12.8.15

lo sballo consapevole non esiste ma soprattutto cerchiamo di non giudicare le persone dall'apparenza specie se minorenni come il caso di quella ragazzina di messina


Massimo Diana L’esperto psichiatra e responsabile del Servizio Dipendenze della Asl cagliaritana del Servizio dipendenze , a : “Ma lo sballo consapevole non esiste”
massimo diana
“Dobbiamo evitare le generalizzazioni. Esistono diverse sostanze stupefacenti, ciascuna con i suoi effetti specifici. Gli effetti delle sostanze possono poi essere influenzati dalla dimensione personologica di chi la assume, dalla eventuale predisposizione ai disturbi psichici, dal contesto in cui si assume, da aspetti culturali, dalla frequenza delle assunzioni, dall’associazione con altre sostanze. Ciascuno di noi può esprimere una maggiore o minore vulnerabilità nell’uso di sostanze stupefacenti”.Massimo Diana, psichiatra e responsabile del Servizio Dipendenze della Asl cagliaritana da anni si occupa di droghe e dipendenze varie. Secondo la sua esperienza non esiste una formula unica e universale per combattere gli abusi e i problemi che ne derivano: ogni sostanza fa storia a sé. È però convinto che non esiste un ‘consumo consapevole e responsabile’ come invece sostiene Luca, giovane cagliaritano che ci ha raccontato la sua esperienza con le droghe: “È poco frequente incontrare consumatori moderati di una determinata sostanza d’abuso perché è insito nei meccanismi specifici delle sostanze aumentare la frequenza e/o la quantità di sostanza per un fenomeno che tutte le droghe determinano, quello della tolleranza per cui, per ottenere lo stesso effetto bisogna necessariamente aumentare la quantità di sostanze che si assume. Il fenomeno della tolleranza interessa tutte le sostanze, dall’alcol alla nicotina, dall’eroina alle amfetamine o alla cocaina. Spesso l’uso iniziale di sostanze in età adolescenziale è circoscritto a questo periodo della vita. Chiunque ne faccia un uso protratto nel tempo andrà, prima o poi, incontro a fenomeni d’abuso e proseguendo nel tempo e nell’uso andrà necessariamente incontro a dipendenza fisica e/o psicologica. Non è infrequente nei Ser.D vedere pazienti giungere all’attenzione degli specialisti dopo diversi anni, anche decenni dall’inizio dell’uso di una sostanza proprio perché le sostanze oggi in uso non danno dipendenza fisica come fa l’eroina. Essendo frequente l’uso di più sostanze, insieme o in tempi separati, è molto frequente vedere casi di poliabuso dove a volte viene difficile capire il razionale delle associazioni. Senz’altro certe droghe determinano inizialmente particolari effetti positivi o piacevoli, in particolare le amfetamine e derivati sono capaci di modificare lo stato d’animo di chi le assume rendendolo più disponibile e capace di entrare in sintonia con l’ambiente e/o l’interlocutore. Ricordo che sino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso gli psicoterapeuti americani somministravano stimolanti ai loro clienti in quanto ne miglioravano la capacità introspettiva riducendo nel contempo l’ansia e la paura del giudizio. Però quando una persona assume sostanze stupefacenti non dobbiamo pensare solo agli effetti immediati, spesso ma non sempre piacevoli, ma anche a quello che succede dopo, come cambia per esempio lo stato d’animo di una persona che ha assunto una sostanza dopo qualche ora, dopo qualche giorno e, se c’è un consumo frequente o cronico, come cambia nel tempo, osservando il consumatore in tutte le sue aree: relazionale, lavorativo, psicologico”.
tieni accesi
Diana è responsabile del progetto ‘Tieni accesi i colori della tua vita’ all’interno di un programma di prevenzione pensato dal Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, commissionato all’assessorato Igiene e Sanità della Regione Sardegna e affidato alla Asl di Cagliari: il progetto, curato da Massimiliano Serra e Marina Velluzzi prevede un numero verde (800557722), un indirizzo email (prevenzionesardegna.it@asl8cagliari.it) gestiti da psichiatri e psicologi e una campagna informativa  tramite tv, materiale cartaceo e social network con l’obiettivo di sensibilizzare e coinvolgere le persone nel contrasto alle dipendenze da sostanze o comportamentali.

Informazione e prevenzione sono secondo Diana gli strumenti giusti per contrastare gli abusi; a poco servono, invece, i sigilli alle discoteche: “Chiudere una discoteca non risolve il problema delle droghe e dei rischi connessi al loro uso. La chiusura di una discoteca come il Cocoricò, conosciuta in tutto il mondo, soprattutto per l’innovazione continua e per essere un ‘tempio’ della trasgressione, deve servire ad attivare un dibattito tra i diversi possibili interlocutoriperché certi avvenimenti così drammatici non si verifichino più; quando parlo di interlocutori mi riferisco ai sindacati dei gestori delle sale da ballo, ai genitori dei ragazzi, ai ragazzi, agli operatori delle ASL, alle Forze dell’Ordine. Penso che ciascuno debba apportare il suo contributo nel modo giusto e nel posto giusto. Se da un lato oggi sempre più si riconosce l’importanza della prevenzione e della promozione di stili di vita sani, che però vanno proposte nei posti giusti nello stesso tempo non si possono non riconoscere le politiche di diminuzione del danno. Questo è un tema molto delicato, che viene visto come una ‘resa’ ma che in qualche modo va contestualizzato: pertanto la prevenzione e la promozione della salute deve vedere tutti coinvolti (scuola, famiglia, ecc.), ma non dobbiamo escludere altre forme di intervento, per esempio sui gestori e sugli operatori delle sale da ballo, sui frequentatori delle discoteche, spiegando ai ragazzi anche il modo per ‘farsi meno male’.
Francesca Mulas

  da   http://palermo.repubblica.it/cronaca  12 agosto 2015


La nostra piccola dolce e ribelle", l'altra faccia di Ilaria

Parla la famiglia della ragazza trovata morta sulla spiaggia: "L'adolescenza è per tutti un'età difficile, non giudicate" Il fratello: "Quei due amici l'hanno abbandonata sul lungomare, ora ci devono una spiegazione"

di MANUELA MODICA






                   Ilaria Boemi (fotogramma) Ritratto di Ilaria "dolce e ribelle"


"Io e mia sorella non abbiamo paura", Lillo Boemi parla di Ilaria al presente. Per l'imperfetto è troppo presto, almeno per lui, fratello maggiore di tanto, 40 anni circa. Ma è tempo di rabbia per la famiglia tutta, che piange la morte della ragazza sulla spiaggia di Messina. "È stata trattata come una delinquente: a noi oggi manca una sedicenne in casa e non c'è stato rispetto per nessuno di noi, lo so io cosa sta passando oggi mio padre che per Ilaria avrebbe dato tutto, anzi ha dato tutto quello che poteva". Lillo Boemi è appena tornato dall'obitorio
nella casa di Catarratti, uno dei tanti villaggi di Messina. Un quartiere centrale, poco distante dall'autostrada che sembra un piccolo paese: un torrente, una piccola strada in salita, poi la piazza piccola con la chiesa e le palazzine grigie di fronte. Lì è cresciuta Ilaria, quel poco che ha potuto. Lì tornano i parenti dopo la veglia.
I genitori non vogliono parlare, tirano dritto verso il portone. Lillo Boemi si ferma con le zie, invece, perché vuole "difendere" la sorella: "Ilaria è una ribelle come me. La stampa ha preso le immagini peggiori". Si ferma, chiede a qualcuno di andare subito dentro per prendere i giornali e mostrare quali foto sono state pubblicate: "Guardi qui, sempre in posa mentre fuma: cosa vuol dire che era drogata? Una sballata?". E anche la zia Sabrina: "Mia nipote era l'esatto contrario di come è stata descritta, era una ragazza molto affettuosa e molto sensibile ". Il fratello torna a incalzare: "Ma anche se fosse stata la peggiore fra gli esseri umani, una sedicenne non può essere trattata così". Si commuove: "Ilaria è stata abbandonata su una spiaggia da due amici". E ci tiene a ripeterlo: "Sì, abbandonata. Questi due ragazzi mi devono una spiegazione, la devono a tutti noi".
Ma sono le foto pubblicate dalla stampa locale e nazionale a ferire adesso chi amava e ama ancora Ilaria Boemi. "Il lobo dell'orecchio non lo aveva più con quell'anello", ci tiene a dire un'amica di famiglia indicando una delle foto pubblicate. Interviene pronta anche la zia Angela: "Ma che importa? Era una fase della sua vita, era uno stile. A quell'età ancora è tutto confuso, come si può giudicare da un piercieng?". E ancora la zia Sabrina: "Non si possono giudicare le persone dall'apparenza, specie mia nipote: Ilaria era una ragazza molto sveglia e molto dolce". Ma per il fratello Lillo "Ilaria era soprattutto una bambina". "Bisogna avere rispetto per il nostro dolore - dice - abbiamo in casa il corpo di una sedicenne. E non era una drogata. Le è stato fatale qualcosa, forse un cocktail di sostanze nocive. È stata la bravata di una sera, non so neanche quanto fosse consapevole di quel che ha preso, so solo che non era una drogata".
Rabbia ma anche garbo nel voler ripristinare un'immagine di Ilaria più "corrispondente a quel che abbiamo vissuto in questi pochi sedici anni", come dice la zia Sabrina. Una rabbia che si scioglie presto in lacrime man mano che arrivano altri parenti e vicini. Gli amici si incontrano sulle scale di piazza Municipio, dove spesso trascorrono il tempo. Sono pacati, come riuniti in una veglia. Ma alle domande rispondono ancora più adirati della famiglia: "Se dovessimo parlare di lei, non basterebbe una giornata per sconfessare le fesserie che sono state dette finora". Questo è tutto quello che vogliono dire. E se qualcun è tentato di parlare ma viene subito fermato: "Chiedere di lei oggi è inopportuno, dovete andare via e basta".
La città appare sconvolta dalla tragica fine di una ragazza innocente. La sua scuola, lo Jaci, organizza una veglia in una delle chiese centrali, Santa Caterina, alle otto di sera. Stamattina, invece i funerali. Per l'addio.


concludo  riportando perchè  do ragione  e la considero  come l'amico


Giorgio Pintus 

Educatori della buonora e moralizzatori da strapazzo dovrebbero conservare i loro commenti per rileggerli tra venti anni. Proveranno intima vergogna per le parole di disprezzo scritte in questi giorni nei confronti di questa sfortunata ragazza. Nessuno si deve arrogare il diritto di stabilire se la morte è il prezzo da pagare quale naturale conseguenza della colpa commessa. E' morta, non ha ammazzato. Ricordatevelo.

11.8.15

Trova lavoro dopo la maturità rinuncia a partecipare a Miss Italia




Federica Boscolo Bisto, nata a Rosolina e residente a Sant'Anna
di Chioggia non proseguirà nel concorso dopo aver vinto Miss Rocchetta
Federica con la famiglia

di Marco Scarazzatti
ROSOLINA - Dalla possibilità di accedere alla finale di Miss Italia a quella di un posto di lavoro. La storia di Federica Boscolo Bisto, originaria di Rosolina ma residente da qualche tempo con la famiglia in quel di Sant'Anna di Chioggia, ha dell'incredibile.
La bellezza polesana, che compirà 19 anni venerdì, era balzata agli onori della cronaca per avere vinto, lo scorso 1 giugno, la fascia di Miss Rocchetta Bellezza, giungendo seconda nella selezione provinciale organizzata da Miss Italia al villaggio turistico Rosapineta. Era la prima volta che Federica partecipava ad uno dei concorsi di bellezza più rinomati a livello europeo.

10.8.15

Cocorico : bisbigli e sussurri i le coccopinion's \ la mattanza delle opinioni ancora polemiche sui fatti delle morti per droghe di questi giorni

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sul blog http://wwwhete.blogspot.it/2015/08/les-cocopinions.html  dell'amico   Matteo tassinari   trovo questo  articolo  interessante  di    Leonardo Montecchi
Psichiatra, psicoterapeuta, nato a Novafeltria nel 1952 lavora nel campo delle dipendenze patologiche 
dal 1978. Ha contribuito a fondare la cooperativa CentoFiori che a Rimini gestisce la comunità terapeutica di Vallecchio, il centro diurno di via Portogallo 10 e l'appartamento di reinserimento. Ha fondato e dirige la scuola di prevenzione, psicanalisi operativa e concezione operativa di gruppo J.Bleger. www.bleger.org è editor della rivista www.pol-it per la parte dipendenze. E' socio della associazione internazionale di psicoterapia di gruppo. Dirige la collana i sintomi della salute per Pitagora di Bologna



Esso riguarda le ultime   morti per  droga  avvenute in questi giorni   

Come sa chiunque si sia occupato da un punto di vista antropologico o sociologico delle feste da ballo sia all’aperto che al chiuso queste due posizioni si ritrovano sempre.
Sono convinto che la repressione dell’aspetto dionisiaco della vita, per dirla alla Nietzsche, sia un grave errore. Penso che il muro di Berlino sia caduto più per The Wall dei Pink Floid che per le politiche di Reagan, e mi è sempre più chiaro che è difficilissimo irregimentate chi sperimenta la libertà, sia pure la libertà di un corpo che danza senza schemi precostituiti e senza regole.











L’aspetto dionisiaco si accompagna sempre con la musica ed anche con sostanze che favoriscono la dissociazione. A cominciare dal vino che si è sempre servito nei locali da ballo e nelle feste private. Negli anni 60 nel nord europa e negli USA si assumeva amfetamina, Jack Kerouac in on de road ci descrive concerti di Jazz con assolo di sax alla Charlie Parker con gente fatta di metedrina. Chi ascoltava la musica beat o anche faceva parte di quella sottocultura è facile che usasse pasticche come il Pronox o il Roipnol, barbiturici. Con la musica psichedelica arrivò l’hascisc e la marijuana. Il sergente Pepper diffuse LSD senza il quale è impensabile la musica dei Pink Floyd.
L’eroina stava lì come un cinese ad aspettare i cadaveri e se si sente Lou Reed o anche Sister Morphine dei Rolling Stones ma meglio ancora il punk demenziale degli Skinantos: "sono andato alla stazione ho comprato il metadone…". Si capisce quali droghe e musica sono adatte per il movimento che proclamava con i Sex Pistol No future


E’ con l’hip hop, passando per il reggae e il raggamuffin che ritorna la marijuana, invece con la nascita della techno cambia il panorama musicale. Niente più rock star con cui identificarsi la musica da sfondo diventa figura, come dice Phipip Tagg,lo spazio viene delimitato dagli impianti e le vibrazioni sonore si sentono in tutto il corpo e non solo con le orecchie. Questa musica genera i rave party che si diffondono dalla fine degli anni ’80 e producono, nella migliore delle ipotesi quelle zone temporaneamente autonome o TAZ che ha teorizzato Hakim Bey. Il Cocorico è diventato un tempio di questa musica nomade. Non è facile diventare un tempio di un movimento internazionale, non è l’unico tempio, ma non ce ne sono molti altri. La chiusura, contrariamente alla volontà proibizionista e perbenista, lo trasformerà ancora di più in un mito.

Spirito Apollineo, Spirito Dionisiaco.
Il Caos e la Legge Henri Matisse, La dance (1909)
Lo scopo della tecno, come di qualsiasi altra musica dionisiaca è accedere ad uno stato modificato di coscienza,questo sarebbe lo sballo. Perché c’è questo desiderio di “sballo”? Forse perché lo stato di coscienza ordinario è diventato insopportabile, la multidimensionalità dell’essere umano è precipitata in una unica dimensione,come aveva visto Marcuse, la dimensione lavorativa.
Futuri collassati Di più, nella nostra contemporaneità, chi non ha un lavoro, e sono tanti, non ha coscienza, ed è privo di quella che chiamo identità analogica cioè una dimensione storica di se stesso. Il futuro per lui e’ già collassato ma scompare anche il passato ed emerge una identità digitale puntiforme che si costruisce nel momento che si sta vivendo. Tutto il movimento techno e’ un movimento di dissociazione collettiva dallo stato di coscienza ordinario. Non è certamente psicopatologia.


La stanza di un Hikikomori


anche questo movimento,che dura da più di venti anni e’ in fase discendente, la tendenza emergente e’ un altra molto più inquietante. Si tratta di un isolamento in casa, una chiusura al mondo e a qualsiasi socialità che non sia una connessione internet. In Giappone ci sono già più di un milione di Hikikomori che si separano dalla società.

Aumentano i suicidi è un dato emergente giovanile e si diffonde sempre di più quella che Soren Kierkegaard chiamava la malattia mortale, cioè la disperazione. In questo panorama desolante che ci siano moltitudini che ballano e cercano di modificare il loro stato di coscienza è un sintomo di salute non certo una psicopatologia. Non mi pare che i fondamentalisti di qualsiasi tipo amino la musica ed il ballo.Quelli si fanno esplodere
per un paradiso futuro
Il ballo è, come mostrava il Living Theatre, Paradise now. Bisogna però capire che per produrre uno stato di dissociazione nella era della globalizzazione sono necessari degli induttori, gli induttori non necessariamente 
Soren Kierkegaard 

sono delle sostanze, possono essere la moltitudine delle persone, le luci stroboscopiche, la massa, gli odori, i profumi, ma soprattutto la musica che arriva dritta alla testa e al cuore. La frequenza dei BPM il volume dei bassi, la sapienza dei DJ nella manipolazione e mescolamento delle piste sonore in relazione alla moltitudine danzante. E poi, appunto, il ballo per tante ore. Tempo che si vuole vivere ma è come essere assenti e il cuore a quel punto potrebbe complicare di non poco la situazione. Passare la notte ballando in uno spazio del genere produce uno stato dissociato che genera fenomeni specifici come una forma di comunicazione non verbale molto intensa.Diffusione dei culti greci Nel 186 avanti Cristo il senato romano proibì la celebrazione dei baccanali. I baccanali erano feste in onore di Bacco, che in Grecia è conosciuto come Dioniso in cui si beveva vino si ballava in un clima orgiastico per raggiungere uno stato modificato di coscienza in cui poteva avvenire la possessione rituale da parte delle divinità. Le feste erano caratterizzate da musica che veniva ballata da maschi e femmine











. Nel senato romano prevalse la tendenza di Catone e della oligarchia senatoria che vedeva in queste feste un pericolo perché gli uomini ballando si effeminavano e le donne che partecipavano si trasformavano in prostitute non adatte ad essere madri di famiglia romana. Qualcuno ha visto nella repressione di questi culti un attacco politico al circolo degli Scipioni che favoriva una diffusione dei culti greci e una promozione delle classi più basse in una ottica di allargamento della cittadinanza romana.







  concludo con questa  frase    presa  da


8.8.15

il mio pensiero razzista del giorno


N.b 
 ovviamente     chiedo   a tutti\e  i miei  15  lettori fissi  e  non solo   di leggere  l'articolo  e  non basarsi  solo  sul titolo  e  dirmi  : <<  ma  come  non eri anti razzista  ?  ,  anche   tu sei passato  con i Salvinisti e company  ?   ,   stai diventando  anche tu   come non sono razzista  ma  ..... , ecc .  >> 

infatti  rimetto   questo post   fra  ti potrebbe interessare  \  per  approfondire
http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2015/07/io-italiana-povera-non-penso-che-i.html




il mio pensiero razzista del giorno

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  •  Un operaio Olivetti
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il mio pensiero razzista del giorno
Ad avermi buttato in mezzo a una strada, a 50 anni, non è stato uno zingaro e nemmeno un africano. E' stato De Benedetti.
A far di me un peso morto è stata la Fornero.
A fingere di proteggermi intanto che si facevano i cazzi loro, non sono stati gli extracomunitari, ma i sindacati.
A prendermi per il culo dicendo una cosa e facendo l'opposto, è Renzi, non i rumeni.
A stravolgere la nostra Costituzione anzichè imporne il rispetto, è il parlamento italiano, non quello tunisino.
A distruggere sanità e istruzione, sono stati i governi italiani eletti da italiani, non i rom.
A vessare con metodi medioevali chiunque provi a campare con il poco che racimola, sono funzionari italiani, non libici.
A vendere o spostare verso altre nazioni tutte le principali aziende italiane, non sono stati i marocchini, ma Marchionne, Tronchetti Provera e quelli come loro.
A spingere al suicidio qualche centinaio di poveri cristi, sono stati i governanti italiani, non i profughi.
A sfruttare ogni disgrazia per guadagnarci milionate e distribuendo briciole, sono le grandi cooperative italiane, non quelle serbe.
Quando mi avanzerà abbastanza odio per persone provenienti da altre parti del mondo, forse sposterò il tiro. Per ora mi accontento di riversarlo interamente ai personaggi di cui sopra, miei connazionali e, piuttosto che altri, preferirei fossero loro a trovarsi finalmente nella condizione di dover salire su dei barconi per scappare. .....Scappare da qui...

a  questo aggiungo   che  io  almeno per ora    non  scappo  perchè  
ma  prima o poi   se il declino italiano  continua  cosi   faro come   farina  del  film  meditteraneo di Salvatores premiato   agli Academy Awards nel 1992 come miglior film straniero, si conclude la cosiddetta "trilogia della fuga"[, composta da Marrakech Express del 1989 e da Turné del1990, ovvero il trittico di film diretti da Salvatores dedicati alla poetica della fuga verso una nuova forma di interiorità, di individualità, di impegno non condizionato da fattori ideologici, da miti collettivi, da figure guida carismatiche ma corruttibili.Il film è accompagnato dalla citazione di una frase di Henri Laborit («In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare») e si chiude con una didascalia significativa ed emblematica: «Dedicato a tutti quelli che stanno scappando».Mediterraneo è un film generazionale[ovvero un'opera che identifica, esprime e incarna la riflessione storica di una determinata generazione. La generazione alla quale il regista appartiene e alla quale si rivolge è quella che agli inizi degli anni novanta si ritrova orfana di un impegno politico «in bilico tra una utopia che sfuma e un realismo che incombe»[

fuggire o non fuggire

La vera storia dell'inno Faccetta nera

Visto   che  noi italiani siamo pronti a ricordare solo le cose che ci piacciono come la prima guerra mondiale , ma dimentichiamo le cose che non ci piacciono come questa


da  Il Tulipano - Il Web Magazine Indipendente scritto dal Popolo

Esce il primo numers della rivista La difesa della razza. Diretta dall’intellettuale fascista Telesio Interlandi, viene stampata sino al giugno 1943. Nata per rilanciare, con maggiore aggressività e incisività’ i temi dell’ antisemitismo, la rivista e’ messa in vendita al prezzo di una lira e supera, sin dai primi numeri le 150.000 copie, anche grazie ad una forte campagna di promozione. Tra i membri del comitato di redazione, compare Guido Landra, uno dei “ redattori” del Manifesto della razza, e, tra i redattori, il futuro leader del movimento sociale italiano, Giorgio Almirante.


di cui il 5 agosto era il 77 ° anno .    Ora  l'anticipo delle leggi razziali avvenute   nel  1938  . è  del


19 aprile 1937: In Italia la prima legge razziale
By     19 aprile 2015  
Leggi RazzialiIn Italia viene approvata la prima legge di tutela della razza dal governo fascista. Con il regio decreto legge 880/37 si vieta l’acquisto di una concubina e il matrimonio con le donne di colore delle colonie. A questa legge razziale ne seguirono altre, che avevano come scopo lo stabilire la superiorità della razza italiana, ma soprattutto la sua appartenenza al gruppo di quelle ariane. Come premessa a quest’ideologia, molti scienziati cercarono di fornire una base scientifica come giustificazione alla diversità razziale.
- See more at: http://www.italnews.info/ del 19\4\2015

 è  la  stessa     faccetta nera     subi    in questo  clima  una  profonda  trasformazione   per  giustificare    tale legislazione  


Il Ministero della Cultura Popolare, insoddisfatto e fremente per la stesura del testo, a causa dell'ammiccamento a rapporti interrazziali visto che definiva "romana" una ragazza etiope e per il senso troppo spiritoso di alcune parole, la censurò (sebbene le leggi razziali non fossero in vigore), perché in evidente contrasto con i pregiudizi razziali che, ancora negli anni '30 e fino agli anni '60, erano presenti nelle opinioni comuni di uomini e governi. In relazione anche al momento storico, delicato e drammatico, il Ministero pretese, tempestivamente, di modificare il testo per ben altre due volte, alterando notevolmente il senso e il significato della canzone, che venne così trasformata in un più rassicurante, per il regime, inno di conquista e di sottomissione degli abissini, notevolmente meno tollerante e scherzoso dell'originale. Infine, vennero eliminate pure tutte le parole e le inflessioni dialettali.
Ecco, di seguito, le due versioni del celebre ritornello:
Romanesco
Facetta Nera
Bell'abbissina
Aspetta e spera
Che già l'ora s'avvicina!
Quando staremo
Vicino a te
Noi te daremo
Un'altra legge e un altro Re!
Italiano
Faccetta nera,
Bell'abissina
Aspetta e spera
Che già l'ora si avvicina!
quando saremo
Insieme a te
noi ti daremo
Un'altra legge e un altro Re.



Ecco   come dicevo  dal     titolo 

La vera storia di Faccetta nera




Cartolina umoristica della guerra d’Etiopia, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito
Cartolina umoristica della guerra d’Etiopia, 1930 circa. 
“Durante una trasmissione in tv a cui ho partecipato, è successo un fatterello”. Così comincia un post su Facebook che Maryan Ismail, attivista politica italosomala, ha pubblicato pochi giorni fa. Il fatterello ha come scenario uno studio televisivo. Maryan, che fa politica attiva a Milano da molti anni, ha deciso di contrastare il razzismo parlando in ogni spazio pubblico, tv compresa. Naturalmente non parla solo di immigrazione, ogni causa importante la trova sulle barricate: dalla lotta contro il fondamentalismo (ha perso recentemente suo fratello in un attentato di Al Shabaab a Mogadiscio) fino alle questioni riguardanti la vivibilità urbana. “Però ho la pelle nera”, dice Maryan sottolineando che la lotta contro le discriminazioni è una delle voci importanti della sua missione politica. E spesso per attaccarla gli interlocutori, soprattutto in tv, usano proprio la sua pelle.
“Un tipo di una certa età molto sguaiato”, scrive nel suo post Maryan “e in preda a un evidente travaso di bile, stava cercando di mettere insieme due parole sull’immigrazione e sui costi correlati. Preso in contropiede dalla mia reazione, ha cominciato a cantarmi in faccia Faccetta nera”.
L’episodio ha avuto come teatro gli studi del programma “Forte e Chiaro” su Telelombardia ed è andato in diretta televisiva. “Inutile descrivere quello che è successo”, prosegue Maryan. “Mi limito semplicemente a constatare con infinita amarezza che un altro limite è stato superato: si è arrivati allo sberleffo razzista spiattellato in faccia, senza ragione e senza pudore”.
Quando ho saputo la notizia il mio primo sentimento è stata l’indignazione unita alla solidarietà. Poi però mi sono detta che questo episodio non è solo etichettabile come razzismo. Lo è, ma è anche molto di più. Ci dice qualcosa di profondo e grave sulla società in cui viviamo. Ma cosa?
Benito Mussolini odiava Faccetta nera, aveva addirittura tentato di farla bandire
Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare (ricordate Lele Mora inVideocracy?) e a considerare la canzone come la quintessenza più pura del fascismo. Ma anche chi non si professa apertamente fascista è sedotto da questa marcetta. Basta canticchiarla un po’ per vedere le braccia agitarsi a ritmo battente. Emblematica è la scena contenuta nel docufilm di Dagmawi Ymer Va’ pensiero, dove un gruppo di mamme canta la nota canzonetta a Mohamed Ba, mediatore culturale e attore senegalese. Ba ha appena lavorato in classe, proprio sugli stereotipi, con i figli di queste signore. Quando le sente cantare quasi non ci crede. È sconcertato e triste. Tenta di spiegare che Faccetta nera è una canzone del ventennio, ma le signore non ascoltano, perse nel ritmo indiavolato dello zumpapà. Quella canzone gli piace, provano quasi un gusto trasgressivo nel cantarla e continuano imperterrite, incuranti di ferire i sentimenti di Ba.
Ma chi la canta sa cosa significa? Sa da dove viene quella canzone? Com’è nata? Capisce tutti i riferimenti?



Al mercato, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito
Al mercato, 1930 circa. 
Personalmente considero Faccetta nera un paradosso italiano. Ogni anno, quasi sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che spesso ci lascia indifferenti. Il video della canzone è disponibile in rete in varie versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi la canta non sa la sua storia. Si sprecano infatti i vari “Orgoglioso di essere fascista” e “Viva il Duce”. Ma queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani. Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso questa canzone che detestava.
I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, scrivevano, “andiamo a liberarli”
Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano familiari a grandi e piccini. Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale postunitaria, tuttavia negli anni trenta del secolo scorso si assiste a un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali satirici come Il travaso delle idee al Corriere della sera sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”.
La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da quello a cui abbiamo assistito nel ventesimo secolo e a cui assistiamo ancora oggi. Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, sfruttare le loro terre.
Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di “unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa). E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale.
Per i colonizzatori l’Africa era una terra vergine e disponibile e questa disponibilità si traduceva nel possesso fisico delle donne del posto
D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella penisola. Il mito della Venere nera è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua amante del Corno d’Africa: “Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale”. Una terra disponibile, quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne del posto, attraverso il concubinaggio, i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri.
Basta farsi un giro su internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo.
Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice: “La legge nostra è schiavitù d’amore”.Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca come Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi: anche lei, come faccetta nera, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di un uomo la può redimere dalla sua condizione.



Armamenti, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito
Armamenti, 1930 circa. 
Faccetta Nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma. Lì una giovane nera viene portata sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con nome d’arte francese, avvolta da un tricolore, la libera a colpi di spada. La canzone da quel momento in poi decolla. La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei successi del Ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia. Ma il testo iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un paese africano contro l’imperialismo europeo. Saltò anche un’intera strofa che definiva faccetta nera “sorella a noi” e “bella italiana”. Una nera, per il regime, non poteva essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per perfida ironia della storia, latitano pure oggi.
Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla sparire e in un goffo tentativo si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da focolare domestico, sottomessa e virginale:
Faccetta bianca quando ti lasciai
quel giorno al molo, là presso il vapore
e insieme ai legionari m’imbarcai,
l’occhio tuo nero mi svelò che il core
s’era commosso al par del core mio,
mentre la mano mi diceva l’addio!
Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.
Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello. L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione.
Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare.
E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola.
Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata analisi diFaccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capo espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un grande passo in avanti riuscirne a parlarne con serenità. Un passo in avanti per questa Italia che raramente affronta se stessa.

6.8.15

il Giappone e sui è rotto le scatole di celebrare Hiroshima e Nagasaki e sta cambiando la sua politica pacifista


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http://www.lastampa.it/2015/08/06/errore/hiroshima-latomica-che-annient-le-certezze-del-giappone-Cdd4pYFstNSJiFLahMbElO/pagina.html

Poichè ho




  non solo davanti  alle immagini e  alle testimonianze  di tale  evento  ma    davanti a  tali  sfruttamento   (L anche se  con un fondo benefico  )   a scopi commerciali dell'evento




LA POLEMICA
Una bottiglia di grappa per ricordare Hiroshima

Fa discutere l'idea di Bottega per i settant'anni dell'atomica: iniziativa lodevole o marketing di pessimo gusto? L’idea dell'azienda trevigiana divide gli esperti del settoredi Fabio Poloni
06 agosto 2015




Sandro Bottega, titolare dell'azienda, con Hasako Hirano e Akiko Sano

Una bottiglia di grappa per ricordare la tragedia atomica di Hiroshima: iniziativa lodevole o marketing di pessimo gusto? L’idea della trevigianaBottega divide, fa discutere. Il più drastico - nel suo stile - è il fotografo e pubblicitario Oliviero Toscani: «Siamo alla frutta. È la disperazione del marketing». Ma l’azienda spiega: già in passato sono state create «bottiglie a tema per ricordare eventi che hanno segnato la storia dell’uomo e per esorcizzare il rischio che si verifichino nuovamente».

 continua su  http://tribunatreviso.gelocal.it/treviso/cronaca/2015/08/06/news/aziende-la-polemica-1.11893650?ref=hftttrer-1

e  quindi  non riuscendo  a   trovarne per descrivere questo triste evento che è ancora più attuale che mai   quan come afferma . Lucio Garofalo in http://www.linterferenza.info/attpol/70-anni-fa-hiroshima-e-nagasaki/ e Franco cardini ( riporto qui sotto l'intero articolo in quanto non riesco a ricavare l'url dell'articolo ma solo la pagina generale ) sul suo  sito http://www.francocardini.net/index.html



Minima cardiniana, 87
Domenica 2 agosto, XVIII domenica del Tempo Ordinario
HIROSHIMA E NAGASAKI, 6 AGOSTO 1945. IL GIORNO DELLA VERGOGNA
6 agosto 1945. Settant’anni fa. Sembrano mille anni, oppure sembra ieri. Una catastrofe, un’ecatombe nel cuore di tenebra del pur terribile e sanguinoso Novecento. L’orrore e i soliti esorcismi verbali non bastano. “Come fu possibile, in pieno XX secolo?”. “Un salto nel buio, un balzo all’indietro nel più cupo medioevo?”.Piantiamola. Hiroshima e Nagasaki sono cose nostre, ci appartengono: rappresentano appieno il Novecento con tutto il suo progresso scientifico, tutta la sua straordinaria tecnologia, tutta la sua spietata scintillante Volontà di Potenza. Gli alibi per quell’orribile esperimento dal vivo – primo fra tutti il più miserabile, la scusa umanitaria (“abbreviare il conflitto”; “salvare migliaia di vite umane”) – non sono ormai più credibili, pur ammesso e non concesso che mai lo siano stati.La guerra era finita. Tra il 7 e l’8 maggio i rappresentanti supremi di quel che restava del Terzo Reich e delle forze armate tedesche avevano firmato la resa incondizionata, a Reims in presenza del generale Eisenhower e a Berlino in quella del maresciallo Zukov. Quanto al fronte estremo-orientale, dopo la conquista di Filippine e Birmania, il 19 febbraio le truppe statunitensi erano sbarcate in territorio giapponese, sulla spiaggia di Iwojima; l’aeronautica americana aveva da quasi due anni conquistato la superiorità aerea sui cieli nipponici e bombardava incessantemente città e installazioni industriali ormai in ginocchio.Dal maggio, da quando cioè l’Impero del Sol Levante era rimasto solo a fronteggiare gli Alleati vincitori, le trattative per la sua resa erano già state avviate. Il 17 luglio si era riunita a Postdam la conferenza dei vincitori: erano presenti Winston Churchill, Harry Truman e Jozip Stalin. Il 26 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ai quali si era unita la Cina di Chiang Kai-shek, avevano indirizzato al governo giapponese un ultimatum esigendo la resa incondizionata e l’abdicazione dell’imperatore Hirohito. Ad esso non si era associato Stalin in quanto l’URSS non era in guerra contro il Giappone. Dal momento che da parte del governo nipponico non era giunta risposta, quello statunitense aveva preso la decisione di concludere con uno spettacolare esperimento dal vivo il “progetto Manhattan”, al quale si stava lavorando dal 1942 (vale a dire da pochi mesi dopo l’ingresso degli USA in guerra).Le debolissime ragioni con le quali Truman giustificò la sue decisione s’incentrarono tutte sulla necessità – vista l’ostinazione giapponese – di abbreviare il conflitto, il che significava soprattutto, per l’opinione pubblica americana, risparmiare la vita di molti soldati statunitensi: la guerra nel Pacifico e l’operazione Downfall, che avrebbe dovuto seguire lo sbarco di Iwojima, erano costati troppe perdite (il che, in democrazia, significa sconfitta certa nelle elezioni future). Più serie altre ragioni: era necessario giustificare i costi esorbitanti del “progetto Manhattan” dando una prova inoppugnabile della sua atroce efficacia; e al tempo stesso lanciare un implicito ma chiaro avvertimento alla potenza antagonista degli anni a venire, l’Unione Sovietica. In realtà, la principale e meno confessabile delle ragioni – quella che in effetti mai fu addotta – fu la volontà di provare quale fosse l’effettiva potenza dell’ordigno: a tale scopo fu accuratamente scelto l’obiettivo, la città di Hiroshima che fino ad allora non aveva subìto alcun attacco aereo. In questo modo, su un centro demico lasciato intenzionalmente intatto, si poté verificare la portata distruttiva della bomba.L’ordigno nucleare, amabilmente battezzato Little Boy, fu sganciato sulla città di Hiroshima alle 8,15 da una superfortezza volante B-29 al comando della quale era Paul Tibbets, che aveva battezzato il suo aereo con il nome “benaugurante” di sua madre, Enola Gay. La “tempesta di fuoco” immediatamente si sprigionò su una città che poteva allora ospitare dai 250.000 ai 350.000 abitanti. L’8 successivo - mentre con l’accordo di Londra le potenze alleate sottoscrivevano gli statuti del Tribunale Militare che avrebbe a conflitto finito dovuto giudicare sui crimini di guerra - Truman rinnovò l’ultimatum al governo nipponico, accompagnandolo con un proclama nel quale avvertiva il popolo giapponese che il suo paese era in possesso di un’arma di potenza inaudita, capace di cancellare le isole del Sol Levante dalla faccia della terra. Senza dare al governo imperiale il tempo di reagire, nella mattinata del 9 agosto la bomba Fat Man fu sganciata su Nagasaki. Ma poche ore prima, verso l’una di notte, Stalin aveva a sua volta dichiarato guerra al Giappone e occupato la Manciuria. Era l’America la vera destinataria di quella mossa: sotto quel punto di vista, Hiroshima non era servita a nulla. Ma le due esplosioni cadevano obiettivamente sotto le sanzioni dell’articolo 6B degli statuti di fresco siglati dalle potenze vittoriose. Un bell’autogoal.Non conosciamo il numero esatto delle vittime: per Hiroshima si è parlato di 90.000-140.000 morti, per Nagasaki tra i 60.000 e gli 80.000. Ma decine di migliaia furono i feriti; e tra quei lesionati molti morirono dopo, atrocemente, per le conseguenze della “peste nucleare”. Conseguenze che continuano a mietere la morte tra i discendenti di quegli sventurati.Hiroshima e Nagasaki non furono soltanto un orribile e premeditato crimine di guerra per il quale non c’è stata alcuna Norimberga. Esse furono anche il preludio di una serie di nuovi crimini e di nuove distruzioni. Nonostante la ripetuta esorcizzazione dell’uso delle armi cosiddette “non convenzionali” (che peraltro, com’è noto, continuano ad essere prodotte), come l’”Agent Orange” in Vietnam o gli ordigni a uranio impoverito nei Balcani e in Iraq e il fosforo bianco a Falluja, ancora in Iraq, hanno continuato ad essere usati non solo contro i militari – com’era accaduto per l’iprite durante la prima guerra mondiale – ma anche contro le popolazioni civili. I Funghi Atomici del 1945 hanno aperto un’era che non si è ancora conclusa: ed è inutile sperare ingenuamente che sia sufficiente che gli ordigni di morte non cadano in mano di governi “non democratici”. A scatenare l’inferno del ’45 fu la prima democrazia del mondo. E i pentimenti postumi – quello di Oppenheimer in prima linea – non servono. Settant’anni dopo quell’orrore, gli arsenali nucleari di troppi paesi traboccano di ordigni ben più potenti di Little Boy e di Fat Man.
Franco Cardini
Ma  soprattutto  perchè il Giappone dopo 70 anni sta  cambiando la sua costituzione pacifista   e  vuole ritornare al nucleare  

ho  usato  link  esterni  . Non so    che altro aggiungere  perchè  una  parola  è poco e   due sono troppe