11.6.20

Il gelato sopravvissuto alla Guerra e all'alluvione (grazie a una donna)E che ora portano avanti i nipoti in una delle migliori gelaterie d'Italia, da Bepi a Padova



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per  ricominciare  o almeno  provarci   a tornare  ,anche se  niente  sarà più come prima  , alla normalità    dopo il codiv 19    ecco  una  storia     di  chi   ha  saputo  dopo la  II  guerra mondiale ed  l'alluvione  del polesine    ,  rincominciare .



 da  repubblica  del 11\6\2020
Il gelato sopravvissuto alla Guerra e all'alluvione (grazie a una donna)
Il sogno di un giovane gelatiere veneto, ostacolato dal conflitto mondiale e dal Po che ruppe gli argini, che ha saputo ricominciare ogni volta con la tenacia della signora Pasqua. E che ora portano avanti i nipoti in una delle migliori gelaterie d'Italia, da Bepi a Padova
                                   DI ELEONORA COZZELLA

“Portare nel futuro il gelato del mio passato” è la missione di Jacopo Braggion che col fratello minore Nicolò continua l'attività e la filosofia di famiglia, raccogliendo un’eredità importante, lunga 83 anni, per una missione precisa: “Offrire lo stesso gelato che faceva mio nonno. Siamo puristi, integralisti del gelato, partiamo da zero, dalla materia prima, pochissimi ingredienti e 18 ore di lavoro al giorno. Se non facessi così tradirei la fiducia dei nostri clienti e l’insegnamento dei miei nonni”.
Questa missione ha un angelo custode, la bisnonna Pasqua, protagonista suo malgrado di una storia che inizia nel 1937.
Due anni prima che scoppiasse il secondo conflitto mondiale, ad Adria, in provincia di Rovigo, viene inaugurato un chiosco di gelati e dolciumi. Ad alzare la piccola saracinesca è Giuseppe Braggion, che con la moglie Pasqua è orgoglioso di essere riuscito a comprare la regina delle "motogelatiere", l'ormai storica Cattabriga da banco, per creare i suoi gelati.
Inizia allora la sua avventura e pensa sia la realizzazione di un sogno, e impara presto a fare gusti squisiti. Così, nonostante in quegli anni girino pochi soldi, l’attività prospera. Ma ecco che, mentre inizia a godersi un po' di benessere, Giuseppe è chiamato dall’esercito.

Deve appendere al muro la giacca bianca da gelatiere e indossare la divisa, posare la spatola e imbracciare il fucile. Con lui al fronte, ad occuparsi degli affari resta la moglie, che si chiama Pasqua perché è nata il 4 aprile del 1920. Ha solo 19 anni, ma con piglio imprenditoriale si rimbocca le maniche - come hanno fatto moltissime donne in tempi di guerra - e insieme alle sorelle e alle sue cognate prende in mano la piccola attività.
  da  https://www.tripadvisor.it/

Il gruppo di donne è talmente in gamba, che prima che la guerra finisca riesce ad aprire un’altra gelateria: non più un chiosco, ma un vero e proprio locale con 150 posti a sedere. Lavorano giorno e notte. Alla fine del conflitto mondiale, dopo anni di assenza, quando Giuseppe ritorna a casa ferito, ritrova non solo il suo chiosco, ma anche la grande novità nella centralissima piazza Mazzini.


Il gelato dei Braggion piace, tant’è vero che pian piano acquistano delle lambrette che adibiscono a carrettini per la vendita dei gelati “a domicilio”. Chi non è più giovanissimo ricorderà il carretto dei gelati, il richiamo con la campanella del gelataio che passava tra le vie. Ecco, la squadra di Braggion non faceva eccezione: davanti alle scuole, nei parchi, nelle piazze dei paesi limitrofi e della costa adriatica. Le lambrette di Giuseppe e Pasqua si moltiplicano: nel 1951 sono ben 18.
Da soli sei anni era finita la seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti, ma i sopravvissuti pur sfiniti, stavano ricostruendo un Paese pieni di speranza. E tutto sembrava filare finalmente liscio quando in una tremenda notte del novembre 1951 il Po rompe gli argini e invade terre, boschi, paesi, città. Il 52% dell’intero Polesine fu spazzato via. Le cronache del 18 novembre riportano queste parole: “dopo millenni di storia viva, Adria diverrà una città morta. Se le acque si ritireranno, i suoi trentamila abitanti, che la amavano e sognavano che ridiventasse una città di traffici, di cultura, di opera, non vi potranno mettere piede. Tanto tempo questa gente dovrà rimanere lontana, quante cose care dovrà lasciare!”.
Tanti non sono mai tornati.


Ad essere spazzato via anche il chiosco di gelati e la gelateria artigianale che con tanta fatica le donne della famiglia Braggion avevano custodito negli anni della guerra e rilanciato nel dopoguerra. L’alluvione, racconta oggi il bisnipote Jacopo -  “portò con sé non solo le gelaterie, ma anche tutti i sogni e le speranze di una vita finalmente serena”.
Per cinque anni tutta la famiglia si è spostata in varie regioni d’Italia, sfollata come ai tempi di guerra. Giuseppe ha 72 mila lire in tasca e una grande voglia di non arrendersi. Sceglie come sua nuova città Padova per ricominciare. 
Giuseppe ha un chiodo fisso: riprendere il mestiere che ama e conosce bene. “Mio nonno, deciso nonostante tutto, che fare il gelato sarebbe stato il nostro futuro - racconta Jacopo - comincia a riflettere su come potersi attrezzare per iniziare una nuova realtà lavorativa a Padova”. Il problema però era che non aveva più nulla: perdute la motogelatiera, le lambrette, le poche finanze. L’unico bene rimasto era un vecchio motocarro, un Motom 48 cc.
Come ricostruisce nei suoi libri la storica Luciana Polliotti, massima espera di storia del gelato internazionale e curatrice del Museo del Gelato Carpigiani,  "a un certo punto Giuseppe era venuto a sapere che a Bologna i fratelli Bruto e Poerio Carpigiani avevano brevettato una nuova macchina per fare il gelato, una Autogelatiera che lo lavorava davvero bene, come piaceva a lui, e possedevano un’officina a Bologna.
Decide di provarci:  sale sul suo Motom e va a Bologna. Ad accoglierlo nella storica ditta bolognese però non ci sono entrambi i fratelli, perché Bruto, che aveva progettato la Autogelatiera, era deceduto nel 1945 a seguito di una malattia. Fu, quindi, solo Poerio a raccogliere le confidenze di Giuseppe: la situazione tragica in cui si trovava la sua famiglia a causa dell’alluvione, il dolore di non poter provvedere al mantenimento dei figli, la paura di perdere l’unico bene che gli era rimasto: la sua dignità. Risulta persuasivo e ottiene un’Autogelatiera, una L16 da banco (gli appassionati sanno che si tratta di un gioiello), per ricominciare, con la promessa che l'avrebbe pagata quando si fosse rimesso in piedi. Così quella L16 nuova di zecca segna l’inizio di una nuova vita".
Ora la Gelateria Braggion ha compiuto 83 anni di attività, fiera che nel conteggio compaiano anche gli anni di Adria.
Quella macchina, con il suo libretto di istruzioni originale, è ancora esposta nella gelateria in segno di gratitudine. Con la L16 sono esposti anche decine di oggetti per la produzione del gelato e il suo modellaggio che Jacopo e Nicolò, i nipoti di Giuseppe, hanno raccolto in questi anni.
La “bottega” come detto prima è oggi dei fratelli Jacopo e Nicolò Braggion, i nipoti di quei nonni leggendari e figli di Giovanni. Ne hanno fatto un luogo che vale la pena visitare, sia per la qualità del gelato - insuperabile la fragola nei mesi di maggio e giugno, come il sorbetto di melograno in inverno -  ma anche perché è un tuffo nei ricordi, per l'arredamento e  gli oggetti da collezione, strumenti di lavoro ormai antichi, in una specie di piccolo museo organizzato da Sarah, moglie di Jacopo, architetta.
Oggi come allora solo materie prime fresche, preparazioni fatte a mano rifuggendo da qualsivoglia addensante, semilavorato, prodotto trasformato altrove. Per esempio, "la settimana prossima usciamo con la mora di Vignola Igp - spiega Jacopo - una ciliegia eccezionale che mi costa 10 euro al chilo e che la mattina vado a comprare al mercato alle 6, per essere il primo a scegliere. Potrei usarne di altro tipo, potrei usarne di surgelate, potrei usare delle puree già pronte. Ma tradirei il mio cliente. Impiego tre ragazzi solo a mondarle a mano una a una. Costa più degli altri? Certo. Ma ogni cliente è felice, perché sa che sta mangiando un prodotto unico. Vengono dalle altre regioni con le borse frigo a fare scorta".
E la filosofia produttiva dei fratelli si fonda sulla tradizione ma anche su un continuo desiderio di innovazione e di didattica. "Mia nonna - ricorda ancora Jacopo - mi diceva sempre di non portarmi nella tomba il nostro sistema di produzione, sennò non lascia nulla". Così per diffondere il verbo del gelato puro i fratelli hanno creato uno spazio del laboratorio dove, in bassa stagione, a numero chiuso, fanno corsi di gelato. Quel gelato di assoluta digeribilità, che lascia "pulizia in bocca, il gusto intatto della materia prima, nessuna sensazione di grasso o sete".
In gelateria non mancano mai i classici: pistacchio, nocciola, cioccolato fondente, ma anche - dice Jacopo - "un fiore, un formaggio e una verdura sempre a banco (a seconda delle stagioni, sedano, zucca, salvia), ma la mia soddisfazione più grande sono la frutta. Richiede tantissima manodopera ma dà tantissima soddisfazione assaporare la schiettezza di un'anguria, un melone, un melograno. La chiave è la semplicità".
Nel laboratorio a vista sono continuamente in movimento ben quattro pastorizzatori e quattro mantecatori; una cella frigorifera contiene grandi quantità di frutta di stagione. Tre volte al giorno il gelato esce fresco di macchina per essere venduto immediatamente e, raccontano i fratelli, a volte non fanno i tempo a metterlo nelle carapine che è già finito. I gelati "gastronomici" - comunemente detti 'salati' - sono stati introdotti dal papà Giovanni: salmone, funghi porcini, Gorgonzola, Parmigiano, zucca, patata americana, e ancora rosa, gelsomino, rosmarino. Nel laboratorio sono in bella vista grandi barattoli di vetro contenenti petali di rosa, fiori di gelsomino, foglie di salvia e quant’altro possa occorrere per realizzare gli infusi.
A suo modoinfatti anche il papà, Giovanni Braggion, è stato un grande innovatore e ha raccolto molti riconoscimenti e in tempi non sospetti, come l’Oscar per il gelato al sedano nel 1976 e nel ’77 per il sorbetto alla grappa; ha ricevuto un attestato dell’Accademia della cucina Triveneto, quali primo e unico produttore di gelato gastronomico a “ciclo continuo”. Inoltre, visite, articoli, citazioni e riprese da parte di reti televisive internazionali.
Jacopo e Nicolò non fanno eccezione e portano avanti la loro battaglia del gelato, con la mentalità che è ancora quella dei nonni, quella che "la fatica paga". È un gelato diverso da tutti quelli in circolazione, sottolinea Jacopo: "meno arioso e un po’ più freddo, all’inizio si sente quasi lo choc. Ma poi il palato e la pancia ringraziano. Sono bravi tutti a fare un gelato goloso con una lista ingredienti di 19-20 prodotti".
La vera difficoltà insomma, è essere semplici.

     

8.6.20

ma gli educatori ignorano che esistono anche forme di comunicazione senza contatti ? vedendo questo video sembra di no

Infatti vedendo questoio video mi chiedo , pur non essendo un educatore e che lavora con i bambini , ma questa sarebbe un educatrice ? in che mani sono i nostri bambini ? una che non riesce a trovare un metodo per capire ai bambini che c'è una malattia grave da dover usare mascherine ed quanti e non poter avere contatti ed che esiste anche la comunicazioni di sguardi e di sorrisi . Questa dovrebbe ritornare a studiare visto che dice il virus non c'è più . Un educatrice dovrebbe saper improvvisare e trovare metodi nuovi rispetto a quelli tradizionali . e qui mi fermo per scadere nell'odio e nella volgarità sia verso di lei sia verso gli altri .... dei commenti sotto riportati che vi risparmio perchè come me , vi sarete rotti le .... di sentirli o di leggerli . Gente che sa solo protestare ( oltre a credere alle panzane ) ma poi non sa proporre metodi alternativi o di prevenzione contro l'epidemia .


6.6.20

Padre, nonostante tutto di mario calabresi

  DI COSA STIANO PARLANDO 
La cronaca di questa storia è già stata scritta e porta il timbro di una sentenza di primo grado emessa lunedì 1° giugno a Prato: racconta di una donna di 32 anni condannata a sei anni e sei mesi per aver avuto una relazione e un figlio da un ragazzo che al tempo dei fatti non aveva ancora compiuto 14 anni (oggi ne ha 16). La donna, che fa l’operatrice sanitaria, è sposata e ha un altro figlio di 12 anni, faceva ripetizioni di inglese al ragazzo. La condanna è per atti sessuali con minore e violenza sessuale per induzione.

 Calabresi ha  fatto   un  ottimo lavoro   ha sentito  e riportato   anche  la  versione  di uno dei protagonisti di questa  " storiaccia "   che  
 ha molte vittime, perché molti sono quelli che soffriranno conseguenze per ciò che è successo: il ragazzo che è diventato padre da adolescente e grande troppo presto, il figlio maggiore della donna che vive in una situazione molto difficile da comprendere e il bambino piccolo che oggi ha quasi due anni. Dopo la lettura della sentenza la mamma del ragazzo ha voluto ribadire ciò che le stava più a cuore: «I bambini non si toccano, che siano maschi o femmine». Se questa condanna sia giusta o eccessiva, le ragioni delle parti, i risarcimenti e la ricerca di una strada per ricostruire sono nelle mani dei giudici del processo d’appello, degli operatori dei servizi sociali e di tutte le persone in causa.

Foto CC BY 2.0 Vladimir Agafonkin/Flickr
Anche il marito della donna è stato condannato, a un anno e otto mesi, colpevole – secondo il pm che nella requisitoria lo ha definito «la seconda vittima» – di essersi attribuito la paternità del bambino pur sapendo che non era suo. Tecnicamente il reato che ha compiuto è “falsa attestazione di stato”, perché secondo i giudici quando lo ha riconosciuto allo stato civile già sapeva che non era suo. Chi glielo ha fatto fare, verrebbe spontaneo chiedersi, un altro al suo posto avrebbe sbattuto la porta, chiesto il divorzio e cercato un’altra vita. Solo lui può rispondere. L’ho cercato e ha accettato di raccontare perché. «Non commento la sentenza, non voglio dire nulla sulla decisione dei giudici, leggeremo le motivazioni e poi ci sarà l’appello, però io continuo a ripetere che la situazione è diversa: all’inizio ero convinto di essere il padre del bambino poi con il test del Dna ho scoperto che invece non era mio».

In quel momento non le è crollato il mondo in testa?
«No, non è cambiato niente. Ero il padre e ho continuato a esserlo. Con lui mi comporto esattamente come con il mio primo figlio. Essere padri significa cambiare pannolini, stare in piedi quando piange, giocarci fin da piccoli. Significa prendersi cura. Dal giorno in cui ho saputo che biologicamente non era mio figlio non è cambiato nulla e nemmeno mi sento discriminato o additato dalla società. Al giorno d’oggi ci sono mille esempi, pensi alla fecondazione assistita: l’eterologa ci dimostra che il padre è chi fa il padre».

Quest’uomo, che fa l’operaio in un’azienda che produce altoparlanti e ha 33 anni, sembra sereno, ha imparato che si può essere padri anche con un diverso codice genetico, lo si diventa ogni giorno, con la pazienza di cullare un neonato nel cuore della notte, insegnandogli a camminare, poi a contare, a leggere, a giocare a pallone, lo si diventa facendo la lotta, il solletico e stabilendo le regole. Però tra una risposta e l’altra lascia lunghi silenzi. Capisco che sta guardando indietro, sta riavvolgendo il nastro dei ricordi. Allora gli chiedo cosa abbia provato quando tutto questo è diventato pubblico. «Diciamo che il mondo in testa mi era caduto quando avevo scoperto, in precedenza, della relazione di mia moglie con quel ragazzo, la botta l’avevo già presa allora ma ero ancora convinto di essere io il padre».
 
Foto CC BY 2.0 Alessandro/Flickr 
Ci vuole coraggio a restare e a non andarsene.
«Il mio non è coraggio, è responsabilità, nella vita di fronte a un bambino, qualunque cosa accada, bisogna tenere fede alle responsabilità».

Come spiegherà quello che è successo a suo figlio maggiore?
«Ritengo questa una grande lezione di vita anche per lui, la responsabilità che io mi sono preso spero gli insegni a essere domani un padre responsabile. Questo penso nel mio piccolo, ma sono un operaio e non voglio dare lezioni di vita a nessuno».

E cosa si potrà dire al più piccolo?
«Nella vita tanti bambini hanno un’origine difficile e complicata, c’è chi resta orfano, chi affronta molto presto la separazione dei genitori, chi deve affrontare traumi e malattie. Io gli sto dando tutto l’amore che posso e spero che questo con il tempo possa fare la differenza. Penso che i giudici, al di là della sentenza, avranno colto che intorno a questi bambini c’è un grande amore da parte di tutti».

Non ha mai pensato di dire qualcosa alla vittima di questa storia, il ragazzo che è il padre biologico di quel bambino?
«Non ho mai detto nulla perché ritengo sia inopportuno, io non ho responsabilità in quella storia e non mi sono mai permesso di dire una parola».

Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«La scelta che ho fatto è stata una scelta d’amore per il bambino, la rifarei anche ora che ho una condanna, la sentenza non mi fa cambiare idea su quello che avrei fatto e che rifarei, spero che in appello questo venga compreso».

Che cos’è la serenità per lei?
«Vedere i fratelli ai giardini che corrono dietro al pallone insieme, che giocano uniti anche se hanno dieci anni di differenza».
La telefonata è finita, è la prima volta che lui accetta di parlare e si sente che la fatica è grande. Resto con il telefono in mano, vado a guardare la foto del suo contatto su WhatsApp: ci sono i due fratelli, sdraiati sul lettone dei genitori, il più grande è a pancia in giù e osserva da vicino il più piccolo che dorme con i pugnetti chiusi e un pigiamino con tre orsi. Capisco che la vita gli ha presentato l’impensabile e l’inatteso e che la sua salvezza sta nei dettagli della quotidianità.

5.6.20

Giulia Oriani, infermiera 30enne del Milanese, ha scritto una lunga lettera aperta ai complottisti per raccontare le sue settimane alle prese con il coronavirus che le ha lasciato conseguenze fisiche.


Giulia Oriani



N.b 

per  rispettare   il suo desiderio  espresso pubblicamente du  facebook
“Racconto i miei 79 giorni di calvario per tutti quelli che non credono al Coronavirus”
Dopo una lunga e difficile riflessione, ho deciso di togliere la visibilità al mio precedente post. Pensavo di essere sufficientemente forte per sopportare tutto l'odio che mi è stato versato addosso, ma non è così. Io non sono un personaggio pubblico e non ho alcun interesse a diventarlo, ho raccontato la mia storia e non avrei mai pensato, giuro, che sarebbe andata a finire così. Mi dispiace per tutti i miei amici che l'hanno condiviso, perché non sarà più visibile dagli altri, ma NurseTimes ha riportato le mie parole e se vi interessa lascio il link qua sotto.

 non riporto    , come  faccio  con gli altri post    , ne sotto url    ne con copia&;incolla   il  suo  account  facebook   ed  mi limito  a : riportare   sia    questa  sua  intervista  da https://www.orangeisthenewmilano.it/  il   primo    che  ha  lanciato  la  sua  lettera  più  precisamente     qui



Il Covid non è una bufala e può colpire chiunque. Non dimenticate gli sforzi di noi infermieri


“Uno dei motivi che mi ha spinta a scrivere quelle righe, è il modo in cui la mia categoria professionale è stata trattata in questi mesi. Siamo stati, per un breve periodo, degli eroi. Poi siamo diventati gli untori, e alla fine siamo tornati nell’oblio”. Giulia Oriani, 30 anni, infermiera in un ospedale milanese e ha scritto un post su Facebook per raccontare la sua storia di cui abbiamo parlato nel nostro articolo precedente. Si è ammalata di Covid-19 all’inizio di marzo, superandolo senza, in apparenza, grandi problemi. Ma dopo una decina di giorni è iniziato il suo calvario.
La prima diagnosi è stata di trombosi venosa profonda. Dopo mesi di terapia, esami e vari consulti da diversi specialisti, si sono aggiunti altri problemi: tachicardia, “un disturbo post-traumatico da stress con insonnia, una vasculite post Covid-19”. Si esprime duramente contro complottisti e chi prende alla leggera il coronavirus. Per lei è importante mostrare loro se si sbagliano, anche se si rende conto che la disinformazione e le fake news sono diventati un’onda che è molto difficile arginare: “Le realtà dei social hanno sdoganato la regola del ‘posso dire quello che mi pare’, secondo la quale quindi chiunque si sente in diritto di scrivere anche cose false, arrivando all’aggressività se e quando dovesse essere contraddetto. Non credo sia un vortice da cui si possa uscire molto facilmente”.

                                        Giulia Oriani






Oriani, come mai ha deciso di scrivere questo post su Facebook? 

“Perché mi capita spesso di avvertire la necessità di mettere per iscritto i miei pensieri e lo faccio tramite Facebook. In questo ultimo periodo sono stata arrabbiata. Molto e per vari motivi. Dopo aver discusso con una mia conoscente sulle fake news che circondano l’argomento coronavirus, ho cercato uno strumento per sfogare questa rabbia e la scrittura mi è sembrata il sistema più efficace. Raccontare la mia storia aveva come unico fine quello di testimoniare che tante cose che vengono dette non sono vere, sono frutto di menti che non conoscono nulla sull’argomento. Volevo dimostrare che non sono solo gli anziani che si ammalano, perché vedo i miei coetanei comportarsi come se fossero immuni, e non è così. Per questo ho ‘dedicato’ la mia testimonianza ai complottisti. Non certo con intenti maligni, come qualcuno ha sostenuto, ma semplicemente per dire ‘non è come vi raccontano. Non siete al sicuro'”.

Nient’altro?

“Un altro motivo di rabbia, e che mi ha spinta a scrivere quelle righe, è il modo in cui la mia categoria professionale è stata trattata in questi mesi. Siamo stati, per un breve periodo, degli eroi. Poi siamo diventati gli untori, e alla fine siamo tornati nell’oblio. Ecco, io ci tengo a dire che sono orgogliosa di essere un’infermiera, ma che non sono un eroina. Io faccio il mio lavoro, cercando di svolgerlo sempre al meglio, ed è un lavoro sempre pericoloso. Siamo esposti continuamente al rischio infettivo, non solo in questo periodo di Covid; facciamo turni stressanti e usuranti; siamo stati vittime di aggressioni e violenze. È vero, come qualcuno dice, che abbiamo scelto noi di fare gli infermieri, ma dovrebbe essere vero anche che i rischi e le fatiche a cui siamo esposti meritino un riconoscimento diverso, in termini sociali ed economici. Ad oggi siamo professionisti laureati, qualcuno ha anche più di una laurea, ma poco è cambiato nell’immaginario comune”.

Nell’ospedale dove lavora c’erano pazienti Covid?

“Il mio reparto inizialmente non ne aveva, poi progressivamente abbiamo iniziato a ricoverarne alcuni e l’ospedale ha rapidamente risposto alle direttive che arrivavano approntando quanto necessario per farci lavorare in sicurezza. Sicuramente, però, le notizie sempre più gravi che si diffondevano hanno spaventato noi operatori. La mia prima reazione è stata quella di minimizzare, forse per esorcizzare la paura. Ho cercato di contenere l’ansia di chi mi stava intorno, di trasmettere il messaggio che lavorando con attenzione sarebbe andato tutto bene. Ma in fondo non avevo idea di cosa aspettarmi. Ricordo che un giorno sono uscita dall’ospedale e ho mandato un messaggio su WhatsApp alla mia famiglia, dicendo loro di chiudersi in casa e che per un po’ non ci saremmo visti. Dopo una settimana, sono partiti i decreti che hanno portato al lockdown totale. Quello che percepivo era l’angoscia di non sapere cosa stessimo affrontando. Ci guardavamo all’uscita e ci domandavamo cosa ci stessimo portando a casa, quanto efficacemente fossimo stati in grado di proteggerci e quanto potessimo essere pericolosi”.

C’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente di quel periodo?

“La solitudine che si respirava in reparto. Noi, bardati dalla testa ai piedi, eravamo in grado di comunicare molto poco, sia tra noi che con i pazienti. Loro, d’altra parte, erano soli nei loro letti, isolati dalle famiglie, alcuni all’interno dei caschi di ventilazione, che sono rumorosi e soffocanti. Se chiudo gli occhi, posso percepire ancora adesso la pesantezza che si avvertiva nell’aria. E non dimenticherò mai le lacrime dei pazienti quando riuscivamo a far fare loro le brevi videochiamate ai parenti: l’unico momento che li riportasse alla vita reale, alla vita ‘prima’”.

Quando si è ammalata? 

“I primi giorni di marzo ho cominciato ad avere i primi sintomi: febbricola e tosse. Il tampone, risultato poi positivo, è stato eseguito il 10 marzo”.

Poi, quando il tampone è tornato negativo, è iniziato il vero calvario. Come sta ora?

“Sto meglio, finalmente. Ed è proprio per questo che ho avuto le forze di raccontare quello che mi è successo. Molti conoscenti mi hanno scritto stupiti, dicendo che non immaginavano che io fossi stata così male. Ma finché i problemi erano aperti, avevo altro a cui pensare che non fosse pubblicarli su internet. La trombosi si sta risolvendo con estrema lentezza, però sta finalmente andando nella giusta direzione. E la tachicardia è ben controllata dai betabloccanti. Gli indici infiammatori (che erano quelli che indicavano che la vasculite era ancora presente) si sono ridotti. L’ultimo punto su cui lavorare è il tono dell’umore, che è ancora molto altalenante. Ho attraversato giorni veramente bui, in cui non riuscivo a distogliere i pensieri dalla malattia e dalla morte e ho lavorato molto per spostare l’attenzione su qualcosa di positivo. L’angoscia torna purtroppo a farmi visita di notte, ma so che, prima o poi, anche questo problema si risolverà”.

Fra quanto tempo potrà tornare a lavorare? Ci sono cose che non potrà più fare?

“I primi di giugno tornerò in servizio. Non potrò stare ferma in piedi troppo a lungo, cosa che nella mia professione capita molto spesso. Per questo, cercherò di distribuire diversamente il lavoro, in modo da potermi muovere il più possibile. Spero di riuscire a sopportare soprattutto le notti, che sono lunghe e faticose. Nel caso in cui i prossimi controlli dovessero dare risultati peggiori, chiederò una riduzione temporanea dell’orario”.

Tornando al suo post di Facebook, lo dedica ai complottisti. Ne conosce?

“Sì, conosco direttamente alcune persone che credono alle teorie più assurde, oltre ad averne lette molte frequentando assiduamente i social. Le teorie sono tante e varie: vanno dalla creazione del virus in laboratorio in modo da sterminare parte della popolazione al microchip che verrà impiantato sottocute quando sarà somministrato il vaccino, così da poterci controllare tutti. Qualcuno sostiene che il virus non sia mai esistito e che si sia fatto dell’allarmismo inutile. Altri che colpisca solo le persone anziane o già malate. Altri ancora, purtroppo, hanno interpretato male le informazioni che sono state date in questo periodo (magari anche da fonti non ufficiali) e sono arrivati a sostenere che l’intubazione abbia ucciso i pazienti, che i dati sulle corrette terapie si sapevano da tempo e si è deciso di non seguirli per ‘sperimentare’ sulla pelle degli esseri umani. Insomma, che ci siano complotti inimmaginabili dietro. Ecco, per me è estremamente importante smentire tutte queste voci, anche in difesa dei miei colleghi e dei medici che hanno dato se stessi negli ultimi mesi, per salvare quante più vite possibile. Nessuno ha agito con intenzioni malvagie e i sanitari che purtroppo sono deceduti sono la prova che facciamo del nostro meglio, ma siamo anche noi esseri umani”.

Secondo lei, perché si stanno diffondendo tutte queste teorie anti scientifiche?

“A mio parere la diffusione di teorie antiscientifiche dipende dall’aumentata accessibilità a un determinato tipo di informazioni. Mi spiego meglio: quando trent’anni fa il medico diceva a mia madre che mi doveva far fare i vaccini, lei seguiva le indicazioni perché di medicina non ne sapeva niente, essendo laureata in lettere. Oggi, invece, si ha la possibilità di scrivere su Google “vaccini” e di leggere qualsiasi cosa. Ma chiunque non abbia un determinato background conoscitivo – per ignoranza generale o semplicemente perché ha seguito altri studi – può non essere in grado di discernere tra le fonti ufficiali e quelle non ufficiali o di comprendere appieno quello che legge, correndo il rischio di travisarne il contenuto e di arrivare addirittura a stravolgerlo. Nel mondo scientifico non ci si può ‘creare’ delle teorie, non si può reinterpretare qualcosa solo perché non si è in grado di capirlo. Certe cose sono così e come tali vanno accettate, a meno che non si sia in grado di confutarle rigorosamente”.

Che cosa si può fare per ridare fiducia nella scienza a questa gente?

“Temo purtroppo che non la riacquisteranno mai, perché il caos e la disinformazione hanno ormai superato ogni limite: le realtà dei social hanno sdoganato la regola del ‘posso dire quello che mi pare’, secondo la quale chiunque si sente in diritto di scrivere anche cose false e arrivando all’aggressività, se e quando dovesse essere contraddetto. Non credo che questo sia un vortice da cui si possa uscire molto facilmente”.

Alcuni, semplicemente, non osservano molto le regole. Se dovesse mandare loro un messaggio, cosa direbbe? 

“Direi semplicemente di leggere la mia testimonianza, così come quella di tanti ammalati o di persone che hanno perso i loro cari, e di chiedersi: ‘E se succedesse a me?'”.



Il virus non esiste, il virus è un complotto dei cinesi, dei tedeschi e di chiunque. Quante volte lo abbiamo sentito dire?
Dopo 79 giorni di "calvario", come lo definisce lei stessa, Giulia Oriani, infermiera 30enne del Milanese, decide di scrivere su Facebook una lunga lettera aperta per raccontare le sue settimane alle prese con il coronavirus che, pur se in forma leggera, le ha lasciato conseguenze fisiche. L'esperienza in corsia dell'ultimo periodo, soprattutto, le ha provocato un disturbo post traumatico da stress. Ma la sua finalità è proprio di confutare le tesi dei "maledetti complottisti, che sostenete che il virus non esista", Quando, però, il post diventa virale, la pioggia di insulti e offese fa fare all'infermiera un passo indietro. Alla fine il lungo sfogo torna visibile sui social. Con una precisione: "Liberi di non credermi, vivo lo stesso, ma certi commenti, possono avere effetti devastanti".

Giulia Oriani, infermiera




La lettera-sfogo - Mi chiamo Giulia, ho 30 anni e sono un'infermiera. Nel mese di marzo mi sono ammalata di Covid-19. Inizialmente, nella sfortuna, ho pensato di essere stata fortunata, di averla "sfangata" con pochi sintomi, senza che fosse necessario il ricovero in ospedale.. un po' di febbre, qualche dolore muscolare, difficoltà respiratorie lievi e risolte in pochi giorni, un solo accesso in ospedale per broncospasmo. Niente di che, insomma.
I problemi sono iniziati circa dieci giorni dopo la mia negativizzazione al tampone. Uno strano dolore alla gamba, un esame al volo e la diagnosi di Trombosi Venosa Profonda. Il che significa che in una vena della mia gamba (dopo qualche giorno, in due vene diverse) si era formato un coagulo così grosso da non far passare più il sangue. Ho 30 anni, e il mio sangue coagula come quello di un vecchietto allettato. Da lì, il mio calvario.
Sono stata vista da: chirurgo vascolare, chirurgo generale, ematologo, psichiatra, medico d'urgenza e cardiologo.
Ho eseguito 5 eco-doppler alla gamba, un'ecografia della parete muscolare dell'addome, una lastra del torace, una TAC torace e arto inferiore con mezzo di contrasto, un ECG-holter delle 24h, un ecocardio e un'infinità di esami del sangue. Mi sono sentita diagnosticare una doppia trombosi venosa profonda con riduzione del flusso persistente dopo due mesi di terapia e parziale dilatazione della vena, una tachicardia sinusale con battiti ectopici ventricolari e sopraventricolari, un disturbo post-traumatico da stress con insonnia, una vasculite post covid-19. Ho avuto spesso, troppo spesso, paura. Tanta. Paura di non poter mai più tornare a svolgere il mio lavoro come prima, paura di morire. Mi hanno imbottita di psicofarmaci prima di capire che non era l'ansia la causa della tachicardia, ma mi hanno detto di continuare a prenderli, per dormire. Peccato che io non dorma da settimane. Ogni notte mi sveglio a causa degli incubi che faccio. Dormirò sì e no 4 ore. Convivo con un fantasma, quello della malattia.
Sono arrivata ad odiare la mia casa, diventata una prigione da ormai 79 giorni.
Questo post l'ho scritto in realtà per fare una dedica speciale.
Lo dedico a voi maledetti complottisti, che sostenete che il virus non esista, che sia stato creato per far guadagnare soldi a Bill Gates, che vi stiano mentendo e la situazione non sia così grave come sembra, che non volete mettervi la mascherina perchè vi farà morire di ipercapnia (che manco sapete cosa sia), che vi ammassate nelle piazze perchè non avete paura di un virus che uccide solo i vecchi, che sostenete che il virus sia un problema solo per chi ha malattie gravi e invalidanti.... e tante altre puttanate. A voi che pensate che tanto non vi capiterà mai niente, dedico la foto della terapia che ho dovuto prendere negli ultimi due mesi e che continuerò a prendere non so per quanto tempo. E ho SOLO trent'anni. A voi dedico ogni singola iniezione che mi sono dovuta fare, ogni ematoma distribuito sul mio corpo, ogni pastiglia che devo mandare giù tutti i giorni, ogni minuto di veglia al buio, ogni sfarfallio che avverto nel petto.
Con affetto, Giulia


La precisazione dell'infermiera dopo gli attacchi social

 Questo post è stato pensato e scritto per il mio profilo, mai avrei pensato che avrebbe avuto una simile visibilità, al di fuori dei miei soliti tre o quattro commentatori. Siete liberi di non credermi, vivo lo stesso, ma a chi mi dà del fake consiglio di rileggersi le regole sulla privacy di facebook. Vi dico solo che, certi commenti, sotto al post di una persona che ha un disturbo post traumatico da stress, possono avere effetti devastanti. Fortunatamente riconosco l'ignoranza e tiro avanti, ma dovete vergognarvi. TANTO.



4.6.20

in Grecia, la Chiesa ortodossa contro lo yoga: "Incompatibile con la fede cristiana". ma invece di vederne solo il male ne vedessero anche il bene ? e addottassero la coesistenza sarebbe meglio

 Capisco  che  lo Yoga  una  delle culture  ( perchè  le religioni sono  anche   cultura  poi  sta  noi decidere  di  come applicarle   se  in maniera   aperta o in maniera  chiusa  )  che mette indiscussione flower-2514521_640 (1)quella  cristiano    cattolica  ma , come ho detto  nel  titolo   , non capisco questa  guerra  che gli viene  fatta    dalla   religione  cristiana  in  in questo caso  il ramo  Ortodosso 


   da  repubblica  04 giugno 2020
Durante il confinamento per il lockdown, in molti Paesi del mondo si è diffusa ulteriormente la pratica dello yoga, già molto di moda, consigliata da media e social per rilassarsi nel periodo della pandemia. Ma la Chiesa greco ortodossa, preoccupata del diffondersi della disciplina indiana, è intervenuta duramente sulla questione: "Lo yoga è assolutamente incompatibile con la nostra fede ortodossa e non ha spazio nella vita dei cristiani", ha affermato il Santo Sinodo, organo di governo della Chiesa di Grecia.
"È un aspetto fondamentale della religione indù, non è solo un esercizio fisico'", ha precisato il Sinodo, aggiungendo di aver deciso di intervenire dopo che "vari mezzi di informazione" raccomandavano lo yoga come mezzo per "combattere lo stress "durante la pandemia di Covid 19.
La Chiesa ortodossa, una delle istituzioni più potenti in Grecia, ha una profonda influenza sulla politica e su molti aspetti della vita sociale e all'inizio della pandemia aveva suscitato polemiche sostenendo che il coronavirus non si diffonde attraverso il sacramento della Comunione.


Una sorpresa questa   presa di posizione   ? Non tanto in quanto  sono  ed  forme  di chiusure     mentali    già note   .
 Il problema   è  che si guarda   allo yoga  solo  come qualcosa  di pericoloso e negativo ed  non a  360 gradi  . Infatti  la parola yoga, dice letteralmente la presentazione dell'Onu redatta per la celebrazione di oggi, "indica un'antica disciplina fisica, mentale e spirituale e deriva da un termine sanscrito che significa unire, fondere e simbolizza l'armonia tra corpo e coscienza". In apparenza non c'è niente che entri in rotta di collisione con la cristianità. Non fosse che per i Santi Padri l'ortodossia (la corretta fede) coincide con l'ortoprassia (il rispetto dei suoi riti) e che le uniche pratiche spirituali ammesse sono il digiuno, il ricordo dei morti, il pentimento, le preghiere e poco più.  ed   ecco che  per  essi fare yoga è peccato.
Chi crede     in Dio   secondo   i dettami  del cattolicesimo o cristianesimo  ed  lo pratica con spirito laico, senza per forza aderire al pantheon induista, può   mettersi il cuore in pace ed  praticarlo  perchè  esso  :  è   1)  curativo   per la  psiche come    ho  parlato   in un  articolo precedente     2)  aiuta , integra   , ed  arricchisce  la  tua fede  aiutandoti a riscoprirla  o potenziarla  come  affermava  Padre Francesco Piras, Gesuita (1915-2014) fondatore  della  http://lnx.scuoladimeditazione.eu/
   di cui   trovate  qui  su nostro blog  e   su quest' altro   file  dell'associazione da lui  fondata   ulteriori approfondimenti  
La scomunica ortodossa ha radice antiche. "L'uomo accecato dalla maestosità immaginaria di quello che vede con queste forme di contemplazione ha già iniziato il suo cammino di auto-distruzione", ha sentenziato senza appello decenni fa l'archimandrita Sofronio, una delle più alte autorità spirituali passate da Monte Athos. La serenità mentale e l'equilibrio raggiunti grazie allo yoga aiutano a prevenire malattie anche mortali. Ma poco importa: "Nello stesso tempo ci fanno scambiare un miraggio per un'oasi genuina, distraendoci nel nostro cammino verso la vita eterna", parola di Sofronio. Il Santo Sinodo ortodosso, naturalmente, non ha voluto affondare il colpo: "Rispettiamo le altre fedi e la loro libertà di espressione - ha scritto nella sua nota - ma dobbiamo lavorare per scongiurare un pericoloso clima di sincretismo religioso".
Li capisco  ma  non è  condannandoli ed  vietando  che  si risolve  E  poi ci si  dmentica  che  anche la religione    cattolica   è nata    da  foprme  di  sincrismo   con riti  pagani   e pre   cristiani  . 
Come uscirne allora  ?  non giudicando   , cercando   punti contatto    oltre che divisioni  .  
Quindi Pregare Dio a mani giunte si può. L'importante è ricordarsi di non sollevarle sopra la testa. Si rischierebbe di finire senza volerlo nell'area a rischio scomunica della posizione del loto🤣😛 .

2.6.20

COME L’ARABA FENICE Paola Cacciapaglia: così ho sconfitto il Coronavirus © Daniela Tuscano




Paola Cacciapaglia – Scuola Paul JeffreyPaola Cacciapaglia, 47 anni, di Jesolo. Pianista, clavicembalista e bassista. Il Covid l’ha colpita a gennaio e, da oltre due mesi, sta affrontando una perigliosa convalescenza. Ci siamo incontrate virtualmente su un social network e abbiamo scambiato quattro chiacchiere sul dramma che l’ha coinvolta, le sue passioni e il futuro d’un paese martoriato.
  

- Come pensi d’aver contratto il virus? Sei riuscita a ottenere informazioni precise a riguardo?
- Francamente no. Tutto è cominciato con una semplice bronchite, aggravatasi col passare dei giorni. Poiché ne soffro cronicamente, all’'inizio non me ne ero preoccupata. In seguito, la situazione è andata peggiorando e il mio medico è venuto a visitarmi a casa, munito di tutti i DPI [dispositivi di protezione individuale, n.d.A.] previsti nei primissimi giorni dell’epidemia. Ha poi chiamato personalmente il 118. I risultati delle analisi si sono rivelati negativi; tuttavia, poiché il cortisone che assumo da tempo mi aveva procurato una leggera immunodepressione, sono stata rimandata a casa, luogo per me più sicuro. È probabile che il contagio sia avvenuto durante quel ricovero, o in occasione d’un consulto pneumologico la settimana successiva, sempre in ospedale.

- Tu però eserciti una professione, quella dell’insegnante, considerata “a rischio”. Frequentare l’ambiente scolastico può averti esposta all’infezione, o no?

- Lo escludo. Io lavoro in scuole di musica, ma le mie lezioni si svolgono perlopiù individualmente, non in classe. Inoltre, quando è iniziata la bronchite, mi trovavo già a casa in malattia. Ripeto, ero indebolita da patologie e ricoveri precedenti e necessitavo di assoluto riposo. Poi la situazione è precipitata, ne è seguito un nuovo ricovero e, probabilmente, il contagio.

- Il Veneto, assieme al Piemonte e alla colpitissima Lombardia, è stata una delle regioni più flagellate.

- È vero, qui si sono verificati molti casi, con focolai piuttosto estesi. Non nella zona dove risiedo e lavoro, comunque. Purtroppo, io appartengo alla minoranza che ne è rimasta interessata...

- Riesci a raccontare quei momenti? Come si comporta, realmente, questo virus?

- Per me è stata una malattia molto debilitante. Già ero indebolita a causa del cortisone (che tuttavia mi ha forse salvato la vita, stando alle ultime informazioni provenienti dal mondo scientifico). La mia salute ha subìto un peggioramento progressivo per un mese e mezzo; poi, all’improvviso, un primo, breve arresto respiratorio mentre mi trovavo a casa, in solitudine, dal quale mi sono miracolosamente ripresa. Quindi, nuovo ricovero in un ospedale Covid per ossigenoterapia. Le cure, durate quasi due mesi, sono state severe, a base di corticosteroidi ad alte dosi, antibiotici, antistaminici, broncodilatatori e tutto ciò che poteva essere utile in un momento in cui questo morbo appariva ancor più misterioso di quanto lo sia adesso. Al termine ho avvertito i primi miglioramenti. Adesso sto cercando di riprendermi a casa tramite la riabilitazione polmonare (perché sì, ci si disabitua pure a respirare), motoria e cardiovascolare, seguita sempre dal dottore.

- Un grazie grosso al personale sanitario?

- Assolutamente sì. Il mio medico di base mi ha curata benissimo, in lui ripongo assoluta fiducia. Ha attuato tutti i protocolli previsti per proteggere me e lui, venendo da me solo in possesso di tutti i DPI, limitandosi al tempo necessario alla visita, e parlandomi successivamente al telefono. È stato lui a mandarmi in ospedale quando serviva, lui ha somministrato farmaci e dosaggi secondo le necessità, sempre aggiornandomi telefonicamente. Ha organizzato anche i consulti specialistici. Sono stata assistita pure dalla psichiatra, perché io, malata e isolata, avevo bisogno di sostegno psicologico. Anche l’esperienza nell’ospedale Covid è stata rassicurante: era tutto preciso, ben organizzato, e mi ha colpito la gentilezza di tutti, dai medici agli infermieri, a tutto il personale.
L’unica pecca è che il tampone, malgrado le pressanti richieste del mio medico, è giunto molto tardi, quando la carica virale non era più rilevabile.

- Hai affidato al web il decorso della tua malattia, tenendo una sorta di diario giornaliero in cui comunicavi con i tuoi amici, virtuali e no...

- Sì, i social network mi hanno aiutata tanto. Ho deciso di superare l’orgoglio e ho raccontato pubblicamente su Facebook i fatti miei. Sono rientrata così in contatto con amici lontani, che mi hanno incoraggiata e alleviato il peso della solitudine. Grazie a un appello su fb sono riuscita a ottenere le mascherine in un momento in cui reperirle era un vero problema. E, tramite gli annunci, ho trovato aziende che praticavano consegna a domicilio e altre iniziative per le persone in difficoltà. Questo mi ha liberata dal peso dell’isolamento, mi sono sentita amata e rassicurata.

- A parte il dolore, cosa conserverai di quest’esperienza?

- Affrontare tutte queste sofferenze mi è servito per cambiare rotta, per vedere la vita in maniera diversa, per rinascere, come laraba fenice. E nonostante da gennaio ad oggi non abbia ancora avuto tregua, guardo al futuro con fiducia. Nulla accade per caso, ogni cosa ha il suo lato positivo. La vita è essere sempre sul bordo di un precipizio, in una vallata montana, da cui si può apprezzare una eco fantastica: il segnale che inviamo è quello che ci torna indietro. E sta a noi mantenere l'equilibrio o scivolare.

- Ci troviamo in piena fase 2, anzi ormai si può dire cominci la terza, con la riapertura delle regioni. Come giudichi i comportamenti di certuni, che gridano a ipotetici complotti, e addirittura manifestano in piazza senza mascherine? O di altri che, pur senza tutto questo chiasso, esprimono insofferenza per prescrizioni ritenute ormai non più necessarie?

- La gente ha fretta di uscire, molti non vogliono più sentirsi isolati, dimostrandosi quindi incapaci d’apprezzare le piccole cose che può offrire giornalmente la vita; altri, invece, vedono la fine della quarantena come una benedizione. Penso alle donne costrette a vivere con il proprio aguzzino, o ai bimbi abusati.
È vero che bisogna lavorare, altrimenti rischiamo il tracollo. Ma io credo si debbano limitare ancora per un po’ le uscite non necessarie. Temo gli irresponsabili, come hai rilevato tu: anche dalle mie parti, tanti circolano senza mascherina, costringendo fra l’altro quelli come me a un surplus di prudenza. Anche riaprire le chiese prima del tempo non mi è parsa una splendida idea: far rispettare le distanze di sicurezza è davvero difficile, non sorprende siano ancora poco frequentate. È lo stesso motivo per cui non è ancora opportuno riprendere concerti o altri eventi pubblici. Le manifestazioni del 2 giugno si sono svolte senza spettatori.

- Come tanti docenti, hai attuato la didattica online. Quali le tue impressioni?

- Adattarmi al nuovo contesto per me è stato più semplice rispetto ad altri insegnanti perché, come ho detto, le lezioni sono individuali. Mi metto in comunicazione con gli allievi tramite whatsapp e, davanti al mio pianoforte, riesco a leggere i loro spartiti, così posso correggerli e illustrar loro il modo corretto di eseguire i brani. E poi la musica, si sa, arriva ovunque...

- ...e sicuramente ti ha infuso coraggio nel difficile momento che hai dovuto affrontare.

- Senza musica avrei perso qualsiasi motivazione alla vita, non ne avrei assaporata la vera linfa. La amo in tutte le forme: ascoltarla, suonarla, insegnarla...

- Hai un’impostazione classica. Chi sono i tuoi autori preferiti?

- Sicuramente Bach: ha il potere di rimettere in ordine la mia mente e le mie emozioni, come un programma di deframmentazione di un PC. Al secondo posto, sul podio, porrei Shostakovich, per la dirompente carica emotiva. Poi Gershwin, il rapimento e l’estasi: un ponte fra musica classica e jazz, swing e blues. Ciò che manca ai musicisti attuali è il carisma, elemento per me fondamentale. Ci sono tanti buoni esecutori e pochi artisti. E chi non mi coinvolge, chi non suscita in me quel sussulto inatteso, non desta nemmeno il mio interesse.




mantenere il libero arbitrio e il saper scegliere da che parte stare a tempio del covid 19

Inizialmente avevo deciso di  non schierarmi   né  con l'uno  né  con l'altro


L'immagine può contenere: testo


L'immagine può contenere: il seguente testo "WELCOME TO SCIENCE HELL, PROFESSOR. PROFES SSOR THIS IS TONY, He ONCE SAW SOMETHING ON ON THE INTERNET ABOUT YOUR FIELD OF EXPERTISE AND IS GOING TO SPEND ETERNITY LECTURING YOU ON IT. 1."


 perchè   come    commento  qui  sotto  preso  insieme   alla prima immagine  da  un post  del  gruppo  facebookiano  di  BiologiPerLaScienza/ 


Costantino Sarno Ma personalmente non mi fiderei né di Alberto né di Marco...qui non si parla di religione per la quale dobbiamo avere fede in qualcuno,qui occorre esercitare la propria capacità di ragionare e allo stesso tempo di informarci in maniera trasversale..la fede nella cosidetta scienza o pseudo tale non é che il rovescio della medaglia della fede nelle religioni....é cambiato solo l'oggetto di fede ,ma non il modus.

sopratutto per  il  fatto   riportato dalla mia amica  compagna  di    strada 

Vorrei semplicemente evidenziare che loro, i medici , gli scienziati ecc. , in questo periodo difficile ci hanno detto di tutto e il contrario di tutto.
I politici hanno appoggiato gli scienziati più comodi alla loro posizione.
Per fortuna che la visione del medico “ sarcerdotale “ è venuta meno e che ognuno di noi si ponga almeno dei dubbi , visto che voi , medici e scienziati non ne avete , ma siete gli uni contrari agli altri.
Ci avete spaventato , terrorizzato, dicendoci che la 2 ondata cov19 , secondo i più illustri , sarebbe stata più virulenta, per poi sostenere che il virus ora non è più pericoloso.
Per quanto mi riguarda ho già attraversato queste “ scaramucce” tra specialisti e ne sono uscita indenne ragionando e usando il buon senso .
Auguro a tutti “ gli ignoranti “ in materia di fare come me.


ma poi  leggendo  su repubblica  del 1\6\20209 
Essere umili aumenta la libertà
di Enzo Bianchi
Se vogliamo vivere una vita umana degna di questo nome, ogni giorno dobbiamo trovare tempo per riflettere, per assumere interiormente le esperienze che viviamo. In questo cammino alla scoperta di ciò che abita il nostro cuore, non si deve avere paura di scoprire in sé lati enigmatici, limiti e fragilità sul piano affettivo, morale, psicologico… Tutto questo, insieme alle ricchezze e ai doni che ci sono propri, fa parte dell’eredità umana ricevuta da ciascuno di noi.
Le debolezze, gli enigmi, le ferite che ci abitano, non sono ostacoli a un’esistenza felice, ma spesso nel corso degli anni si rivelano una grande ricchezza. Ci aiutano a entrare in relazione con gli altri e a conoscerli; ci aiutano a essere umili, cioè ad aderire all’humus, alla terra, assumendo con realismo la nostra verità intima e la nostra povertà fondamentale.
Questo sforzo di consapevolezza ha uno scopo: l’acquisizione della libertà. E l’esercizio della libertà implica la capacità di assumere scelte che siano pienamente nostre, al momento opportuno. Occorre però sgomberare il campo da un equivoco: nel processo di scelta la nostra libertà non è mai totale. Su ognuno di noi, infatti, influiscono forze complesse e diverse: la famiglia, l’ambiente, la cultura, ecc. Possiamo però parlare di una libertà di azione, di scelta, che compete a ciascuno e che esprime il suo grado di soggettività. E la libertà non coincide sempre con ciò che sembra più facile o immediato: l’animale è se stesso seguendo l’istinto; l’essere umano, invece, è chiamato a un compito di umanizzazione.
Ancora, le scelte non si possono lasciare ad altri, ma non possono nemmeno essere prese sotto l’impulso emotivo passeggero. Esse richiedono l’esercizio della riflessione e del discernimento, plasmati dalla libertà: solo così possiamo evitare il rischio di restare eterni indecisi, in balia degli eventi. Certo, scegliere è doloroso: de-cidere (alla lettera, "tagliare") presuppone dei "no", richiede di lasciare da parte alcune possibilità, di riconoscere che non "tutto" è alla nostra portata. Quando però si prende una decisione per la propria vita, non lo si fa pensando ai tanti "no" che essa comporta, ma al "sì" che ci spinge a privilegiare una cosa rispetto ad altre.
In ogni caso, giunge sempre un’ora in cui si deve scegliere, e le spinte della vita sono tali che non ci si può sottrarre: anche non scegliere e accettare passivamente una situazione è di fatto una scelta. Ma se la scelta è fatta con intelligenza e amore, allora è molto più ciò che si guadagna rispetto a ciò cui si rinuncia.
Fatta la scelta, infine, occorre assumerla e perseguirla con lucidità e fedeltà. In qualche misura, occorre rinnovare la scelta di fronte alle difficoltà e alle tentazioni di lasciar perdere o smentire la scelta stessa. Bisogna avere il coraggio di dire: «Ho scelto di conseguire questa priorità, e a ciò dedico tutto me stesso». Solo così nascono responsabilità e capacità di costruire una vita come storia d’amore e opera d’arte.



ho deciso   di   schierarmi  con i #iostoconalberto  ovviamente mantenendo il mio spirito critico  ed  il buon senso  usando  #marco  ,  tutti i canali(  ufficiali    e  non ufficiali  )   ma  scremando  le  informazioni  ed  usando:  l'umiltà (  vedi articolo di Bianchi  ) ed  il  buon senso   insieme al  metodo  scientifico , senza prendere  per    verità  finché     viene  dimostrato  o smentito   quella cosa 

per approfondire 
https://www.galluranews.org/perche-la-scienza-e-divisa-chi-ha-ragione/



31.5.20

quant'è duro nel 21 secolo essere donna

girando  un po'  tra  i miei contatti \  compagni di strada  di facebook  ho   trovato   sulla  bacheca Zoe Ladra questo video  


"Be a lady" è il video femminista di cui tutti  parlano, un video in cui l'attrice e politica Cynthia Nixon (famosa per “Sex & The City”) recita le miriadi d'indicazioni spesso contraddittorie che una donna purtroppo riceve, dall’infanzia fino all’età adulta, in/da una società ancora fortemente maschilista Il cortometraggio è diventato virale, ma nessuno ha pensato di tradurlo. Nessuno a parte la nostra mitica Verdiana Leone, che ha apposto i sottotitoli in italiano per renderne più agevole la comprensione a chi non conosce l'inglese Buona visione! #bealady #girlsgirlsgirlsmag

  che  mi  ha  fatto capire  , non si finisce    mai d'imparare  ,   come la lotta delle ragazze e delle donne per essere se stesse contro i condizionamenti dell sistema culturale mediatico un misto di fallo centrismo e bigottismo è più dura di quel che pensassi . Grazie a Zoe Ladra per avermi aperto ulteriormente gli occhi con questo video . 

Danyart New Quartet fiori e tempeste

Ieri è stato presentato il nuovo lavoro discografico dei Danyart New Quartet, formazione jazz capitana da Daniele Ricciu, in arte Dany...