mia pena ripagando con il bene il male che ho fatto. E poi vorrei anche sapere quando finisce la mia pena.
 Se dici che la tua situazione è ingiusta perché non fuggi, evadi e ti rifai una vita all’estero, ma 
continui a rimanere in carcere?
Sogno di scappare tutte le notti e tutti i giorni, ma non è facile realizzare i propri sogni con un blindato davanti come porta e una finestra con le sbarre di dietro.
Molti dicono che soprattutto quando si è recidivi l’ergastolo serve per educare e rendere 
effettiva la pena, tu che ne pensi?
Penso che sia molto difficile educare un morto che cammina. Pochi lo sanno, ma la pena detentiva da scontare in carcere è un’invenzione moderna di circa 300 anni. La schiavitù, la pena di morte, la vendetta, la tortura fanno parte della cultura di ogni società, sia antica che moderna, invece l’usanza di punire tenendo chiusa una persona in una cella per anni e anni e a volte per tutta la vita è un fatto relativamente nuovo. Non più: “…il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà…” ma il carcere. La pena dell’ergastolo “È peggiore della morte perché più 
molesto, più duro, più lungo da scontare. La pena viene rateizzata nel tempo e non condensata in un momento come la morte; ed è proprio questo la sua forza ammonitrice ed esemplare”. 
Una lunga pena detentiva o l’ergastolo è una punizione che supera tutte le altre, la più mostruosa, così terribile che poteva essere giustificata solamente con la copertura della 
religione. Infatti, il carcere non è un’invenzione laica ma è stata presa come da esempio dalla religione cristiana perché il carcere assomiglia molto all’inferno dei cristiani: il luogo in cui i dannati e gli angeli ribelli espiano la loro pena.
5) Poiché l’indulto e l’amnistia sono solo dei provvedimenti tampone che non risolvano il problema delle carceri, tu cosa proponi?
L’indulto e l’amnistia non sono provvedimenti tampone, riporterebbero un po’ di legalità in carcere perché attualmente è il posto più fuorilegge di qualsiasi altro luogo
.Secondo te, fare lavorare le persone in carcere può essere rieducativo e porrebbe ad una  drastica riduzione di reati da recidiva?
Lavorare in carcere è utile perché guadagni qualcosa, ma la recidiva si abbassa solo lavorando fuori con le pene alternative. In carcere meno ci stai e più probabilità hai di uscire meno peggio di quando sei entrato.

Questa è la poesia in cui sono particolarmente legato.

                                                La Ballata dell’ergastolano

Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo
per tornare subito indietro
un altro giorno null’altro
senza andare da nessuna parte
sogni che iniziano dove finiscono
rumori di metallo di chiavi
per giorni per mesi per anni
mura di cinta sbarre cancelli
occhi carichi di ricordi
ormai solo corpi parlanti più
vicini alla morte che alla vita. 
Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo
per tornare subito indietro
prigionieri per sempre
togliendoci tutto
senza lasciarci niente
neppure la sofferenza
la disperazione il dolore
perché non si fa più parte degli esseri umani. 
Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo
un altro giorno null’altro
morendo dentro a poco a poco
presente uguale al futuro
uguale a domani uguale a ieri
sofferenza per il giorno dopo
e per il giorno dopo ancora. 
Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo,
un altro giorno null’altro
immaginando di vivere
ma immaginare non è vivere. 
Passi lunghi ben distesi,
un passo ancora un passo
con l’ergastolo la vita diventa una malattia
una morte bevuta a sorsi;
non ci uccidono: peggio,
ci lasciano morire per sempre
di un dolore che è per l’eternità. 
Un altro giorno null’altro.

Carmelo Musumeci

c'er a una volta il calcio vero . paletta cuore di roma il difensore partigiano : << il calcio oggi è un farwest >>

la storia  di Giacomo losi vedere sotto , mi ricorda   la  due canzoni canzoni  che  consiglio oggi  


Nato il 10 settembre 1935 a Soncino (Cremona), ha giocato con Cremonese (dal '52 al '54) e con la Roma (dal '54 al '69): in giallorosso 386 partite di campionato, due Coppe Italia e una Coppa delle Fiere vinte


di GIANNI MURA  da  repubblica del 17\2\2014
Giacomo Losi nel campo dei ricordi ha il numero 3, ma andrebbero bene anche il 2, il 5 e il 6. Tutti i ruoli della difesa li ha coperti, semmai c'è da chiedersi come riuscisse, lui alto 1.68, a marcare giganti come John Charles. Losi è nato a Soncino, in riva all'Oglio, un centro che dista una trentina di chilometri da Brescia, da Cremona e da Bergamo. Ed è catalogato tra i borghi più belli d'Italia, per la sua Rocca sforzesca e le mura che racchiudono il centro abitato.
"Una volta c'era l'acqua nel fossato intorno alle mura. Ma per noi bambini la festa era il fiume, anche se da
festeggiare c'era poco. La mia famiglia era povera, io e mio fratello dormivamo nello stesso camerone dei genitori. Mio padre Pietro lavorava in una cooperativa di facchini che riempivano e svuotavano i grandi silos. Mia madre Maria, era in filanda. E di quelle filandere toste, che andavano a discutere col padrone. Me la ricordo, nel primo dopoguerra, che si dava da fare a organizzare i comizi di Pajetta. Mio padre non ha mai voluto saperne della tessera del Fascio. Era di famiglia socialista. 
Così una notte del '43 sono venuti gli squadristi a prenderlo in piena notte. Stai tranquilla, hanno detto a mia madre, lo mandiamo a lavorare per la patria e sei fortunata, perché ti spedirà a casa dei bei soldini. Mai visti, ma il peggio è che per quasi due anni non abbiamo più saputo nulla di lui, dov'era, se era vivo, e un giorno torna che quasi non lo riconosciamo, magro come un chiodo, la barba lunga, era scappato e 
ha dovuto nascondersi. Era stato a scavare in un campo di lavoro in Cecoslovacchia, di fianco c'era un campo di concentramento. Non ha mai voluto parlare di quel periodo". Piccola pausa. Credo stia pensando a quel che ha visto e patito suo padre. Per allontanarlo dai brutti pensieri gli chiedo dello sport, di come ha cominciato. "Nel dopoguerra, e non era così semplice arrivarci. 


Mio padre aveva 8 fratelli: tre morti in guerra, anzi dispersi, uno morto appena tornato a casa, il nonno a Soncino sotto le bombe. La terza l'ho passata più nei rifugi che sui banchi. Ero un bambino vivace, con due miti: Coppi e il Grande Torino. I ritagli di allora su Coppi, Gazzetta e Calcio e Ciclismo Illustrato, li ho ancora tutti. Il viaggio di nozze, in 1100, l'avevo organizzato da coppiano. Andiamo in Francia, ho detto a mia moglie. Ma già a Grosseto la batteria fa i capricci, ci fermiamo in un alberghetto, ripartiamo il giorno dopo: Sanremo, Montecarlo, Nizza
, poi via verso l'interno: Grenoble, Briançon, l'Alpe d'Huez, l'Izoard, le montagne di Coppi. E sul Galibier ho capito lo spazio che c'è tra storia e leggenda. Quando Coppi è morto non potevo andare al funerale, ma con la bella stagione ho organizzato un viaggio in bici da Soncino al cimitero di Castellania. Sì, avevo la macchina, ma era un pellegrinaggio più che una gita e volevo andare in bicicletta, quella che sognavo da bambino e non ho mai avuto. 
Ho smesso in quinta elementare, c'era da dare una mano in casa, ero l'aiuto di un sarto, mi piaceva. I calzoncini della mia prima squadra, nata tra amici, li ho cuciti io. L'avevamo chiamata Virtus, ci sembrava un bel nome. Ma i giochi più pericolosi erano con le bombe. Nel '45 portavo bombe e nastri di mitragliatrice ai partigiani che sparavano giù della Rocca. I tedeschi si arrendevano e sul camion lasciavano di tutto, una pacchia per la gente: coperte, scarponi, ma io prendevo solo baionette e maschere antigas. Facevamo i fuochi d'artificio con la polvere da sparo, ma un giorno al fiume accade un dramma. La guerra era finita, ma gli ex partigiani usavano le bombe per pescare. In un'ansa era rimasta una bomba chiara, più grande. diversa dalle altre, e noi ragazzini a provocare: vediamo chi ha il coraggio di andarla a pescare. Io, anche se era un bel quattro metri sotto. La porto a riva e uno più grande, sui 15 anni, dice: lasciate fare a me, ci penso io. Eravamo in sette. Grande botto, schegge dappertutto, una mi trancia la falange di un pollice, vede? Passa il mugnaio col carretto e ci carica per andare all'ospedale. 
Ne manca uno, gli dico. Torniamo indietro, il ragazzo era già morto. Da quel giorno ho chiuso con le armi. Lo sport ha la faccia di don Giovanni, il prete dell'oratorio. Oltre a farci giocare a calcio con una palla di stracci, organizzava le Olimpiadi soncinesi. Salto in alto, in lungo, 100 metri e maratona, che poi era due
volte il giro delle mura, circa 5 km. E vincevo tutto io. Ah, e poi suonavo il clarinetto nella banda di Sonci-no, ci sono entrato sperando di avere la tromba. Verdi, Donizetti, Puccini, ma anche le serenate che allora usavano nei paesi. Fino ai 15 anni suonavo per un piatto di pane e salame e gli altri pomiciavano. Ho iniziato nella Soncinese, da attaccante: 17 gol in 12 partite. Poi alla Cremonese, in D e in C, sono diventato difensore. Poi mi ha preso la Roma. Buffo".

In che senso?
"Avevo provato con l'Inter, vincendo il torneo di Sanremo e realizzando il rigore decisivo, e col Bologna. Mai saputo chi e come mi abbia segnalato alla Roma. La Cremonese mi aveva pagato 500mila lire e mi rivendette per 8 milioni, un buon affare. A 19 anni mi ritrovo a Roma, un mondo da scoprire. Senza sapere che con la maglia giallorossa giocherò 386 partite di cui 299 da capitano. E che mi chiameranno Core de Roma, ma anche Palletta perché saltavo come se rimbalzassi. Oggi la chiamano forza esplosiva, allora un difensore non era valutato solo in centimetri. E io, come difensore, sui palloni alti non stavo incollato all'attaccante, anzi. Sui corner, mi piazzavo sul primo palo, importante era capire in anticipo dove sarebbe andato il pallone, e a quel punto saltavo con una breve rincorsa. Giocavo sulla palla, non sull'avversario. Sarà anche vero che oggi il calcio è più veloce e tecnico, ma mi sembra troppo esasperato e meno pulito, quasi più una recita che uno sport. Ma lo sa che ci sono ragazzini di 12 anni col procuratore? A quelli che alleno, al Nuova Valle Aurelia, insegno il rispetto delle regole. Che sono importanti. Io, per tanti anni capitano, all'arbitro mi rivolgevo dandogli del lei e con le mani sempre dietro la schiena. Oggi vedo cose da Far West, placcaggi, insulti, gestacci e cose così. Non va bene".

Ricordi in campo?
"Ghiggia marcato in allenamento. Gento all'esordio in Nazionale. Me la sono cavata bene, anche se abbiamo perso. Uno con cui non l'ho mai vista, Garrincha. Aveva una gamba più corta, veniva avanti ciondolando, come stesse per cadere, fintava da una parte e partiva dall'altra. Ho marcato Bobby Charlton quand'era ala sinistra, ho marcato Charles, Sivori, Altafini, uno dei più pericolosi, Jair, Corso, Virgili, Jeppson, Vinicio e tantissimi altri. Chi m'ha fatto più soffrire è Brighenti, con una gomitata all'arcata mi ha aperto uno squarcio, 12 punti di sutura, mai pensato che l'avesse fatto apposta. Giocavo sull'anticipo. Mai espulso e una sola ammonizione, all'ultima partita in A, a Verona. Loro avevano Bui e Traspedini, veloci e grintosi. Santarini, stopper, andava sempre avanti, spronato dal Mago, loro partivano in contropiede e io mi sono arrangiato. Al terzo intervento l'arbitro Motta di Monza mi ha detto: mi spiace, Losi, ma devo ammonirla. Ci sono rimasto male, ma era giusto così".

Lei con Helenio Herrera non legò molto.
"Credo fosse geloso della mia popolarità in città, anche se non la facevo pesare. Andavamo nei club dei tifosi e chiede-vano l'autografo prima a me che a lui. E sì che quand'era all'Inter mi voleva. Parlai con Allodi: Mino, quanto prendi a Roma? Glielo dissi. Ti diamo il triplo, disse lui. No, dissi io, queste cose non le faccio. Così presero Picchi. A Herrera non ho mai perdonato di aver fatto rientrare la squadra da Cagliari quando Taccola morì sul lettino dello spogliatoio. Io non c'ero, ero a Roma, e mi toccò andare a informare la famiglia di Giuliano. Forse a Herrera non faceva piacere che io rifiutassi la pillola quotidiana di Evoran, gliele procurava il massaggiatore Wanono in Francia. Mai presa, e dicevo ai compagni di starci attenti. Lui diceva che erano vitamine, ma noi cosa ne sapevamo?".

I momenti più neri, per lei?
"Quando l'allenatore Lorenzo organizzò la colletta tra i tifosi al Sistina, e io, il capitano, giravo con un secchio tra le file a raccogliere i soldi. Settecentomila lire in tutto. Le mandammo agli alluvionati. Brutto periodo, quello. Non ci volevano negli alberghi, non ci volevano nei ristoranti, società piena di debiti. Un altro brutto momento fu quando la Roma mi fece fuori mandandomi a casa un usciere con una busta: dentro c'era il mio cartellino e una breve lettera di ringraziamento, più formale che altro, in cui si diceva che avrebbero organizzato per me la partita d'addio. Cosa mai avvenuta".

I più belli?
"Uno dei più belli, certamente il più curioso visto con gli occhi di oggi: il 25 aprile del '61 a Bologna, Italia-Irlanda del Nord, 3-2 per noi, marco bene Mc Parland. Il giorno dopo a Roma c'è il ritorno della semifinale di Coppa delle Fiere con l'Hibernian, 2-2 all'andata. Prendo il treno e vado all'albergo dov'è in ritiro la squadra, per far sentire il tifo del capitano. Piove molto, avvantaggiati loro, Foni, l'allenatore, mi fa: cosa diresti se ti chiedessi di giocare stasera? Non me l'aspettavo. Se i compagni sono d'accordo, gioco, ho detto. Evviva, pacche sulle spalle: gioco. E sono utile, perché sul 3-3 a pochissimo dalla fine tolgo dalla linea di porta un loro tiro che avrebbe significato l'eliminazione. Così si va alla bella, 6-0 per noi e poi, col Birmingham, grazie a un immenso Cudicini 0-0 là e 2-0 qua: prima coppa europea nella storia della Roma. Tra le cose belle ci metto anche l'amicizia con Di Stefano, nata durante una tournée in Venezuela: Roma, Real, Porto e Vasco da Gama. Col Real eravamo nello stesso albergo, noi avevamo portato scorte alimentari dall'Italia e grattavamo il Parmigiano sulla pastasciutta. Lui s'avvicina al tavolo e chiede: cosa ci mettete sopra? Un nostro formaggio. Posso assaggiare? Ma è meraviglioso. Come posso averlo a Madrid? Mi dai il tuo indirizzo e te lo spedisco io. Così ho fatto e da lì siamo diventati amici, sono stato a casa sua, ho visto il monumento al pallone. Adesso le mostro una cosa". 

Fruga nel portafogli e ne estrae un ritaglio di giornale piegato con cura, una fotografia.
"Spagna-Italia vecchie glorie, capitani io e Di Stefano. Il più grande di tutti, fortuna che non ho mai dovuto marcarlo. Un altro bel ricordo è personale. Mio padre veniva ogni tanto a vedermi giocare, ma senza dirmelo. Un giorno me lo ritrovo vicino al nostro pullman, a San Siro. Sai Mino che hai imparato a giocare a calcio, adesso? Cazzo papà, ho 32 anni, ho pensato. Ma non l'ho detto. Ho preso quella frase come una medaglietta da appuntare al cuore".

concludo   sempre  in musica    con le note  in sottofondo di questa   toccante  canzone  della mia infanzia   di cui riporto  interamente  il testo   oltre  questo  stupendo video  di  NoteSplendentiDiLuna  di youtube



Mise il Cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento..
Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, 

Sole che batte sul campo di pallone

e terra e polvere che tira vento e poi magari piove

Nino cammina che sembra un uomo, 
con le scarpette di gomma dura, 
dodici anni e il cuore pieno di paura
Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, 
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, 
un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo
e dalla fantasia. 
E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori tristi
che non hanno vinto mai 
ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro 
e adesso ridono dentro al bar, 
e sono innamorati da dieci anni 
con una donna che non hanno amato mai
Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai
Nino capì fin dal primo momento, 
l'allenatore sembrava contento 
e allora 
mise il cuore dentro alle scarpe 
e corse più veloce del vento. 
Prese un pallone che sembrava stregato, 
accanto al piede rimaneva incollato, 
entrò nell'area, tirò senza guardare 
ed il portiere lo fece passare
Ah Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, 
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, 
un giocatore lo vedi dal Coraggio, dall'Altruismo e dalla Fantasia 
Il ragazzo si farà
anche se ha le spalle strette, 
quest altro anno giocherà con la maglia numero setteeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeEeeeee



anche il cibo ha dele storie da raccontarci ed una di queste è quella di Oscar Farinetti

vere  o false   che sia  le accuse   che gli vengono rivolte  da ilfattoquotidiano  o dal ilgiornale   ( vedere  qui)Egli a  differenza  di altri   imprenditori  pessimisti  o  arraffoni in fuga  dall'Italia  ha  avuto  coraggio   con  Eataly di investire in eccellenza .

da l'unione  sarda  Edizione di lunedì 17 febbraio 2014 - Politica Italiana (Pagina 8)
Giuseppe Deiana
Fino al 2003 vendeva frigoriferi, lavatrici e televisori. Poi ha ceduto la catena Unieuro (con lauta plusvalenza) alla britannica Dixons Retail e ha deciso di dare sfogo alle sue passioni: terra, vino, prodotti agroalimentari e tutto ciò che riguarda il made in Italy a tavola. Oscar Farinetti, 60 anni il prossimo 24 settembre, imprenditore di successo e
grande amico di Renzi (anche se ha rifiutato il ministero dell'Agricoltura), ha messo insieme un impero che conta dieci sedi tra Italia, Stati Uniti e Giappone e che nel 2017 potrebbe essere quotato in Borsa. L'obiettivo? «Raccontare ciò che mangiamo».
Il suo ultimo libro, “Storie di coraggio”, è dedicato al mondo del vino: è passione o business?
«Devono esserci entrambi. Il business non si può fare senza passione e senza emozione e allo stesso tempo, la passione da sola non va. In Italia abbiamo mille vitigni autoctoni, siamo il secondo produttore di vini al mondo, un mercato che vale 60 miliardi. La Francia ne fa 21, noi appena dieci con lo stesso numero di ettolitri».
Lei ha oggi otto cantine, tra cui quella storica di Fontanafredda, fondata da Vittorio Emanuele II.
«Sono stato fortunato nella mia vita, non avevo terreni in eredità e li ho acquistati. Ma suggerisco a tutti, anche i piccoli produttori, di ripartire dai terreni, magari da un ettaro di vigneto, sviluppandolo pian piano. Ci sono zone, come le Langhe, dove la terra è carissima, ma in tanti altri posti, compresa la Sardegna, non è così».
Perché raccontare il coraggio attraverso il vino?
«Ho usato la categoria del vino, potevo usarne molte altre, per raccontare che si può fare. Certo, c'è differenza tra Walter Massa, che è riuscito a sfondare in una povera zona del tortonese, partendo da un vitigno autoctono, e Piero Antinori, erede di 26 generazioni di produttori. Anche lui, però, ha mostrato coraggio. Si deve credere in quello che si fa e ho fiducia nei giovani. Può darsi che questo periodo di crisi faccia venire la voglia di tornare on land , alla terra madre».
Lei però non narra e basta, vende il cibo su larga scala.
«Niente si vende se non viene narrato, non ha valore aggiunto. E i francesi sono più bravi di noi. Pensi ad esempio allo champagne: non c'è ricorrenza nella quale non lo si evochi. Ecco, perché il prezzo medio è molto più alto dei nostri spumanti. Cerco di spiegare con Eataly che il nostro cibo non veniva narrato: non esiste solo la mela, ma 200 tipi e bisogna spiegare come è coltivata, come viene raccolta. Con il progetto “Vino libero” raccontiamo cosa c'è dietro il semplice bicchiere».
Quali prodotti sardi apprezza?
«Sui vini la Sardegna ha fatto progressi enormi. L'Isola ha la maggiore area coltivabile non utilizzata e quindi si può lavorare sui terreni e sui vitigni autoctoni. La Sardegna merita di essere narrata per i suoi vini, i formaggi e anche i salumi. Ho assaggiato alcuni prosciutti sardi e non hanno niente da invidiare alle eccellenze».
Quale prodotto sardo vorrebbe avere all'interno di Eataly?
«Vini ne abbiamo tanti, per esempio quelli di Gavino Sanna, che con Mesa ha fatto un grande investimento nell'Isola. Comunque possiamo migliorare. Abbiamo il pecorino che è una vera eccellenza. E la fregola è un piatto straordinario che si presta a essere cucinata in mille modi. Abbiamo iniziato a farla nei nostri ristoranti. A volte arriva un bel prosciutto sardo, ma dobbiamo dare un po' di più all'Isola. E poi c'è una tradizione enogastronomica d'eccellenza, a partire dal porceddu».
Piatti che suscitano emozioni?
«Direi proprio di sì. Ci sono perle rare che vanno raccontate. La vostra è una regione che “suona” bene nel mondo, è conosciuta e ha fama internazionale. Dovete partire da lì per sfruttare la maggiori potenzialità di espansione rispetto ad altre regioni coltivate più intensamente. È importante che non passi l'idea che nella vostra isola si possano coltivare i terreni per produrre biocarburanti».
Crede ci sia questo rischio?
«Ho paura di sì e credo debba partire da voi sardi un movimento culturale di riscossa, cercando un leader che porti sviluppo».
Un movimento che pensi locale e agisca globale, è il suo motto.
«Proprio così, è il contrario di quello che ci hanno insegnato nelle scuole di marketing: narrare la biodiversità ed essere padroni delle tradizioni locali, per poi venderle nel mondo».
Che scopo ha il suo elogio dell'imperfezione.
«È una forma di realismo: siamo imperfetti. Bisogna cercare di arrivare vicino alla perfezione, ma anche essere pronti a scendere a compromessi per fare. In Italia c'è una sproporzione enorme tra ciò che si dice e ciò che si fa. E se continuiamo ad agire come nell'ultimo ventennio, non combiniamo niente, invece bisogna accettare l'imperfezione e i compromessi».
È una condanna della vecchia classe politica?
«Esatto. Mi piace Renzi perché si pone degli obiettivi, non è polemico, gestisce la sproporzione tra il dire e il fare. E io sono per le persone che fanno, c'è gente che non combina niente da 30 e continua a stare in Parlamento».
È diventato grillino?
«La mia non è una visione grillina. C'è un confine: dopo la protesta, bisogna partire e fare le robe, accettare compromessi, mentre i grillini si fermano alla protesta. L'Italia oggi usa tanto tempo per lamentarsi e poco per costruire».
Però lei viene mal visto da una certa sinistra, per esempio perché non difende l'articolo 18.
«Questo è l'ultimo dei problemi, una cavolata. Bisogna cambiare un po' di cose e lo ha detto anche la sinistra. I posti di lavoro si ottengono con progetti e nuovi servizi, mica con l'articolo 18».
Ultima domanda: lei viene accusato da alcuni giornali di assumere precari, pagati 800 euro al mese.
«Guardi, quelli sono quotidiani scandalistici. Non è vero. Non ho mai querelato nessuno, vorrei continuare su questa linea, ma le ribadisco che non è vero e non rappresenta la stampa chi scrive falsità per vendere. Per cui a questo non rispondo».

16.2.14

Una 14enne di Olbia muore in ospedale Gesto d'amore dei genitori: donati organi

lo so che sembrerà banale   visto che  :   storie  come  questa    ne devono succedere  parecchie  . Ma  è la prima volta  che  sento  di un  esproprio d'organi  da una ragazza di  14  anni  . E poi da trapiantato ( mi  hanno  , 22  anni fa  , trapiantato  la cornea   destra  )  queste storie mi emozionano sempre  .


dall'unione sarda del 16\22014

La morte di una 14enne, a Olbia, darà nuova vita a quattro persone: i suoi organi questa mattina sono stati donati a tre giovani pazienti, di Roma, Palermo e Torino, e ad un 52enne cagliaritano. Ieri mattina la ragazza, ricoverata nel reparto di Rianimazione dell'ospedale Giovanni Paolo II di Olbia dal 6 febbraio scorso, per le conseguenze di una grave crisi respiratoria, è morta cerebralmente. L'equipe del reparto di Rianimazione ha così iniziato la fase di Osservazione, per verificare lo stato di decesso, conclusasi alle 15 e dalle 23 sono state così avviate le operazioni di prelievo degli organi, autorizzate dai familiari, che - ha spiegato l'Asl di Olbia - sono state concluse alle 7 di questa mattina.

ospedale di Olbia 


Vista la giovane età della ragazza è stato possibile prelevare il cuore, consegnato all'equipe dell'ospedale romano Bambin Gesù, e già trapiantato in un bambino di 9 anni; un rene e il fegato sono invece già stati trapiantati a Palermo in una giovane di 18 anni; il secondo rene è stato consegnato all'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino; infine il Pancreas resterà in Sardegna, destinato ad un uomo di 52 anni. "Questa vicenda ha commosso tutti noi", ha detto Franco Pala, primario del reparto di Rianimazione dell'ospedale olbiese, "da un lato per la drammaticità degli eventi, dall'altra dall'atteggiamento di immensa generosità che i familiari della piccola hanno dimostrato in un momento difficilissimo della loro vita".

15.2.14

IL BIBLIOMOTOCARRO DI ANTONIO LA CAVA



nonostante   sia no lontani anni luce   con   quanto  dice  il mio compaesano  Danilo Atzori La politica si opporrà... il miglior modo per governare e far subire il popolo è tenerlo ignorante... strano che ancora ci sia dopo oltre due anni...


Siamo nel periodo dell’anno che, ormai, anche mia nonna Tita (nata, appunto, il giorno del varo del Titanic) chiama back-to-school. Un irrinunciabile appuntamento della grande tradizione italiana come Halloween, i muffin o l’happy hour. Così -al rientro dalle ferie- con del blando esplosivo, libero la mia buca delle lettere dai quintali di giornalini degli ipermercati, nei quali innocenti prezzi di listino sono mutilati dal machete di un nemico impietoso: lo sconto. Corro all’ ipermercato, entro, mi piego in due per un leggerissimo crampo allo stomaco (me lo fa, a passare da +41° a -2°) e inizio. Compro zaini con ruote,  per  trasportare il necessario: libri, quaderni, carta igienica e presto – dato il livello di finanziamenti alla scuola – banco e sedia. Compro 60 pilots friction laser ultimate edition: cioè penne, una parte che scrive e una che cancella, che gli scolari usano come spuntino (a giudicare dalla velocità con la quale finiscono).  Compro 16,2 kg di libri, sui quali c’è scritto che l’Amazzonia è in pericolo e che se io –piccola egoista!- non riciclo lo scontrino, ho la responsabilità della catastrofe globale.Compro tutto quello che è nella lista, lunga quanto la  Torah.  Il fatto che io non abbia figli è ininfluente. Una Moglie Modello non si tira mai indietro  e volentieri sostituisco amiche e conoscenti, che possono così  concedersi uno smalto alle unghie, un libro, un idraulico. Tra quaderni e astucci di supereroi, mi sento anch’io un’eroina.Anche se mai come Antonio La Cava. Un distinto signore che gira le piazze della Basilicata su un’Ape con finestre, tetto e comignolo. Al suo arrivo, i bambini lo aspettano felici.  Ma Antonio La Cava non distribuisce gelati o nachos.  È un maestro in pensione e distribuisce libri. L’Ape è un Bibliomotocarro, con a bordo 700 libri.  I ragazzi li prendono in prestito e si mettono su un gradino a sfogliarli. Non solo. Possono anche contribuire con impressioni e storie a un libro aperto che altri bambini completeranno.  Tutto gratis, tutto per abituare i ragazzi alla lettura.E come finisce la favola? Non finisce. Se tra quei bambini uno scriverà meglio di altri o s’innamorerà della fisica o si metterà in testa che deve fermare lo scioglimento dei Poli, la favola è appena iniziata.  E Antonio avrà proseguito la missione degli insegnanti: plasmare futuri.

in giro a fare foto diga del liscia il 9.2..2014

da  http://topolino.it/archivio-post/
Cari amici\che  , compagni  di  strada   \  di viaggio (  chi mi segue  dal  vecchio blog  di splinder  )   come va? Oggi mi sento particolarmente ISPIRATO,e  ho deciso  di  scrivere   e rispondere  cosi alle vostre  domande     su cosa  faccio  quando non lavoro  , oltre  a leggere  fumetti e  sminchionare  \  cazzeggiare  perdere  tempo  su facebook , raccontandomi  , specialmente  attraverso le mie  foto  , dell'uscita  fatta il  9  c.m   con il gruppo ( le nostre pagine di facebook  : quella  chiusa  solo per  l'associazione .,  quella  aperta   ) .  
IL luogo  è  la  diga  del Liscia   fra  S'antonio , Calangianus  , Luras  ( vedere sotto  la  cartina   )  presa  , tramite  il cattura  schermata in quanto  il sito non permette  il  copia e incolla   da  http://www.lamiasardegna.it/files/luras.htm  dove  troverete    dei  buoni itinerari   se  non amate le spiagge  o  volete  vedere  luoghi interni   di una regione  

ecco le mie  foto    Purtroppo   essendo abituato al sperimentare  e\o  all'automatico sto imparando da poco ad  usare il manualee  quindi a destreggiarmi con  tempi e diametri   . E poi   c'era   una luce pessima   essendo nuvoloso   e  ventoso  .



































e per  finire  le  foto  "  dell'allegra  brigata   " ( parziale  perchè  su 50 ne  mancavano molti  )  , alcuni   quelli dello studio fotografico Gallura  hanno fotografato    ed  altri  non si sono voluti mettere  nella foto  di gruppo