La prima storia è stata scelta spronato da questo commento : <<
L'idea di nazioni legate a un popolo e a un territorio ha finito con l'essere prevalente nell'Ottocento. Gli stati nazionali dovevano, nella concezione liberale e massonica propria dell'epoca, costituire un insieme di forze che si sarebbero equilibrate e che avrebbero dato vita a stati affratellati da ideali comuni. Si è visto che cosa ha prodotto quel tragico errore di prospettiva: una serie di guerre intereuropee e due guerre mondiali. Naturalmente, i miti sono duri a morire e pertanto il mito della patria persiste, anche se in una nazione composita e relativamente recente come l'Italia non mi risulta particolarmente sentito. I limiti di quell'ideologia sono rivelati soprattutto dalla realizzazione parziale di un sistema di patrie che corrispondessero ai singoli popoli. Infatti molto spesso le aggregazioni nazionali sono state realizzate spesso a spese delle nazioni negate. Questo sin dalle origini: la Francia ha di fatto represso Aquitania e Provenza a Sud e Bretagna a Nord. Il Belgio ha unificato due popoli che stanno insieme a fatica. La Spagna ha messo insieme Castiglia e Catalogna, diverse per cultura, lingua e tradizioni, e ha tenuto ai margini il popolo basco. L'Inghilterra ha represso per anni l'Irlanda e ha cancellato la Scozia. L'Italia si è costituita reprimendo culture locali e lingue diverse: la Sardegna, il Friuli, i tedeschi del cosiddetto Alto Adige, lo stesso variopinto mondo del Sud. In Jugoslavia si è visto come è andata a finire, In Cecoslovacchia pure. Non è strano che si levino ogni tanto voci non esattamente entusiaste di questa realtà, anche se di una realtà si tratta e come realtà deve essere accettata, solo che l'entusiasmo non può essere obbligatorio. La stessa realtà mostra come le Nazioni cambino, mentre i popoli restano. Magari, fra cento anni, i nostri trisnipoti rideranno di un mondo in cui c'erano tanti stati, ognuno con una bandiera e un esercito pronto a sparare sugli eserciti degli altri, degli stranieri. ( Diaktoros ) >> nell'ultimo post dell'amica e utente daniela
Migrazioni, oltre i confini delle lingue
Ricercatrice cagliaritana coordina l'ambizioso progetto del Cnr
Martedì 11 gennaio 2011
CARLO FIGARI
ROMA In Italia vivono quasi cinque milioni di stranieri, un immigrato ogni dodici residenti. La maggior parte parla italiano e lo usa come lingua per comunicare tra diverse nazionalità. Molti vanno a scuola per impararlo, i bambini frequentano regolarmente tanto che non c'è più classe senza almeno un extracomunitario. Ma quali sono i loro livelli di apprendimento? Quali difficoltà incontrano per studiare una grammatica che mette in crisi gli stessi italiani? Quali tecnologie e programmi adotta ciascuna regione?I NUMERI Oggi, grazie alle statistiche di Istat e Caritas, alle indagini di Questure e Prefetture, conosciamo i numeri e l'entità della presenza straniera. Abbiamo la fotografia del grande cambiamento demografico e sociale in atto nel paese, ma ancora ci sfuggono aspetti fondamentali come l'alfabetizzazione e i livelli culturali dei nuovi "italiani". Sì, piaccia o no, l'Italia multietnica è una realtà in costante crescita e l'integrazione uno dei problemi più scottanti dell'attuale governo e di chi seguirà. Per questo il Centro nazionale delle ricerche, il massimo organo scientifico italiano, dal 2008 ha avviato il progetto "Migrazioni" con sessanta specialisti al lavoro in tutta Italia. Ieri nella sede romana ha presentato i primi risultati.
LO STUDIO L'imponente ricerca che coinvolge tredici istituti nazionali di varie discipline (c'è anche l'istituto di storia dell'Europa Mediterranea di Cagliari) si concluderà quest'anno e nel 2012 verrà resa pubblica. Solo allora avremo un quadro completo ed esauriente di un fenomeno sociale e culturale in continua evoluzione. «Ma non finirà con la chiusura della ricerca» anticipa Maria Eugenia Cadeddu, coordinatrice del progetto "Migrazioni": «Questo è un lavoro multidisciplinare e internazionale che mette insieme tanti studiosi italiani e stranieri. Rappresenta la base di partenza per future indagini perché si muove su numerosi filoni di ricerca che potranno continuare nel tempo».COORDINATRICE SARDA Maria Eugenia Cadeddu, cagliaritana, ( foto in alto a sinistra ) fa parte dello staff dirigenziale guidato dal primo direttore del dipartimento "Identità culturale" Andrea Di Porto (ha insegnato anche a Sassari) e dal grande filosofo di etica moderna Tullio Gregory. Una pesante responsabilità per la ricercatrice sarda che proviene dal Cnr di Cagliari e da una scuola di giovani studiosi plasmati dallo storico medievista Francesco Cesare Casula. «Sì, la mia specializzazione è la storia medievale, poi mi hanno chiamato a Roma per partecipare a questa nuova esperienza interdisciplinare che nasce sulla scia della riforma del Cnr». Al progetto collabora un'altra cagliaritana, Cristina Marras, con esperienze di studio in Germania e in Israele e ora a Strasburgo per curare le relazioni internazionali.
Maria Eugenia Cadeddu a 46 anni non è più una giovane ricercatrice anche se l'età anagrafica oggi non corrisponde alla società e al mondo del lavoro. «È vero. I giovani del Cnr hanno tra i trenta e quarant'anni, ed anche oltre. Diciamo che siamo la giovane generazione di ricercatori perché sopra di noi c'è il fior fiore degli scienziati e studiosi italiani». È ancora possibile fare ricerca per un giovane? «Personalmente mi sento fortunata perché ho avuto questa opportunità alla sede centrale di Roma. Una nuova esperienza che mi mette in contatto con colleghi di campi diversissimi dal mio. Il progetto coinvolge sessanta esperti attraverso contratti e borse di studio. Quest'anno, dopo tanto tempo, è stato bandito un concorso per 500 posti al Cnr. Qualcosa finalmente si muove». Ancora brucia la protesta contro la ministra Gelmini, accusata di voler colpire proprio la ricerca con pesanti tagli ai fondi e una chiusura di carriera per molti ricercatori. Che ne pensa? «Le riforme dell'Università come del Cnr, al di là delle valutazioni di merito, lasciano aperto il problema della mancanza di investimenti nella ricerca. È come se questo paese non credesse nella potenzialità delle sue risorse intellettuali e scientifiche». Inevitabile che i migliori se ne vadano. «Si deve distinguere tra "fuga dei cervelli" e "circolazione dei cervelli" fenomeno assolutamente positivo e anzi auspicabile. Spostamenti ed esperienze diverse sono fondamentali per la carriera scientifica di un ricercatore». All'estero la ricerca è più avanzata? «No, anche in Italia si svolge ricerca di primissima qualità. Per questo i nostri specialisti che emigrano vengono molto apprezzati e si impongono subito. Di certo, restringendosi le opportunità, questo fenomeno della "fuga dei cervelli" potrebbe aumentare». La Sardegna partecipa in qualche modo al progetto? «Certo. L'istituto di Cagliari guidato dal professor Luca Codignola Bo, che è uno storico, si occupa del settore storiografico con l'analisi della bibliografia moderna e contemporanea riguardante le migrazioni tra Francia, Spagna, Portogallo e Italia. Una collega ligure, Francesca Dannino, invece si occupa di analizzare i dati forniti dalle scuole della Sardegna per conoscere gli strumenti informatici e i programmi utilizzati per favorire l'insegnamento della lingua agli stranieri». Con quale obiettivo? «Ogni regione adotta programmi e metodi diversi, mentre si dovrebbero pensare modelli validi per tutto il territorio nazionale. Dobbiamo capire quali siano le principali difficoltà che gli stranieri incontrano nell'apprendimento dell'italiano, verificare gli errori più comuni e frequenti, studiare metodologie didattiche e pedagogiche utilizzando le tecnologie dell'informatica. È una grande sfida scientifica mentre si discute tanto di integrazione, spesso senza tenere conto della realtà».
ecco le altre due sempre tratte dall'unione sarda del 10 1e 11 gennaio 2011
Gonnosfanadiga.
Un giovane scopre il vecchio mestiere e un'antica forma di scambio
Il ragioniere che spazza i camini Diplomato ripropone «S'aggiudu torrau»: boom di richieste
Lunedì 10 gennaio 2011
Ha iniziato 5 anni fa per caso snobbando il diploma di ragioniere. Lo chiamano in tutte le case, in cambio non vuole soldi ma baratta la pulizia con ciò che ciascuno può dare: «S'aggiudu torrau»
Valerio Lecca, 34 anni, di Gonnosfanadiga, ( foto a destra ) snobba il diploma di ragioniere e sogna di diventare spazzacamino. La gavetta è già cominciata. Dal 2006 pulisce gli impianti fumari ma non si fa pagare mettendo in pratica « S'aggiudu torrau» , una forma di baratto conosciuta dagli anziani.
«Per ora la lotta alla fuliggine è solo un hobby», spiega Valerio Lecca. «Ho rinverdito il concetto di " aiuto reciproco",concordato con le famiglie in base a quello che ciascuno può dare: vestiario, alimenti, legna, anche pezzi per la macchina che mi servono. Accetto anche un'offerta, ma non ho di certo un tariffario». Ma nel 2011 il baratto non è superato? «In un momento di crisi così pesante penso che abbia senso tornare allo scambio di beni e servizi senza moneta. Per fronteggiare il crollo dei consumi bisogna mettere a disposizione saperi e risorse e darci una mano l'uno con l'altro. Anche per questo ho deciso di pulire camini» Come ha cominciato? «Quasi per caso. Ho acquistato gli attrezzi per pulire l'impianto fumario di casa. Sono salito sul tetto per scrostare la canna fumaria con l'ausilio di tubi flessibili e di uno scovolo. Poco tempo dopo ho pulito i camini delle case di anziani soli che me lo chiedevano perché non avevano nessuno che potesse farlo» Ha mai avuto paura di salire sui tetti?
«No. Sono piuttosto agile, ma devo stare attento. Lo faccio solo quando il tempo è buono, altrimenti, con la pioggia rischierei di farmi male o danneggiare le tegole. Un problema che sto cercando di ovviare con l'acquisto del macchinario che mi permetterà di pulire il camino dal basso, all'interno dell'abitazione». Non crede che lo spazzacamino sia un mestiere "fuori moda"? E' una figura romantica e antica, ancora indispensabile nei tempi moderni grazie anche all'impiego di nuove tecnologie. Il mio obiettivo è acquistare macchinari più all'avanguardia e iscrivermi all'associazione nazionale fumisti per fare di un hobby un lavoro. Vorrei diventare fumista per realizzare impianti fumari efficienti e scongiurare conseguenze negative sull'ambiente, sulla sicurezza e sulla salute». Non ha pensato che sarebbe stato più semplice fare l' impiegato? «Preferisco vivere con entrate incerte per fare quello che voglio. Per avere il denaro che mi occorre per pagare le spese della macchina mi impegno anche in altri lavoretti». Cosa la spinge a fare lo spazzacamino? «Sentirmi utile. Arrivo nelle case piene di fumi e risolvo i problemi. Non saprei svolgere un lavoro nel quale non vedo subito i frutti». Gli anziani non hanno paura di farla entrare in casa? «Ispiro fiducia alle persone e poi mi conoscono tutti. Quando un anziano mi chiede di pulire il camino e non ha niente da regalarmi io lo faccio comunque volentieri, e se per sdebitarsi insiste per invitarmi a pranzo, accetto di fare l'ospite e di tenergli un po' di compagnia». Cosa le hanno insegnato le persone di una certa età? «Ad avere coraggio, a non fermarmi anche se il lavoro è pesante cercando le forze per continuare e arrivare lontano». C'è una buona richiesta di questi servizi? «Molti mi chiamano per il controllo del camino da anni. C'è un rapporto amichevole: appena arrivo stringo la mano e facciamo due chiacchiere. Di solito, quando vado da una famiglia il giorno dopo mi chiama qualcun altro al quale hanno fatto il mio nome». STEFANIA PUSCEDDU
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Lunamatrona.
Cittadini protagonisti del documentario del regista di Villanovaforru L'uccisione del maiale diventa un filmTatti: l'opera punta a favorire il rispetto per le culture locali
Martedì 11 gennaio 2011
"Custu est su procu" dura 59 minuti ed è stato presentato a Lunamatrona. Tanti i cittadini che hanno assistito alla nuova fatica di Piero Tatti.
Fno a qualche decennio fa era un rito per tante famiglie. Un cerimoniale che coinvolgeva un rione. Oggi l'uccisione del maiale è un lontano ricordo anche in Marmilla. Piero Tatti, di Villanovaforru, sposato a Lunamatrona, ha raccontato questo rito in un documentario con protagonisti gli abitanti del suo "secondo" paese. "Custu est su procu" dura 59 minuti ed è stato presentato nel "Tre Campane" di Lunamatrona. Tanti i cittadini che hanno assistito alla nuova fatica di Tatti, da anni impegnato nel racconto del territorio con filmati e cortometraggi. IL MAIALE Già i nuragici si nutrivano della carne di maiale. Nel periodo romano e medioevale il suo allevamento rustico è stato esteso a tutta l'isola. Oggi in Sardegna ci sono 230 mila capi. «Fino a quarant'anni fa il maiale si allevava in casa con granaglie, fave, fichi d'india e ghiande», ha spiegato Tatti, «ad un mese dalla macellazione si aggiungevano ceci e piselli che arrossavano le carni ed aumentavano di spessore il grasso dell'animale». IL LAVORO Il mese migliore per ucciderlo era dicembre. Tatti, sostenuto dal figlio Tomas, ha girato le fasi della macellazione a Lunamatrona nell'inverno 2007. Poi tre anni di lavoro per completare il documentario. Del maiale non si buttava via niente: lardo e strutto per i cibi, le ossa per il minestrone di ceci, la gerda per un pane speciale, il sangue per il sanguinaccio, le setole vendute al ciabattino. «Spero che questo lavoro stimoli i giovani alla ricerca e favorisca il rispetto per le culture locali», ha concluso Tatti. PROTAGONISTI Ecco i cittadini protagonisti de sa boccimenta de su procu: Maria Mancosu, Maria Grazia Melis, Ercole Setzu, Fausto Matzeu, Alberto Orrù, Carlo Orrù, Luigi Orrù, Efisio Murru, Nuccio Garau, Ettore Setzu, Ottavio Setzu, Zeno Cancedda, Giancarlo Setzu, Giulio Mancosu, Mario Setzu e Paolo Lilliu.
per descrivere il grande amore che provo per te, qualsiasi cosa io dica non riuscirò mai a raccogliere il tuo splendore che per me è più di quello del sole. Con il tuo meraviglioso sorriso ci hai regalato momenti di pura gioia. E' difficile pensare che tu non ci sei più, che i tuoi occhi non guarderanno più il cielo da qua giù eppure sono 12 anni oramai che te ne sai andato, 12 anni in tua assenza che sembrano davvero un'eternità, il solo pensiero che ce ne saranno 12 ancora e ancora e ancora mi fa paura mi fa paura un'esistenza senza te. Ancora più difficile è accettare che non riuscirò mai a incontrarti non qui, non concretamente, eri eccezionale e ti prometto, anche se come promessa non conta molto, che non uscirai mai dal mio cuore che può sembrare irrilevante dal momento che di persone ce ne sono così tante, però non lo è, non lo è perchè ognuno di noi copre il proprio ruolo, perchè ogni uomo ha qualcosa da dare al mondo, anche i "deboli" che tu tanto difendevi, abbiamo ancora bisogno di te anche se infondo anche tu eri un uomo come noi, ma forse questa è la cosa più meravigliosa che si possa dire di te: eri umano.
Sia che devid sia morto perché i genitori vivevano in strada sia perché vivevano in stato d'indigenza o quasi devid è morto per mancanza di cordinamento , per la cattiva disorganizzazione di quello che dovrebbero essere servizi sociali e la burocrazia , ma soprattutto per l'indifferenza .
Infatti ad averlo ucciso non è solo il freddo è la mancanza di soidarietà , l'indifferenza ( infatti al funerale non c'era quasi nessuno ) o scaricabarile perchè tutti vedevano o facevano finta di non vedere o non se ne preoccupavano prchè << è già stata segnalata , ci pensano i servizi sociali , ecc >> . Ma la storia della sua vicenda dei suoi ventitre giorni nella città degli invisibili è talmente triste che preferisco far parlare l'articolo e i link in esso riportato da repubblica
LA STORIA
I ventitré giorni di Devid
nella città degli invisibili
Il caso del neonato morto di freddo e stenti: nella cappella dell'ospedale meno di dieci persone a salutarlo. A fine novembre l'assistente sociale non si era neanche accorto che la donna era incinta. Oggi il padre dice: avevamo paura che i servizi sociali ci portassero via i bambinidi MICHELE SMARGIASSI
Due suore, due volontari, pochi senzatetto, il padre, la nonna, il prete. Meno di dieci persone ieri mattina nella gelida cappella dell'ospedale per dire addio a Devid, che ha vissuto solo ventitré giorni ed è morto di freddo nel centro più centro di Bologna alla vigilia della Befana, giorno dei bambini.
Poche ore più tardi la città ufficiale si "vergogna", ormai troppo tardi. Si vergogna di che? Dell'"indifferenza". Indifferenza di chi? "Non la mia, non degli altri che erano lì per caso come me": Viviana Melchiorre, impiegata, è ancora sconvolta. Quattro gennaio, quattro del pomeriggio, portici del municipio davanti alla farmacia comunale. "Lei, un pianto disumano, incapace di dire nulla; il padre, con quel fagotto in braccio vaga in piazza Maggiore, il bimbo ha un colorito terribile". "È morto!", rabbrividisce il gruppetto che si è raccolto, qualcuno (forse il padre) ha già chiamato il 118. L'uomo si scuote, entra in farmacia, poggia il bimbo sul bancone come fosse una scatola (ricorda scosso il farmacista): "Sta male, non respira, non so cos'ha, stamattina ha preso il latte...". Fuori, una passante nota un passeggino incustodito, gonfio di coperte. Le solleva. "Ma qui ce n'è un altro!". Vivo. In salute. Per fortuna. È il gemellino.
Nella Bologna esausta di shopping natalizio l'ambulanza corre via. Devid muore la mattina dopo (il direttore di Pediatria Mario Lima coglie la situazione al volo e mette al sicuro il gemello e una sorellina ricoverandoli). L'autopsia dirà com'è successo, ma già si sa che è crisi respiratoria. È una storia di ghiaccio, la storia di un bambino nato prematuro, passato in poche ore dal tepore dell'incubatrice al sottozero della piazza. Non ce l'hanno una casa, Claudia e Sergio? Lui, toscano che vive di lavoretti, giura di sì, s'infuria col cronista, "non siamo barboni", dà l'indirizzo, il capocondominio conferma ma i vicini dicono: "Non si vedono da mesi", e in quella casa vive un maghrebino: risulta marito di Claudia, forse sposato per avere il permesso di soggiorno. Di fatto lei non abita lì. Allora dove? "Dalla madre", suggerisce il tam-tam dei senzatetto, "no, in roulotte". I volontari di Piazza Grande li incontrano distribuendo viveri in stazione, e il padre che ha già abitato per un po' in un dormitorio chiede la residenza in "via Tuccella", la strada di fantasia inventata per dare un documento di identità ai clochard di Bologna.
Comunque è vero, nessuno li vede di notte in strada. Ma di giorno sì, per ore sotto il portico del Podestà e nel bell'atrio caldo della biblioteca Salaborsa. Claudia che cambia i pannolini ai gemelli neonati, stretti nel passeggino regalato da una barista della piazza, a fianco la sorellina di venti mesi. Impossibili da ignorare. E i bolognesi non li ignorano, "chi passava le diceva qualcosa, "non può tenere dei bimbi così piccoli al freddo"", racconta un clochard. Ma poi passano oltre, perché a Bologna, pensano i bolognesi, qualcuno provvede sempre, perché a Bologna certe cose non succedono. Perché "nel centro di Bologna / non si perde neanche un bambino", canta Lucio Dalla.
Invece ne abbiamo perso uno. Il welfare più famoso d'Italia non l'ha salvato. Eppure sapeva tutto di sua madre. Trentasei anni, cinque figli avuti da almeno tre padri, i primi due finiti in affidamento alla nascita, nel 2001 e 2003, per "incapacità genitoriale". Nessuno sa che è di nuovo incinta? L'assistente sociale che la incontra a fine novembre non se ne accorge. Il 13 dicembre partorisce al Sant'Orsola, il giorno stesso la segnalano ai servizi sociali di quartiere, che prendono atto. Dimessa regolarmente il 29, è già in strada coi gemellini. Il giorno dopo la notano in Salaborsa gli impiegati, "non siamo ciechi", e chiamano gli assistenti sociali. Rapporto dei medesimi: "Sembra una famiglia felice". La notte di San Silvestro eccoli al cenone di solidarietà per i senzatetto, "un uccellino caduto dal nido" ricordano i volontari, "le abbiamo chiesto se voleva un posto per la notte, ha risposto che tornava a casa sua". Insomma, in quei cinque giorni tra l'ospedale e la tragedia, la rete della tutela sociale la intercetta più volte. Ma nessuno s'allarma, forse proprio per l'eccessiva sicurezza che "qualcuno ci sta già pensando", che la cosa sia "già segnalata". Infatti lo è, più volte. I pezzi del mosaico di una potenziale tragedia ci sono tutti. Ma nessuno li mette assieme. Disattenzione? Disorganizzazione? È già il momento delle domande scomode. "A questa città manca un padre di famiglia", lamenta Paolo Mengoli direttore della Caritas. Punta il dito sul decentramento dei servizi nei quartieri, riforma che deve qualcosa ai tagli di bilancio: "senza un centro le cose sfuggono".
"Lavoriamo per pezzetti e non c'è comunicazione", ammette Monica Brandoli del settore affari sociali del Comune.
Adesso tutti si "vergognano" nei comunicati, ma molti hanno una giustificazione. Ed è quella giustificazione lì: è la madre che non ha chiesto, che ha rifiutato, che si è sottratta. "Una povera donna, le è stato offerto un tetto, ha detto no, in questi casi ci vuole un po' di partecipazione", dice a caldo la commissaria Annamaria Cancellieri (perché Bologna da un anno è senza sindaco, e chissà che anche questo non conti). "Ci avrebbero tolto anche questi bambini", risponde il padre Sergio, che anche lui aveva una figlia che non è più sua. Chi ha bisogno e figli, non "partecipa" mai spontaneamente al rischio di restare col bisogno e senza figli. Rimane il fatto bruto e duro: le maglie della rete di protezione di una delle città più protettive d'Italia non sono riuscite a trattenere l'esistenza sottile di un bambino di tre settimane.
L'unica cosa che mi sento dire è questa . Cazzarola va bene che , specie in tempi di crisi non possiamo aiutare tutti , ma i casi più gravi almeno un aiuto lo possiamo dare . Ce fine hano fatto per parafrasare la sigla di questo famoso cartoon scusandomi per l'aaudio , ma non ho trovato di emglio in italiano
i valori della solidarietà , dell'aaiuto reciproco ? Soprattutto da noi che cantiamo ( anche se secondo molti sondaggi non ne conosciamo le parole se non l'ultima strofa ) il nostro inno nazionale : << >> e poi non siamo neppure in grado ne in silenzio lontano da rifletori ne esibendoa d'aiutare il nstro vicino e dargli aiuto concreto una casa o un ocale , nonostante ne abbiamo molti sfitti o un lavoro anche il più piccolo per garantire sia aglimItalaini e agli stranieri di priam e di seconda generazione presenti nel nostro paese la sopravvivenza o una vita dignitosa .ed evitare che succedonos torie come questa
Alghero, il dramma di una madre costretta a vivere in auto con due figli
Sotto la patina a uso turistico della città delle vacanze si nascondono terribili situazioni di ordine sociale. È il caso di una giovane madre algherese con due bambini, uno di 9 anni e l’altro di soli 7 mesi, costretti a passare la notte dentro un'auto, in un garage, a due passi dalla celebrata passeggiata del Lungomare Barcellona. È stata abbandonata dal compagno ed è rimasta senza casa
di Gianni Olandi
La giovane mamma con i figli davanti al garage
ALGHERO.
È la storia di Giovanna e dei suoi piccoli. Abbandonata dal compagno, senza parenti, i genitori sono entrambi deceduti, riesce a malapena a sbarcare il lunario stando al servizio di qualche famiglia. Quando è rimasta completamente sola una casa l'aveva ma 500 euro di affitto, con due bambini da mandare avanti, non sono sopportabili se non si hanno altre entrate. Dall'assistenza sociale riceve 300 euro al mese, neanche sufficienti per la pigione, e così ha dovuto lasciare la casa. Come soluzione di fortuna ha trovato un amico che per la notte le consente di utilizzare l'auto parcheggiata in garage. La mattina riesce a portare i due bambini a casa di una signora che le mette a disposizione i servizi igienici.
Una vicenda terribile, drammatica, che comunque non scoraggia Giovanna. «Vorrei soltanto poter lavorare di più di quanto non riesco a fare oggi per far crescere i bambini - sostiene - se avessi una occupazione potrei lasciare il piccolo all'asilo e dedicarmi con maggiore impegno a trovare opportunità di lavoro. Oggi per fare le pulizie nelle case, nei condomini, qualcosa si trova, è una questione di buona volontà e a me non manca».
Le domanda da fare a questa giovane madre sono tante ed è lei stessa che toglie da ogni difficoltà. «Ci arrangiamo - dice - da una nonna, da qualche amica, ci arrangiamo e comunque non possiamo fare diversamente. Il bambino di nove anni fa il tempo pieno, quindi pranza a scuola ed esce nel pomeriggio, per il piccolo, come ho già detto, ci arrangiamo».
Difficile non chiedere come risolve il problema nel garage-cantina se al piccolo viene fame durante la notte e ha bisogno di qualcosa di caldo. «Porto sempre con me un thermos con la sua pappa - risponde subito - tiene il calore quasi fino al mattino». Viene in mente il mercato dell'abbigliamento per bambini, abitini ormai firmati, le griffe sono arrivate da tempo anche nella primissima infanzia e se non c'è la marca alla moda sullo zaino c'è il rischio perfino che il piccolo si vergogni di andare a scuola.
A Giovanna basta un thermos che tenga la pappa in caldo. «Comunque con il lavoro che riesco a trovare - aggiunge - ai miei bambini non manca niente, soltanto una casa, non voglio più che trascorrano la notte nel buio di un garage».
Nei giorni scorsi mentre pranzavamo , durante una discussione ( non ricordo il contesto , nè di cosa si parlasse ) , mi è sfugita questa parola : << [...] a me mi [ ...] >> sbagliata grammaticalmente , ma ormai entrata nel lessico della nostra lingua anche scritta ( Ahi noi ) .
Tale mio " sproloquio " ha suscita gli straili ed il borbottio dei mie , specie di mia madre ex insegnate di lettere ala scuola media ( fortunatamente in pensione dal 1994 e non spettatrice attiva o passiva del degrado linguistico massmediatico a cui nolenti e nolenti tutti sottoscritto compreso subiamo o partecipiamo in quest' ultimo quindicennio ) che non sono espressioni d'usare mentre si parla ( mi ricordano le reazioni di mia nona paterna quando usavo la parola scazzottare e simili ) e che la lingua ( come non darle torto ) si degrada e e si impoverisce . Questo nostro " battibecco " ha creato la battuta di mio fratello che si pè messa a parafrasare ( lui che a differenza usa scarsamenre , quasi coe me se e avesse in odio \ in antipatia , le citazioni e i riferimenti culturali ) questo scena di Palombella rossa noto film di nanni moretti
Dopo pranzo, mentre camminavo ( mi sono deciso a uscire a camminare e a vincere la mia apatia e richiudermi o per cazzeggio o per studio subito al pc , ma soprattutto i guardami riflesso nel vetro della finestra , notare mio autoscatto affianco , che non sono troppo in salute e che il mio corpo si sta deformando vedere sotto foto fattami da mio fratello con la mia digitale )
ho riflettuto sul discorso avvenuto poco prima e su quanto diceva il mio professore di letteratura italiana , Nicola tanda ( foto a sinistra ) sulla neolingua e sulla standardizzazione politico e mediatica della lingua .
Dopo uno\ due respiri profondi , per evitare che i ricordi si trasformassero in malinconia e nostalgia , rovinandomi cosi la passeggiata ed evitare di tormentarmi , con storie e seghe mentali inutili e fuorvianti e di perdermi sullo stesso pensiero e meditare cambiando pensiero
Man niente non ci sono riuscito .
Mi è venuto in mente, non chiedetemi come perchè non saprei come ricostruire quel ragionamento non avendolo bloccato subito su cartaceo ma lasciatolo fluttuare nell'aria,in modo che fosse raccolto d'altri proprio come questo video che pubbliciza la presentazione del lbro il pettine senza denti di Eugenio Campus ( ne troverete fra qualche giorno l'intervista sui nostri blog , qui la trama e qui trovate le prime quaranta righe dell'opera che ........ ma no altrimenti vi svelo la suspence dell'intervista ) la trasmissione l'infedele de la7 andata in onda il 18\10\2010 e che potete trovate qui interamente o sul youtube a spezzoni in cui caro figlia parlava del suo ultimo libro le manomissione delle parole ( copertina sotto a destra ) che sta creando polemiche anche politiche sia destra che a sinistra .Galeotto fu , forse oltre al il pensiero \ elucubrazione derivato dalla discussione avuta con i miei e il ricordo del mio pof Universitario prima citrato ( e se non mi fossi bloccato delle prof di letteratura italiana avute nel quinquennio delle superiori ) anche : un articolo di giornale con una intervista o foto di G.Carofiglio non ricordo se a casa d'amici di famiglia in cui m'ero rifugiato per un acquazzone o un foglio portato ai miie piedi dal forte vento . Fatto sta che ciò mi ha riportato alla mente la risposta data quando Lenner posto la domanda 'dello scettico', ossia come fosse mai possibile che delle parole influissero radicalmente sulle condizioni quotidiane di una società; come potesse essere che " chiamare le cose con il loro nome è un gesto rivoluzionario".
Carofiglio ha risposto citando una ricerca dell'antropologo Bob Levy, condotta ad Thaiti negli anni Cinquanta: lo studio ha rilevato come, ad un tasso di suicidi rilevantemente più alto di altre zone, si accompagnasse l'assenza di parole per indicare la sofferenza morale. Le esperienze della storia sembrano supportare la tesi per cui la mancanza di parole per esprimere i propri disagi e oggettivare, dunque, a sè e agli altri, la sofferenza costringa gli individui a esternare il proprio disagio su un piano diverso, quello della forza e dell'atto. Secondo Carofiglio, dunque, le parole, gonfie dei loro sensi, muovono dinamiche fondamentali per la società.
Rientrato al centro sono passto senza fare tappa a casa in libreria e me lo sono comprato .
Non sempre per parafrasare la famosa canzone Parole.....Parole di Mina le parole sono parole . Infatti oltre ad essere parole esse sono e possono come dice Lo stesso Carofiglio stesso sia nel libro di cui si sta parlando sia qui nell'introduzione alla presentazione del libro un arma lo strumento usata dai poteri forti cioè politico mediatici per opprimere nascondere e spacciarele loro b ... ehm... panzane per vere .
Un ottimo libro . Una sorta di ciambella di salvataggio in un mondo in cui le parole vengono manipolate e travisate, Gianrico Carofiglio ci ricorda in questo saggio che restituire loro il senso è il primo, indispensabile passo per fondare la verità: dei sentimenti e delle idee. La sua indagine si concentra su. una selezione di parole-chiave – “vergogna”, “giustizia”, “ribellione”, “bellezza”, “scelta” - e su un ambito a lui familiare, quello del linguaggio dei giuristi, che più di altri produce conseguenze concrete sulle persone e sul mondo. È un'indagine a un tempo linguistica, letteraria e storica - e dunque, inevitabilmente, critica e civile - che si dispiega attraverso il confronto con grandi autori e grandi testi: da Tucidide a Victor Klemperer, da Cicerone a Primo Levi, da Dante a Kavafis, da Italo Calvino a Piero Calamandrei alle pagine esemplari della Costituzione italiana.
Infatti Ibs lo ha cosai recensito : << «La ragione di questo libro – a un tempo politica, letteraria ed etica – consiste nell’esigenza di trovare dei modi per dare senso alle parole: e, dunque, per cercare di dare senso alle cose, ai rapporti fra le persone, alla politica intesa come categoria nobile dell’agire collettivo». Gianrico Carofiglio ci regala un saggio alla Borges, dall’impianto filologico rigoroso, sull’uso del linguaggio e sulle sue conseguenze nella nostra società. La diagnosi dello scrittore, magistrato e uomo politico barese, è che oggi si usino poche parole, di scarsa qualità e che la lingua utilizzata meccanicamente sia sciatta, banale e manipolata dall’ideologia dominante. Dato che la narrazione dei fatti non è un’operazione neutra, ma un tipo di comunicazione che crea la realtà definendo il mondo con i propri termini, secondo Carofiglio occuparsi del tema della scelta delle parole assume oggi una valenza cruciale, fondativa. Il meccanismo, infatti, può avere degli esiti concreti temibili: si pensi alle parole come premessa e sostanza di pratiche manipolatorie, razziste, xenofobe o criminali. Ad esempio, «espressioni come giudeo, negro, terrone, marocchino attivano immediatamente l’ostilità, creano un altro estraneo e da respingere». Ed è questa interferenza sulla realtà, questa vera e propria creazione di realtà fittizie che ogni giorno, secondo l’autore, spesso inconsapevolmente, sperimentiamo. Questa manipolazione occulta del linguaggio che in molti casi si fa violenza, è il male al quale bisogna porre rimedio.
La strada indicata dall’autore passa attraverso la cura, l’attenzione, la perizia da disciplinati artigiani della parola, sia nello scrivere che nel parlare, ma ancor più nell’esercizio passivo della lingua: quando ascoltiamo e quando leggiamo. Carofiglio sottolinea come nei sistemi totalitari si assista sempre all’impoverimento della lingua, alla scomparsa delle parole del dubbio in favore degli slogan del potere, al trionfo lento, feroce e impercettibile dei luoghi comuni che impediscono di ragionare. Questo libro sembra volerci avvisare del rischio imminente e già in atto del degenerare del linguaggio pubblico e politico, nel quale termini come “popolo, libertà, amore, democrazia” sono stati progressivamente usurpati e svuotati di senso. Se è vero, come sta scritto nell’incipit del Vangelo di Giovanni, che «in principio era il Verbo», la Parola, è a questo logos che distingue l’uomo da tutte le altre creature viventi che bisogna ridare linfa vitale. Carofiglio lo fa nella seconda parte del libro, dove compie un’indagine su alcune parole chiave quali “vergogna, giustizia, ribellione, bellezza” e “scelta”, parole primarie, spesso gravemente svuotate. Il suo tentativo è dunque quello di riempirle, restituire loro vita, perché le parole impoverite di senso sono, come scrisse il filosofo francese Brice Parain, "pistole scariche"[...] >>
La lettura del libro conduce da un termine all’altro, utilizzando i riferimenti e gli esempi più disparati, letterari, politici, poetici, filosofici. Ci si ritrova così a riscoprire il significato della parola “speranza” da un discorso di Barack Obama, di “bellezza” intesa come “saggezza” da un passo di Susan Sontag, o ancora di “scelta” come il contrario di “indifferenza” dalle pagine di una rivista di Antonio Gramsci, ecc . Il saggio chiude con una parte dedicata , un toccasana per me profano ed ostile alle caste ( la casta in questo caso ,nonostante abbia amici e parenti acvocati ) e il loro linguiaggio , come il burocratese incomprensibile ai più ed ostile , alle parole del Diritto e un corposo apparato di note bibliografiche, curato dalla ricercatrice di Filologia classica Margherita Losacco, << senza le cui intuizioni molti spunti del libro non sarebbero stati possibili.>> ( parole dell'autore ) .
Finalmente qualcuno che usa lo stile ed il linguaggio letterario , che è per ricollegami a quando diceva i professore Nicola Tabda a lezione il più ricco ed il più aperto al mondo . Grazie Carofiglio raffinato ( vedere la sua intervista a Luccarelli nella puntata sulla sacra corona unita ) giurista e affermato autore letterario,per essersi cimentato con un libro diverso dal suo genere abituale e per aver esplorato ed averci guidato nel potere della parola, il suo valore manipolatorio, gli slittamenti semantici che i concetti subiscono. Attraverso lo studio di cinque parole chiave del lessico civile Carofiglio svela connessioni profonde e a volte insospettabili fra ambiti semantici solo apparentemente lontani.
Tale libro oltre aver suscitato un forte mal di pancia nella casta politica , specie nel centro destra , quando spiega meglio che incerte trasmissioni tv che parlano senza dire niente , la differenza fra prescrizione ( spacciata dai potentie dai tg loro servi come assoluzione ) ed assoluzione , ha creato anche divsioni fra lettori . Eccone alcune prese dal sito della feltrinelli e da i bs
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roberto (29-10-2010)
Ennesima fatica dell'instancabile scrittore-parlamentare-magistrato (in congedo). Sicuramente meno inutile della saga del super eroe avvocato Guerriri ma pur sempre arrovellato su un tema di dubbio interesse. Sarebbe bello leggere, da chi si occupa della cosa pubblica, di realtà - e non di rappresentazione (parole) della realtà o, alternativamente, non leggere e immaginare che stia lavorando per noi: invece no. Comparsate in TV che sono ovviamente dei promo per i libri e libri che parlano di nulla. Ma di cosa ci lamentiamo? Siamo il paese del bunga bunga.>>
SolidaSissi (10-11-2010)
Giuseppe Bottini (06-01-2011)
Ennesimo manifesto della "intellighenzia sinistrorsa" a senso unico. Demagogico e scontato l'attacco (ogni 10 pagine circa ) a chi impersonifica il "nemico" numero uno (Berlusconi). E' mai possibile scrivere un saggio senza rinunciare a nominare il Presidente del Consiglio ????????? Sembra un libro scritto da Travaglio, avrebbe avuto più senso. Inoltre, considerando che circa un quarto del libro è composta solo da bibliografia, peraltro neanche curata dall'autore forse è meglio che Carofiglio riprenda a narrare le gesta del suo Guerrieri
Voto: 1 / 5
Fabio De Rosa (06-12-2010)
Davvero noioso, brutto, una citazione dietro l'altra: il tipico libro che non sarebbe mai stato pubblicato se non ci fosse stato "l'avvocato Guerrieri". Una invettiva di un magistrato (o ex) contro Berlusconi, che nulla aggiunge a quanto gia' si sa; ne avremmo fatto volentieri a meno.
Voto: 1 / 5
alessandra (27-11-2010)
Un libro che ci aiuta a ridare senso alle parole. Un libro che spalanca delle porte là dove sembrava che ci fossero dei muri. Un libro civile e rivoluzionario. Dovrebbero farlo leggere nelle scuole.
Voto: 5 / 5
Arkadin arkadin70@yahoo.it (20-11-2010)
Bellissimo saggio sul significato dirompente dell'uso delle parolein politica. L'uso e l'abuso delle parole o meglio come scrive l'autore, la loro manomissione per fini non affatto pubblici, può riportarci indietro nella storia civile del paese, spingendoci verso un baratro di idee e valori. Per questo motivo le parole in politica non devono mai essere "manomesse" ma saggiamente preservate.
Voto: 5 / 5
ella (19-11-2010)
Sono convinta che la lettura di questo libro possa fare riflettere sul valore della comunicazione. Non è solo un manifesto antiberlusconiano: affronta una problematica particolarmente attuale in un periodo in cui si dà notevole importanza all'esteriorità. Il messaggio che mi pare di individuare è questo: riflettendo sul'uso del veicolo-parola, si presterà più attenzione anche ai contenuti. "In principio era il Verbo".
Voto: 5 / 5
SolidaSissi (10-11-2010)
Trovo abbastanza ingenerosa la critica un po' violenta di chi mi ha preceduto; e condivido quello che dice Martina sulle parole. Detto questo non possiamo negare che Gianrico Carofiglio sia un po' troppo presente sia a livello editoriale sia con le sue apparizioni su giornali e televisioni. Potrebbe preservare il suo lavoro stando un po' più dietro le quinte... Temo che alla lunga ci si possa stancare (io personalmente sto perdendo un po' di interesse). Venendo al saggio, ci sono parti interessanti e altre un po' deboli, quasi accademiche, con una prosa distante e poco omogenea. Mi sembra un po' rigido nella struttura, forse un po' scolastico e forse frettoloso. Molti degli spunti interessanti non hanno ricevuto un adeguato sviluppo e come per gli ultimi romanzi del Carofiglio alla fine si resta un po' delusi.
Voto: 2 / 5
Martina (01-11-2010)
Senza alcuna pretesa di fare una lezione, Carofiglio ci ricorda che le parole sono forza e civiltà. Sono spirito, ma mantengono il contatto, con la sostanzialità e l'ambiguità delle cose della natura.
Voto: 5 / 5
delusione
Scritta il: 31 dicembre 2010
Mi dispiace tantissimo ma questo libro non sono riuscito a digerirlo, anche nonostante l'aiuto della "pillola dell'ammirazione" che ho nei suoi confronti. Il libro mi sembra una raccolta di varie citazioni, un copia-incolla di frasi "riempitive" intervallate da pareri personali e opinioni politiche fuori luogo. Durante la lettura mi sono fermato più volte a controllare la copertina per assicurarmi che fosse sempre il Carofiglio autore degli altri splendidi libri. La considero una parentesi negativa e continuerò comunque a seguirlo.
ANTONIO
tonkio77
Come usare bene le parole
Scritta il: 15 dicembre 2010
Prendendo il via da riflessioni attuali e spunti storici, Carofiglio ci fa entrare nel mondo delle parole, del loro corretto uso e soprattutto della necessità di distruggerle per poi ricostruirle. Manipolare la comunicazione è prerogativa della mala politica e del potere pubblico, che però non lavora per il bene della comunità. Grande saggezza nelle parole dell'autore.
ILARIA
ilariagc
esempio di corretta comunicazione
Scritta il: 08 dicembre 2010
se tutti avessero la volontà di riflettere sulle sagge e, da me, pienamente condivisibili dissertazioni di Carofiglio senza essere travolti dalla superficilità, ipocrisia e volgarità che l'attuale classe politica governativa ci invade quotidianamente con i subdoli, ma potenti, mezzi di comunicazione di cui dispone, probabilmente, anzi sicuramente, vivremmo in una società migliore.Perchè la comunicazione in Italia non si assesta su questo livello?
ELSA
paolo947
Sagge riflessioni
Scritta il: 24 novembre 2010
Carofiglio, che fa dell'uso misurato della parola il suo credo letterario, disserta su uso e abuso dei termini che spesso il potere mette al proprio servizio. E che dire di parole ed espressioni di cui veniamo derubati perchè qualcuno le usa per beceri fini di parte?
MASSIMO
masrago
FONDAMENTALE. VERBO DA DIFFONDERE!
Scritta il: 08 novembre 2010
Consociamo ed apprezziamo l'autore dei romanzi che vedono protagonista l'avvocato Guerrieri, ma qui ci troviamo di fronte al magistrato e al Cittadino Carofiglio ( foto al centro )
che ci conduce, con grande chiarezza, e con molte citazioni esemplari, alla riflessione sulla situazione drammatica del nostro paese per mezzo (tra l'altro) della manomissione del linguaggio. "Oltre la sciatteria, la banalizzazione, l'uso meccanico della lingua, esiste però un fenomeno più grave, inquietante, pericoloso: un processo patologico di vera e propria conversione del linguaggio all'ideologia dominante. Un processo che si realizza attraverso l'occupazione della lingua, la manipolazione e l'abbusivo impossessamento di parole chiave del lessico politico e civile" (basti pensare all'uso e l'abuso del termine "popolo"). Il gioco di sconfinamenti (locuzione che l'autore prefersice a quella di "saggio") si articola in circa 120 pagine (il secondo contributo è molto più tecnico e si riferisce a "le parole del diritto") approfondendo cinque parole (concetti) fondamentali: Vergona - Giustizia - Ribellione - Bellezza - Scelta. Si tratta di un contributo fondamentale per capire a fondo cosa è accaduto, sta accadendo e potrebbe accadere in Italia. Gli amici di Feltrinelli sono certamente interessati al ruolo della parola ("in principio era il verbo"), ma dovrebbero compiere lo sforzo di far leggere questo testo a chi non ha ancora compreso e si lascia manipolare dalle parole. E' bello ritrovare insieme Socrate, Platone, Levi, Bob Dylan, Henley (Invictus) e John Keating (protagonista de "L'attimo fuggente"). La lettura è coinvolgente, emozionante ed epica. Ripeto: fatelo leggere e... "scetateve guaglione"!
>>
Un libro che si legge in fretta per i motivi suddetti , e mi ha ridato la voglia di leggere .Argomento complesso spiegato in parole semplici ed efficaci .
Il libro gode della simpatica condizione di essere stato citato prima della sua stesura.
In "Ragionevoli dubbi" del 2006, il protagonista si imbatte in un libro, La manomissione delle parole, appunto, allora soltanto un espediente letterario. Così troviamo scritto in "Ragionevoli dubbi": "Le nostre parole sono spesso prive di significato. [...] Per raccontare dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. La parola manomissione ha due significati, in apparenza molto diversi. Nel primo significato essa è sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento. Nel secondo, che discende direttamente dall'antico diritto romano (manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato) essa è sinonimo di liberazione, riscatto, emancipa.". Dopo tre anni, lo scrittore ha creduto vi fosse l'urgenza di scrivere quel libro.
Un opera Senza spocchiosa intellettuale e senza vanagloria ed egocentrismo come dimostra anche quando per motivi legati al libro in questione deve far riferimento ad un suo romanzo precedente : << Autocitarsi è un operazione piuttosto inelegante , che di regola andrebbe evitata . In questo caso , pero la citazione che segue , tratta dal romanzo " ragionevoli dubbi " , è davvero indispensabile per spiegare la genesi di questo piccolo volume e il suo stesso titolo (...) >> ( cap 1 pag 9 del suo libro ) . Grazie , e detto questo concludo , all'autore ( uno dei pochi ) che ha avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome senza girarci attorno e usare tanti voli pindarici .
A voi decidere se leggerlo o meno
Stamattina tornando dal chinopratico e leggendo le affissioni necrologiche ho buttato l'occhio su questa frase scritta forse da un'amica o ua parente ( ma non ha importanza quello che conta è il pensiero stupendo che trovate sotto e che vorrei * ovviamente scherzo* come mio epitaffio sulla mia lapide ) per il decennale di una giovane concittadina morta per tumore o cancro . Solo due canzoni " la strada " dei Mcr e morte per una amica sia di Guccii sia come il video sotto dei nomadi
N.b
per rispetto e per la privacy ( non è questione d'ipocrisia o censura , o se volete pensarla cosi fate pure , ma di buon senso e rispetto . Non tutto il privato specie quello altrui può essere pubblico . infatti non c'era --- almeno in quelli dell'unione sarda , la nuova il lunedì è solo sport e quindi evito di comprarla la leggo a scrocco al bar-- nelle pagine del giornale ) non metto nè nomi nè foto e cancellerò dal cell la foto fatta giusto per riportare questo testo
Ecco cosa riportava .
il pensiero di te m'accompagna e a volte penso che la vita trascorra in attesa di te . Ma so che non è più possibile . Passo intere notti a pensare e m'addormento solo all'alba quando i miei occhi sono stanchi . Se in una vita futura avremo la fortuna d'incontrarci mi fermerò stupita a guardarti e riconoscerò nei tuoi occhi quel cielo lontano
Credevo fosse solo una storia di fantasia quella del film ( da me precedentemente recensito vedere l'altro nostro blog ) invece è successo realmente purtroppo
Cercando in rete ( per fare un regalo di compleanno alla ragazza del mio amico appassionata , infatti si è laureata e specializzata in arabo , di tale cultura ) nome del regista del film La sposa Siriana , ho trovato su http://www.adnkronos.com/IGN/ questa news
M.O.: niente nozze per sposa siriana, Israele nega passaggio nel GolanQuneitra, 28 dic. - (Adnkronos/Aki) -
Niente matrimonio per Samar Salman Khayal, giovane sposa siriana che doveva convolare a nozze con il fidanzato residente nel Golan occupato da Israele. Lo Stato ebraico ha negato alla donna il rilascio del nulla osta necessario per oltrepassare la frontiera e raggiungere il futuro sposo, Nabih Farhat, che l'attendeva nel villaggio nelle alture sotto il controllo israeliano dal 1967.
Poi ho approfondito ed ecco da repubblica onine e tempi.it la news e le foto
IL PERSONAGGIO
La sposa siriana non è solo un film
il sogno di Samar: sconfigge la guerra
Lei è drusa come Nabih, l'uomo del quale si è innamorata. Vive nel versante del Golan controllato dalla Siria. Lui, invece, sta dalla parte israeliana. Dopo anni di attesa si sono sposati al confine. Come nella storia raccontata al cinema
di ALIX VAN BUREN
Foto di Andrea&Magda/ICRC
Sara' perché l'amore, con l'A maiuscola, finisce sempre con l'appassionare, meglio se è contrastato. O sarà perché la vicenda della bionda Samar e del baffuto Nabih, drusi siriani separati da un confine di guerra, ricalca la sceneggiatura della Sposa siriana, il film premiato dell'israeliano Eran Riklis. Il fatto è che ieri migliaia di invitati virtuali, i più da Oriente ma anche da Occidente, hanno partecipato su Facebook alle nozze fra i due, benedette dalla Croce rossa internazionale.
La storia parte da lontano, da tre anni fa e cioè da quando Nabih, 40 anni, in viaggio incontra Samar, 25 anni, nel villaggio di Hadhar sulle alture del Golan. "È stato amore a prima vista", racconta un testimone alle nozze, Ali Al Aour.
Per capire i mille garbugli burocratici, mentali, emotivi venuti a complicare l'incontro, conviene però fare prima un balzo all'indietro nel tempo. Ripassare un capitolo dell'eterno conflitto mediorientale: quello del Golan, un fertile altopiano incastonato nel Sud Ovest della Siria, abitato nei secoli dai drusi - popolo fiero, seguace di un culto esoterico - conquistato per i due terzi da Israele nel 1967.
La guerra, come spesso accade, scompaginò la geografia come le famiglie: due terzi dei drusi catapultati sotto amministrazione israeliana, separati dall'altro terzo nella patria d'origine siriana. Una parte delle alture fu riconquistata nel 1973 dalla Siria, che ne rivendica l'intera restituzione. Da allora una forza di pace dell'Onu vigila sulla
striscia demilitarizzata di terra che corre lungo la linea del cessate il fuoco. Ed è proprio quella striscia il formidabile ostacolo frapposto all'unione fra Samar e Nabih.
"È stato un matrimonio davvero emozionante, una copia del film di Riklis, però questa è realtà", riassume Marco Succi, delegato dalla Croce rossa internazionale a scortare i due promessi al confine. "Dal 2007 aspettavano il permesso delle autorità israeliane perché la sposa passasse dal Golan siriano a quello amministrato da Israele: permesso ogni volta negato". Finché ieri il veto è caduto.
Lei s'è accostata, col candido abito della sposa, ai nugoli di fili spinati dal versante siriano, con l'enorme codazzo della famiglia estesa, genitori, nonni, zii, cugini, nipoti, festanti fra cori arabi e i tradizionali ululati delle donne, cariche di viveri per il banchetto. Lui l'aspettava con la sua tribù di piccoli e anziani al di là del chilometro di sbarramenti sotto i vessilli di Israele, vestito all'occidentale in giacca e cravatta.
Da anni, ricordano gli amici, "Nabih e Samar si gridavano il proprio amore attraverso i megafoni fra il rombo delle jeep militari israeliane oltre quelle reti spinate, nel punto in cui la distanza è minore". Lei si recava al villaggio di Ain El-Tineh, lui a Majdal Shams. Le linee telefoniche fra i due Paesi, tecnicamente in guerra, sono interdette.
Non è la prima volta che Samar s'agghinda a nozze: l'aveva fatto già il 28 dicembre, i capelli raccolti alla maniera delle star nei film del celebre druso Farid al-Atrash. Il timbro negato da Israele, le famiglie erano state respinte. Non sorprende perciò che ieri, all'alzata delle sbarre, "si sono corsi letteralmente incontro, da entrambi i versanti", dice Sooade Messoudi, della Croce rossa dal lato siriano. "I più anziani si vedevano dopo decenni, i più giovani per la prima volta". Nel mezzo della zona cuscinetto Onu, hanno imbandito il banchetto.
"Però, è una gioia agrodolce", riflette Sooade. "La sposa non ha mai sorriso, anzi piangeva come la madre". Una volta superato il confine, non potrà tornare indietro. Nel cielo livido ai 5 gradi del Golan in pieno inverno, riprende Ali Al Our, "l'allegria ha ceduto al silenzio. Samara ha raccolto lo strascico per avviarsi, sola, lungo la linea di demarcazione. Uno sguardo ai suoi, lasciati alle spalle".
Ma per completare la storia, non può mancare la voce di chi, il regista Eran Riklis, s'era già fatto affascinare dalle tante Samar, le Spose siriane in lista d'attesa. Al telefono da Israele, Riklis commenta: "La realtà mi aveva commosso, ho fatto del mio meglio per trasporla sullo schermo. La mia parte di regista è osservare e raccontare con obiettività. Eppure", conclude, "non riesco a essere obiettivo davanti alla sofferenza umana. Lascio al pubblico il privilegio di decidere da che parte stare nella storia eternamente triste, ma sempre ottimista, dei popoli del Medio Oriente".
(06 gennaio 2011)
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07 Gennaio 2011
Per sposarsi varca il confine tra Siria e Israele scortata dall'Onu
Samar Salman al-Khaya, ventiseienne che ha sempre vissuto in Siria, scortata dalle Nazioni Unite e dalla Croce Rossa, con l'abito bianco da sposa, ha varcato il confine per maritarsi con l'israeliano Nabih Farhat e andare a vivere con lui nelle montagne di Golan
di Elisabetta Longo Sposarsi è forse uno dei momenti più importanti della vita di una persona, e in certi paesi più che in altri. Per esempio in Siria, dove due giorni fa Samar Salman al-Khayal ventiseienne sposina siriana-israeliana ha varcato il confine con l'abito da sposa bianco, accompagnata dal fidanzato israeliano Nabih Farhat, originario delle montagne di Golan.
Per cominciare una nuova vita insieme, innanzitutto, il futuro marito ha avuto bisogno di un permesso di immigrazione, rilasciato dopo sette anni. In secondo luogo, i due sono stati scortati da un gruppo di pace delle Nazioni Unite, da soldati israeliani e dalla Croce Rossa attraverso il confine. In bocca al lupo per questa nuova vita cominciata in un modo così difficile.
"Guarda Nissa". Così mi spiegava nonna Santina ogni volta che a Sanremo, al termine di corso Imperatrice, c'imbattevamo nel monumento a Garibaldi. Non si trattava d'un refuso, "Nissa" era proprio l'antico nome della città che aveva dato i natali all'eroe, e che l'aveva inscritto nel destino: all'anagrafe del 1807 Peppino Garibaldi era infatti stato registrato come cittadino francese, per un complicato rito di cessioni e riacquisizioni attorno alle località portuali e frontaliere. Già straniero in patria, quindi, colui che sarebbe entrato nel mito, anzi, nell'agiografia civile e civica, uno dei rari "santi laici" del nostro Paese. Non poteva, d'altronde, andar diversamente per chi sarebbe stato definito "eroe dei Due Mondi". Ma avrò modo in seguito di analizzare più approfonditamente la sua figura. Adesso, a pochi giorni dall'inizio delle celebrazioni per il 150° dell'Unità d'Italia, voglio soffermarmi su quel monumento, capolavoro Art nouveau realizzato nel 1908 da Leonardo Bistolfi. Che Garibaldi "guardasse Nissa" non mi sentivo di metterlo in discussione; mia nonna ne era troppo convinta, e lo pronunciava con quel tono di ruvida reverenza tipica dei liguri. Ciò nonostante a me pareva che gli occhi fossero rivolti piuttosto a est, sulla spianata baia sanremese di cui, nel 1860, Garibaldi era divenuto cittadino onorario, e più in generale sulla penisola italiana, ormai quasi compiuta, e abbracciata con un sospiro smagato. C'è una gravità rodiniana nel monumento di Bistolfi, che ritrae un Garibaldi ormai anziano, ancor ritto e fiero, ma realistico e quasi espressionista nelle massicce e tozze gambe da marinaio, elevato e però già sofferente, artritico, remoto. Ai suoi piedi, i grossi piedi, sei bassorilievi scandiscono i momenti più alti della sua vicenda umana e nazionale; l'eroe non vi compare mai, sostituito dai compagni d'armi o piuttosto da quelle divinità femminili e decadenti che avrebbero abbellito l'arte ufficiale del giovane Stato italiano, nato monarchia contro la volontà di Peppino. La maestria di Bistolfi ha saputo cogliere l'intimità dell'uomo d'azione, la corporeità e la ricchezza del suo pensiero, quel rammarico per chi e cosa avremmo potuto diventare, e non siamo stati, mirabilmente spiegato da Piero Gobetti. Garibaldi il marinaio, il mazziniano "eretico" ("La mia idea di democrazia diverge da quella di Mazzini, essendo io socialista", ebbe a dire al termine della sua vita, nel corso di una delle numerose schermaglie politiche che contrapposero i due uomini), il massone, il libertador ma anche l'operaio per Antonio Meucci, Garibaldi mitizzato all'inverosimile in quel capolavoro di blasfemia popolare che recitava: "Figli d'Italia, se asciugar volete/di Venezia e di Roma il lungo pianto/poco v'importi se non canta il prete:/queste son le candele e questo è il santo". E l'epigrafe compariva sotto una stampa dove l'eroe era raffigurato su un altare, con tanto di aureola, e contornato da ceri-baionette. Troppo? Decisamente troppo. Ma vi facevano da contrappunto il massacro di Bronte e quel racconto, atroce e bestiale, di Luigi Pirandello, L'altro figlio, dove per colpa dei soldati di "Canebardo" a una madre in gramaglie nere spettava una sorte spaventosa... Unici graffi terrosi che quel mondo primordiale e assetato di viscerale giustizia subirà, scaraventato fuori da qualsiasi storia, condannato a una fissità plebea e furibonda.
Il monumento pare ancora sospirare, adesso. Chissà se avrebbe immaginato gli sberleffi dei leghisti e, prima ancora, dei ciellini, eredi di quei seguaci di Pio IX che l'eroe definì "un metro cubo di letame"? Già, perché a precedere la penosa paccottiglia padana sono venuti i meeting di Rimini in cui si cercava di riscrivere il Risorgimento rivalutando il brigantaggio in quanto "popolare e cristiano" ("il brigante Gasparone ama la mamma e la religgione"), con la stessa virulenza del reazionario Principe di Canosa. E confinando Garibaldi tra i terroristi atei e senzadio.
Il gesto provocatorio della signora Lucia Massarotto che per anni, a Venezia, ha esibito il tricolore sfidando i raduni leghisti.
Si aspettava tutto questo, Garibaldi? Secondo me sì. O almeno lo immaginava. Quel melanconico monumento testimonia la sofferenza d'un uomo che lottò, sì, per amore, un amore maturo (anziano), perciò deluso e imperfetto, largo, come quel suo sguardo verso oriente, protratto sulla lunga e sterminata penisola aurea e tremenda, donna infedele, amante mediocre, ma unica e irrinunciabile.
Io ho conosciuto tardi Ziggy Stardust, nel senso che i primi scatti di David Robert Jones in arte Bowie non furono quelli dell'androgino e sublime ragno spaziale dal linguaggio complicato e allusivo, bensì la lunare marionetta di Heroes, dalla copertina essenziale e rétro, anni '40. Ma bastava: evocava Marlene Dietrich anche se ignoravo si trattasse del secondo album della "trilogia berlinese". Arrivava accompagnato da un gran chiasso, di voci, di rumors, nelle aule scolastiche sorgevano interminabili discussioni sui suoi dischi, portati di nascosto (e con gran fatica, vista la dimensione) da un compagno che conosceva a memoria tutti i suoi brani. E che pochi giorni dopo si presentò con il lp precedente, quel Low dalla sfacciata copertina arancione e il cui titolo mi sedusse per il suono, la brevità e l'intraducibilità: in Italia un album non avrebbe mai potuto chiamarsi Basso, o Profondo. Low era semplicemente Low e i colori vivaci non smorzavano un clima freddo, anzi, glaciale e spietato; erano spennellate di Munch, o dei fauves; eppure Low rimandava pure a qualcosa di serico e fumogeno, decaduto. Insomma, tiepido. Celestiale. E fu subito amore per Sound and Vision, un'incompiutezza geniale, dalla grammatica futurista, assolutamente priva di metrica, ancorché di logica: solo introduzione, con la voce che si affacciava timida e sballata nella parte finale, soffogata dai suoni (e visioni). E all'apparenza, del tutto accessoria, ininfluente. Un trionfo di tecnologia, l'assorbimento dell'uomo nella macchina. Eppure vi pulsavano tentacoli di vita imperiosi e potenti. Già elaborati dai monumentali e "anonimi" Pink Floyd. Dietro c'era Eno e anche in quel caso ero ignara di tutto. Eno lo avrei racchiappato, o meglio divorato, soltanto a 16-17 anni, anch'egli a ritroso: prima My life in a bush of ghosts, il frutto maturo; poi le radici, Before and after science, Another green world. Ma per tornare a Bowie, Ziggy mi apparve solo in seguito, e scattò il tripudio per la studiata raffinatezza di quello che pensavo un aristocratico dandy e invece proveniva da famiglia proletaria, con fratellastro pazzo, poi morto suicida. Ah, ecco, all'origine era rock'n'roll. E il rock'n'roll di Ziggy era davvero insuperabile. Una scatola visiva. Bowie era una proprio una macchina, una di quelle escavatrici - o centrifughe - che maciullano e condensano tutto. Ricco di citazioni e auto-citazioni. Da Lindsay Kemp (quello di Flowers, soprattutto, ma anche del sulfureo Sebastiane) ai Who, e naturalmente a Lester Bowie da cui prese il nome. E qui, lungi dall'artificio e dalle glaciazioni, eravamo davvero al calor bianco.
1972: David Bowie/Ziggy, 64 anni oggi, in una tipica posa.
L'intero linguaggio dell'arte e dell'espressività umana ne risultava stravolto e i confini esplodevano, rinsaldandosi poi in un bislacco mosaico inatteso e spaventevole. Così accadeva che il protagonista del Budda delle periferie di Hanif Kureishi si prendesse una solenne scuffia per il vaporoso amico nordico che si presentava a casa sua con le gambe infinite sugli stivali a fiore. Non solo fremiti d'adolescente, ma piuttosto risvegli di cacce ancestrali, rivalse di colonizzati, giochi d'istinto con impagabili prede. Kureishi avrebbe ammesso molto più tardi che per quella figura di amico si era ispirato a Bowie. Già troppo attore nel viso per essere un grande anche nel cinema, Bowie, nella sua voracità così succulenta, conservava però un fondo ("low", appunto) troppo oscuro, sublime, tedesco - berlinese - per avvincermi del tutto. Era un gentiluomo, l'avrei visto passeggiare in Riviera alla fine dell'Ottocento assieme alla moglie (la prima, Angie) e sarebbe stato un pittore, avrebbe realizzato tele squisite dai colori rovesciati, ma come un alieno, sempre a qualche centimetro dal suolo, il suolo mattinale e cattolico delle terre italiane. Io avevo bisogno di lucori, fratellanza e mestizie, in cui dolcemente cullarmi.